Le relazioni politiche di Roma con l'Egitto dalle origini al 50 a. C.

By Barbagallo

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Title: Le relazioni politiche di Roma con l'Egitto dalle origini al 50 a. C.

Author: Corrado Barbagallo

Release date: August 5, 2025 [eBook #76635]

Language: Italian

Original publication: Roma: Loescher, 1901

Credits: Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (This file was produced from images made available by the HathiTrust Digital Library)


*** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK LE RELAZIONI POLITICHE DI ROMA CON L'EGITTO DALLE ORIGINI AL 50 A. C. ***


                           CORRADO BARBAGALLO


                     LE RELAZIONI POLITICHE DI ROMA
                              CON L’EGITTO
                       DALLE ORIGINI AL 50 A. C.

               (SAGGIO SULLA POLITICA ESTERA DEI ROMANI)


                                Πολὺ γὰρ ἤδη τοῦτο τὸ γένος ἐστὶ
                              τῶν διαβουλίων παρὰ Ῥωμαίοις, ἑν οἶς
                              διὰ τῆς τῶν πέλας ἀγνοίας ᾳὔξουσι
                              καὶ κατασκευάζονται τὴν ἰδίαν ἀρχὴν
                              πραγματικῶς, ἅμα χαριζόμενοι καὶ
                              δοκοῦντεσ εὐεργετεῖν τσὺς ἁμαρτἀνοντας.
                              (Polibio XXXI, 18, 7).



                                  ROMA
                         ERMANNO LOESCHER & C.º
                      (BRETSCHNEIDER E REGENSBERG)
                                  1901




                          Proprietà letteraria

               Catania — Tip. Sicula di Monaco & Mollica.




Prefazione


Il tema del presente studio non è, sino ad ora — sebbene implicitamente
— mancato di diventare soggetto di più d’una monografia. Anzi, se
le mie informazioni bibliografiche sono esatte, esso ha ricevuto
l’onore di una quadruplice trattazione, e, precisamente, dai sigg.
Schneiderwirth[1], Schmid[2], Guiraud[3] e Bandelin[4]. Se non che
nell’ultima di codeste monografie, recente di soli sette anni, il
suo A. era costretto a lamentare che, mentre le fonti antiche non
ci offrono il contesto dei fatti, di cui s’intessono le relazioni
romano-egiziache, i moderni storici «neque si interpetrationem atque
iudicium respicimus, idonei videntur, quibus res dilucide cognoscantur»
(p. 56).

Non è ben chiaro quali fossero le censure particolari, che il B. moveva
agli storici precedenti sotto le generiche frasi latine, di cui egli
si era compiaciuto servirsi. Certo esse attaccavano tutta l’opera dei
medesimi, e sarebbe stata cosa fortunata se, come conseguenza della
critica, il B. ci avesse dato quell’opera metodica di sicuro giudizio
ed interpetrazione, che egli si aspettava dai suoi predecessori.
Ma il guaio si è che, dallo Schneiderwirth al Bandelin, il difetto
fondamentale, (in quest’ultimo, grave e palpabile forse più che nei
precedenti), era stato quello di aver considerato le relazioni di
Roma con l’Egitto come materia di appunti eruditi, cui non facea
d’uopo connettere e spiegare con le vicende ed i criteri della vita
politica e della politica estera romana, sì che tutte le alleanze, i
ravvicinamenti, le ostilità, in una parola le relazioni diplomatiche
dei due stati, appariscono nelle monografie degli storici surriferiti
come campate in aria, sprovviste e di ragione e di scopo, applicabili
a questo e a quel periodo, senza che luce o emendamento alcuno esse
possano dare o ricevere da quella concezione della politica estera
dei Romani e da quei giudizi sulla medesima, che ogni storico, prima
d’intraprenderne, come questo è il caso, lo studio di uno dei fenomeni,
deve compiutamente possedere[5].

Ovviare a tale difetto, esibendo il presente studio come l’esame
di una delle manifestazioni della politica estera dei Romani, anzi
della vita romana in genere, delle cui leggi e vicende essa risenta
scrupolosamente gli effetti, aiutare gli storici allo scoprimento di
queste cause, di questi effetti, delle orientazioni, varie a seconda
i tempi, di codesta politica istessa, correggere i non pochi errori,
e fondamentali, sulla medesima, tale è lo scopo precipuo del presente
lavoro. La rettificazione di non pochi dati di fatto, lo svolgimento
di relazioni o completamente taciute, o per lo meno trascurate dagli
storici precedenti, nei quali, neanche dal punto di vista della
compiutezza, si nota un graduale e sempre ascendente progresso, la
rinnovata trattazione con conclusioni opposte o diverse di questioni
già altrimenti risolte, tutto ciò l’accorto lettore, senza che io vi
abbia volta per volta accennato, avrà senza dubbio agio di notare nel
corso del mio lavoro; ma è bene avvertire che non è questo lo scopo,
a cui ho deliberatamente mirato, sibbene l’altro ben più largo, cui il
mio temperamento intellettuale mi trascinava, di offrire cioè un saggio
sulla politica estera dei Romani.

Su pochi argomenti di storia gravano infatti giudizi così superficiali,
anzi convenzionali, come sulla storia romana, specie sulle vicende
estere della medesima.

La leggenda più rosea, l’entusiasmo più ingenuo le ha avvolte e
irradiate della sua luce più benevola, sì che, quasi senza eccezione,
gli occhi degli storici più indipendenti ne sono rimasti abbacinati, ed
i giudizi più concordi sul culto della grandezza patria, sulla lealtà
politica romana, sui benefici effetti della conquista etc. etc. hanno
corso e ricorso le carte di qualsiasi loro trattazione[6].

Io credo venuta l’ora di esercitare su tante opinioni, tutte egualmente
erronee, la critica più indipendente per arrivare a convincersi che fra
i motivi delle vittoriose guerre estere dei Romani, quello del culto
della patria non c’entra nè poco nè punto, che la loro lealtà politica
può insegnare qualcosa ai Luigi XIº e ai Ferdinando il Cattolico, che
l’incivilimento universale (frase molto elastica) o poteva avvenire
senza i benefici effetti della conquista o fu arrestato dalla loro
opera di depredamento, rispetto alle province, e dal loro protezionismo
economico-politico rispetto agli stati liberi, senza contare che la
loro mostruosa potenza coloniale riescì causa prima ed unica della
dissoluzione interna della società, che l’avea perpetrato, delle
lagrime e delle sofferenze della sua grande maggioranza, che, con un
lavorio infernale di raffinato egoismo, fu, per secoli, attraverso
l’ignoranza, la corruzione, la miseria, immolata alla sfarzosa
agiatezza delle classi dominanti[7].

Di qualcuna di codeste rettifiche si occupa il presente lavoro.
Di altre forse, e in maniera più sistematica, si occuperanno altri
posteriori. Quello che però adesso io desidero si è che il lettore
spassionato mi giudichi sovrattutto da ciò, a cui in ispecial modo ho
mirato[8].

Due altri avvertimenti occorre premettere innanzi che io chiuda
questa prefazione, ed ambedue sono piuttosto delle scuse che degli
avvertimenti.

Il presente volume, composto in tempi ed in residenze disparate,
offre talora gli stessi libri citati in edizioni diverse. Ciò non sarà
corretto dal punto di vista della simmetria, ma, posso assicurarlo,
non nuoce minimamente alla chiarezza, dappoichè ho, volta per volta,
specificato i vari mutamenti. Così, se talora — invero molto raramente
— non ho potuto citare a piè pagina tutta la bibliografia di qualche
argomento o non ho potuto servirmi dell’ultima e più recente edizione
di qualche testo, stia pur tranquillo il lettore, ciò non nuoce alla
precisione scientifica, giacchè ho sempre curato la cognizione dei
libri fondamentali, e le recentissime edizioni — quando non mi è stato
possibile averle — ho sempre surrogato con le ottime. Quello, di cui
la coscienza mi rassicura, si è che nelle condizioni di vita, in cui ho
redatto il presente lavoro, pochi mi avrebbero pareggiato in tenacia e
scrupolosità.

                                                        C. BARBAGALLO




CAPITOLO I.

ROMA E L’EGITTO NEL III. SECOLO A. C.


I.

L’agricoltura in Egitto sotto i Tolomei; pastorizia; commercio.
L’industria, le classi sociali; la costituzione e l’indirizzo politico;
arti e scienze.

Il primo avvicinamento diplomatico di Roma con la monarchia egiziana,
fondata dai Tolomei, dopo il tragico sfasciarsi dell’impero di
Alessandro Magno, ebbe luogo nel 273 a. C. Prima di quel giorno, i due
popoli erano vissuti tanto remoti per vicendevoli relazioni, quanto
— come si mantennero — differentissimi per struttura economica e
politica. Due società affatto diverse abitavano le rive europee e le
africane del Mediterraneo.

Poche regioni erano state favorite dalla natura così come l’Egitto.
Al confluente di due mari, solcato da un fiume, che ne costituiva la
ricchezza agricola, e, insieme, quella peschereccia, con una città,
Alessandria, stazione centrale, scalo inevitabile fra l’Occidente e
l’Oriente, crogiuolo di tutte le industrie dell’antichità, esso non
aveva, dal punto di vista economico, rivali da temere.

Su tre milioni circa di ettare capaci di abitazione[9], il suolo
coltivabile, che adesso è ridotto a ⅔ della cifra succitata[10],
doveva nell’antichità varcarla di parecchio, giacchè la continua
invasione delle sabbie e dell’acqua marina costituiscono una notevole
differenza fra lo stato antico e moderno del paese, tutta a pregiudizio
del secondo. E tanta estensione di terreno coltivabile, aiutata dai
mezzi, adesso abbandonati, di una delle più perfette fra le culture
agricole, offriva annualmente una produzione ricchissima e svariata:
pane di spelta, grano di doppia specie, sylphium, trifoglio due volte
l’anno[11], loto, papiro, e molti altri generi di cereali e di piante
aquatiche. Fra gli alberi primeggiavano la palma e l’ulivo[12]; e la
maraviglia del lettore crescerà nel sentire che il prodotto del grano,
che nell’Egitto odierno rende in media solo 15 volte la semenza, la
rendeva nell’Egitto antico ben 100 volte[13], il che, in gran parte,
si doveva al fatto che l’agricoltura — per lo meno quanto al lavoro
delle semenze — veniva presso quel popolo, considerata come un pubblico
servizio[14].

Della carne degli animali da pascolo, che, a cagione della ricchezza
delle terre inondate e non coltivate, offrivano doppia tosatura e
doppio parto annuo, gli Egiziani, in mezzo a tante altre abbondanze,
non curavano di servirsi, se ne togli quel tanto che era richiesto
dalla religione. Per contro, larghissimo era il consumo del pesce, che,
vietato ai ministri del culto[15], formava parte considerevole della
pubblica alimentazione.

Il ricolto di tanti prodotti rendeva naturale il desiderio del
commercio e dell’esportazione, e questo era agevolato dalla situazione
dell’Egitto, specie della sua capitale, collocata fra il bacino del
Mediterraneo, la Siria, la Mesopotomia, l’Arabia, il Mar Rosso, la
Libia, l’Etiopia e persino l’India[16], situazione, che la politica
internazionale dei Tolomei, — politica eminentemente d’interessi[17],
similissima, al pari della cartaginese, a quella della moderna
Inghilterra[18] —, non aveva lasciato mai di sfruttare con le svariate
relazioni diplomatiche. E, quasi a colmo di tanto ben di Dio, l’Egitto
non era soltanto uno stato agricolo e commerciale, ma, al tempo stesso,
la prima nazione industriale del mondo antico, verso la quale mèta la
sospingeva, come sempre, quella razza indomita nella elaborazione degli
elementi materiali della civiltà, che è l’ebrea, e di cui l’Egitto
nudriva ospiti numerosi[19].

Vi si lavoravano in tal guisa, con una sapienza rara anche oggi, i
metalli più preziosi, si tessevano tele, lane, cotoni, e, fra le altre,
primeggiava un’industria, unica alla valle del Nilo, e, da sola, fonte
d’infinita ricchezza, la fabbricazione della carta di papiro[20].

Fioriva tra tanto benessere una popolazione densa ed agiata di ben
cinque o sei milioni di abitanti, superba di una fitta rete di più di
10000 città e grossi borghi, che comprendeva, da un lato una selva
di piccoli benestanti, proprietari ed affittuari[21], e dall’altro
una schiavitù, ch’era tale soltanto di nome, rispondente pei suoi
tratti specifici alla clientela romana[22], mentre capitalisti ed
operai cominciavano ad agitarsi nelle coalizioni e gli scioperi, segno
indeprecabile di maturi progressi industriali[23].

La monarchia era assoluta, ma, (ironia delle parole), essa, in
condizioni normali, strettamente legata al bene dei sudditi, cadeva in
tempi anormali nella necessità indeprecabile di cedere ai più sensibili
impulsi dell’opinione pubblica, accentrata nel cervello della nazione,
l’antica Parigi, come è stata denominata Alessandria, tanto più che
mancava un esercito numeroso e permanente[24], notevole concausa della
prosperità dell’Egitto e dell’indirizzo rimesso della sua politica
estera, sempre più affermantesi dai primi agli ultimi Tolomei.

A coronamento dell’opera, su tanta agiatezza materiale aleggiava, bella
e spensierata, tutta una rigogliosa fioritura scientifica e letteraria,
per cui pareva che l’africana Alessandria avesse, come in serra
aristocratica, ereditato i più bei fiori della civiltà ellenica[25].
Quanto diverse non apparivano invece, sin dal 273, le condizioni e
l’avvenire della capitale del Lazio!


II.

Agricoltura in Roma durante la repubblica; industrie; decadenza
dell’agricoltura; pastorizia; indirizzo politico. Situazione reciproca
dei due stati.

Anche Roma avea goduto un tempo di un’agricoltura fiorente, e avea
visto spuntare sotto l’occhio del Marte latino una distesa di piccole e
gagliarde proprietà, per cui, divise tra faccende rurali e domestiche,
aveano vagato laboriose le falangi dei clienti, amiche appendici
dei vecchi gruppi gentilizi[26]. Ma Roma non aveva mai goduto nè di
commercio nè d’industrie[27], e l’agricoltura era ben presto cominciata
a decadere sotto i funesti effetti delle conquiste, strappanti al
lavoro le braccia e offrenti[28] a buon mercato le terre e gli schiavi,
mezzo più agevole sia della coltivazione diretta, che dell’assoldamento
dei proletari, e fatale meccanismo di distruzione della piccola
proprietà[29].

Per un istante era parso che la crisi agricola potesse venire
compensata da un corrispettivo incremento della pastorizia, dopochè
la conquista del Lazio, dell’Etruria e di tutta la zona interna
dell’Apennino, varia di prodotti, di altitudine e di clima, avea
liberato i proprietari dalla costosa necessità di sostentare
nell’inverno, a proprie spese, il bestiame e di ricoverarlo all’uopo in
apposite stalle[30]. Ma anche la pastorizia avea perduto la sua ragion
d’essere dopo l’affluenza dei nuovi tesori da ogni parte del mondo
conquistato, eccitanti allo sperpero e all’inerzia le classi dominanti,
che li percepivano, e alla miseria, all’accattonaggio, al bottino
le classi inferiori, ridotte oramai sul lastrico dalla concorrenza
spietata degli schiavi.

Incamminati per la china di una politica conquistatrice, eretta la
medesima a mezzo di pubblico e di privato sostentamento, l’unico
organo sociale, verso cui le risorse dell’erario andarono sin d’ora
a confluire, non poteva non essere l’esercito terrestre e marittimo.
La sua presenza rese uno stato, già superbo di lotte e di conquiste
civili, il campo chiuso d’una sempre imminente reazione militare ed il
covo temuto di una banda vigile e sterminata di filibustieri, pronta a
gettarsi dove avesse spiato una preda, a spargere il terrore dov’era
la pace, a profondere nell’abisso delle orge e della magnificenza
capitali e proventi capaci di alimentare lavori d’immenso interesse
per l’umanità[31], finchè le lagrime dei sudditi e degli oppressi non
l’avessero sospinto verso una monarchia democratico-militare, che poi,
a sua volta, sarebbe divenuta zimbello degli eserciti, che le si erano
prostesi a costituirne la base[32].

Questo l’aspetto delle due nazioni, che s’incontravano per la prima
volta al 273, l’una tutta compresa del pensiero del proprio onesto
benessere, operosa, modesta, colta e soddisfatta; l’altra, oziosa,
rapace, provetta nell’arte della guerra e della prepotenza, piena
della vanagloria di ritenersi pensionaria dell’universo, non curante
del domani, intenta a tutto consumare senza produrre, a strabiliare il
mondo colle monumentali costruzioni della sua aristocrazia accanto ai
fetidi abituri del suo cencioso proletariato e impotente a largire al
proprio genio altro campo di esplicazione all’infuori degli acquedotti,
delle grandi strade o delle fortificazioni[33], d’un interesse
puramente strategico, conforme alle più alte idealità della sua vita
sociale[34].

Nel duello inconfessabile, difensivo per l’una, agognato ed offensivo
per l’altra delle due nazioni, chi avrebbe vinto? Quale sarebbe stata
l’agonia, quale la sorte della disfatta? Una situazione a termini
identici e contemporanea a quella di Roma rispetto a Cartagine si
disegnava al 273 sulle pagine della storia del mondo antico. Il suo
svolgimento sarebbe riescito meno rapido e meno drammatico del certame
punico, ma non per questo meno interessante. Due secoli e mezzo ne
prepareranno l’epilogo, e l’eloquenza del medesimo riescirà superiore a
qualsiasi affrettata predizione.


III.

Guerra tarantina; Pirro. Ambasceria di Tolomeo IIº d’Egitto ai Romani
(273). Motivi politici; motivi economici.

Gli anni 285-273 a. C. furono tra i più tempestosi della storia di
Roma. Nel breve giro di poco più di due lustri il suo governo avea
dovuto contare una sollevazione degli Italici, che, dai Lucani, dai
Sanniti e dai Tarantini s’era estesa agli Etruschi, agli Umbri ed ai
Galli, due sconfitte di non lieve importanza come quella di Eraclea
(280) e l’altra di Ausculum (279), con la perdita complessiva di 130000
uomini, la nuova campagna del 278 andata a male, e, nella Sicilia,
l’insediamento di un nemico temibile (276), quello stesso Pirro, che da
undici anni teneva in continui palpiti la futura capitale del mondo.

Ma, poichè la fortuna aiuta gli imbelli e gli audaci, la sorte delle
cose mutò tutto ad un tratto nel giro di pochi mesi. Nello stesso anno
276 la Sicilia veniva conquistata dai Cartaginesi, allora alleati
dei Romani, Pirro, battuto a Benevento (275), periva tre anni dopo
miseramente in Grecia, e la ribellione d’Italia, privata così del
suo braccio migliore, si spegneva in breve per mancanza di sussidi
militari[35] (275-0). E, come se la fortuna volesse, quasi in compenso
del passato, offrire tutte in una volta le sue grazie ai Romani, l’anno
stesso della morte di Pirro[36] giungevano nella capitale del Lazio
ambasciatori da parte di Tolomeo IIº Filadelfo, re di Egitto, recanti,
insieme coi doni di prammatica, amicizia ed alleanza[37]. La data
dell’ambasceria ci è indicata con precisione da Eutropio. Essa rimonta
al consolato di C. Fabio Licinio e C. Claudio Caninio (273), ad un
anno cioè, in cui Pirro era ancora in vita e l’amicizia del re d’Egitto
poteva riescirgli proficua.

Così essendo, l’atto diplomatico del Lagida[38] non appare nè nobile,
nè leale.

Nessuna ragione infatti esisteva perchè Pirro avesse dovuto aspettarsi
una simile ricompensa. Verso il 295 egli era stato condotto quale
ostaggio in Egitto presso il padre di Tolomeo Filadelfo,[39] ed
avea saputo talmente guadagnarsi le simpatie della famiglia reale da
riceverne, pochi anni di poi, in isposa la figliastra Antigone ed aiuti
di danaro e di milizie per la prossima riconquista del già perduto
trono d’Epiro[40] (295).

Si era allora insediato al governo della Macedonia quel Demetrio,
figlio di Antigono Iº, già noto per la sua fama militare e per una
sua grande impresa contro gli Egiziani. Al 306, infatti, aveva,
per incarico del padre, sconfitto presso Salamina, in una delle più
memorabili battaglie navali dell’antichità, lo stesso Tolomeo Iº,
il quale, oltre a perdervi più di 120 vascelli da guerra, 100 da
carico ed 8000 soldati, avea visto cadere prigionieri il figlio ed il
fratello Menelao, cui era venuto in soccorso. Questa battaglia, che
aveva fruttato ad Antigono la conquista di Salamina e gli avea offerto
il destro di assumere pel figlio il titolo di re[41], aveva altresì
incoraggiato quest’ultimo ad attaccare Tolomeo nell’Egitto medesimo, e,
non essendovi riescito ad assediare quella Rodi, legata in strettissimi
vincoli di commercio e d’amicizia col Lagida, che gliela disputò
sino all’ultimo sangue. Nella recente guerra[42] di Demetrio per la
conquista del trono di Macedonia, il Tolomeo gli avea tolto Cipro[43]
(295), e, poco dopo, avea tornato ad assalirlo in lega con Lisimaco,
re di Tracia (288)[44], e con Pirro, che già aveva aiutato gli Etoli
contro Demetrio e tentato un’incursione nelle terre del medesimo[45].

La campagna era riescita infelice pel re di Macedonia, e Pirro e
Lisimaco se n’erano spartito il dominio[46] (288). Morto Tolomeo I
(283)[47], le cordiali relazioni di Pirro col figlio dell’estinto, non
aveano subito ostili interruzioni. Tanto l’impresa d’Italia, quanto
quella di Sicilia, specie quest’ultima, che, col suo buon esito, non
avrebbe fatto altro che danneggiare Cartagine, rivale in commercio di
Alessandria[48], non potevano nè avevano dovuto ingenerare sospetto
alcuno nell’animo del Lagida, e, quando Pirro aveva lasciato l’Italia,
era andato a combattere contro l’Antigono Gonata, figlio dell’estinto
e più volte citato Demetrio, che avea occupato il trono di Macedonia e
non potea certo vantare benevoli sentimenti verso il più implacabile
avversario del padre, — Antigono Gonata, contro cui, sei anni dopo,
Tolomeo Filadelfo inizierà una lunga e penosa guerra[49]. Nessuna
voglia quindi di sfogare vecchi rancori, nè desiderio alcuno di
contrapporre l’equilibrio di una nuova lega alla ormai molto dubbia
potenza del re d’Epiro poteva aver eccitato l’animo del Lagida[50],
e i motivi della sua ambasceria debbono perciò ricercarsi fra cause
d’origine diversa.

Esse appariscono di doppia specie: politiche e commerciali.

Anzitutto il fatto stesso dell’antica e non interrotta amicizia con
Pirro poteva adesso, non ostante la recente neutralità del Tolomeo
nella guerra italica, far temere una di quelle spesso inconsiderate
rappresaglie del governo romano contro gli amici del vinto avversario.
In secondo, la politica estera dei Tolomei s’era fin’allora ingerita
costantemente negli affari internazionali degli stati greci, specie
in quelli del macedone e dei suoi vicini. E, adesso che Roma aveva
battuto il re d’Epiro, non era ardito il sospettare che questa sarebbe
intervenuta, come farà di lì a pochi anni (210-05)[51], negli affari
della Grecia, a sobillare il re di Macedonia, compiendo un atto, le cui
conseguenze si sarebbero probabilmente ripercosse sull’Egitto.

Più importanti erano le ragioni d’indole commerciale.

L’Egitto, l’abbiamo visto, era allora la strada maestra del commercio
mondiale, da cui derivava gran parte della propria ricchezza, e l’unica
città, Cartagine, che, come potenza, sia commerciale che militare,
avesse potuto tenere fronte ad Alessandria e dovuto nutrire troppe
voglie di chiudere alla rivale gli sbocchi del suo commercio, era
allora alleata di Roma[52], e poteva incaricarsi dell’impresa egiziana,
qualora la capitale del Lazio non se ne fosse sentita da tanto.

Un’alleanza ai propri danni da parte di codesti due stati avrebbe
potuto causare all’Egitto la perdita dei principali emporii
commerciali del Mediterraneo. Gli sarebbero anzitutto state tagliate le
comunicazioni con Cadice. Avrebbe perduto la Cirenaica, il più fertile
dei suoi possessi, già conquistato al 321 da Tolomeo Iº e che tanta
gola avea fatto al governo punico. Avrebbe messo a repentaglio Cipro,
celebre pei suoi cantieri, pronta sempre ad offrire all’Egitto tesori
inesausti di ricchezze naturali[53] e capace, per la sua posizione, di
formare una comoda tappa fra l’est e l’ovest, Creta, importante per
lo meno per l’acquisto dei mercenari, le isole dell’Egeo, le Ionie,
e, peggio ancora, quella Rodi, per cui il commercio con l’Egitto
era, a detta di Diodoro, una questione vitale e dovea quindi riescire
per quest’ultimo fonte d’enormi guadagni, Rodi unica stazione per i
vascelli, che in 24 ore avessero viaggiato dalla Palude Meotide verso
l’Etiopia per la via d’Alessandria e del Nilo, e che il padre di
Filadelfo avea così a lungo disputato contro Antigono Iº e Demetrio.
Avrebbe altresì l’Egitto potuto essere danneggiato nei suoi commerci
di grano con Atene o in quelli, certo più notevoli, sebbene non ne
possediamo che scarsi ragguagli, con la Sicilia, specie con Siracusa,
su le quali si erano adesso più che mai volte le avide mire dei
Cartaginesi[54]. Come eventuale, ma non improbabile frutto della lega
con Roma, l’Egitto poteva sperare, come poi avvenne, nello stabilimento
di un continuato commercio sia di papiro, che di lino e vetro con
Napoli e Pozzuoli, donde avrebbe importato lana da servire per le
industrie nazionali[55], e per dove avrebbe col tempo stabilito una
linea diretta, che l’avrebbe messo in comunicazione persino con la
Gallia[56].

Dinnanzi a tali motivi di alleanza, l’astuto Tolomeo non dovette,
adesso che la stella di Pirro tramontava, esitare gran fatto a spedire
un’ambasceria nel Lazio.


IV.

Alleanza romano-egiziaca (273).

Ben diversamente di come il Lagida avrebbe dovuto temere, il suo atto
fu accolto con gioia dal senato romano, che tosto restituì la visita
con una nuova ambasceria, nella quale figuravano Q. Fabio Furge,
già console al 276, Numerio Fabio Pittore, che lo sarà al 266[57],
Q. Ogulnio[58], già tribuno della plebe al 300, edile al 296[59],
membro al 290 dell’ambasceria, incaricata della ricerca del serpente
Epidauro[60], e dittatore al 257.

Le accoglienze, a cui essi vennero fatti segno nella corte di
Alessandria furono tra le più liberali. Il re li regalò tosto di
splendidi doni, ma gli ambasciatori, coerenti alla morigeratezza dei
loro costumi, rifiutarono ogni offerta, quasi volessero dimostrare che
nessuna corruzione avrebbe dettato loro i patti di quell’alleanza, che
avevano l’incarico di stipulare.

Il re però con finissima astuzia, deliberato ad ottenere ad ogni
costo condizioni favorevoli da parte del governo romano, invitatili
ad un banchetto, tornò ad offrire delle corone di oro. Con nuovo ed
ammirevole esempio di parsimonia e di delicatezza, gli ambasciatori,
pur accettandole, ne fecero la dimane trovare adorne le statue
del re[61]. Indi si venne a concretare i capitoli del trattato
romano-egiziaco.

Che una vera e propria alleanza dovette essere stipulata ce lo
fanno supporre le parole dell’epitomatore di Livio, la cui testuale
narrazione ci sarebbe dovuta riescire preziosissima. Questi infatti
afferma che «cum Ptolomeo rege _societas_ iuncta est»[62], e con lui si
accorda Dione Cassio, l’altra fonte più autorevole delle circostanze,
su cui c’intratteniamo, opponendosi così agli storici greci, i quali ci
parlano solo di un ravvicinamento amichevole, di una pura e semplice
φιλία. Ma sulle modalità dell’accordo, che è il punto più importante,
le fonti, le quali ci sono così larghe di particolari drammatici e
decorativi, serbano il silenzio più assoluto.

Ha però ragione il Bandelin[63] nel sospettare che non si sia
trattato di una vera e propria alleanza offensivo-difensiva, sibbene
dell’obbligo reciproco di astenersi da vicendevoli ostilità e dalla
prestazione di qualsiasi soccorso agli stati belligeranti con ciascuno
dei due popoli. Infatti, nè noi vediamo Roma e l’Egitto aiutarsi di
regola nelle posteriori guerre, in cui si trovarono impegnate, nè,
quando esse richiesero vicendevoli aiuti, invocare mai i capitoli del
trattato del 273.

Oltre a ciò, non ostante il silenzio delle fonti, le prossime relazioni
romano-egiziache ci autorizzano a ritenere che nella conferenza di
Alessandria si sia anche discusso di affari commerciali, i quali, sin
da quegli anni[64], si avviarono in maniera definitiva. Non sembra però
che all’alleanza si sia imposta una scadenza fissa pel rinnovamento,
che avverrà irregolarmente ad ogni nuova successione dinastica egizia
e ad ogni soluzione di importanti quistioni estere in ciascuno dei due
stati.

Comunque si fosse, Roma e l’Egitto si erano pel momento garantite
reciprocamente nell’eventualità di qualsiasi prossima contingenza di
politica estera; e gli ambasciatori, che, tornati a Roma, riferirono,
come era d’uso, al senato l’esito della loro legazione, dichiarando
di voler deporre i doni ricevuti nell’erario[65], furono, prima da
un _senatus consultum_, poi da una lex, autorizzati a rimanersene
possessori[66].


V.

Alessandria e Cartagine al tempo della 1ª punica.

Se non immediatamente, l’alleanza con l’Egitto giovò a Roma nella prima
guerra punica[67], della quale noi possediamo un episodio diplomatico
pressochè analogo al precedente, che ci torna ad illuminare sulla
finissima astuzia della corte tolomaica.

Cartagine ed Alessandria avevano nel IIIº sec. a. C. progredito
continuamente e parallelamente[68]. Superata nel Vº la concorrenza coi
Fenici di Sicilia, Spagna e Libia, Cartagine si era tosto trovata a
capo dei Fenici dell’Occidente, e, da semplice scalo pei navigatori,
aveva dovuto assumere una speciale importanza politica. Era divenuta la
capitale della Libia, si era emancipata dall’originario censo pattuito
cogli indigeni in cambio delle terre occupate sul continente africano,
avea coltivato l’agricoltura e costituito un esercito, circostanze
tutte, che ne avevano sempre più consolidato l’egemonia marittima.

Nella Libia e nel Mediterraneo, dovunque Alessandria possedeva uno
scalo o una regione con cui commerciare, era costretta a vedere al suo
fianco le navi cartaginesi, recatesi sul luogo a dividere i proventi
del mercato. Così in Cirenaica, Spagna, Sardegna, Sicilia, col pericolo
costante di trovare un bel giorno chiusa qualcuna delle vie del proprio
commercio. Se Roma non si fosse _sponte_ sua incaricata di sbarazzare
Alessandria di Cartagine, non ostante il trucco di una tal quale
apparente alleanza[69], la capitale dell’Egitto non poteva tardare ad
assumerne essa medesima l’iniziativa[70].

E la prova si ebbe fin dalla prima guerra punica. Tolomeo, che, da
astuto monarca, in attesa della soluzione, non avea da principio voluto
dichiararsi per l’uno o per l’altro dei due combattenti, si trovò un
bel giorno a ricevere da ambasciatori cartaginesi la richiesta di 2000
talenti. Tenuto conto della ricchezza consueta dell’erario cartaginese,
dovevano essere ben tristi le condizioni dell’infelice città, se questa
si umiliava a proporre un prestito al più inviso dei propri vicini.

Il Tolomeo, vincolato dalla sua alleanza con Roma, invece di porre a
disposizione della medesima i quattrini con tanta urgenza richiesti,
offerse la sua mediazione. Ne seguirono delle pratiche per un
rappacificamento fra Romani e Cartaginesi, che non approdarono a
risultato alcuno. La guerra fu ripresa, e quando da Cartagine si
sollecitò il Lagida a spiegare la sua strana condotta di alleato,
questi rispose celiando alla mal ridotta città che gli amici bisognava
aiutarli contro i nemici, non già contro gli amici. «Si può dubitare,
osserva a ragione il Droysen, che uguale non ne sarebbe stata la
risposta, qualora Roma si fosse in quel tempo trovata nelle identiche
condizioni di Cartagine»[71].


VI.

Roma durante la guerra fra l’Egitto e Antioco Jerace (238-5).

Al Cap. IIIº, § 1-2 del suo _Breviarium_ di Storia universale, Eutropio
ci fa sapere che dopo la guerra punica, durata per ben ventitrè anni,
sotto i consoli L. C. Lentulo e Q. Fulvio Flacco (237), i Romani
mandarono ambasciatori a Tolomeo, re d’Egitto, promettendogli aiuti
nella sua guerra contro Antioco di Siria, aiuti che viceversa furono
rifiutati dappoichè la guerra era terminata.

Tale narrazione presenta parecchie difficoltà. La guerra punica,
secondo si desume dall’indizio della sua durata, dev’essere per
l’appunto la prima, la quale s’era infatti chiusa al 241[72]. Se non
che, al 237 non esiste Antioco di Siria alcuno, contro cui i Lagidi
avessero dovuto pigliare le armi. Re di Siria era invece Seleuco IIº,
e il di lui fratello, Antioco Ierace, si trovava allora in possesso
della sola Lidia[73]. Parrebbe si trattasse dunque della seconda
guerra egizio-siriaca del 258-240 fra Tolomeo, Filadelfo e Antioco
IIº di Siria[74], per cui si dovrebbe spostare di una decina d’anni la
datazione offertaci da Eutropio, o fors’anche dell’altra, posteriore
di ben venti anni (219-17) fra Antioco IIIº di Siria e Tolomeo
Filopatore[75]. Se non che, come al 240 Roma si trovava stremata dalla
prima guerra punica, così essa al 217 poteva contare nel suo attivo la
disfatta di Canne e la totale devastazione del suolo italico, per opera
di Annibale[76]. Io credo quindi che la soluzione debba essere ben
diversa.

Antioco Ierace, fra il 238 e il 25, si era impegnato in una guerra
contro Tolomeo Evergete, della quale, pur troppo, ci sono ignoti i
motivi e le circostanze[77], e, poichè la datazione di Eutropio è così
precisa, io ritengo più che probabile che debba essere questa appunto
la guerra, a cui egli accenna, errando solo nella qualifica apposta ad
uno dei potentati in conflitto[78]. Al 237, dopo i pericoli della prima
guerra punica, occorreva ai Romani di porre ai fianchi di Cartagine un
loro alleato, e poterono non credersi umiliati a pigliare essi stessi
l’iniziativa di una consuetudine difensivo-offensiva, che era estranea
alle convenzioni dei trattati precedenti.


VII.[79]

L’Egitto vettovaglia Roma durante la guerra annibalica (216).

Ma se i Romani brillarono soltanto per la loro — diciamola —
circospezione, facendosi solo vivi, allorquando le sorti della
guerra erano decise; non così operò Tolomeo IVº Filopatore durante
la guerra annibalica. Secondo Polibio[80], stante la devastazione
di tutto il territorio italico sino alle porte della capitale del
Lazio e l’infierire della guerra nelle regioni, dalle quali era
possibile importare grano, il governo di Roma si era per un momento
trovato nell’assoluta incapacità di vettovagliare sia i cittadini che
l’esercito, e la carestia era giunta a tale da far salire il frumento
ad un prezzo circa trenta volte superiore all’ordinario.

Le succitate circostanze ci riportano al periodo della seconda guerra
punica immediatamente posteriore alla battaglia di Canne e alla morte
di Gerone di Siracusa (216), già alleato dei Romani, il cui nipote
era allora passato dalla parte dei Cartaginesi,[81] privando così Roma
del soccorso di quell’inesausto granaio, che era per essa la Sicilia.
In tali frangenti il senato mandò ambasciatori al Tolomeo, chiedendo
vettovaglie[82], e il Lagida, mal rammentando adesso l’aforisma del
nonno, pare non sia stato alieno dal favorire gli amici contro gli
amici, di che, per lo meno, dovette ricordarsi Annibale, quando,
più tardi, ripartendo per sempre dall’Italia, stette in forse tra il
pigliare la via di Cartagine o l’altra d’Egitto, donde sarebbe mosso ad
occupare direttamente Alessandria[83].

Ma il Lagida non si limitò a soddisfare alla richiesta dei Romani[84]:
volle tutto coronare con un nuovo atto di sua spontanea iniziativa.


VIII.

Le si dimostra favorevole dopo la resa di Capua ad Annibale.

Dopo Canne, la maggior parte dei municipi dell’Italia meridionale si
erano stretti intorno ad Annibale.

L’antica federazione italica accennava a dissolversi. Ma di tali
perdite nessuna era stata pari a quella di Capua (216), la capitale
del mezzogiorno della penisola, che, con Annibale alla testa e la
possibilità di armare un ingente esercito di pedoni e di cavalieri,
sarebbe un bel giorno venuta a rivaleggiare con la sua antica
dominatrice[85].

Tale nuova orientazione politica non fu però approvata da tutte le
classi della cittadinanza, come non lo erano mai stati i suoi rapporti
con Roma[86]. I nobili erano infatti legati da troppi interessi a
quelli dei Romani. Allorquando questi, dopo la grande guerra latina,
avevano, nel 338, terminato di estendere il loro dominio nella
Campania, il senato, per compensare la nobiltà di Capua della perdita
di parte dell’_ager publicus_, aveva obbligato il popolo a pagare
un’annua rendita di 450 denari ai 1600 cavalieri della città, e s’era
inoltre affrettato a metterli nel possesso dei pubblici poteri. L’anno,
in cui Annibale si affacciava alle porte di Capua, il fiore della sua
nobiltà si trovava imparentato con altrettante famiglie romane[87].

Dinnanzi alla corrente dell’opinione pubblica favorevole all’alleanza
cartaginese, essa si era quindi creduta in dovere di ostacolarla con
ogni mezzo.

Lo chauvenisme liviano à colorito colle tinte più smaglianti la
resistenza di uno degli antesignani della nobiltà capuana, Decio Magio.

Allorquando, narra Livio[88], i Capuani mandarono ambasciatori per
conferire con Annibale, egli fu l’unico che disapprovasse l’idea di
un’alleanza cartaginese. Egli stesso avea deplorato altamente il
massacro dei «prefecti sociorum»[89], e di alcuni altri cittadini
romani residenti a Capua. Invitato più tardi da Annibale a spiegare
codesta sua ostilità, che, fin dall’entrata della guarnigione
cartaginese, l’avea sospinto a proporne l’eccidio, si era rifiutato,
protestando la sua qualità di cittadino romano.

La sua propaganda avea fatto seguaci, e Perolla, figlio di uno dei
capi del partito punico, pur avendo, per opera del padre, ottenuto
grazia presso Annibale, era stato lì lì per ripagare coll’assassinio la
generosità del banchetto, a cui il Cartaginese l’aveva invitato. Urgeva
sbarazzarsi del fiero capuano, e, nella tornata senatoria, che seguì
al suo ingresso, Annibale chiese, e la sua richiesta fu approvata,
che Decio venisse escluso dall’alleanza e dai patti che egli avrebbe
stretto con Capua.

Obbligato di nuovo a scolparsi, Decio ripetè il rifiuto, protestando
in termini identici a quelli della prima volta, cosicchè, carico
di catene, mentre colla voce, unica arme rimastagli, continuava ad
arringare la folla, fatto salire su di una nave, venne spedito a
Cartagine. Una tempesta lo sbalzò a Cirene, possesso del re d’Egitto.
Decio corse a rifugiarsi a piè della statua reale; ma tradotto ad
Alessandria. Tolomeo IVº lo faceva tosto rimettere in libertà,
chiedendogli se volesse tornare a Capua od a Roma, alla quale
concessione, Decio, riconoscente, preferì rimanersene in Egitto.


IX.

Rinnovamento dell’alleanza egizio-romana (210). Roma e Cartagine nel
secondo periodo della guerra annibalica.

Tante dimostrazioni di amicizia poterono ben valere, pochi anni dopo,
una nuova ambasceria romana al re ed alla regina d’Egitto allo scopo
di rinnovare l’antica alleanza, e pare che Roma ci tenesse parecchio,
avendo questa volta i suoi doni rivaleggiato in magnificenza con quelli
del secondo Tolomeo. Al re fu donata una toga e una tunica purpurea
insieme con una sedia tutta avorio; alla regina un manto con una
sopravveste di porpora (210).[90]

Era quello il periodo, in cui i Romani, con un’instabile, ma pur sempre
progrediente fortuna, si rialzavano dalla sconfitta di Canne. Nè ad
Annibale nell’Italia meridionale erano pervenuti gli sperati soccorsi,
nè si era potuta riconquistare la Sardegna, anzi l’unico esercito
cartaginese sbarcatovi era stato tosto distrutto dal generale romano
Tito Manlio Torquato. Uguale sorte era toccata alle truppe cartaginesi
in Sicilia (210), mentre la guerra, che Filippo di Macedonia avea
suscitato contro Roma, si ritorceva a suo danno, giacchè questa gli
avea fatto insorgere contro quasi tutta la Grecia.

In Ispagna le due spedizioni del 211 e 210 avevano in generale rimesso
l’equilibrio delle forze prima ancora che vi fosse spedito quel P.
Scipione (210-9), che chiuderà la guerra annibalica con la disfatta di
Zama. In Italia la resa di Capua, il formidabile quartiere generale
di Annibale, aveva cancellato la memoria tremenda dell’avanzata del
medesimo contro Roma, e segnato la ripresa della prevalenza romana
(210)[91]. Si trattava quindi di un lasso di tempo, nel quale Roma
aveva agio ed anche interesse di pensare all’Egitto, tanto più
che la guerra di Siface contro Cartagine (213-2), colla quale avea
sperato di procacciare all’avversaria nemici nella stessa Libia, era
terminata infelicemente[92]. Urgeva surrogarvene di nuovi, o, per lo
meno, assicurarsi degli antichi, e l’occhio del senato era rivolto
all’Egitto.


X.

Roma, la Macedonia e l’Egitto durante la guerra annibalica.

Era scoppiata intanto la prima guerra macedonica[93]. Filippo
Vº, secondo il grandioso piano di Annibale, doveva essere uno dei
principali ingranaggi della coalizione antiromana, che egli avea sempre
sperato di comporre in Oriente ed in Occidente. Se non che Roma,
sfruttando i malumori dei piccoli stati greci contro la dominazione
macedone, li avea rivolti contro Filippo, e si era alleata formalmente
con gli Etoli, ai quali erano state fatte promesse più che liberali.
Così, partecipando solo con un contingente minimo di forze, i Romani,
sin dal 215, tenevano a bada un avversario potente, contro cui, allora,
non potevano sperperare le proprie forze.

Al 209 o 208[94], parecchie delle potenze neutrali della Grecia e
dell’Oriente intervennero come mediatrici[95]. Tra esse figurava
l’Egitto.

Gli ambasciatori inviati a tal uopo incontrarono Filippo a Falara, dove
egli si era ritirato, dopo aver battuto a Lamia gli Etoli ed inseguito
i medesimi sin nel loro territorio. Pare che della mediazione sia stata
data notizia anche all’ammiraglio romano P. Sulpicio Galba[96]; se
non che questi dichiarò di non essere rivestito dei poteri necessari a
comporre la vertenza. Era infatti interesse di Roma, procurando impacci
a Filippo, di non rinunziare a tenere un piede nella Grecia, sì che un
sincero consenso ai desideri degli intervenuti sarebbe in quel momento
equivalso a procurare volontariamente il proprio danno. In tali termini
Sulpicio scrisse al senato, che, concorde al generale, vietò ogni
composizione, e tornò a rispedire milizie agli Etoli.

Questi intanto avevano a Falara conchiuso un armistizio di trenta
giorni, rimettendo le deliberazioni circa la pace definitiva alla
prossima loro assemblea generale[97], che fu tenuta ad Egio in Acaia.

Quando si pensa che mediatrici erano tutte potenze marittime, che dal
prolungamento della guerra venivano danneggiate nei loro interessi
commerciali, si capisce subito come questo dovette essere il precipuo
movente della corte di Alessandria. Vi si aggiungeva il doppio scopo
di tenere lontani dagli affari di Grecia la sempre avversata Macedonia
ed il nuovo temuto alleato della republica romana. Se non che, mentre
ad Egio si discuteva della necessità di porre fine alla guerra,
l’ammiraglio romano ed Attalo, re di Pergamo, si erano affrettati a
comprometterne l’esito, l’uno con l’occupazione di Naupacto, l’altro
con l’invasione di Egina. Ciò bastò perchè gli Etoli sollevassero
la misura delle loro pretese, e, con lo scioglimento dell’assemblea,
andasse a vuoto ogni tentativo di composizione.


XI.

Rinnovamento dell’alleanza egizio-romana dopo la guerra annibalica e
preparativi per l’avvenire (201).

Il secolo IIIº si chiude con un nuova dimostrazione di amicizia,
un’ambasceria romana alla corte di Alessandria, posteriore di un anno
alla vittoria di Zama, che doveva riescire foriera di nuovi eventi
nella storia di Roma e dell’Oriente.

Allora infatti, conchiusa la pace con Cartagine, al nuovo re Tolomeo
Vº Epifane, già salito al trono al 205, furono spediti ambasciatori
M. Emilio Lepido, C. Claudio Nerone e P. Sempronio Tuditano. Triplice
era lo scopo dell’ambasceria: annunziare alla corte di Alessandria
la vittoria su Cartagine e la relativa conclusione della pace,
ringraziarla della neutralità serbata, o di ciò almeno, che il senato
voleva far le viste di considerare come tale; e, al tempo stesso,
(questo era lo scopo principale dell’ambasceria), chiedere eguale
amicizia nell’eventualità, che Roma «_coacta iniuriis_», avesse dovuto
imprendere guerra con la Macedonia[98].

Quali sottintesi e quali precedenti fossero impliciti in quest’ultimo
comma diremo nel prossimo capitolo, poichè i fatti, che ne derivarono,
ebbero a svolgersi tutti nel secolo seguente.




CAPITOLO II.

ROMA E L’EGITTO DURANTE LA 2ª GUERRA MACEDONICA e la 1ª siriaca
(200-189).


I.

Roma, l’Egitto, la Macedonia e la Siria.

La politica internazionale dei vari stati, guardata attraverso le
teoriche della nostra morale privata, apparisce come un tessuto
di finissima ipocrisia, una rete di azioni ispirate soltanto al
conseguimento della propria supremazia, a raggiungere la quale non
v’è finzione, non prepotenza, non tranello, non menzogna che valga a
suscitare il rossore.

Tale generica impressione può da pochi esempi ricevere illustrazione
pari a quella, che di essa ci offrono le relazioni politiche di Roma
con l’Egitto nel IIIº secolo, e, peggio ancora, nel IIº.

Sin’ora noi abbiamo potuto notare come reciproco sia stato per le
due nazioni il bisogno dell’amicizia e dell’alleanza. Se la corte di
Alessandria aveva avuto interesse di possedere un alleato, che pel
momento molestasse Cartagine e ne abbassasse la supremazia marittima,
militare e commerciale, un alleato, che, in evenienze prossime a
prevedere, avesse saputo fare le sue veci contro le eterne rivali
dell’Egitto, la Siria e la Macedonia, il senato romano non aveva, dal
canto suo, trascurato di tenersi amico il fiorente regno dei Lagidi,
sia contro i presenti nemici dell’Africa, sia contro i futuri di Grecia
e d’Oriente.

Così i Tolomei hanno favorito ed aiutato Roma, non ostante la loro
parentela col re d’Epiro ed i recenti trattati con Cartagine, come
Roma senza mai scomodarsi, ha esibito a sua volta il suo ausilio e i
suoi ringraziamenti, e le ambascerie egizio-romane si sono incrociate
cortesemente a vicenda. Adesso però che Roma avea le mani libere da
Cartagine, più che mai poteva considerare giunta l’ora di tirare le
somme delle sue platoniche dimostrazioni di amicizia, e l’enormità di
ciò che il senato romano preparava era tale da farlo, insieme con la
posteriore storiografia, ricorrere ad una pietosa menzogna, la quale
non sarà vergine di eredità.


II.

Critica della pretesa tutela romana su Tolomeo Vº.

Giustino, nei primi capitoli del libro XXXº della sua storia
universale, dopo avere schizzato colle tinte più fosche il regno del
IVº Tolomeo, tutto in mano di favoriti e di cortigiane, screditato
all’estero ed all’interno, narra come il popolo di Alessandria,
appena ebbe appreso la morte del re, tenuta per alcuni giorni
nascosta da coloro che spadroneggiavano a corte, levatosi a tumulto,
impiccati costoro, inviasse un’ambasceria a Roma, pregando il senato
di provvedere di tutori il giovane erede e difenderlo da Antioco,
re di Siria, e da Filippo, re di Macedonia, già collegati ai suoi
danni. A tale richiesta, il governo romano, non potendo negare
il suo cavalleresco appoggio, avrebbe immediatamente risposto con
un’ambasceria delegando M. Emilio Lepido tutore del giovane re, Tolomeo
Vº Epifane, e dichiarandosi pronto — anche contro le proprie intenzioni
— ad ulteriori sacrifizi.

Tale racconto suscita dei sospetti, e per vari motivi:

1). Esso viene attinto a fonti poco attendibili, e, oltre ad
enunciare un giudizio probabilmente inesatto sull’amministrazione
del IVº Tolomeo, dà, senza tener conto di quelle che consideriamo in
particolare, attestazioni arbitrarie di fatti realmente inesistiti.
Così è a dirsi, per esempio, dell’imputazione di parricidio e di
assassinio contro Tolomeo Filopatore[99].

2). Se, a detta di Giustino, uno dei capi di accusa degli insorti
era costituito dalle vergogne della politica estera del regno di
Filopatore, non era naturale che il popolo di Alessandria reagisse alla
politica, dominante a corte, inaugurandone una non dissimile rispetto
ai Romani[100].

3). Ma i sospetti si fanno più incalzanti quando si passa ad ulteriori
considerazioni. L’informazione di Giustino viene anzitutto smentita da
due altre, l’una proveniente da Giustino medesimo, secondo cui sarebbe
stato il padre stesso moribondo ad affidare il figlio alla tutela
del popolo romano[101], l’altra, proveniente da Polibio[102], secondo
cui la tutela di Tolomeo Epifane venne per contro tenuta da Sosibio,
ex-ministro del padre[103], da quell’Agatocle, fratello dell’amante
del medesimo, la cortigiana Agatoclia[104], e, più tardi, da un giovane
ministro per nome Tlepolemo[105]. Nè l’oblio, sotto cui Polibio passa
la tutela romana, può giustificarsi colle lacrimevoli condizioni, in
cui noi ne possediamo le opere. Livio stesso, che in questa narrazione
si fonda su Polibio, ne tace con mirabile accordo[106]. Ma ciò, che più
contrasta alla narrazione di Giustino, come all’ipotesi di qualsiasi
tutela, sono le narrazioni di Appiano[107], di Livio[108] e di Polibio
medesimo.

Appiano racconta che, nei primi anni del regno di Tolomeo Vº[109],
i succitati Antioco e Filippo, che si era anche alleato con i
Cartaginesi, avevano stabilito di aiutarsi reciprocamente in una
spedizione, che il secondo avrebbe tentato contro la Cirenaica,
Samo, le Cicladi, la Caria e la Ionia, ed il primo contro Cipro, la
Celesiria, la Fenicia e l’Egitto[110]. I Romani, informati delle prime
mosse dell’esercito di Filippo da ambasciatori Rodii, Ateniesi ed
Etoli[111], avevano spedito un’ambasceria in Oriente col mandato di
intimare ai due re la cessazione delle ostilità o dichiarar loro la
guerra (200).

L’ambasceria si abboccò dapprima col generale di Filippo, Nicanore,
il quale appunto allora devastava l’Attica, e, da parte del popolo
romano, lo incaricò di trasmettere al suo re l’ingiunzione di nulla
tentare contro i Greci, ma di sottomettersi ad un tribunale arbitrario
per tutto ciò che quegli aveva osato contro il re di Pergamo. Se il re
non avesse obbedito, il governo romano si sarebbe dichiarato pronto
a muovergli guerra. Uguale discorso essa tenne con gli Epiroti, con
Aminandro, re dell’Atamania, con gli Etoli di Naupacto e gli Achei
di Egio. Indi si era recata da Antioco[112] e poscia da Tolomeo,
nella persona dei tre citati da Livio, per conferire col Lagida e
interrogarlo, come vedemmo[113], circa il suo atteggiamento nel caso di
un’eventuale conflagrazione romano-macedone (200).

Or bene, se la presunta tutela e le presunte invocazioni di
aiuto dell’Egitto fossero state reali, nè Roma avrebbe appreso da
informazioni indirette i movimenti dell’armata e dell’esercito dei
due re, nè avrebbe avuto ragione di umiliarsi a interrogare la corte
alessandrina circa il suo atteggiamento nel caso di guerra contro la
Macedonia, nè, tanto meno, il preteso tutore avrebbe, come appare dal
trovarlo fra gli ambasciatori romani, che adesso si recavano in Egitto,
abbandonato, sin dal 201, quando cioè Tolomeo Epifane era ancora
minorenne, il governo del suo pupillo[114].

Ma, come se ciò non bastasse, poco dopo, in seguito a nuove
sollecitazioni ateniesi[115], un’ambasceria egizia, tutt’altro
che a chiedere, giungeva in Roma per offrire aiuto in favore degli
Ateniesi[116] (200).

Così cade la famosa leggenda filo-egiziaca, con la quale, in quegli
anni, si cercò di captare l’opinione pubblica per trascinare Roma
ad una guerra in Oriente, e che, un secolo e mezzo più tardi, godeva
ancora tanto credito presso il buon pubblico romano da farla raccattare
da uno dei discendenti di Lepido perchè, incisa nel metallo, ingannasse
a sua volta la buona fede degli storici futuri[117]. Ben altri erano i
motivi delle guerre che si apparecchiavano, motivi, che, data la loro
importanza e gl’intimi legami, ch’essi vantano con le relazioni romano
egiziache, non è qui il caso di tacere.


III.

La politica estera e le classi sociali romane.

La serie delle guerre romane era stata aperta dal bisogno
inscongiurabile di difesa di fronte al tumultuare dei popoli Italici
alla soglia del Lazio violentemente agitato da quel moto continuo di
emigrazione e di immigrazione, di cui tutta in quel tempo fremeva la
penisola. I primi secoli della storia di Roma, che noi conosciamo a
mala pena, avvolti come ci appariscono, fra la più fitta oscurità,
non sono che l’ultimo atto di quel grande dramma del primo periodo
della storia d’Italia, la cui serie di eventi è in maggior parte da
congetturare più che da rintracciare.

Alla fine di questo primo periodo, la cui data estrema può all’ingrosso
segnarsi alla guerra gallica del 225 a. C., chi avesse avuto voglia di
tirare le somme degli utili e dei danni si sarebbe accorto come tanto
sangue e fatiche erano andate soltanto in minima parte a giovamento di
tutta la collettività romana, e che, a centuplicare i propri interessi,
era stata solo la classe patrizia.

I piccoli e medii possessori di proprietà terriere, ne avevano ricavato
una più o meno grande rovina.

Incapaci, per la lontananza imposta loro dalla guerra, a coltivare i
loro campi, flagellati dai saccheggi e dagli incendi nemici, essi si
erano trovati ineluttabilmente costretti a ricorrere alla croce dei
debiti e allo strozzinaggio delle usure, incamminandosi così per una
via, che, giusta i disposti della legislazione romana, li precipitava
dalla libertà nella schiavitù[118].

Da questa sorte, inevitabile all’enorme maggioranza della plebe e della
società romana, avevano però i patrizi, i trascorsi conquistatori, i
dominatori politici odierni, i grandi possessori del suolo, facile
il mezzo di emanciparsi, sia delegando ad altri la cura della
coltivazione, durante la loro presenza alla guerra; sia, dopo la
medesima, vessando con alti interessi e con espropriazioni i debitori
morosi, sia ripartendo fra i membri del proprio ordine i demanii
conquistati, privilegio sommo, che, per legge e per consuetudine, essi
avevano avuto l’accortezza di riserbarsi con geloso esclusivismo[119].

Comincia da questo momento la catastrofe dell’economia agricola romana,
che avrà un crescendo spaventoso nei secoli che seguiranno, nonchè
quella lotta a mezza spada, prima dei plebei contro i patrizi, poi
del novello proletariato contro patrizi e ricchi plebei, che sembrerà
conseguire una conciliazione ai piedi dell’impero, ma i cui echi non si
sperderanno se non sotto i travolgimenti, che le invasioni barbariche
saranno per arrecare al suolo dell’antica republica. E, con la lotta,
comincia una reazione contro la politica di conquista, cui il senato
romano si appigliò sin d’ora come all’espediente più economico, che
valeva da solo a creare la ricchezza della classe sociale, da cui esso
emanava, e al sopperimento delle cui spese bastavano il sangue e le
fortune dei dominati.

Sarebbe interessante segnare volta per volta questa reazione del popolo
minuto[120] contro la grande politica estera del senato, ma è compito,
che sorpassa i confini del nostro argomento. È bene però rammentare
come quel popolo, che gli storici superficiali si fingono mosso alla
conquista del mondo dalla brama di una patria grande e gloriosa, era
tutt’altro che concorde nell’attuazione di codesto sedicente proposito.
Persino, durante la patriottica guerra annibalica, l’assemblea
centuriata aveva a malincuore condisceso a parecchie spedizioni nelle
province[121]; e, adesso, a guerra finita, l’opposizione tornava
implacabile a non voler dare ascolto al più lontano proposito di guerre
orientali.

Correva il 200; la proposta del console P. Sulpicio, invitante le
centurie ad una dichiarazione di guerra contro la Macedonia, era stata
respinta a grandissima maggioranza, ed un tribuno della plebe, Q.
Bebio, era, per esprimerci con Livio, tornato all’«_antico metodo_»
di accuse contro i patrizi, incolpandoli, nè a torto, di suscitare, in
grazia del proprio utile, guerre da guerre[122].

Contro una così preoccupante ostinazione nessun’arme fu intentata, e
le ingiurie in senato, e gli eccitamenti a una nuova convocazione di
comizi, e la proposta di punire l’insolenza di quel popolo, che avea
l’ardire di chiedere un’ora di tregua e di respiro, e l’abile lavorio
dell’opinione pubblica. Tra quest’ultima categoria di maneggi va
ascritta la fola della tutela e dell’implorazione egiziana, verso la
quale cavalleria obbligava a non turarsi le orecchie. E quella buona
plebe rovinata, così inesperta di politica e ignara della nozione dei
propri interessi, come in ogni tempo ci appariscono le classi inferiori
della cittadinanza romana[123], ebbe l’ingenuità di dare ascolto a quel
capolavoro di abbindolazione, (quale altrimenti riesce impossibile
definire il discorso, che di lì a poco tenne alle centurie[124] il
solito P. Sulpicio), e terminò per votare, non certo nel proprio
interesse, la voluta guerra contro la Macedonia[125].


IV.

L’ambasceria egizia in aiuto di Roma contro la Macedonia.

La recente, succitata ambasceria egizia possiede un’importanza
singolare, in quanto segna un rivolgimento nei rapporti di Roma con
l’Egitto.

Essa, dicemmo, era stata motivata dal fatto che ambasciatori ateniesi
si erano a lor volta recati alla corte di Alessandria, chiedendo
aiuto contro Filippo. L’Egitto era allora alleato di Atene, e avrebbe,
senza esitazione, potuto immischiarsi negli affari della Grecia. Ma la
corte di Alessandria fu di diverso parere. Mandò a Roma a chiederne
il permesso con l’esplicita dichiarazione che essa era pronta ad
astenersene, qualora ciò fosse spiaciuto al senato.

Per quanto l’ambasceria fosse formulata in termini molto abili ed
avesse dichiarato, cercando di porlo in evidenza, che, qualora Roma
non avesse avuto nulla in contrario, il re sarebbe stato pronto a
incaricarsi egli stesso dell’impresa, tutto dava ad intendere che
l’Egitto, la prima delle potenze orientali, non aveva voglia di
cacciarsi in un conflitto di preminenza con Roma in quelle acque
dove pur ne aveva diritto, e che la republica del Lazio, ora sovrana
dell’Occidente, era venuta ad intorbidare.

Era altresì palese come la corte Alessandrina tendeva ad escludere da
quella spedizione così pericolosi alleati[126]. E il senato replicò
con la sorridente prepotenza, che ispirano tutti gli atti di umiltà.
Dichiarandosi pronto ad aiutare gli Ateniesi, esso ringraziava il re
d’Egitto del gentile pensiero, aggiungendo che il popolo romano sapeva
bene di poter contare su di lui come su fedele alleato. Così, dietro
il velo di una galanteria, la corte alessandrina subiva tacitamente
il divieto di ingerirsi negli affari d’Oriente. Era quella la
prima umiliazione, ma di essa, fra breve, se ne sarebbero scorte le
conseguenze.


V.

Possessi egizi in Asia e in Asia Minore. Conquista macedone dei
medesimi.

La nuova ambasceria egizia avea preceduto il ritorno dell’altra romana,
più volte accennata[127], e di cui faceva parte M. Emilio Lepido,
da Giustino presunto tutore del re d’Egitto. Mentre questa, intanto,
lasciata la corte del Tolomeo, soggiornava a Rodi, apprendeva la non
lieta novella che Filippo avea posto l’assedio ad Abido (200).

Tale fatto era l’episodio principale di una serie di operazioni
militari, che il re di Macedonia aveva iniziato e s’apparecchiava a
continuare sui territori egiziani dell’Europa, dell’Africa e dell’Asia
Minore, mentre Antioco di Siria si sarebbe occupato di quelli asiatici
propriamente detti per venire, con un’abile mossa, ad attaccare
l’Egitto da due parti.

L’impero dei Lagidi era allora pressochè tale quale l’aveva reso
Tolomeo Evergete Iº, al colmo cioè della sua materiale grandezza.

In Europa comprendeva la costa sud della Tracia, dal fiume Nesto al
Chersoneso[128], l’Ellesponto[129], probabilmente Lesbo[130], Samo, ove
stavano ancorati presidii navali egiziani[131], le Cicladi, Cipro[132]
e parecchie città cretesi, su cui aveva diritto al protettorato[133].

Nell’Asia Minore i Lagidi possedevano della Ionia continentale, Mileto,
Priene ed Efeso, ove tenevano acquartierate delle guarnigioni[134],
città costiere e città interne della Caria[135], quasi tutta la
Licia[136], parte forse della Pamfilia e della Cilicia[137]. In Africa,
la Libia[138], Cirene e le città adiacenti[139]; nell’Asia propriamente
detta, tutta la Celesiria e la Fenicia sino all’Eleutero[140], la
Siria sud[141] e, tra l’altro, in Palestina[142], Samaria[143] e
Galilea[144].

Nè erano state delle voglie ideali di supremazia politica a sospingere
l’Egitto in quelle regioni. Frequentissimo, come abbiamo veduto[145],
era il suo commercio con le città greche e le isole dell’Egeo; nè
altrimenti poteva dirsi dei rapporti del medesimo col litorale del Mar
Nero e dell’Asia Minore[146], dove la corte Alessandrina si trovava
a fronte di partiti e pretensioni macedoni, accese da uno stato, che,
incapace dei sogni grandiosi di Alessandro Magno, schiacciava sotto la
sua greve clientela la Grecia insulare e peninsulare.

Così, mentre la Celesiria e la Fenicia offrivano colle selve del Libano
il materiale necessario alla costruzione delle flotte, e, insieme
coi porti sicuri, una schiatta vigorosa e sperimentata di marinai,
la Giudea e la Siria erano per l’Egitto florido mercato di vini, di
frumento, di pesca, di tessuti e d’altre suppellettili[147]. Là sul
golfo Persico giacevano inoltre le grandi strade commerciali fra
l’Egitto, l’Asia, e l’Europa[148]; là Tolomeo Filadelfo aveva edificato
una pleiade di stazioni e di città, mentre Epifane avea coperto di
ponti i fiumi irrigatori della contrada[149].

Necessaria quindi, come una funzione vitale, era stata ed era, nei
luoghi surriferiti, la presenza di guarnigioni e di possessi egiziani,
e, più che proficuo, qualsiasi tentativo di ricacciare la Macedonia
e la Siria nei loro limiti naturali, anzi nei più ristretti confini
possibili. Questo sogno perenne della politica dei Lagidi li spingeva
sin d’adesso a careggiare l’alleanza di quella Roma, che, valicate
le estreme prode d’Italia, minacciava, superba, gl’immacolati lidi
orientali; nè ad alcuno era dato prevedere come fosse appunto a
lei riserbato il condannare tante speranze alla più dolorosa delle
infecondie.

Su codeste possessioni egizie d’Europa e d’Asia si gettavano i due
monarchi dell’Oriente.

Filippo, sin dal 204, avea percorso la Tracia fino all’Ebro[150].
Poscia era tornato ad ampliarvi i recenti possessi, favorito
dall’acquiescenza, che il pericolo imminente del re di Siria e le
interne condizioni imponevano all’Egitto[151]. Era infatti piombato
sulle Cicladi, di cui Paro e Cidno erano cadute in suo potere[152];
avea sull’Ellesponto, messo le mani addosso a Lisimachia[153], Sesto,
Perinto, per terminare con Calchedonte, all’opposta riva asiatica[154].

Al 201 s’era impossessato di Samo[155], mentre Mileto si affrettava
ad onorarlo e ad assicurarsi della di lui benevolenza[156]. Indi
era disceso in Caria, ove Prinasso[157], Iasso, Bargilia, Euromo e
Stratonichea[158] erano cadute in suo potere. Tornata la stagione
propizia, si era gettato di nuovo sulla Tracia e, occupate Maronea,
Eno, Cipsela, Dorisco, Serreo, e nel Chersoneso, Eleunte, Alopoconneso,
Gallipoli, Madito,[159] avea finalmente sulla riva opposta stretto
d’assedio Abido[160].


VI.

_Ultimatum_ di Roma a Filippo di Macedonia. I primi due anni della
seconda guerra macedonica. Trattative di pace. Ripresa della guerra.
Pace definitiva (196). Trascuranza degli interessi egizi da parte di
Roma.

A tale notizia, gli ambasciatori, di comune accordo, stabilirono,
che il più giovane di loro, M. Emilio Lepido, si recasse al campo di
Filippo per fare a costui le medesime ingiunzioni che a Nicanore. Ad
Abido, Lepido si abboccò con Filippo e gli significò come il senato
avesse decretato, vietando al re qualsiasi azione, sia contro i Greci,
sia, (e questa fu una nuova postilla), contro Tolomeo, imponendo
anzi, che, per quanto avea operato contro Attalo e i rodiani, si
sottomettesse al giudizio di un tribunale arbitrale. Nel caso di
inosservanza di un simile _ultimatum_, il popolo romano, in luogo della
pace offerta[161], gli avrebbe dichiarato guerra[162] (200).

Ma le risposte di Filippo furono semplicemente ambigue, ed il senato,
che nulla attendeva di meglio, iniziò a sua volta l’offensiva.

Le vicende della guerra sono note[163]. Il primo e il secondo anno
(200-199) passarono senza gravi ed importanti fatti d’armi, sicchè,
quando il console P. Villio, che sin’ora aveva diretto le operazioni
militari, dovette cedere il posto al proprio successore, T. Quinzio
Flaminio, il nemico era più che mai cresciuto di baldanza e d’audacia.

Flaminio pensò subito ad abboccarsi col re, e l’abboccamento ebbe luogo
nell’Illiria presso il fiume Aoo, lungo il quale stavano accampati i
due eserciti romano e macedone.

Per un avversario, il quale non avea ancora subito perdite
significanti, le pretese dei Romani furono inaccettabili, e può
dirsi che sia stato il filoellenismo del console la causa diretta
della prosecuzione delle ostilità. Egli infatti chiese, senz’altro,
lo sgombero di tutte le città della Grecia peninsulare, da Filippo
ereditate o conquistate[164].

Tra queste ultime non rientravano i numerosi possedimenti egizi
d’Europa. Ai torti di Filippo verso l’Egitto i Romani venivano così
ad aggiungerne dei nuovi. Non solo i Tolomei non ricuperavano i loro
possessi, ma questi passavano legalmente e definitivamente nelle mani
del re della Macedonia.

Le condizioni proposte da Flaminio furono, com’era naturale,
rifiutate, ma la campagna ch’ebbe a seguirne riescì per Filippo più che
disastrosa. Tradito dagli Epiroti, dovette ritirarsi sino ai confini
del suo regno, mentre la Grecia tutta passava in potere dei Romani.
Così, nell’inverno del 197-198, il re della Macedonia era costretto a
riproporre delle trattative di pace.

L’abboccamento col generale romano ebbe luogo in Nicea presso il _sinus
Maliacum_. Questa volta Flaminio si rammentò dei diritti dell’Egitto,
e, dopo aver messo come condizione _sine qua non_ lo sgombero di tutta
la Grecia, impose la restituzione all’Egitto di tutte le terre usurpate
sin dalla morte di Tolomeo IVº. Dopo Flaminio ebbero la parola gli
alleati di Roma. Tra questi, gli Etoli tornarono ad insistere sullo
sgombero della Grecia, come Rodi su quello dell’Asia Minore, specie
delle città carie, Iasso, Bargilia ed Euromo. Furono queste appunto
le clausole, cui Filippo credette di non addivenire[165]; e, giacchè
nè Flaminio, nè gli alleati potevano rimanere soddisfatti delle sue
estreme concessioni, il diritto dell’ultima parola fu rimesso al
senato.

Ma anche questo scordò di bel nuovo gli interessi dell’Egitto, tornando
unicamente ad insistere sullo sgombero della Grecia peninsulare, mentre
la dichiarazione degli ambasciatori, spediti all’uopo da Filippo, di
non rivestire dritto alcuno a decidere su ciò, segnava la fine della
conferenza e la nuova ripresa delle ostilità[166]. (196).]

La pace definitiva seguì a circa un anno di distanza, e, nella
primavera del 196, dodici ambasciatori romani giungevano in Grecia a
curarne l’esecuzione. Tutte le città greche di Asia e d’Europa erano
dichiarate libere ed autonome, e da esse il governo macedone dovea
affrettarsi a ritirare le sue guarnigioni prima dei giuochi istmici.
Tali condizioni erano ripetute in particolare per Pedasa, Bargilia,
Iasso in Caria, Abido in Asia Minore, Perinto in Tracia, Taso e Mirina
su Lemno[167].

Degl’interessi dell’Egitto non una sola parola. Il senato romano, che
avea dichiarato di sostituirsi alla corte di Alessandria nel sostenere
i dritti della medesima contro Filippo, risolse la controversia nella
maniera la più disonesta. Lo stato, che avea soccorso Roma nei gravi
frangenti della guerra annibalica, perdeva tutte le isole dell’Egeo,
le Cicladi, Lesbo, Cipro, il protettorato su Creta, la Ionia, salvo
Efeso[168]; in Tracia tutte le città greche, come Maronea, Dorisco
e Perinto, mentre Eno e Cipselo rimanevano a Filippo; nel Chersoneso
tracico, Eleunte, Alopoconneso, Sesto, Madito e Gallipoli; in Caria
Pedaso, Bargilia ed Iasso[169], che venivano rese autonome insieme
con Stratonichea, che rimaneva a Filippo: in una parola, tutti i
possedimenti d’Europa e due terzi di quelli dell’Asia Minore. E tutto
ciò per opera di Roma, la quale, tutt’altro che tutelare gli interessi
dell’Egitto, dimostrava così di lederli deliberatamente. Qualche altro
mese ancora, e degli ambasciatori romani, abboccantisi col re di Siria,
l’antico complice di Filippo, il quale avea invaso alcuni di codesti
ex possedimenti egizi, ora restituiti a libertà, dichiareranno di non
permettere l’invasione di ciò che oramai il loro popolo possedeva per
diritto di conquista[170].


VII.

Contemporanee devastazioni di Antioco di Siria sui territori egiziani
nell’Asia e nell’Asia Minore.

Mentre Roma era occupata con Filippo, l’Egitto veniva ridotto a mal
partito dalle armi di Antioco IIIº di Siria. Secondo i patti stabiliti
col re di Macedonia nell’alleanza del 201 egli avrebbe dovuto aiutarlo
nell’ideata conquista dell’Egitto.

Così infatti era avvenuto.

Al 201 Antioco aveva invaso ed occupato, quasi senza resistenza, la
Celesiria[171], la quale era caduta definitivamente in suo potere
dopo la disfatta del Panius subita dal generale egizio Scopa[172],
mentre contemporaneamente egli invadeva i possessi egizi della
Siria, della Fenicia e della Palestina[173] (199). Tolomeo Epifane,
temendo di peggio, chiese subito la pace, ed il suo avversario gliela
concesse a patti onorevoli, fidanzando, tra l’altro, al medesimo la
figlia Cleopatra, cui prometteva in dote tutte le recenti conquiste
(198)[174].

Se non che, nella primavera del 197, il re siro, dopo un inverno
passato in Antiochia, avea marciato verso l’Asia Minore. Quali fossero
i suoi progetti è ben difficile affermare. Probabilmente però egli,
che già avea riconquistato i territori dei suoi antenati nell’Asia
propriamente detta, mirava a rioccupare quelli che i medesimi avevano
già dominato nell’Asia Minore fino a che l’Egitto l’avea consentito.

Conquistò innanzi tutto le città della Cilicia: Afrodisia, Soli,
Zefirio, Mallo, Selinunte, Coracesio, Corico etc.[175]. Indi, varcata
la Pamfilia, era penetrato in Licia, conquistando Andriace, Limira,
Patara, Xanto[176]. Allora il re della Macedonia era stato battuto
a Cinocefale, e l’occasione era più che mai propizia per muovere
su quegli antichi territori egiziani, o caduti in mano di Filippo o
destinati ad essere dichiarati autonomi.

Dalla Licia egli s’era quindi avviato verso la Caria. Stratonichea,
occupata dai Macedoni, la donò ai Rodiani, coi quali adesso, per
non avere impacci, si trovava in tacita concordia, mentre questi
riscattavano i possessi egizi di Cauno, Mindo e Alicarnasso[177]. Iasso
aveva riconosciuto il suo alto patronato[178]; indi, penetrato nella
Ionia, si era installato in Efeso, il più importante degli antichi
possessi egiziani[179]. Di là avea marciato verso l’Ellesponto: Abido
gli aveva aperto le porte[180], Madito era caduta l’anno appresso,
(196), dopo breve e debole resistenza. Indi, occupata Sesto e le
rimanenti città del Chersoneso, egli le aveva fortificate insieme con
Lisimachia, da recente devastata dai Traci[181].

In quel frattempo (197), giungeva a Roma una nuova ambasceria
egiziana allo scopo di rammaricarsi presso il senato della condotta del
re di Siria nell’Asia Minore[182].


VIII.

Nuova umiliante ambasceria egiziana a Roma.

Pare che le recenti lezioni, che alla corte di Alessandria erano
derivate dalla pace di Roma con Filippo, non fossero state sufficienti
ad illuminarla sul valore e la natura dell’alleanza coi Romani. Se non
che l’atteggiamento della corte medesima non mancava di astuzia.

In vista di una prevedibile conflagrazione romano-siriaca, l’Egitto,
pel caso più che probabile di una prevalenza romana, tornava a mettere
gli occhi addosso alla bramata porzione di bottino. A tale intento,
nella completa assenza di migliori speranze, la sorte toccata dopo
la guerra macedone non dovea riescire di scoraggiamento. Poichè il
prossimo congiunto del re di Egitto aveva alla prova esibito un così
ostile contegno, era pur sempre preferibile piegare verso chi s’era
mostrato semplicemente noncurante; ma nuovi eventi sospingevano per la
via, che interessava alla corte alessandrina.


IX.

I Romani ed Antioco.

Ma, se così attentamente l’Egitto vegliava sugli affari d’Oriente, Roma
non si palesava da meno.

Dopochè, in seguito alla pace con la Macedonia, i giuochi istmici del
196 videro bandita l’autonomia della Grecia, il proconsole Flaminio e i
dieci ambasciatori, incaricati di riordinarla, si decisero ad occuparsi
seriamente del nuovo avversario, Antioco IIIº di Siria. Infatti,
proprio in quel momento, T. Quinzio Flaminio e i decemviri ricevevano
due ambasciatori siri, Egesianace e Lisia, e proponevano ai medesimi
l’_ultimatum_ da riferire al loro re[183].

Questi doveva obbligarsi: 1) a non molestare le città testè rese
autonome dell’Asia Minore; 2) a sgomberare dalle altre possessioni di
Tolomeo o di Filippo già occupate; 3) a smettere dalle sue operazioni
in Tracia e nel Chersoneso, che, per giunta, pareva accennassero ad un
piano di invasione in Europa[184].

Quest’ultima clausola dell’_ultimatum_ era la sola che stesse a cuore
dei Romani, e, poichè le intenzioni di Antioco potevano facilmente
essere dissimulate, così il senato mostrava di apporgli come colpa,
e motivo di prossima e sicura guerra, ciò che quegli era stato in
suo dritto di fare: le conquiste sulla Macedonia e su l’Egitto. Il
primo capo e, in parte, il secondo dell’ingiunzione di Flaminio e dei
decemviri ci stavano quindi in grazia dell’ultimo.

Egesianace e Lisia, udito l’_ultimatum_ trasmesso loro dal senato, si
congedarono, dirigendosi alla volta di Antioco. Ma, prima che avessero
potuto incontrarlo, il senato aveva spedito un nuovo ambasciatore,
L. Cornelio, perchè si occupasse _ex professo_ della vertenza e si
abboccasse direttamente col re[185] (196).

A Lisimachia si riunirono Antioco, i suoi due ambasciatori, L. Cornelio
e tre dei decemviri, P. Lentulo, L. Terenzio e P. Villio, insieme
con due ambasciatori di Lampsaco e uno di Smirne[186], due città ora
autonome dell’Asia Minore, al cui assoggettamento pareva tendessero
nuovi preparativi di Antioco. Dopo un privato abboccamento, si venne ad
una pubblica adunanza. L. Cornelio, capo dell’ambasceria romana, tornò
a sostenere con grande calore quanto già avea sostenuto Flaminio, che
cioè il re: 1) lasciasse indisturbate le città asiatiche autonome; 2)
cedesse a Tolomeo i territori conquistati; 3) sgomberasse da quelli
usurpati a Filippo; 4) desistesse dai suoi preparativi di passaggio in
Europa[187].

Antioco rispose dignitosamente: non aver egli leso gl’interessi delle
città asiatiche autonome, nè quelli di Tolomeo o di Filippo e tanto
meno aver pensato a muovere contro Roma. Il suo tragitto in Europa
doversi al suo diritto inoppugnabile di riconquistare le città della
Tracia, che erano state a lor volta usurpate dagli scorsi re d’Egitto
ai propri antenati, che ne erano i naturali possessori, e, quindi, da
Filippo ai Tolomei. Quanto a quest’ultimi, egli, già imparentato con
Epifane, lo sarebbe tra breve stato ancora di più[188]. Meravigliarsi
infine come Roma ardisse ingerirsi negli affari dell’Asia, cosa che
egli non aveva mai osato per quelli d’Italia[189].

Mancava una esplicita risposta al primo comma dell’_ultimatum_,
ma di ciò il re si era curato a più riprese, trattando con quelle
città (Smirne e Lampsaco), cui i Romani si riferivano nella loro
generica indicazione di città autonome dell’Asia Minore, e il
cui assoggettamento egli aveva francamente dichiarato di non
pretendere[190]. Ma gli ambasciatori avevano bensì avuto lo incarico
di proporre con alterigia, non già di ascoltare risposte fiere e
dignitose, e dalle violenti repliche degli ambasciatori di Lampsaco,
insinuate e sostenute dai Romani, Antioco fu costretto a chiudere
bruscamente la conferenza, che già si era tramutata in uno scambio
indecoroso di minacce[191].

Così ebbero fine le nuove trattative. Probabilmente però l’ardire del
re di Siria e l’arroganza dei Romani erano rinfocolate dall’improvvisa,
tacita notizia della morte di Tolomeo Epifane. Il primo aveva interesse
a non frapporre indugi e ad accorrere in Egitto, ove tutto, sperava,
sarebbe andato conforme ai suoi voleri; e, dei secondi, L. Cornelio,
che pare portasse seco l’incarico di recarsi anche in Egitto[192], avea
fretta di imitarlo prima che innovazione alcuna fosse stata colà per
succedere.

Antioco infatti partì immediatamente alla volta di Alessandria. Ma,
giunto in Licia, ricevette l’infausta notizia che Epifane viveva
ancora, e, abbandonati i suoi piani circa l’Egitto, si rivolse alla
conquista di Cipro, che per ben altre ragioni gli fallì del pari[193].


X.

T. Quinzio Flaminio e gli ambasciatori di Antioco (194-3).

Le trattative per un accomodamento furono riprese al 194-3. Questa
volta il senato romano fu meno accorto nel simulare i taciti
intendimenti della propria politica. T. Quinzio Flaminio, a cui esso
aveva rimandato gli ambasciatori di Siria, pose loro il dilemma: o
Antioco desistesse dall’immischiarsi negli affari d’Europa, ed i Romani
avrebbero rinunziato a immischiarsi in quelli asiatici, o, in caso
contrario, concedesse ai Romani il diritto di conservare e tutelare le
alleanze fatte o da farvi[194].

Com’è palese, Roma non si curava più nè delle usurpazioni di Antioco
sui possessi di Tolomeo, nè dell’intangibilità delle città autonome
dell’Asia Minore, rinunziando così a rivendicare i dritti dell’uno o
delle altre, nel caso in cui Antioco si fosse astenuto dal porre piede
in Europa.

Era quanto di peggio poteva prevedersi.

Ma neanche questa conferenza approdò a risultato alcuno. Tutto fu
rimandato a un nuovo abboccamento, che nuovi ambasciatori romani,
dietro incarico ufficiale, si ripromettevano di ottenere col re stesso
in persona, e gli ambasciatori della Siria furono nuovamente congedati.


XI.

Nuove pratiche.

La novella ambasceria romana era destinata a peripezie maggiori delle
precedenti. Dapprima P. Villio, uno dei suoi componenti, dovette
attendere a lungo ad Efeso, mentre Antioco era diretto a guerreggiare
contro i Pisidi. Essendosi quindi affrettato a raggiungerlo presso
le fonti del Meandro, le trattative furono tosto interrotte sotto
il pretesto che la corte era in lutto a cagione della morte di un
membro della famiglia reale, e Villio si trovò costretto a tornarsene
a Pergamo. Più tardi, quando Antioco fu tornato ad Efeso, Villio
e i suoi compagni si affrettarono a seguirlo. Ma agli ambasciatori
romani, tutt’altro che concedersi un abboccamento col re, fu giocoforza
accontentarsi di una conferenza con Minio, uno dei suoi ministri.

Questi cominciò coll’osservare con fine ironia come i Romani, che in
questa, come nella precedente vertenza con Filippo, l’aveano posato
a cavalieri dell’ellenismo, tenevano, ciò non ostante, soggette e
tributarie Napoli, Reggio, Taranto etc., città non meno greche di
Smirne e di Lampsaco. Continuò quindi col dichiarare che il suo re non
si sentiva da tanto da rinunziare alle città eolie ed ioniche dell’Asia
Minore, compreso Smirne, Lampsaco e Alessandria della Troade, tutti
antichi possedimenti dei suoi antenati. Che però, ove i Romani avessero
voluto stringere alleanza con Antioco, questi era pronto a riconoscere
come autonome Rodi, Bisanzio e Cizico, la concessione più grande che
potevano attendersi dal re[195].

Gli ambasciatori romani risposero al solito altezzosamente, ma senza
pervenire a nascondere la fragilità delle proprie ragioni. Le città
greche, possedute da Roma, non le avevano mai negato codesto diritto,
nè l’esercizio del medesimo aveva subito interruzioni sia pure in
grazia di interventi stranieri. Non così le città asiatiche, di cui
alcune, dopo la conquista dei re di Siria, erano passate a Filippo o a
Tolomeo, altre aveano goduto di una libertà incondizionata. Del resto
la causa della loro libertà non poteva essere difesa da altri meglio
che dagli ambasciatori delle medesime, per cui si richiese venissero
introdotti. Ma, come quattro anni prima a Lisimachia, tale atto decise
della fine della conferenza (192).

Essa non avea contenuto una sola parola dei dritti della corte
alessandrina, non una sola imposizione che a questa venissero
restituiti i territori recentemente usurpati.


XII.

Ragioni della trascuranza degli interessi egizi da parte dei Romani
durante codeste trattative.

Ma Roma non ebbe forse torto.

Al 193 Antioco avea cominciato ad ottemperare alle clausole del
trattato egizio-siriaco di circa sei anni prima. Allora infatti si
era celebrato il matrimonio di Tolomeo Epifane con Cleopatra, ed erano
state assegnate alla medesima, a titolo di dote, le province asiatiche
conquistate dal padre negli anni 201-199[196].

Tirare ancora in ballo l’Egitto equivaleva a scoprire puerilmente
la propria doppiezza, e il senato non poteva prestarcisi. Comunque
però si fosse, ogni tentativo di pace era andato a vuoto e s’imponeva
il cominciamento delle ostilità. Ma se fin’ora noi abbiamo accusato
i Romani di doppiezza e d’ipocrisia, più severo giudizio dobbiamo
pronunziare contro la corte d’Alessandria, che, nel suo sottile istinto
di previdenza, quando le ostilità furono aperte, tornò a preferire al
congiunto il vecchio e ripetutamente infedele alleato.


XIII.

Nuova ambasceria egiziana (191).

Nell’anno 191 giungevano infatti in Italia nuovi ambasciatori egiziani,
recanti al senato oro ed argento e dichiaranti il loro re pronto a far
muovere tutto l’esercito verso l’Etolia per congiungerlo alle truppe
romane.

L’atto era vile e disonesto, ma, come sempre, tutt’altro che ingenuo.
Giacchè era stato inscongiurabile che i Romani penetrassero nelle acque
e nelle terre orientali, occorreva all’Egitto non rinunziare facilmente
al prossimo bottino. Ma il senato rese la pariglia a tanta fine
abilità diplomatica. Come già nella scorsa guerra macedone, esso tornò
placidamente a ringraziare ed a rifiutare[197].


XIV.

Guerra romano-siriaca. Ultima ambasceria egiziana.

La sorte delle armi riescì sfavorevole ad Antioco, e la battaglia delle
Termopili (191) inaugurò la serie delle sue disfatte.

Poco dopo, nuovi ambasciatori tornavano a Roma dalla corte di
Alessandria. Questa volta, a nome del re e della regina, la figliuola
stessa di Antioco, essi si congratulavano della vittoria delle
armi romane, aggiungendo la preghiera e la raccomandazione, che si
pensasse subito a tragittare in Asia un esercito. Tutto lo stato di
Antioco si trovava, a sentir loro, invaso da terrore, e i re d’Egitto
si profferivano pronti a tutto ciò che il senato avesse potuto
richiedere[198] (190).

La vecchia astuzia della corte alessandrina riappariva questa
volta parecchio sciupata in seguito alla sorte delle due precedenti
ambascerie, di cui l’odierna non era che un triplicato. La risposta
di Roma non aveva quindi a subire variazione alcuna, e, per la terza
volta, esso tornò a ringraziare, a rifiutare e a donare sontuosamente
gli ambasciatori egiziani.


XV.

Nuove trattative di pace (190).

Alla disfatta terrestre delle Termopili seguiva, a un anno di distanza,
la non meno decisiva disfatta marittima di Mionneso (190), e Antioco,
smarrito, tornava a proporre nuove condizioni di pace.

Il suo ambasciatore fu ricevuto in una numerosissima assemblea
senatoria. Riferì da parte del re che oramai questi aveva abbandonato
tutte le città occupate in Europa, che era inoltre pronto a cedere
quelle di Eolia e Ionia, che ancora accoglievano i suoi presidii,
più le altre, che i Romani avessero voluto premiare per la loro
fedeltà[199].

Ma al senato questa volta non soddisfaceva più il dilemma di tre
anni innanzi. Tutt’altro che cedere ad Antioco pieni poteri sugli
affari d’Asia, qualora questi avesse desistito dall’immischiarsi
in quelli d’Europa, essi tornarono a pretendere che tutte le città
greche dell’Asia Minore fossero riconosciute autonome, il che poteva
aver luogo, solo nel caso che Antioco si fosse rassegnato a ritirarsi
dall’Asia Minore[200].

Le trattative di pace tornarono quindi ad abortire per essere
ripigliate dopo la prossima totale disfatta siriaca di Magnesia (189)
che decise stabilmente delle sorti dell’Asia Minore.


XVI.

Pace definitiva (189). Fine dei possedimenti egiziani asiatici.

Antioco si ritirava al di là del Tauro e del fiume Halis[201],
sgomberando quasi tutta l’Asia Minore[202], mentre le regioni della
medesima, nelle quali i Tolomei avevano vantato dei possedimenti,
venivano così distribuite: la Cilicia al di là del Tauro rimaneva
ad Antioco, le città Ionie, salvo quelle, come Mileto, già autonome
prima della battaglia di Magnesia, passavano ad Eumene re di Pergamo,
al quale veniva altresì a toccare la Caria a nord-est del Meandro e
la licia Telmesso con le sue dipendenze. La Caria a sud del Meandro
fino ai confini della Pisidia con le rimanenti città licie passava ai
Rodiani. Il territorio di Tolomeo Telmesso, un congiunto della casa
regnante in Egitto, fu lasciato al suo possessore[203]. La Pamfilia,
di cui s’era taciuto nel _senatusconsultum_, che avea fissato i
particolari della pace, più tardi, nel riordinamento dell’Asia Minore,
toccò, sebbene a torto, ad Eumene[204]. Così avvenne del Chersoneso
tracico, di Lisimachia, delle recenti conquiste di Antioco in quella
regione, e di Efeso in Ionia, mentre Milasa in Caria veniva dichiarata
autonoma[205].

Tolomeo Epifane rimaneva così a denti asciutti, senza avere un solo
istante goduto delle preoccupazioni del governo romano, ripagato della
stessa moneta, di cui forse era degna la sua condotta verso il re di
Siria. E nel breve giro di sette anni quei suoi amici d’oltre mare,
per cui egli non aveva risparmiato umiliazioni, gli avevano dato agio
di registrare sul passivo della propria politica estera la perdita
definitiva di tutti i possedimenti d’Europa e dell’Asia Minore.


XVII.

Ragioni del contegno egoistico di Roma.

Quali poterono essere le ragioni, che in quel tempo fecero i Romani,
tanto prodighi verso i minuscoli loro alleati della guerra siriaca,
quanto indelicati e non curanti verso l’Egitto?

Il giorno, in cui Roma si era immischiata negli affari d’Oriente, avea
dovuto persuadersi come per consolidarvi intera la propria signoria
non doveva che comportarsi così come aveva fatto per l’Occidente,
disfacendosi di tutti quegli stati, che sin d’allora avevano avuto
influenza decisiva nelle contese diplomatiche di quelle regioni.
Così aveva fatto dapprima con Filippo, e poi con Antioco. E, quando
l’umiliazione della Siria fu un fatto compiuto, il senato dovè
constatare come oramai non rimaneva che dare il benservito all’impero
dei Lagidi.

A tal uopo non erano occorsi pretesti plausibili, nè, data l’astuta
politica dei Tolomei, era previdibile che ne occorressero.
Poichè quindi non si poteva adoperare la forza, faceva d’uopo
l’assottigliamento tacito e inconsapevole della potenza avversaria. La
fortuna vi aveva provveduto con le due recenti guerre di Macedonia e
di Siria, ed il senato romano si era ripromesso di non avere nulla a
rimproverarsi.




CAPITOLO III.

ROMA E L’EGITTO DURANTE LA Vª GUERRA SIRO-EGIZIANA (180-68).


I.

Tutela romana su Tolomeo Filometore?

La morte di Tolomeo Epifane (180)[206] lasciava la corona d’Egitto in
balia della moglie Cleopatra, la figliuola di Antioco di Siria, che,
in quell’anno medesimo faceva succedere al trono l’erede immediato,
il giovane Tolomeo Filometore, il più adulto tra i figliuoli
sopravvissuti. Questi, ancor minorenne, fu posto, sotto la reggenza
della madre, e, alla morte della medesima, sotto quella dell’eunuco
Euleo e del siro Leneo[207], argomento bastevole ad escludere la
possibilità di una reggenza romana, alla quale ipotesi sono ricorsi
coloro, che, non potendo riferire a Tolomeo Vº la notizia di Valerio
Massimo e di Giustino, da noi precedentemente citata[208], hanno
creduto di trovarvi indicato Tolomeo VIº.

Così opina infatti il Pighius[209] basandosi sulla circostanza
che tanto Valerio Massimo (VI, 6), quanto la moneta romana, che a
tale tutela si riferisce, ci presentano M. Emilio Lepido rivestito
della dignità di pontefice massimo, ch’egli ottenne solo al 180 a.
C.[210]. Se non che la sua opinione urta contro gravi difficoltà: 1)
tutori, infatti di Tolomeo VIº ci sono dalle fonti esibiti unicamente
Cleopatra, Euleo e Leneo: 2) Lepido, _P. M._, non poteva trovarsi
in Egitto poichè Livio riporta al 131 a. C. il caso del primo
allontanamento di un _P. M._ da Roma[211]; 3) Giustino spiega la
ragione della tutela con il pericolo imminente di un’invasione macedone
e siriaca, ma le possibilità ne erano ormai lontane nel 180 a. C.[212].

Scartata quindi nuovamente l’ipotesi di una tutela romana sui figli di
Tolomeo Epifane, è da lasciare, ancora per parecchi anni, a ciascuno
dei due stati, romano ed egizio, la piena responsabilità delle proprie
azioni.


II.

Ambasceria romana in Oriente e preludii della III. guerra macedonica
(173).

L’anno stesso dell’assunzione al trono di Tolomeo VIº partiva per
la Grecia un’ambasceria di cinque membri, allo scopo di spiare le
intenzioni di Perseo, il nuovo re di Macedonia[213], col quale si
prevedeva inevitabile un prossimo periodo di ostilità. In vista di
tali complicazioni, l’ambasceria aveva altresì l’incarico di rinnovare
l’alleanza con la corte alessandrina.

Il nuovo Tolomeo pare non abbia in nulla derogato dall’indirizzo dei
suoi predecessori e gli antichi patti con Roma abbiano ottenuto una
novella sanzione. E di ciò, benchè ogni testimonianza esplicita ci
sfugga, noi possediamo una prova sicura, sebbene indiretta, nella
richiesta dell’aiuto romano in una prossima rinnovata vertenza
egizio-siriaca.


III.

Preludi di una nuova guerra egizio-siriaca. Ambasciatori siri ed egizi
a Roma.

Il grande dramma, che, con la seconda guerra macedonica e la prima
siriaca, si era svolto negli ultimi anni del passato e nei primi del
corrente secolo, e del quale avevano fatto parte e Roma e l’Egitto,
si apparecchiava ad una rinnovazione. Fra il successo re di Siria,
Antioco Epifane, e l’Egitto tornava a risorgere l’antica contesa
della supremazia in Oriente, che adesso presentava, come occasione
immediata, il possesso di quelle province[214], che Antioco IIIº, aveva
assegnato come dote alla figlia Cleopatra. Pare che, non ostante tale
cessione, il possesso delle medesime sia rimasto alla Siria, e l’erario
alessandrino non abbia acquisito altro diritto se non quello di goderne
le rendite fino alla morte di Cleopatra[215].

Era quindi naturale che l’Egitto aspirasse alla riconquista dei
territori perduti, come il giovane re di Siria, approfittando delle
recriminazioni che gli si movevano, pensasse a realizzare l’antico
sogno dei Seleucidi, l’assoggettamento dell’Egitto.

Non è chiaro da quale dei due contendenti siano partite le
ostilità[216]. Certo si è che, appena le due corti previdero
l’inevitabile rottura, inviarono a Roma ambasciatori per giustificarsi.


IV.

Svogliato intervento del senato.

Roma si trovava allora agli esordi della guerra con Perseo, il
successore del vinto Filippo di Macedonia; era quindi previdibile
l’ascolto, che si sarebbe dato agli ambasciatori di quell’Egitto, che
nulla di buono aveva potuto ottenere nei giorni lieti per Roma.

I tre ambasciatori siri e i due egiziani[217] pervennero al senato
nel 171. Scopo dei primi era, sia di protestare contro i desiderati
dell’Egitto, (e ciò per trovarsi giustificati nell’eventualità di un
conflitto), sia di accaparrarsene il favore, promettendo aiuti nella
guerra contro Perseo. Scopo dei secondi era: 1) riaffermare la solita
alleanza con Roma; 2) prometterle, con intento uguale ai precedenti,
intercessione ed aiuti nella recente controversia con la Macedonia; 3),
(e questo era il punto più importante), spiare il colloquio del senato
con gli ambasciatori siri per cavarne il profitto che se ne fosse
potuto.

L’assemblea senatoria ricevè cortesemente le due ambascerie, decisa ad
usarne nel proprio tornaconto. A quella egiziana permise di trattare
soltanto il primo punto della propria incombenza. L’alleanza fu
infatti, come sempre, rinnovata, ma, al tempo stesso, gli ambasciatori
vennero con strana rapidità congedati. Si passò quindi a dare ascolto
all’ambasceria siriaca. Ma, in luogo degli aiuti sperati, non fu
offerta se non la pura e semplice assicurazione che il senato avrebbe
incaricato dell’affare Q. Marcio Filippo, suo ambasciatore in Macedonia
e nel Peloponneso[218], mettendolo in comunicazione colla corte
alessandrina.

Intanto però che questi fosse avvertito e potesse con cognizione
di causa occuparsi dell’affare, veniva da Roma, per salvare ogni
apparenza, spedito ad Alessandria ambasciatore Tito Numisio allo scopo
di conciliare le due corti in questione[219]. Sembra però, (ed è lecito
arguirlo dalla fine della contesa), che egli, interpretando il pensiero
del suo governo, preoccupato in quegli anni da altri eventi d’ordine
affatto opposto, non abbia spiegato un eccessivo interessamento. Egli
avrà, senza grande risolutezza, cercato di rimuovere Antioco dalla
determinazione di trattenere le due province asiatiche, o tentato di
rassegnare l’Egitto alla perdita delle medesime, proposta impossibile a
chi avea pur il diritto di aspettarsi qualcosa di meglio da un’antica
alleanza fedelmente osservata, e a cui argomento decisivo restava
ancora la sorte delle armi. Così la missione di Numisio fallì, ed egli
tornò a Roma senza che il senato si curasse più che tanto degli affari
d’Egitto (171).


V.

L’Egitto conquistato da Antioco Epifane di Siria (171-0). Disperata
ambasceria al senato romano (170).

Poco dopo scoppiava la guerra fra le due potenze orientali. Negli
stessi anni 171-0 Filometore, battuto a Pelusio, cadeva prigioniero
nelle mani di Antioco, mentre tutte le principali città egizie
passavano l’una dopo l’altra nelle mani del vincitore. Sola,
Alessandria chiudeva le porte in faccia al nemico, ed acclamava re il
fratello di Filometore, Tolomeo Evergete IIº[220], mentre Antioco,
dichiarando adesso di combattere l’usurpatore, si apparecchiava ad
assediarla sino all’estremo.

La disperata condizione dei due re era tale da consentire qualsiasi
umiliazione, e la più dolorosa non poteva non essere l’invio di nuovi
ambasciatori al senato romano. In abito di lutto[221], con la barba
negletta, i capelli scomposti ed un ramo di ulivo in mano, essi si
presentarono all’udienza senatoria, ove appena entrati, si affrettarono
a prosternarsi dinnanzi alla maestà dei rappresentanti della capitale
d’Italia. Narrarono come Antioco, sotto pretesto di rimettere sul trono
il maggiore dei due fratelli, moveva guerra al più giovane, allora
chiuso in Alessandria, pregarono non si tardasse a soccorrerlo, al
qual’uopo bastava rammentare ad Antioco i benefizi ricevuti. Se si
tardasse, il re, fra breve, sarebbe venuto esule a Roma a costituire,
colla sua nuova condizione, una perenne accusa di alleanza tradita da
parte del popolo romano.

A tale preghiera, narra Livio, il senato commosso si dichiarò pronto
ad inviare un’ambasceria con a capo C. Popilio Lenate, perchè si
recasse, prima da Antioco e poi da Tolomeo, allo scopo di significar
loro che Roma non avrebbe tardato a radiarli dal novero dei propri
amici, qualora l’uno o l’altro avesse esitato a deporre le armi (168).
Conforme a tale solenne decisione, la votata ambasceria partiva tre
giorni dopo insieme coi legati alessandrini[222].


VI.

Viaggio dell’ambasceria romana ad Antioco (168). Fine della IIIª guerra
macedonica.

Sembra però che la commozione non sia stata troppo grande nè nell’animo
dei senatori, nè in quello degli emissari. Tutt’altro che veleggiare
rapidamente alla volta dell’Egitto, Popilio ed i suoi compagni
si fermarono a Delo ad attendervi l’esito della pendente guerra
macedonica; e, poichè Antenore, l’ammiraglio di Perseo, avea bloccato
in parte le Cicladi per impedire all’esercito romano ogni comunicazione
d’armi e di vettovaglie, Popilio, cangiate le vesti di ambasciatore in
quelle di ufficiale, vi s’indugiò a lungo a proteggere, con le galee
del re Eumene di Pergamo, tutti i legni minacciati da Antenore. Sì che
quando giunse la notizia che Perseo era già stato disfatto a Pidna,
(fine del 168), egli era ancora a Delo a scortare i vascelli, che
dovevano veleggiare verso la Macedonia. Finalmente risolse di avviarsi.
Ma già a mezza strada, preferì un’altra volta indugiare qualche giorno
a Rodi per esporre a quella cittadinanza i gravi risentimenti del
senato contro l’atteggiamento della medesima, durante la scorsa guerra
macedonica. Fatto ciò, ripartì alla volta d’Egitto[223].


VII.

Precedente ritirata di Antioco dall’Egitto. L’azione conciliatrice di
Roma (168).

In questo lungo intervallo, Antioco, sia per le difficoltà
dell’assedio[224], sia per alcuni torbidi avvenuti nel suo regno, era
stato costretto a tornare in Siria. Nella sua assenza i due fratelli
s’erano diviso fra loro il governo e avevano deciso di sostenere in
comune la guerra contro Antioco, che già tornava più decisamente a
minacciare l’Egitto[225] (168). A tal uopo essi, poichè nulla di buono
era omai da aspettarsi da Roma, mandarono ambasciatori in Grecia a
raccogliere aiuti ed alleanze. Una di codeste ambascerie fu inviata
agli Achei, e, mentre fra questi, riuniti a consiglio, prevaleva
l’opinione di esaudire i due re, pervenne un messaggio con lettere
di Q. Marcio Filippo esortante gli Achei a incaricarsi della pura
conciliazione fra l’Egitto e la Siria[226].

Invece di spedire aiuti, come era dovere di alleati e come l’Egitto
s’era dichiarato pronto a fare durante le tre ultime guerre sostenute
da Roma, o, almeno, ad intervenire direttamente colla forza della
propria autorità, il senato tornava ad accontentarsi della platonica
raccomandazione, trasmessa a dei terzi, di comporre la vertenza
egizio-siriaca. Gli è che Roma era troppo avvezza a non addossarsi
gratuitamente le brighe degli altri. Qualora avesse avuto le mani
libere per trarre da un qualsiasi intervento la conclusione della
conquista della Siria, essa non avrebbe indugiato, come non avea
indugiato nelle due guerre precedenti. Ma, ora che le sue legioni erano
impegnate con gli eserciti della Macedonia, mostrare viso arcigno ad
Antioco, sarebbe equivalso a procacciarsi due avversari ad un tempo.
Era perciò bene che questi fosse tenuto a bada e, solo dopo la ratifica
dei conti con la Macedonia, si sarebbe pensato al pareggio anche per la
Siria[227].


VIII.

Seconda invasione di Antioco in Egitto (168).

Antioco intanto tornava dalla Siria con preparativi ancora più
formidabili di quelli di quattro anni prima, e, fatta imbarcare la
flotta per Cipro, aveva nella primavera del 168 incamminato il suo
esercito attraverso la Celesiria. Ambasciatori egiziani erano corsi
ad incontrarlo a Rinocolura, ed egli aveva proposto loro il suo
_ultimatum_, con cui, tra l’altro, chiedeva la totale cessione di Cipro
insieme con Pelusio e di tutto il territorio sino al Nilo, concedendo
una tregua per la risposta[228]. Spirata senza soluzione alcuna la
tregua, avea ordinato al suo ammiraglio di recarsi a Pelusio, ed egli,
per la via d’Arabia, era tornato a marciare contro l’Egitto. Per volere
o per forza le principali città dell’impero, non esclusa Memfi, erano
tornate ad aprire le porte all’invasore, che, a piccole giornate, si
avviava verso la capitale. Era già a quattro miglia dalla medesima,
quando il monarca della Siria si scontrò con l’inerme ambasceria
romana[229].

Popilio[230] gli porse le tavolette contenenti il decreto del senato,
imponendogli di leggerle e di rispondere immediatamente. Il re lesse,
e chiese di consigliarsi con gli amici. Ma Popilio, con un tralcio
di vite segnato un circolo intorno al re, dichiarò di aspettare
la risposta definitiva prima ancora che quegli si fosse accinto ad
uscirne. Il re, allora, compresa la gravità della situazione, memore
della sorte dell’avo, rispose di obbedire. E così fu fatto. Entro
un dato termine, Antioco sloggiava dall’Egitto, e Popilio, esortati
i due re alla concordia, lasciava Alessandria per recarsi a Cipro,
dove ancora Antioco teneva acquartierate delle milizie. Di là quindi
veleggiava alla volta di Roma[231] (168).


IX.

Fine della guerra (168). Nuove delusioni della corte alessandrina.
Ambasceria di ringraziamento. Ambasceria di Antioco Epifane. L’Egitto e
l’Oriente rispetto a Roma nel 167 a. C.

Della questione della Celesiria, della Fenicia e delle città egiziane
della Siria, non si fece motto. Dal tacito contegno dei Romani l’Egitto
veniva evidentemente costretto a rassegnarsi un’altra volta alla
perdita di nuove province. Dopo quelle dell’Asia Minore e dell’Europa,
esso perdeva questa volta quei territori propriamente asiatici, che un
tempo erano stati sua faticosa conquista. Ma l’Egitto non patì soltanto
l’umiliazione, sibbene eziandio il disonore. Il rodiano Poliarato,
cittadino di una delle province più fedeli dell’impero egiziano, che
nella scorsa guerra macedonica aveva tenuto dalla parte di Perseo e
avea cercato di volgere a favore del medesimo gli animi dei Rodiani,
dovette, dietro ingiunzione di Popilio[232], subire l’estradizione
dal territorio, nel quale si era rifugiato, per essere trasportato
a Roma, ad attendervi la propria condanna. Al tempo stesso, veniva
qui condotto, liberato dalla prigionia[233], un Menalcida spartano,
che dei tristi frangenti, attraversati dai re d’Egitto, aveva cercato
di servirsi a vantaggio della propria ricchezza[234]. Di ciò furono
incaricati gli ambasciatori egiziani con a capo Numenio, spediti a
Roma per ringraziare l’assemblea senatoria del soccorso arrecato alla
loro patria[235]. Qui essi si scontrarono con i legati di Antioco, i
quali, da parte del loro re, venivano a riferire come egli avesse di
buon grado preposto la pace ad ogni vittoria, ragione per cui si era
affrettato ad ottemperare all’ingiunzione dell’ambasceria romana.

Più sinceri senza dubbio furono i calorosi ringraziamenti dei re di
Alessandria, i quali dichiararono di professarsi obbligati al governo
di Roma assai più che agli antenati od agli dei immortali. E quello,
probabilmente con fine ironia, dichiarò a sua volta di ritenere
giustificata tanta gratitudine, che era eziandio ragionevole il loro
popolo serbasse e moltiplicasse per l’avvenire[236].

Così il sogno di un dominio materiale e morale dell’Oriente, cui Roma
da gran tempo aspirava, veniva pienamente realizzato. Dispersa la
Macedonia, schiacciata la Siria, il senato poteva altresì vantarsi di
aver fatto retrocedere fra le potenze di quart’ordine quell’Egitto,
che, decimato di territori, giaceva, di fatto, se non di nome,
ubbidiente al suo alto patronato.




CAPITOLO IV.

ROMA E L’EGITTO DURANTE LA GUERRA CIVILE FRA TOLOMEO FILOMETORE E
TOLOMEO EVERGETE IIº. (168-151).


I.

Discordie fra i due re egizi. Ambasceria romana in Oriente (164).
Tolomeo Evergete a Roma.

La raccomandazione di Popilio nel lasciare i due Tolomei sul trono
di Alessandria non fu certo di buon augurio. Anzi, se la narrazione
di Livio non pecca di imprecisione, l’ultima ambasceria alessandrina
venuta in Roma, a nome di uno solo dei due re[237], deve tradire
discordie latenti nel seno della famiglia reale.

Dei due fratelli l’uno, il minore, Tolomeo Evergete, amministrava
la Libia e la Cirenaica, l’altro l’Egitto propriamente detto insieme
coi rimanenti possessi dei Lagidi[238]. Già al 164 pare che il senato
abbia avuto sentore di discordie in Egitto. Infatti gli ambasciatori,
spediti in Siria a porre sul trono Antioco Eupatore, figlio ed erede
di Antioco Epifane, furono al tempo stesso incaricati di conciliare i
due re di Alessandria[239]. Ma pare che i loro tentativi siano riusciti
vani, giacchè poco dopo giungeva a Roma Tolomeo Evergete in persona
(163-2)[240]. Diodoro narra diffusamente le tristi condizioni del
viaggio del principe. In vesti misere, indegne della sua condizione,
egli vi perveniva senza altra scorta che quella di tre servitori.
Qui giunto, venne a lui incontro Demetrio, figlio di Seleuco IVº,
il quale aspirava al trono di Siria, in luogo di Antioco Eupatore,
figlio di Epifane[241]. Siffatta circostanza basta a definirci la
data del viaggio. Poichè infatti Demetrio successe ad Antioco, salito
al trono nel 164, diciotto mesi dopo, e precisamente alla fine del
162[242], la data della venuta di Evergete non può essere posteriore
alla fine di codesto anno in discorso, ultimo limite del soggiorno
di Demetrio a Roma, anzi deve fissarsene come parecchio anteriore,
dappoichè la venuta di Evergete coincise, come vedremo, con quella di
un ambasciatore di Filometore, che fu complice della fuga del principe
siriaco da Roma[243].


II.

La querela di Evergete in senato. Decisioni senatorie.

Pochi giorni dopo Evergete si presentava direttamente al senato.
Questo si affrettò a chiedergli scusa per non avere inviato, come
era consuetudine, un questore per i dovuti ricevimenti, nè di averlo
ospitato come si conveniva a un principe alleato. E a tali mancanze
esso rimediò, offrendogli tosto una residenza degna della sua
condizione, pregandolo di mutare i miseri abiti che indossava e coi
quali Evergete mirava a toccare l’animo del senato, invitandolo a
domandare tosto un’udienza e colmandolo quotidianamente di doni per
mezzo dei questori[244]. Evergete chiese infatti un’udienza. Colà egli
espose le ragioni della sua venuta. Chiedeva che il senato annullasse
la divisione dell’impero egizio, avvenuta sotto la pressione di eventi
superiori, quali l’imminenza della duplice invasione siriaca, e che
quindi il senato gli assegnasse Cipro, giacchè, anche in tal guisa,
i dominii del fratello sarebbero rimasti di gran lunga più estesi dei
propri.

Alla seduta assisteva un emissario di Filometore, il quale, subito
dopo il discorso di Evergete, si levò per confutarne le ragioni.
Disse che questi, tutt’altro che sporgere nuove querele, avrebbe
potuto rammentare come egli dovesse la vita al fratello. L’accenno
era probabilmente riferito a quegli anni, in cui Antioco Epifane
aveva invaso l’Egitto in nome di Filometore, e questi, anzichè
punire Evergete della già avvenuta usurpazione, aveva diviso con
lui il potere, affidandogli il governo della Cirenaica. Le parole
dell’ambasciatore furono confermate dalla testimonianza di due
cittadini romani, i quali o avevano per caso assistito agli atti del
governo egiziano, cui s’era riferito l’ambasciatore del re, o avevano
frattanto, incaricati dal senato, attinto informazioni sui fatti
in discorso. Tale difesa e testimonianza resero l’opinione pubblica
avversa alle pretese di Evergete. Non così il senato, il quale capì
come dalla richiesta d’ingerenza negli affari interni d’Egitto, che
lo spingeva ad attizzare sempre più la discordia negli animi dei
due re, tutto era da guadagnare e nulla da perdere. Decretò quindi
la spedizione di un’ambasceria[245] con l’incarico: 1) di rimettere
pacificamente Evergete al governo di Cipro; 2) di dichiarare a
Filometore come tale occupazione fosse già stata riconosciuta dal
governo romano; 3) di conciliare i due fratelli. L’ambasceria partì
contemporaneamente ad Evergete[246].


III.

L’ambasceria romana ed Evergete alla volta d’Egitto.

Sembra però che nè questi, nè gli ambasciatori, e forse neanco il
senato, abbiano sul serio creduto alla raccomandazione di non usare
delle armi, ma di procedere soltanto per vie diplomatiche. Il principe
infatti, pervenuto in Grecia in compagnia degli ambasciatori, si
affrettò ad arrolare soldati; indi, dopo una breve sosta nell’Asia
Minore, a Perea, navigò alla volta di Cipro. Qui soltanto gli
ambasciatori si risovvennero dell’ingiunzione senatoria, e, oppostisi
al trasporto delle milizie, cercarono altresì di persuaderlo a
rinunciare pel momento ad un approdo in Cipro. Essi promettevano
di recarsi direttamente da Filometore per patrocinare la di lui
causa e tornare quindi a ricondurlo dai confini della sua Cirenaica
alle spiagge di Cipro. Evergete, convinto, annuì e gli ambasciatori
ripartirono alla volta di Alessandria, lasciando presso il principe
uno dei loro, Gneo Merula. Insieme con questo Evergete si recò a
Creta, donde tornò di nuovo ad arrolare mercenari. Di là, passato in
Libia, ancorò nel porto di Api, in attesa del ritorno dell’ambasceria
romana[247].


IV.

Gli ambasciatori romani alla corte di Filometore. Insurrezione della
Libia e della Cirenaica contro Evergete. La condotta dell’Egitto.

Ad Alessandria, intanto T. Torquato, uno degli ambasciatori recatisi
colà, aveva esposto a Filometore le ragioni della sua venuta, cercando
di persuaderlo a rilasciare Cipro al fratello e a rappaciarsi col
medesimo. Filometore, seguendo una politica, che per allora parve
inintelligibile, cercò a sua volta di tirare in lungo le trattative, in
parte mostrando di promettere ed in parte di ascoltare.

Da Api Evergete attendeva con grande ansietà i risultati
dell’ambasceria; ma, poichè i giorni passavano inutilmente, egli si
decise a spedire l’ambasciatore rimastogli, Gneo Merula. Al pari del
primo, anche costui fu trattenuto alla corte di Alessandria, cercando
Filometore, tra l’altro, di conciliarsene con ogni mezzo l’animo e la
testimonianza, il che gli sarebbe stato di grande utilità nel rapporto,
che della loro missione essi avrebbero fatto al senato.

Scorsi più di quaranta giorni, Evergete seppe che Girene ed altre città
gli si erano ribellate o si apparecchiavano a ribellarsi al governatore
lasciatovi nella sua assenza. Gli occulti motivi della politica di
Filometore si facevano palesi. Evergete, temendo di perdere anche
Cirene, vi si recò precipitosamente. Si trovava appena alla dimane di
una grave sconfitta subita dalle milizie insurrezionali, quando, poichè
ormai nessun motivo imponeva al Tolomeo d’Alessandria di trattenere gli
ambasciatori romani, giungeva ad Evergete Gneo Merula per informarlo
come nulla era stato possibile ottenere dal re d’Egitto, ma che questi
era ancora pronto ad attenersi ai patti originari[248].

Era la prima volta che l’Egitto osava tenere verso il senato romano
un contegno energico e dignitoso, e ne avea ben mille ragioni di
fronte ad uno stato, che, senza diritto alcuno, pretendeva ingerirsi
nei suoi affari interni col regolare la spartizione dell’eredità di
Tolomeo Epifane. Nè si trattava soltanto di ragioni legali, ma della
più alta opportunità politica. «Cipro non era semplicemente fornita di
un’importanza commerciale, sibbene di un più alto valore strategico.
Alessandro il grande l’avea definita la chiave dell’Egitto, affermando
così che dal possesso della medesima dipendeva la dominazione del
Mediterraneo. Ciò conosceva Filometore e ciò, tra l’altro, lo sospinse
ad opporsi con ogni fermezza alle pretese del senato in favore di suo
fratello»[249].

Non era però tale contegno capace di soddisfare Evergete, il quale,
udita la risposta di Merula, tornò a spedire a Roma due nuovi
ambasciatori, affinchè, insieme coll’emissario romano, ch’egli aveva
seco, attestassero l’iniquità del re d’Alessandria ed il disprezzo, in
cui questi teneva gli ordini del senato. Contemporaneamente Filometore
tornava del pari a spedire un’altra ambasceria, la quale pervenne a
Roma insieme con la precedente.


V.

Nuova discussione in senato. Il senato contro Filometore. Guerra civile
in Egitto. Evergete di nuovo a Roma (154).

Introdotti alla presenza del senato, gli ambasciatori cominciarono
a discutere vivacemente le loro ragioni. T. Torquato e Cn. Merula,
per motivi non completamente altruistici, difesero a spada tratta i
diritti di Evergete. Il senato allora decreta che gli ambasciatori
di Filometore, entro cinque giorni, abbandonino la capitale e cassa
l’alleanza stipulata. Era il colmo della prepotenza, dappoichè nei
trattati romano-egiziaci non si conteneva di certo, da parte della
corte di Alessandria, l’obbligo di ottemperare a tutti i decreti, che
al senato fosse piaciuto emettere sulle questioni interne dell’Egitto,
nè al governo romano il diritto di intimarne. Questo frattanto inviava
un’ambasceria a Tolomeo Evergete, allora residente in Cirene allo scopo
di notificargli le decisioni assunte sul proposito.

Gli ambasciatori di Filometore lasciarono tosto la città, ed i nuovi
spediti informarono minutamente Evergete di tutto quanto erano stati
incaricati, mentre questi, infiammato di novella speranza, si volgeva
alla conquista di Cipro[250].

La guerra, che ne seguì, fu per lui lunga e naturalmente disastrosa,
tanto più che il governo romano, desiderando che i due fratelli si
straziassero a vicenda non gli fu largo che di platonici sorrisi. Al
154 le ostilità continuavano ancora, e al senato, che non poco avea
contribuito a suscitarle, la sorte maturava quei frutti, di cui essa
era stata avara ad Antioco Epifane, allorchè, lasciando l’Egitto, aveva
ardito sperare che le milizie dei due fratelli si sarebbero dilacerate
in una guerra civile. In quell’anno stesso, Evergete tornava a Roma a
richiedere un nuovo, decisivo intervento.


VI.

Nuovo decreto del senato. Suo platonismo.

Concessaglisi un’udienza, egli accusò il fratello di avere attentato
alla propria vita ed offerse la testimonianza delle proprie cicatrici.
Anche questa volta assistevano ambasciatori di Filometore, recatisi a
Roma allo scopo di confutare le esagerazioni di Evergete, ma il senato
vietò loro la parola e spedì subito una nuova ambasceria di cinque
membri, fra cui il solito Gneo Merula e un tal L. Minucio Termo, che
noi avremo occasione d’incontrare più tardi, fornendo ciascuno di
quinquiremi per riporre definitivamente Evergete sul suolo di Cipro ed
in tal guisa tagliar corto alla vertenza. Al tempo stesso invitava gli
alleati di Grecia e di Asia a porgere aiuti al monarca protetto[251].

Questa lesineria delle proprie legioni, questa simulata neutralità, che
adesso, come negli anni precedenti, il senato volle serbare rispetto
alla questione d’Egitto, non fu però frutto esclusivo di deliberato
proposito calcolatore, ma altresì conseguenza della contemporanea
situazione estera dello stato romano.


VII.

Ragioni del fatto. Vicende estere di Roma dal 161 al 164.

Già al 161 s’era disegnata all’orizzonte la grave probabilità di un
terzo conflitto con Cartagine, che era stata appunto Roma a provocare.
Continuando la politica, iniziata dopo la guerra annibalica, di
contrapporre a Cartagine la Numidia, essa aveva allora risoluto in
favore di quest’ultima la lunga contesa fra i due stati circa il
possesso di Emporia sulla piccola Sirti, nè una seconda ambasceria
romana, comparsa al 157 per ripigliare in esame la vertenza, era
approdata a conclusione alcuna. Ma, a parte tale impreveduto accidente,
il palese rifiorire economico di Cartagine risuscitava nei due rami
dell’aristocrazia romana, gli agrari, i conservatori gretti alla
catoniana, ed i grossi speculatori, i cavalieri, che aspiravano a
raccoglierne l’eredità di ricchezze, il desiderio e l’urgenza della
distruzione dell’infelice metropoli. Contemporaneamente le romane
ostilità, palesi od occulte, avevano sospinto al governo cartaginese i
vecchi, odiati patriotti, i quali s’erano tosto accinti ad assoldare
un esercito contro la Numidia. Questa, dal canto suo, aveva cercato
di lavorare l’opinione del senato per indurlo a persuadersi che quei
preparativi erano in realtà diretti contro Roma, cosicchè, in questo
stesso anno, 154, ambasciatori romani, recatisi a Cartagine per imporvi
il disarmo, avevano corso pericolo della vita[252].

Non meno grave era quello, che contemporaneamente accadeva in Spagna.

Anche prima d’allora Roma era stata in armi contro i Celtiberi e i
Lusitani. Ma, nel 154, questi ultimi avevano invaso il territorio
romano, battuto i governatori, ed esteso le loro scorrerie fino a
Cartagena. Ciò, scrive il Mommsen, avea sollevato in Roma tale panico
da costringere il senato ad inviare sul luogo un console, «il che non
era accaduto dal 195 in poi, e, onde accelerare l’arrivo dei soccorsi,
si dispose che i nuovi consoli entrassero in carica due mesi e mezzo
prima del tempo legale»[253]. A tutto ciò aggiungi, nel 156-55, due
spedizioni, in parte infelici, contro i Dalmati, nello stesso 154,
una verso le Alpi Marittime contro alcune ribelli popolazioni liguri
di quella regione, e sarà palese come, in vista di tali frangenti, le
cose d’Egitto si dovevano abbandonare alle risorse della politica più
egoista ed ipocrita.


VIII.

Esito della guerra civile d’Egitto. Sua cronologia.

Tolomeo Filometore con forze di gran lunga superiori chiuse il fratello
nella cipria città di Lapeto sì che questi fu costretto a capitolare
ed a rendersi prigioniero. Filometore però non volle abusare nè della
sua buona fortuna, nè della pazienza del governo romano, e concesse ad
Evergete forse più di quello, che questi aveva sempre richiesto. Oltre
a promettergli la figlia in isposa[254], lo rimise al governo della
Cirenaica, con il diritto di un reddito annuo di una data quantità di
frumento[255], assegnandogli inoltre l’amministrazione di parecchie
città cipriote[256].

Quale potè essere la data di siffatto accomodamento? L’Engel[257]
opina per gli anni 152-151, durante i quali noi vediamo Filometore
appoggiare Alessandro Bala contro Demetrio Sotero in Siria ed inviare
a tale uopo un esercito in di lui aiuto[258]. «Difficilmente, egli
osserva, Filometore si sarebbe impegnato in una guerra estera, se
avesse avuto da temere così lunga guerra all’interno». Se non che
la forza di tale argomentazione cade subito, quando si pensa che
Alessandro Bala era, come vedremo, il favorito del senato romano contro
Demetrio, di quel senato, che, oltre ad aizzare Evergete contro il
fratello, avrebbe, un giorno o l’altro potuto accorrere in favore del
medesimo. A scongiurare la gravità di un tale pericolo, Filometore
poteva, anzi doveva, seguendo l’usata abilità diplomatica della corte
alessandrina, compiere un atto, che avesse esplicitamente dimostrato
come quel Filometore, contro cui Roma drizzava i suoi odi, non faceva
in Oriente se non i voleri e gli interessi di Roma medesima. In tal
caso la nuova guerra colla Siria, tutt’altro che un nuovo imbarazzo,
nel quale fosse imprudente immischiarsi, si tramutava in un’abile
mossa difensiva contro la lontana, oscura nemica d’oltre mare. Certo
però le susseguenti imprese estere del Lagida, prima in favore del
succitato Alessandro (152), poi contro Demetrio IIº di Siria (147) e
infine contro lo stesso Alessandro in favore del Demetrio in discorso
(147)[259], dimostrano come l’era dei pericoli interni fosse oramai
felicemente chiusa. Questo stesso anno 147 segna inoltre la morte di
Filometore; ma, poichè le fonti ci dànno come anteriore, sia pure di un
numero indefinito di anni, la conciliazione col fratello, ne segue che
essa dovette, e di parecchio, precederlo.


IX.

Nuova astensione del senato e ragioni del fatto. Nuove vicende estere
di Roma.

Tale cronologia ci spiega d’altro canto come Roma, per quelle stesse
ragioni, per cui si astenne dal partecipare alle vicende della guerra
civile, non potè fare a meno di astenersi del pari da qualsiasi
ingerenza o ratifica dell’accomodamento medesimo, con quella stessa
forzata remissività, con cui, in tutto quel non breve periodo di tempo,
essa preferì non ingerirsi efficacemente negli affari orientali.

Erano allora cominciati i preparativi per la spedizione delle navi
e degli armati, necessari alla terza guerra cartaginese, i cui
primi anni (149-7) non dovevano riescire molto lieti per le armi
romane[260]. Infierivano contemporaneamente in Spagna feroci ribellioni
dei Celtiberi e dei Lusitani (154-39), preparando direttamente e
indirettamente nuovi e più gravi turbamenti in quella penisola[261].
Al 149 era parso altresì prossimo il divampare di una quarta guerra
macedonica per opera di un falso pretendente, e, mentre essa sarebbe
terminata con una definitiva vittoria del console Q. Cecilio Metello,
la prima battaglia campale del 149 e gli scontri del 148 erano
riesciti molto più gravi che non quelli delle tre precedenti guerre
macedoniche[262]. A tante preoccupazioni, tutta la buona o cattiva
volontà dei Romani doveva cedere, e, come avevano consentito che il
loro protetto rimanesse di fatto isolato durante le vicende della
guerra, così ora concludevano coll’astenersi del pari dal mettere bocca
nei trattati ch’ebbero a ratificarne l’esito infelice. Questa fu la
fine della decenne guerra civile.


X.

Ragioni della simpatia del senato verso Evergete.

Quali erano stati intanto i motivi della strana simpatia del senato
verso Evergete, anche a costo di mettersi, in mezzo a tanti frangenti,
in aperta rottura con la corte alessandrina? «La guerra civile legava
sempre più l’Egitto a Roma, che veniva così dispensata dalla necessità
di vigilare su quella regione o di tentarvi la sorte delle armi. Perciò
la condotta di quest’ultima è completamente determinata dal carattere
dei due fratelli. Era nell’interesse di Roma di sostenervi il più
dispregiabile contro il più fornito di abilità politiche»[263], e, come
tale, la scelta non poteva essere dubbia. A troppo chiare note avea
Roma dovuto sperimentare i pregi diplomatici di Filometore al confronto
dell’egoismo ignorante del fratello, che in altre condizioni sarebbe
potuto riescire fatale all’Egitto, per non propendere verso il secondo.
Quest’ultimo non faceva che iniziare una politica, i cui frutti
avrebbero a loro agio maturato nell’avvenire, forse sino condurre
Roma al punto di tentare, con mani non sue, l’agognata e definitiva
conquista dell’Egitto, e, in così rosea speranza, non era male eccitare
con tutti i mezzi, di cui si poteva disporre, chi altro non avrebbe
fatto se non disimpegnarne le prime operazioni[264]. Ma, se tale fu la
politica del senato, la corte alessandrina, dopo l’unico succitato atto
di resistenza, non avendo potuto scongiurare l’odio di Roma, cercò,
come vedremo, d’interpetrare ed esaudire i minimi ed i più taciti fra i
suoi voleri.




CAPITOLO V.

ROMA E L’EGITTO DAL 152 AL 116.


I.

L’Egitto in Oriente favorisce la politica romana. Uccisione di Antioco
Eupatore. Roma contro l’usurpatore. L’Egitto in favore del protetto da
Roma.

Dopo meno di un anno e mezzo di regno, Antioco Eupatore, assunto al
trono di Siria mercè l’opera diplomatica del senato, perdeva, per mano
del pretendente Demetrio Iº, la vita ed il regno (162). Con lui periva
il reggente pupillare, il senatore Gneo Ottavio[265]. Il nuovo principe
però, quello stesso, da cui Evergete aveva ricevuto promesse di aiuto e
di ospitalità nel suo primo viaggio a Roma, si riconciliava tosto col
senato, inviando un’ambasceria destinata a recare doni cospicui e a
consegnare l’assassino medesimo di Ottavio[266].

Ma l’offesa patita era troppo grave perchè quel consiglio avesse potuto
accordare sinceramente il proprio perdono o la propria amicizia, e, non
ostante i resultati, in apparenza favorevoli di tale ambasceria, bastò
di lì a poco l’arrivo di Alessandro Bala, figlio, non si sa bene se
reale o sedicente, di Antioco Epifane, perchè il senato gli accordasse
la chiesta restituzione del retaggio paterno[267].

Poichè quella Roma, che aveva umiliato la Siria al rango di potenza di
quarto ordine, poichè Roma, lo stato più autorevole dell’occidente,
era con lui, non restava ad Alessandro che procurarsi un esercito
e l’alleanza delle potenze orientali. E così fu fatto. Dopo dodici
anni di regno, Demetrio perdeva la vita, in seguito ad una battaglia
campale combattuta contro Alessandro in coalizione coi rimanenti re
asiatici[268] (152-1). Tra costoro primeggiava Tolomeo Filometore[269],
suocero fra breve del nuovo monarca di Siria[270].

Questo il primo atto di condiscendenza alla politica romana, compiuto
dalla corte d’Egitto dopo la rottura con la medesima[271]. Avremo di
meglio negli anni successivi.


II.

Tolomeo Filometore rinunzia al trono di Siria. (147).

Estinto Demetrio Iº, sorgeva il figlio Demetrio IIº a rivendicare i
diritti e la fine del padre. In questo nuovo frangente ad Alessandro
non venne meno l’aiuto e l’alleanza del re d’Egitto. Al 147 Filometore
entrava in Siria, accompagnato da un potente esercito di terra e
di mare[272]. Se non che, giunto a Tolemaide, fu fatto segno ad
insidie, che tutto parve indicare provenienti da Alessandro medesimo.
Astenendosi allora dall’adempiere ai propri doveri di alleato e di
congiunto, gli rapisce la figlia, che promette in isposa a Demetrio,
volge in favore di costui le milizie e persuade gli Antiocheni a
scacciare Alessandro, che colà aveva riparato. Alessandro è espulso
dalla città, e Filometore, recatovisi poco dopo, viene acclamato dai
cittadini e dall’esercito re di Siria.

L’antico sogno dei monarchi egizi poteva esser pago. Sul loro capo
si riunivano intere per la prima volta le due corone dell’Oriente,
infrantesi allo sfasciarsi dell’impero di Alessandro Magno. Ma lo
spettro del senato romano venne a turbare la gioia del buon Filometore,
che, presago della gelosia e dei rischi sin’allora con tanta sapienza
evitati, rifiutò il doppio diadema e raccomandò alla popolazione
esultante il figlio del primo Demetrio[273] (147).


III.

L’ascesa al trono di Evergete IIº e l’aiuto di Roma.

Due anni dopo[274] egli chiudeva la sua vita amareggiata, e a lui
succedeva la moglie Cleopatra, la quale si associò al trono Tolomeo
VIIº Eupatore[275] (145). Ma, ad attraversarne i piani, resideva in
Alessandria almeno uno dei tre ambasciatori, L. Minucio Termo, spedito
al 154 dal senato per riporre Evergete sul trono di Cipro. Coerente
agli scopi ultimi, cui la politica romana avea tenuto d’occhio nel
favorire Evergete, nonchè allo spirito della sua trascorsa missione,
egli, che senza dubbio manteneva al tempo stesso segreti accordi
con Roma, lavorava con ogni mezzo l’opinione pubblica perchè questa
dichiarasse altamente di volere re d’Egitto il re della Cirenaica. E
le sue mene approdarono all’effetto. Evergete marciò con le sue truppe
da Cirene ad Alessandria, senza incontrare ombra di resistenza, e,
tolto di mezzo l’incomodo erede, sposava la regina vedova, assumendo
immacolata l’eredità del trono[276].

Di quali malanni tanta usurpazione sarebbe stata foriera all’Egitto
il tempo galantuomo l’avrebbe fra non guari dimostrato; ma quello che
ci meraviglia altamente si è la vasta e profonda ingerenza, che un
rappresentante del governo romano poteva adesso esercitare e sulla
corte e sull’opinione pubblica alessandrina. Termo era rimasto dal
154, nemico indisturbato, nel cuore di quello Egitto, ove egli, coi
suoi compagni, era venuto a rattizzare la guerra civile, senza che nè
Filometore, nè l’opinione pubblica avessero osato additargli la via del
confine, ed ora, arbitro quasi della situazione, si rendeva strumento
di uno dei più odiosi colpi di stato nella persona del nemico più vile
ed implacato del buono e valente Filometore. Gli è che la ribellione di
quest’ultimo contro la greve tutela romana era stata anch’essa timida
e parziale. I Lagidi sentivano d’avere contro un nemico invisibile e
ineluttabile, dinnanzi a cui le proprie arditezze li facevano gelare
di terrore, mentre Roma, decimato, in ben tre riprese, i possessi
dell’Egitto e tentato di attizzarvi la più tremenda delle guerre
civili, defraudava, vittoriosa, l’erede legittimo, per sostituirvi
quell’altro, che più e meglio avrebbe soddisfatto ai suoi interessi
laggiù. Non era il colmo, ma verso quella meta si marciava a gran
passi.


IV.

Relazioni di Evergete con Roma. Roma, gli Ebrei e l’Egitto.

Noi non sappiamo se l’alleanza fra Roma e l’Egitto sia stata adesso
ufficialmente rinnovata. Ci è però noto come i rapporti fra i due stati
tornarono di bel nuovo più che cordiali, e, a conferma di ciò, stanno
due fatti: un’iscrizione di Delo e la visita ufficiale d’un’ambasceria
romana nel 135, con a capo Scipione Emiliano. Ma, a parte queste due
testimonianze, di cui discorreremo fra breve, noi possediamo menzione
di un nuovo atto di poco desiderabile tutela sull’Egitto.

Dopo la conquista dell’impero persiano da parte di Alessandro Magno,
i Giudei, al pari degli altri popoli, che in esso albergavano,
erano passati sotto il dominio degli stati, che la dissoluzione del
mastodontico impero macedone avea suscitato. Così essi avevano, dal
Iº al IVº Tolomeo subito la dominazione egizia, indi quella siriaca,
che era riescita assai più tormentosa della precedente[277]. Con
tutto ciò, l’Egitto non aveva per questo mancato di rimanere sede di
numerose colonie giudaiche. Sotto Filometore poteva dirsi che nelle
loro mani risiedesse appunto la somma dell’amministrazione dello stato,
e giudei erano altresì i supremi comandanti dell’esercito di terra.
La reazione, quindi, che Evergete si apparecchiava ad intraprendere
contro tutto l’indirizzo politico del fratello coinvolse anche la
società ebraica[278], tanto più che questa era stata sola ad avversare
l’usurpatore, in omaggio ad un lodevole sentimento di riconoscenza e di
fedeltà verso il principe trapassato.

Se non che, mentre i suoi correligionari della Siria si trovavano,
da parecchi anni, in ottime relazioni di amicizia e di alleanza con
Roma[279], un travolgimento dinastico del paese da essi abitato, ne
procurava al 142 l’emancipazione nazionale[280], e, allora stesso,
accompagnandola con ricchi donativi, inviavano al popolo romano
un’ambasceria[281], nella quale è, dalla posteriore condotta del
medesimo, agevole presumere che essi abbiano elevato reclami contro le
persecuzioni del principe egizio.

Il senato, infatti, accettando le nuove proteste di amicizia, si
affrettò a spedire a sua volta una significativa lettera ai monarchi
orientali, e ad Evergete, nella quale, notificando la rinnovata
alleanza, aggiungeva di aver risoluto di scrivere ai re e ai popoli
per intimar loro di astenersi da ogni offesa ai propri alleati della
Giudea, di rispettarne anzi il territorio, di avversarne i nemici
e consegnare loro i colpevoli, eventualmente ospitati nelle proprie
regioni[282] (142-1)[283].

Per quanto generica ed impersonale fosse l’epistola, il vantarvisi
implicitamente il diritto d’ingerirsi nella politica egiziana rispetto
ai sudditi e ai più umili vicini era, da parte del governo di Roma, un
farsi pagare a prezzo non certo mercato la protezione testè elargita
all’usurpatore. Tuttavia, anche questa volta, per quanto a malincuore,
e il principe e la corte dovettero chinare pazientemente il capo e
tornare ad apparecchiarsi all’obbedienza così come il destino della
loro patria li sospingeva.


V.

La politica romana in Egitto giudicata da M. Porcio Catone il censore.

Se non che, particolare degno di nota, in quegli stessi anni, e,
sembra, a proposito della reazione d’Evergete, favorita — nè v’era
dubbio — dal legato romano, L. Termo, che ne avea spalleggiato l’ascesa
al trono, un conservatore utopista, M. Catone il censore, recitava
un’orazione, della quale i frammenti superstiti non ci permettono
di definire la natura, ma in cui tutto induce a credere che egli
attaccasse la condotta di L. Termo in Egitto e con essa la politica di
Roma favorevole ad Evergete.

L’opera del legato veniva definita quale frutto malvagio e feroce
d’ingordigia, e sul di lui conto l’orazione accennava a delitti,
pei quali il supplizio non sarebbe apparso indegno castigo[284].
Specificando, Catone ricordava la necessità, in cui s’era trovato il
Tolomeo, di vietare al romano l’ingerenza in questioni attinenti alla
vita dei cittadini egiziani[285], probabile mezzo sbrigativo usato da
quest’ultimo per carpirne le sostanze. L’oratore confrontava altresì
il carattere morale dei due monarchi fratelli, e, levando al cielo
Filometore[286], accusava implicitamente il suo governo di avere
spalleggiato il peggiore dei due principi, suggellando il rimprovero
con un ammonimento: non volesse il suo popolo, libero com’era,
affidarsi ciecamente ad alcuno[287], fosse questi un ambasciatore
con pieni poteri, fosse un monarca più o meno disonesto e facile a
comprometterne la riputazione. La requisitoria, tutta ispirata ad un
idealismo poco pratico e poco politico, (qualità, sembra, ereditaria
nei Catoni), lasciò il tempo che aveva trovato, e Roma, che già
riscoteva il suo tornaconto dal favore accordato ad Evergete, continuò
— ed era logico — nella via iniziata, senza badare agli scrupoli degli
isolati utopisti.


VI.

L’iscrizione di Delo.

Di avverso tenore alla non lieta protezione, in cui Roma aveva preso
i Giudei, sono le altre due testimonianze di rinnovate relazioni
romano-egiziache durante il regno di Evergete.

La prima, un’iscrizione Delia[288], sta a base di un monumento, che
i romani Lucio e Caio Pedio posero a Marco, congiunto di Evergete
e della regina Cleopatra, in grazia della di lui virtù, onestà e
benevolenza verso i suoi. Il prenome Marco è senza dubbio un nome
romano, e il Letronne, che meglio di tutti ha comentato ed interpetrato
l’iscrizione, v’intravide un membro della famiglia dei Pedii,
dedicatori del monarca. L’assenza del nome egli la spiegò con l’uso,
consueto nelle iscrizioni relative a cittadini romani, di sottinderlo,
qualora esso coincida con quello di altra persona segnata per intero
nell’epigrafe. Tali ragioni non erano però sembrate attendibili al
Prideaux, che aveva esaminata l’iscrizione un secolo e mezzo prima, nè
lo sembrarono più tardi al Böckh. Ambedue, infatti, per riconoscere
in Marco un romano, hanno richiesto l’appellativo di ρομαῖον, e
quest’ultimo, confutato l’argomento del Letronne, col dire che esso
può valere soltanto nella menzione dei figli di una persona, segnata
per intero nell’iscrizione, ha opinato che il romano μάρχον sia, per la
regolarità delle linee dell’iscrizione, da correggere in un πολέ]μαρχον
o altra simile parola polisillaba. Se non che, quanto al richiesto
epiteto di ρομαῖον, esso non può palesemente figurare come necessario,
ma soltanto additare una consuetudine, a cui, come tale, poteva o
meno ottemperarsi, e, quanto all’assenza del nome, dal Böckh concessa
soltanto nella menzione dei figli di una persona segnata per intero
nell’iscrizione, gli è chiaro che, in maniera e per ragione analoga,
essa poteva darsi nella menzione di congiunti omonimi.

Ma, contro il Böckh, è da osservare qualcosa di più importante.
Mutando il nome proprio μάρχον in un nome comune qualsiasi, l’epigrafe
viene a rimanere priva dell’indicazione del suo destinatario, non
potendo così intendersi a quale degli epistrateghi d’Egitto essa
fosse dedicata[289]. E v’è ancora di peggio. L’emendazione πολέμαρχον
costituisce un _bis in idem_ del seguente ἐπιστράτεγον, che non ha
ragione alcuna di esistere. Ma, anche senza tener conto di ciò, la
succitata emendazione non reca nulla d’imperativo, e la regolarità
dell’epigrafe si ricostituisce tosto, sostituendo a un Μάρχον
anche un τὸν Μάρχον. Del resto, comunque si voglia ricostituirla,
le conseguenze, che interessano pel nostro studio, possono mutare
di specie, ma non di genere. Infatti, interpetrando l’estinto come
un romano, si resterebbe meravigliati della sua duplice, altissima
onorificenza di epistratego e di congiunto della famiglia reale.
L’epistrategato era la più alta carica dell’amministrazione provinciale
sotto i Lagidi, ed epistratego era il governatore civile e militare
di una data regione della monarchia[290]. Ma Marco non era soltanto
un pubblico ufficiale di Evergete; ne era altresì _congiunto_
della famiglia reale, cioè a dire insignito di una onorificenza,
corrispondente all’odierno «_cugino reale_»[291]. Sorgono quindi due
ipotesi: o Marco Pedio aveva reso ad Evergete dei servizi segnalati,
forse nel frangente della sua assunzione al trono, o Evergete aveva
rivestito di tanta onoreficenza un romano, sia dietro raccomandazione
del senato, sia per maggior fiducia nel medesimo che nei propri
connazionali. Nei primi due casi, si noterebbe l’abile politica di
Roma, che, dopo aver concesso i propri favori, se ne risarciva ponendo
un suo cittadino, quale pubblico ufficiale, alle costole del principe
egizio, allo scopo di aver trasmesse notizie positive sul contegno
della corte e sull’atteggiamento dei sudditi[292]. Nel terzo, noi
assisteremmo alla strana anticipazione di quello che accadrà di là
a circa un secolo, quando la migliore e più desiderata guardia dei
discendenti dei Lagidi sarà fatta da un corpo di milizie romane[293],
la cui presenza ridurrà l’Egitto ad uno stato vassallo più che a
nazione alleata o cliente.

Nel caso poi che in Marco non sia da riconoscere un romano, resta a
notare come, alla fine del secondo secolo a. C., due membri di una
delle principali famiglie di Roma si trovassero in intimi rapporti con
un eccelso governatore egiziano, congiunto della famiglia reale. E,
poichè le lodi vertono sull’onestà, sulla virtù, e, quel che più monta,
sulla di lui benevolenza verso i medesimi, si è indotti a ritenere
tale intimità non estranea alle vigenti relazioni politiche col governo
romano, e quale prova di onori e di trattamenti, che adesso i più alti
funzionari della monarchia alessandrina elargivano ai nobili di Roma a
sanzione dei cordiali rapporti fra i due paesi[294].


VII.

Scipione Emiliano in Egitto (135).

La seconda prova dei buoni accordi di Evergete col senato è un viaggio,
che, per incombenza del medesimo, Scipione Emiliano compiè nelle
province orientali di Asia, Grecia, Siria ed Egitto nel 135[295].

Componenti la commissione erano Spurio Mummio, Lucio Metello, e
Scipione Emiliano[296]. Quest’ultimo insieme con cinque domestici,
conduceva seco i filosofi Posidonio e Panezio[297]. Il ricevimento,
che al distruttore di Cartagine fece il popolo e la corte riescì
quant’altro mai imponente. Disceso dalla nave, Scipione si avanzò a
capo coperto finchè gli spettatori non vennero a pregarlo di scoprire
il suo volto; il principe confuse lui ed i compagni tra feste e
conviti. Se non che, i legati, più che di pompe e di banchetti, si
preoccuparono d’ispezionare il paese e la sua potenza economica e
militare. Si recarono perciò sino a Menfi, ad ammirare la bontà del
suolo, la densità della popolazione, le risorse militari ed agricole
del Nilo, la regione egregiamente fortificata. E là, rievocando con
l’immaginazione la loro patria, dovettero sentire quanta inferiorità
economica essa presentava al paragone dell’antica capitale dell’Egitto.
Da Alessandria passarono a Cipro[298], dove fu loro impossibile non
stupire di quei ben più grandiosi tesori naturali e industriali, che
tanto vi avevano legato gl’interessi dei Lagidi. Di tutto ciò dovettero
redigere un’accurata relazione al senato, e nell’enorme scarsità
di relazioni dettagliate e precise, questo soltanto, noi, riteniamo
essere lo scopo del viaggio, rammentando quanto ci sentimmo in diritto
di indurre dalle vicende, che accompagnarono l’avvento di Evergete
IIº al trono, e dalla precedente iscrizione di Delo. Ispezionare _de
visu_ le condizioni interne dell’Egitto, osservare l’atteggiamento
di quelle popolazioni verso la corte e la loro alleata d’oltre mare,
tener d’occhio l’opera dei romani posti dal governo alessandrino a capo
di quelle regioni, impartire loro gli opportuni consigli, ecco ciò
che interessava, ecco ciò per cui Scipione Emiliano doveva esservisi
soffermato[299].




CAPITOLO VI.

ROMA E L’EGITTO DALLA MORTE DI EVERGETE IIº A QUELLA DI TOLOMEO
ALESSANDRO IIº (116-81).


I.

Morte di Tolomeo Evergete IIº (116). Roma eredita la Cirenaica (94).
Quistione cronologica. Quistione topografica.

Evergete moriva in sul principio del 116[300], e, mentre le rimanenti
contrade della sua monarchia passavano sotto la dominazione del
legittimo successore, Sotero IIº[301], la Cirenaica veniva ereditata
da un suo figliuolo naturale, Tolomeo Apione[302]. Questi moriva a
sua volta in un periodo di tempo, nel quale, come sembra, divampava
in Egitto una sanguinosa guerra civile, e, fatto singolare, Apione
morente, testava la Cirenaica al senato ed al popolo romano.

Doveva egli, stante la sua origine illegittima, essere guardato
di mal’occhio dalle due mogli dell’estinto Evergete, che, nudrendo
motivo di sospettare in lui un futuro competitore dei loro più giovani
figliuoli, ne avevano con probabilità ostacolato l’avvento al trono
di Cirene. Forse la sua presenza era del pari odiosa al monarca
d’Alessandria, e questo ed altro, che, non ostante il silenzio e
la confusione dei documenti e delle tradizioni di codesta età, è
moralmente lecito sospettare, avrà amareggiato l’animo del principe
e lo avrà eccitato a frantumare i dominî paterni, creando, in fin di
vita, erede della Cirenaica il popolo romano[303].

Circa questa fortunata eredità si aprono due questioni importantissime,
l’una concernente la data della medesima, l’altra il territorio
testato.

Mentre infatti Ossequente e, sulla di lui scorta, Cassiodoro, ci
avvisano che ciò accadde sotto il consolato di Cn. Domizio e C. Cassio,
cioè a dire al 96, Eutropio fa coincidere il fatto con la guerra
mitridatica, anzi col breve periodo della guerra cretica, (68-67)[304],
mentre la cronaca eusebio-ieroniana[305] menziona codesto lascito come
dell’anno terzo dell’Olimpiade 171, cioè del 94 a. C.

In mezzo a tante reciproche smentite, io credo che la citazione di
Eutropio, come del resto tutte le sue citazioni cronologiche, sia da
tenersi in grave sospetto, anzi da rigettarsi addirittura[306], e che
la citazione di Eusebio sia da preferirsi a quella di Ossequente, il
quale, non occupandosi _ex professo_ di storia, avrà mal calcolato
l’anno preciso dell’olimpiade, indicatoci dal primo. Semplificata
così la questione cronologica, ci si apre facile la via all’altra
topografica[307].

Noi abbiamo già fatto la debita distinzione fra Libia e Cirenaica[308].
Or bene, adesso Eutropio ci avverte che la Cirenaica, lasciata ai
Romani da Apione, comprendeva Tolemaide, Berenice e Cirene. Si può
sospettare quindi, e a ragione, ch’egli discorra della Cirenaica
propriamente detta, del tratto cioè più fertile della Libia, che
comprende appunto le succitate città e che costituisce una regione
ricca di frutteti, di corsi d’acqua, di valli, di olio, di vino, d’erbe
aromatiche, e, a tal uopo, dissodata dai secoli dall’opera incessante
dei suoi colonizzatori[309].

Ciò vengono a confermare Giustino, Eusebio, Sesto, Rufo e Ammiano
Marcellino, i quali ultimi aggiungono che il Tolomeo[310] lasciò a
Roma Cirene con la Pentapoli, col quale nome vengono infatti designate
Cirene e quattro altre città, che, con la medesima, avevano sempre
goduto piena autonomia amministrativa, (Tolemaide, Esperide, Apollonia
e Arsinoe)[311], e che erano appunto contenute nella Libia-Cirenaica.


II.

La Cirenaica autonoma. Ragioni del fatto.

Così, per un ripicco dinastico, Apione largiva a Roma una delle
contrade più fiorenti della monarchia egiziana. Il senato però volle
anche questa volta ritentare la ben strana gara della generosità.
Come, dopo la seconda guerra macedonica e la prima siriaca, esso aveva
proclamato l’indipendenza delle città greche di Asia e di Europa, così
adesso proclamò l’indipendenza della, in massima parte, grecizzata[312]
Cirenaica[313]. La sorte, che già allora, dopo la distruzione di
Corinto, era toccata alla Grecia[314], non può più illuderci sui motivi
di tanta liberalità. In luogo di sentimenti cavallereschi ben più
egoistiche ragioni concorrevano a sospingere il governo di Roma verso
l’autonomia della Cirenaica.

Roma cominciava oramai a risentire il gravame della sua trascorsa
politica estera, e, quantunque l’interesse e il convenzionale orgoglio
delle classi dominanti l’allettassero ancora verso nuove guerre
cosmopolite, non poteva non imporsi alla coscienza dei più quella
modesta politica coloniale, che verrà esplicitamente formulata dal
primo degli imperatori romani. Così l’indirizzo degli affari esteri
comincerà a subire sin d’ora delle strane tergiversazioni, degli strani
contrasti, e allo stato per eccellenza conquistatore ne seguirà uno
senza precisi criteri direttivi, per l’appunto in quel ramo della
politica, ch’era stata l’unico pensiero della sua giovinezza. A tanta
indecisione del governo sospingevano ognor più i pericoli dell’interna
agitazione democratica. L’antico, latente conflitto fra proletari
e latifondisti in lega coi grossi industriali e speculatori era già
scoppiato, e, l’anno della cessione di Cirene esso aveva già ricevuto
il suo triplice battesimo di sangue con le repressioni del 131, del 121
e del 100[315].

L’invio di un luogotenente nella florida e remota Cirenaica, a contatto
dell’ancora possente Egitto, non era quindi senza pericoli. Partito
come ufficiale del governo, egli sarebbe potuto tornare vindice dei
diritti delle classi inferiori della cittadinanza, come più tardi
avverrà del proconsole delle Gallie, C. Giulio Cesare. Il contrasto
fra la nazione legale e la nazione reale rodeva le viscere dello stato
romano e paralizzava l’azione del suo governo. Così, fra la voglia
e il timore di aggregarsi la Cirenaica, si preferì temporeggiare,
usando con la Grecia africana lo stesso trattamento, che s’era usato
colla Grecia europea, e concedendo quell’autonomia, che sarebbe stata
frettolosamente ritolta, allorchè quelle regioni si fossero presunte
meno renitenti e lo stato romano meno passibile di pregiudizio alcuno.
E non farà d’uopo essere profeti per garantire una simile soluzione.
Al 74 infatti la Cirenaica passava sotto l’amministrazione di un
_quaestor-propretore_, per tornare al 67 ad essere riorganizzata e
forse annessa a Creta in unica provincia, il che accadde esplicitamente
e definitivamente circa mezzo secolo di poi[316].


III.

Prima guerra mitridatica. Vana ambasceria di L. Licinio Lucullo in
Egitto (96).

Era scoppiata intanto la prima guerra mitridatica. All’87 l’Asia
Minore, la Grecia e parte della Macedonia erano cadute in potere
del minaccioso re del Ponto, mentre la sua flotta avea occupato
il bacino orientale del Mediterraneo. In quell’anno stesso salpava
alla volta dei territori minacciati il console L. Cornelio Silla.
Sprovvisto, o quasi, di esercito terrestre e marittimo, il generale
romano fu costretto a valersi d’astuzia più che d’audacia, e, invece
di approdare sul continente asiatico, egli sbarcava nella Grecia, ove,
dispersi in breve giro di tempo i generali nemici, forzava tutto il
territorio conquistato a passare nelle sue mani e stringeva di assedio
quell’Atene, che non avea voluto cedere agli echi delle sue vittorie
(86).

Padrone quasi dell’Attica, la situazione di Silla non poteva però dirsi
fortunata. La mancanza infatti di un’armata qualsiasi avea dato agio
al nemico di riconquistare la Macedonia e chiudere all’esercito romano
la via delle vettovaglie e dei possibili soccorsi, mentre a renderne
insostenibile la posizione si aggiungeva minacciosa ed insistente
l’opera di devastazione dei pirati.

Allora Silla e il proquestore L. Lucullo, uno dei suoi più abili
ufficiali, s’accinsero ad un colpo disperato. Quest’ultimo doveva,
su pochi battelli da trasporto, cacciarsi tra la flotta nemica e le
squadre dei corsari fino a toccare il porto d’Alessandria, per passare
indi in Siria e radunare colà, dalle provincie e dagli stati marittimi,
vassalli, clienti od alleati, un’accolta di navi da guerra[317].

Il colpo disperato riescì[318]. Partito a mezzo inverno, per la via di
Creta e della Cirenaica, Lucullo continuò il viaggio verso l’Egitto,
perdendo frattanto parecchi dei suoi navigli, che gli fu giocoforza
abbandonare in mano ai pirati. Entrato nel porto di Alessandria, il re
d’Egitto, Tolomeo Sotero IIº, gli venne incontro con tutta la flotta,
e, sbarcato a terra, le accoglienze, cui venne fatto segno, non furono
da meno delle iniziali. Accolto, onorevole eccezione, quotidianamente
alla mensa del re, gli fu assegnato uno stipendio quadruplo di quello
che era solito darsi agli ambasciatori e largiti dei doni del valore di
ben ottanta talenti. Ma Lucullo, preoccupato del triste contenuto della
sua missione, non solo rifiutò tutto quanto eccedeva dal consueto, ma
non andò neanche a visitare Menfi, le piramidi e le bellezze naturali
della regione, come Sotero avrebbe desiderato. Se non che, a dispetto
di tanta melanconica modestia, egli era atteso da gravi delusioni.
Quando infatti venne alla domanda di un naviglio da guerra, il Tolomeo,
temendo questa volta Mitridate più di Silla, si rifiutò con una
ineluttabile fermezza.

Era la prima volta che Roma subiva dalla corte di Alessandria una così
grave umiliazione, e, se non pensò più tardi a vendicarsi, ciò si deve
alle prossime, gravi lotte intestine, che la politica reazionaria
di Silla acuì, sospingendo i propri avversari politici al mezzo
extra-legale della rivolta. L’umiliazione fu però cercata di compensare
con la lustra delle cerimonie ufficiali. Tolomeo Sotero, non pago dei
doni sin’allora largiti, mise a disposizione di Lucullo delle navi,
che l’accompagnassero, e, accomiatandosene con un amplesso affettuoso,
offrì all’emissario romano un fregio d’oro di gran prezzo, che l’altro
non potè rifiutare, mentre, fra gli auguri di un buon viaggio e di
migliore fortuna, tornava a veleggiare, può immaginarsi con qual animo,
alla volta di Cipro.


IV.

Mitridate cerca di legare l’Egitto ai propri interessi (87). Silla e
Tolomeo Alessandro IIº (81). L’Egitto testato al popolo romano? (81).

Ma il timore di Mitridate non era stata forse l’unica ragione della
condotta della corte alessandrina. Nell’animo del Tolomeo avea forse
potuto brillare la lontana speranza di una riscossa. Il grande sogno
mitridatico di stringere e agitare tutto l’Oriente contro Roma non
poteva avverarsi, se la più temibile di quelle potenze, l’Egitto, non
avesse prestato il suo aiuto. La corte di Alessandria avea compreso
la gravità di tale disegno, nè più rassicurandola la fiducia di altre
volte nella vittoria delle armi romane, poco bramosa di compromettersi,
aveva, per allora, serbato la più scrupolosa ed imbarazzante
neutralità. Ma, il piano di Sotero IIº non coincideva sicuramente con
quello di Mitridate, il quale tentò un mezzo estremo per trascinare
l’Egitto e tagliargli ogni via di ritirata.

Nello stesso anno[319], in cui Silla partiva alla volta dell’Oriente,
Mitridate conduceva seco da Coo, dove l’avola Cleopatra l’aveva
deposto, il figlio di Tolomeo Alessandro IIº, che egli si apparecchiò
ad educare regalmente al suo fianco[320]. Ma, a infrangere tutte le
speranze del re del Ponto, il giovane erede, divenuto adulto, fuggiva
dal suo benefattore nelle braccia del generale romano, e questi,
nella speranza di averselo amico, e, fors’anco, di trarne ingenti
guadagni, dopo averlo condotto a Roma[321], lo riponeva più tardi sul
trono d’Egitto, dove allora mancava l’erede maschile, eccitandolo
all’assassinio della reggente[322] (81). Tale atto causò la di
lui uccisione in una sanguinosa rivolta degli Alessandrini, a soli
diciannove giorni di distanza dal suo insediamento, mentre, in memoria
dell’inestimabile beneficio ottenuto, correva fama che egli, con atto
nuovo e memorabile, avesse in anticipazione istituito erede del proprio
regno il popolo romano[323].


V.

Questioni sull’autenticità del testamento. Rinunzia a tanta eredità.
Ragioni del fatto.

Se non che l’autenticità di codesto testamento non fu mai un fatto
provato nemmeno pei contemporanei. E in verità la violenta e imprevista
morte di Alessandro, perito in una sedizione, dopo soli diciannove
giorni di regno, rende poco probabile l’idea di un lascito regolare.
Quando poco di poi Cicerone vorrà riassumerne gli argomenti in
favore, non saprà trovarne altri all’infuori di un’indefinita e remota
testimonianza individuale e del fatto che il senato aveva spedito degli
ambasciatori coll’incarico di ritirare, per conto del governo, le somme
dell’erario regio depositate a Tiro[324], come se il senato, l’unico
ente, cui si sarebbe potuta imputare la diceria o la falsificazione,
avesse dovuto rinunziare ai benefici effetti della medesima, in grazia
dei quali avrebbe soltanto pensato a fabbricarla.

Tuttavia, non ostante l’esistenza più o meno legale del testamento,
il senato non ebbe pel momento voglia alcuna di aggregare l’Egitto ai
possedimenti della republica.

Le ragioni palesi, che se ne portarono, non furono troppe, nè tutte
sincere. Si protestò non essere opportuno dimostrare eccessiva bramosia
di conquiste, che avrebbero condotto ad una soverchia aggregazione
di stati entro l’ambito del dominio romano. Si palesò una tal quale
preoccupazione sulla non improbabile eventualità che, un governatore
fra tante ricchezze naturali ed industriali, difficilmente avrebbe
potuto serbarvisi immune da corruzione[325]. Se non che, il primo di
codesti argomenti, quantunque ci stia ad indizio di quella recente
diffidenza, insinuatasi fra le superiori classi romane contro i
benefici effetti della tradizionale politica espansionista, perde nel
caso nostro la sua ragion d’essere, dappoichè, se apocrifo, erano state
appunto le medesime, per mezzo del loro organo politico, a confezionare
il testamento, e, se reale, era stata egualmente la trascorsa politica
di violenta ingerenza negli affari dell’Egitto a renderne possibile
l’origine. Il secondo pretesto cela tra le righe una ragione molto
più grave. Non era infatti la corruzione morale del governatore, che,
con gentile sentimento cristiano, si temeva, ma la soverchia potenza
e ricchezza, che gli sarebbe derivata dalla gestione di una provincia
così estesa e così doviziosa, e che quegli, un giorno, avrebbe potuto
rivolgere come macchina di guerra contro gli avversari politici
della madrepatria[326]. L’Egitto, a rigore, non poteva essere escluso
dal rango di provincia consolare, al quale appartenevano la Gallia
Narbonese e la Cilicia, e, sotto l’impero della legge Sempronia, cui
Silla non aveva derogato, la designazione delle province si sarebbe
dovuta attendere dal senato prima dell’oscura elezione dei consoli, e
la ripartizione delle medesime sarebbe stata affidata alla sorte[327].
L’aura di _fronda_, che cominciava a spirare, non consigliava un simile
giuoco d’azzardo, e il senato non tardò a smetterne la voglia.

A questa ragione, che non varrà soltanto per l’anno del testamento
di Alessandro IIº, sono da aggiungere alcune altre circostanze, che
in quel giro di tempo dovettero paralizzare l’azione del governo in
Egitto.

All’83 era terminata la guerra, che Silla, fin dall’86, aveva
ingaggiata contro Mitridate[328]. Ma, se il generale romano avea così
felicemente condotto gli affari d’Oriente, non altrettanto poteva dirsi
della situazione propria e di quella dell’aristocrazia romana. In Roma
il potere era caduto in mano dei democratici (i _populares_), i quali,
dopo una quadriennale lotta all’estero, ne apparecchiavano una peggiore
all’interno. Così infatti accadde; e, mentre il Tolomeo testava in
favore di Roma, Silla e i suoi avversari insanguinavano l’Italia e le
province occidentali delle stragi di una guerra civile, che non ebbe
fine se non al 79 con la vittoria dell’ex-generale asiatico[329].

Tanti torbidi all’interno, dopo tanti rischi all’estero, basterebbero
a spiegare pel momento l’indifferenza del governo romano rispetto
ai destini d’Egitto. Ma il guaio si fu che la restaurazione, cui
il vincitore si accinse, dopo la disfatta degli avversari, riescì a
tutt’altro che a spargere l’oblio sulle trascorse contese. L’esercito,
che sarebbe occorso per occupare quell’Egitto, che aveva con una
rivoluzione sbalzato di seggio il re, impostovi da Silla, urgeva d’ora
innanzi in Roma, quale puntello della rinsaldata oligarchia, nè la
morte di Silla, avvenuta al 78, alterò gl’inalterabili termini della
situazione.

Ma, se questo era lo stato delle cose all’interno, la guerra d’Oriente
era terminata soltanto per modo di dire. L. Lucullo e Murena dovettero
proseguire sino all’81, anzi all’80, la campagna, già in massima parte
condotta dal loro generale supremo, e, solo dopo questi anni, si potè
parlare di una cessazione generale delle ostilità e dell’insurrezione
in quelle contrade[330]. Così stremato di eserciti e di finanze, così
agitato e all’interno e all’estero, poteva lo stato romano impegnarsi
nella nuova e forse malsicura impresa d’Egitto? Tuttavia il senato
possedeva di nome, e, volendo, anche di fatto, la forza necessaria ad
imporre il rispetto dei propri voleri. Ciò capirono remoti eredi dei
Lagidi, i quali, più tardi, preferiranno venire a Roma a sciorinarvi i
titoli delle loro pretese.




CAPITOLO VII.

ROMA E L’EGITTO DALLA MORTE DI ALESSANDRO IIº AL RICONOSCIMENTO DI
TOLOMEO AULETE (81-59).


I.

Vane pratiche dei pretendenti siri presso il senato. Ragioni del fatto.

Primi fra questi figurano i due nipoti di Evergete IIº, figli di
Antioco Pio e di Cleopatra Selene, allora regina di Siria. Essi
arrivarono a Roma al più tardi nel 72[331]; ma, pur troppo, non
potevano scegliere circostanze più difficili e meno opportune. Lo stato
romano traversava in quel momento una delle crisi più formidabili.

La reazione Sillana avea prodotto i suoi effetti naturali. Il dittatore
era ancora in vita, quando uno dei più abili e dei migliori fra i
democratici, esulato in Spagna, vi avea, fin dall’80, riacceso la
ribellione lusitana. Silla era morto prima ancora che avesse potuto
pensare a domarla, e, se tale compito, sarebbe stato abbastanza arduo
al vincitore di Mitridate, non poteva certo riescire agevole ai suoi
degeneri epigoni. Pompeo, recatosi in Spagna al 78, non potè infatti
terminare la guerra che al 71, e meno in grazia della propria abilità,
che dello strano favore, cui venne fatto segno dalla fortuna[332].

Mentre tali erano le vicende della Spagna, tornava a riaccendersi una
nuova guerra mitridatica. Sin dal 75, il re del Ponto aveva rivolto
formale dichiarazione di guerra ai Romani; le ostilità erano cominciate
l’anno immediatamente successivo, ed il biennio, che i re di Siria
passarono a Roma, venne tutto occupato dalle gravi operazioni militari
dei due eserciti e delle due armate belligeranti[333].

Ma, se l’uno e l’altro di questi pericoli non mettevano a repentaglio
l’esistenza dello stato romano, tutelato dalla lontananza del nemico,
non così può dirsi della contemporanea insurrezione di Spartaco, che
scoppiava contro Roma nel cuore stesso della penisola. Iniziata al 73,
investendo rapidamente mezza Italia, non aveva trovato generale che
potesse resistervi, e, nel 71, ultimo anno della dimora dei re di Siria
in Roma, incendiava la penisola senza più conoscere ostacoli[334].

Tanti frangenti erano molto più gravi della diplomatica richiesta di
un trono da parte di due giovani principi asiatici. E, benchè questi
avessero con ogni mezzo sollecitato un’udienza senatoria, il loro
desiderio non potè essere mai soddisfatto, e si videro costretti a
tornare nella loro patria dopo due anni di vana aspettativa.

Non dovettero però ridursi ai soli eventi esteri le cause determinanti
la eccessiva noncuranza del senato. È doveroso aggiungervi una
tal quale coperta ostilità alla richiesta dei nipoti di Evergete.
Coll’esaudizione della medesima si sarebbe realizzato il sogno
vicendevole degli imperatori siri ed egizi di una fusione in unico
stato dei loro separati dominî, alla cui ratifica non potevano piegarsi
le voglie autocratiche del senato. E, non trovandosi in condizioni
propizie per impedirlo colla forza, esso cercò di prolungarne
all’infinito la scadenza, nè mancò, anche questa volta, di riescire
all’intento.


II.

Nuove pratiche di Tolomeo XIIIº Neo-Dionigi Aulete e sua assunzione al
Trono. _Optimates_ e _populares_ rispetto alla questione egizia.

Mentre però Roma simulava in tal guisa di disinteressarsi degli affari
d’Egitto, era già, sin dalla morte di Alessandro IIº[335], salito
al trono di Alessandria un uomo di dubbia discendenza reale, Tolomeo
XIIIº Neo-Dionigi Aulete[336], il quale, aveva chiesto la ratifica del
popolo romano contemporaneamente ai figli di Selene. Ciò si desume da
un breve inciso della seconda delle Verrine[337], nel quale l’autore
accenna alla questione, ancora pendente, del riconoscimento del novello
Tolomeo e l’accenno deve essere riferito al 70 a. C., nel quale anno
Cicerone recitava la prima di codeste orazioni e vi figura recitata la
seconda[338].

La questione però rimase impregiudicata. Forte dei suoi pretesi
diritti su quel regno, il senato non si sentiva da tanto da rinunziare
a qualsiasi speranza, mentre, con le mani legate da nemici esteri
ed interni, era costretto a tornare alla comoda simulazione del
disinteressamento. Era un invocare una tregua per ripigliare l’attacco
in circostanze più propizie. Ma che questo non avvenisse, che
cioè il senato andasse sino in fondo era cosa, e per più ragioni,
oramai onesta ed urgente, anche nell’interesse di Roma. Si sarebbe
così una buona volta chiarita l’equivoca situazione, che da ben
due lustri permaneva in Egitto, ed i redditi della regione[339]
avrebbero colmato il _deficit_ spaventoso, verso cui tante e svariate
guerre avevano precipitato l’erario. Tale era infatti il parere dei
republicani-democratici sulla questione egizia, che al 65 venne a
costituire una delle cause determinanti le dimissioni del collegio
dei censori, nel cui seno contrastavano, senza speranza d’accordo, gli
opposti programmi dell’aristocratico Lutazio Catulo e del democratico
Caio Crasso[340]. Le classi minute della cittadinanza romana potevano
aspettarsi da siffatto aggregamento un’abolizione dei tributi, quale
negli anni scorsi l’avea arrecato il bottino della Macedonia o una
distribuzione di frumento più regolare ed abbondante di quello che
le strettezze del pubblico erario non avevano talora concesso. E
con i proletari lottava, accumunato da analoghi interessi, quel ceto
dei cavalieri, che, da circa un secolo, più e più volte ne avevano
spalleggiato gli attacchi politici, e che, reclutando fra i suoi
membri numerosi commercianti e imprenditori, desideravano sbarazzarsi
della vittoriosa concorrenza dei Greci in Egitto, ove questi facevano
monopolio di tutto quanto era possibile monopolizzare[341].

Il designato dei democratici al governo di quella regione era allora
l’edile[342] C. Giulio Cesare, che, in quello stesso anno, faceva dai
tribuni presentare ai comizi tributi un progetto di legge, per cui gli
venisse assegnato il governo dell’Egitto. La guerra mossagli contro
dagli _optimates_ rese vana la rogazione tribunizia ed il progetto
abortì prima ancora che venisse preso in considerazione[343]. È bene
però notare come non dovette essere soltanto il bene dell’erario
e il desiderio della soluzione di un affare così arruffato ciò che
avea sospinto i capi dei democratici alla lotta. Cesare ebbe allora
a sperare quello che ottenne più tardi, dopo il suo consolato, il
conferimento cioè di una provincia importante, pel cui reggimento
abbisognassero numerose milizie e donde potesse attingere tesori, per
poi, provvisto di mezzi e di legioni, tornare a Roma per muover guerra
al senato e all’aristocrazia. La proposta tribunizia non era infatti
se non la prima avvisaglia di un piano mirabile di combattimento, una
macchina di guerra contro gli _optimates_, in vista di un ideale, che
Cesare riescirà primo ad attuare.


III.

Roma e l’Egitto durante la guerra contro i pirati (67). La cattura di
P. Clodio e il Tolomeo di Cipro (67).

Ma l’annessione dell’Egitto, già fallita alla morte di Alessandro
IIº, quando maggiori ne erano le probabilità, tornò a fallire anche
adesso, e non certo negli interessi di Roma, dappoichè l’irresolutezza
del senato, congiunta con la sua inesplicabile condotta verso il re
elettivo di quella regione, schierava il medesimo fra i nemici della
capitale d’Italia. Sembra infatti che negli anni intercedenti fra
l’assunzione al trono di Aulete e l’ultima guerra mitridatica i due
Tolomei, regnanti in Cipro ed in Egitto, abbiano, non solo favorito le
incursioni dei pirati, ma stretto una formale e non passeggera alleanza
col re del Ponto.

Le legioni dei corsari, che nell’ultimo secolo di Roma avevano incusso
tanto spavento alla novella capitale del mondo, non erano, (ironia
della sorte!), se non il parto più naturale, il duplicato più fedele
della potenza romana. Simili negli intendimenti e nell’indirizzo,
non ne differivano se non in quanto al dominio geografico della
propria potenza, che non era più la terra, sibbene il mare. Ma
la messe sempre giovane e sempre fiorente delle loro masnade era
covata fra le rovine dell’universale depredazione romana, la quale
sospingeva al brigantaggio tutti i colpiti delle sue ferocie e delle
sue persecuzioni, e schierava dalla loro gli stati ancora liberi,
ma non per questo meno minacciati, pronti ognora a promuovere o a
subire la pirateria, ad esserne gli aizzatori o i manutengoli, mentre,
dall’Europa e dall’Asia, eternamente sconvolte, gl’immiseriti cittadini
correvano a preferire il mare alla terra[344].

Fra le succitate nazioni figurava l’Egitto, specie la sua colonia
cipriota, l’uno e l’altra sempre aperti al commercio umano, mezzo
esclusivo di guadagno e di rifornimento dei corsari[345], e, peggio
ancora, ambedue, molestati nelle loro tranquille attività, sempre
pronti ad emigrazioni fra le orde dei primi[346]. Il pericolo si era
via via accresciuto cogli anni, e la coincidente guerra mitridatica
l’aveva reso enorme nel 67 a. C.

Mentre Roma debellava il mondo, i pirati avevano spinto le loro
incursioni fin nel cuore dell’Italia, alle bocche del Tevere, e,
in quello stesso anno 67, catturavano l’ammiraglio della flotta
Cilicia, P. Clodio Pulcro[347], imponendo al medesimo gli sfregi
più brutali ed infamanti[348]. Fu allora che il Tolomeo di Cipro,
invitato, non si sa bene se da Clodio o dal governo romano, a saldare
il prezzo del riscatto, rispose con eccessiva noncuranza, inviando
due soli talenti[349]. Più tardi i pirati, al sopraggiungere di
Pompeo, rifiutarono il riscatto e liberarono spontaneamente il
prigioniero[350], ma, mentre la condotta del principe cipriota costituì
il primo incentivo alla distruzione del di lui regno, la palese gravità
della situazione sospinse il senato a provvedere, ricorrendo a mezzi
energici e decisivi.

Pompeo venne rivestito di pieni poteri, ed il governo romano s’affrettò
a scrivere ai re, ai principi, alle nazioni e alle città, con cui
esso vantava relazioni, perchè l’aiutassero con ogni mezzo e gli
concedessero facoltà di raccogliere nei loro stati le milizie e i
danari, che fosse sembrato opportuno[351]. Dal novero dei sollecitati
la corte alessandrina non fu certo esclusa; ma, come se ciò non
bastasse, fra le milizie, di cui Pompeo cosparse il Mediterraneo, due
armate, furono, per ogni eventualità, poste a guardia dell’Egitto
e di Cipro[352] (67). Lo sfregio morale o, per lo meno, il curioso
trattamento usato all’indipendenza dei due paesi era chiaro, e i
due principi alessandrini dovettero ben ricordarsene, quando, dopo
il trionfo del generale, frustrati nelle loro speranze di riscossa,
accennarono a passare, a dispetto di Roma, ad amori più stabili,
sebbene più pericolosi.


IV.

Imparentamento della casa egizia con Mitridate.

Sembra infatti che negli ultimi anni della terza guerra mitridatica
l’alleanza dei due fratelli, regnanti in Cipro ed in Egitto, col
re del Ponto fosse un fatto compiuto; ed essi, al 63, figuravano
reciprocamente fidanzati con le due figlie del medesimo[353].

La gravità di questo nuovo orientamento dell’Egitto è misurata dai
repentagli, a cui Mitridate avea messo e continuava a mettere lo stato
romano.

Prima ancora che guerra alcuna l’avesse trascinato a scontrarsi con
le legioni romane, egli signoreggiava «sulla spiaggia settentrionale e
meridionale del Mar Nero e molto addentro nell’Asia Minore. I mezzi di
cui disponeva», «per la guerra terrestre e marittima, erano immensi.
Il paese, su cui poteva levar soldati, si stendeva dalla foce del
Danubio al Caucaso e al Mar Caspio; sotto le sue insegne accorrevano
Traci, Sciti, Sauromati, Bastarmi, Colchi, Iberi». «Per la sua flotta
la satrapia colchica gli somministrava, oltre il lino, la canapa, la
pece e la cera, l’eccellente legname da costruzione, tagliato nelle
foreste del Caucaso; e piloti e ufficiali erano assoldati nella Fenicia
e nella Siria. Dicevasi che il re fosse entrato in Cappadocia con 600
carri falcati, con 10000 cavalli e 80000 fanti, e per questa guerra non
aveva tuttavia chiamato sotto le armi quanti avrebbe potuto».[354].
A tanta potenza egli era pervenuto, assorbendo e conquistando ora
tacitamente ed ora rumorosamente i paesi limitrofi al proprio regno e
poscia i limitrofi ai nuovi territori conquistati sino ad estendere in
Europa la propria autorità morale e materiale. Appunto allora il senato
s’era scosso dal torpore, cui l’avea costretto la situazione interna
dello stato, e Silla, fra i tre fuochi di una rivoluzione politica in
Roma, di una sociale in Italia, e della guerra asiatica, aveva all’87
preferito di volgersi contro il terzo nemico. La guerra era stata aspra
e pericolosa. La Grecia avea per un momento balenato sotto i piedi
degli eserciti romani, e, quando a Silla, dopo tanti frangenti, era
stato concesso di rimbarcarsi per l’Italia, il vinto Mitridate avea
trovato mezzo di chiudere al suo vincitore le porte della patria[355].

Nè s’era trattato se non di un breve armistizio. La guerra era
ricominciata alla sola distanza di tre anni, ed il pericolo di
Mitridate avea riacceso l’altro non meno incalcolabile della
devastazione piratica. Così le cose s’erano trascinate sino al 66 a.
C., e ben 20 anni di guerra si apparecchiavano ad un’eco clamorosa
entro l’orbita dei partiti politici Romani. In quell’anno stesso (66),
Pompeo, per mezzo dei suoi amici e con l’appoggio della democrazia,
veniva, benchè cittadino privato, investito del supremo potere militare
con l’assegnata competenza della guerra pirato mitridatica.

Era lo strappo più violento che mai si fosse perpetrato contro i
privilegi della oligarchia romana, e la sua enormità ci offre la
misura dei pericoli di Roma[356]. Or bene, al principe, il quale tanto
rivolgimento e terrore avea apportato nel cuore della capitale del
mondo, i due monarchi egiziani venivano adesso ad offrire il contributo
della propria potenza[357].

Ma anche questo secondo tentativo di legare l’Egitto agli interessi
dell’Oriente era destinato ad una nuova, tragica catastrofe. Nello
stesso anno 63, nel crollo finale della potenza del monarca del Ponto,
le fanciulle furono dal padre, entro la capitale stessa del Bosforo
Cimmerio, ultima rocca di difesa rimastagli, costrette a bere quel
calice avvelenato, che le salvò dalla vergogna e dalla schiavitù
insieme con colui, che, dopo Annibale, era stato il più implacabile fra
i nemici di Roma[358].


V.

Roma eredita tutta la Libia (65).

Mentre l’alleanza egizia era così mal tutelata dalla politica del
governo romano, quello fra i Tolomei, che, contemporaneamente ad Aulete
e al re di Cipro, aveva ottenuto il governo di quella parte della
Libia, rimasta immacolata dopo il testamento di Apione, moriva nel 65
a. C., lasciandone pieno ed assoluto erede il popolo romano[359]. Chi
sia questo terzo generoso oblatore è ben difficile dire nell’enorme
confusione che regna su questi ultimi eredi dei Tolomei[360], ma
quello che ci sorprende è la consuetudine, già largamente invalsa
nella monarchia egiziana, di dividere le regioni possedute a più membri
della stessa famiglia regnante. Se ragione politica esiste, essa sarà
stata probabilmente quella di evitare possibili guerre intestine
fra i Tolomei e quindi cause di debolezza di fronte alle nazioni
occidentali e orientali. Ma questa novella consuetudine potè altresì
arrecare degli effetti benefici nei rapporti dell’Egitto con Roma,
in quanto, come nota il Mahaffy, «la separazione di queste provincie
contenenti città greche, cui Roma era sempre disposta a concedere
l’autonomia», «rese l’omogeneo e ancora orientale impero egiziano più
protetto di contro alla rapace repubblica»[361]. Così infatti era
avvenuto precedentemente. Se non che, quello che adesso il governo
romano dispose della rimanente Libia ci è completamente sconosciuto.
Infatti la menzione del testamento, che ne lo rese erede, è l’unica
delle relazioni che noi abbiamo di Roma con la medesima, e la tentata
identificazione di codesto lascito con l’altro precedente della
Cirenaica ripugna, secondo me, e alla logica e alla cronologia.

Infatti il Guiraud[362], e meno arrendevolmente il Marquardt[363], i
quali interpetrano la menzione esplicita del lascito della Libia, che
le fonti distinguono dall’altro della Cirenaica, come testimonianza
della tardiva annessione di quest’ultima all’impero romano non
s’accorgono che tale annessione era già avvenuta al 74[364], e
sarebbe strano che le fonti ce l’avessero, senza plausibile motivo,
ritardata sino al 65. Ma, anche se così non fosse, questo secondo
preteso riordinamento amministrativo della Cirenaica daterebbe dal
67[365], non già dal 65, come, in modo categorico, attesta, del
lascito della Libia, la cronaca eusebiana. Parmi quindi maggiormente
plausibile opinare che questo nuovo ereditato tratto della Libia
sia stato immediatamente aggregato alla Cirenaica, onde, in mezzo a
tanta scarsità d’informazioni su un frammento di provincia, affatto
destituito d’importanza, potè, insieme con la fusione territoriale,
aprirsi l’adito ad un’agevole confusione storica, per cui le sorti
della Libia tutta siano state riportate sotto quelle della Cirenaica.


VI.

La legge agraria di P. Servilio Rullo e l’Egitto (64).

Nell’anno seguente (64)[366], Tolomeo Aulete correva un rischio
peggiore dei trascorsi, in grazia della legge agraria, che P. Servilio
Rullo presentava ai comizi centuriati. Questo progetto d’ispirazione
cesariana, messo in iscacco dalla opposizione degli _optimates_ prima
che assurgesse agli onori della votazione, era quanto di più positivo
poteva escogitarsi nelle tristi condizioni economiche, che in quegli
anni attraversavano, insieme con l’erario romano, le classi inferiori
della cittadinanza.

In uno dei quaranta articoli, che lo costituivano, si proponeva
all’approvazione del senato e dei comizi la vendita di tutti i beni
demaniali, passati a Roma sin dal consolato di Silla e di Q. Pompeo
Rufo (88)[367]. Fra questi, come è palese, rientrava l’ereditato
possesso dell’Egitto.

Cicerone, che combattè, in tutti i suoi punti, la legge, accenna
specificamente a tale presunto pericolo, e la cieca partigianeria dei
suoi attacchi si rivela nella strana vacuità e contraddizione degli
argomenti. Egli non si propone infatti un quesito di pratica utilità, e
neanche uno di diritto pubblico, poichè, in fin dei conti, ammette, in
omaggio agli enti politici che sosteneva, l’autenticità del testamento
di Alessandro IIº, ma dichiara di restare atterrito dal solo pensiero
che di tale vendita debba esserne giudice la commissione esecutiva
proposta da Rullo. Questa, per lui, non potrà non aver torto, qualunque
atto sia per compiere. Se aggregherà l’Egitto ai domini romani,
peccherà nel farsi arbitra della città e del regno più dovizioso del
mondo, contemporaneo all’oratore; se li cederà al pretendente, mancherà
al suo dovere per non averlo fatto passare sotto il dominio del popolo
romano[368]. Tali gli enigmatici argomenti di Cicerone, i quali si
liberano di tutto il loro mistero, quando si pensa che egli non mirava
a combattere le decisioni sull’Egitto, ma il rinvio di tali decisioni
alla commissione esecutiva, così come Rullo la proponeva.

Ispirata, come dicemmo, da Giulio Cesare, la legge Servilia mirava
infatti ad escludere gli _optimates_ e i loro amici dal novero dei
suoi esecutori, e a concedere a questi ultimi, tra i quali si sarebbe
avuta una maggioranza radicale, un potere pieno ed illimitato. I
dieci magistrati[369] da eleggersi dai comizi centuriati dovevano
fruire di un potere quinquennale[370], di una giurisdizione assoluta
ed indipendente, nel caso di controversie relative alla proprietà
o alla vendita degli agri demaniali[371], nonchè alla prescrizione
d’imposte[372]; e, quasi a colmare la misura di tanta onnipotenza,
le proposte norme di elezione, coll’escludere in maniera esplicita
gli assenti, tagliavano fuori ogni possibilità di accesso a Pompeo,
incaricato per allora di una grave missione in Oriente. Quei
democratici, che, come Crasso e come Cesare, avevano a più riprese
manifestato la loro opinione sull’Egitto e la cui presenza avea
contribuito ad agghiacciare le voglie del senato circa la riduzione del
medesimo a provincia romana, non potevano non preoccupare M. Tullio, e
questi, a ragione od a torto, non esitò ad oppugnare la legge nel suo
complesso e nei suoi particolari[373].


VII.

Pompeo in Oriente e l’Egitto (63).

Ma la soluzione della vertenza egizia era oramai di più che urgente
necessità, non solo per il senato, ma eziandio pel re, che si era
insediato sul trono di Alessandria. Quando Pompeo infatti, debellato
Mitridate, si trovò padrone di tutta la Grecia e dell’Oriente asiatico,
Aulete dovette accorgersi di trovarsi al paragone privo di qualsiasi
riconoscimento ufficiale da parte del governo romano, e, pur troppo,
impegnato con vincoli di non ricusata parentela col disfatto re del
Ponto. Ma l’abilità diplomatica, tradizionale alla corte dei Lagidi,
non venne meno, neanche in questo, che sembrava il più pericoloso dei
frangenti.

Quando il generale romano ebbe lasciato Damasco, inoltrandosi verso la
Celesiria, il re egizio si affrettò ad inviargli un’ambasceria, che
doveva essere foriera di grandi successi. Carica di denari[374] e di
forniture per l’esercito, recante in dono al generale una corona di
ben quattro mila pezzi d’oro, essa viaggiava col lusinghiero incarico
di pregarlo ad accorrere rapidamente alla repressione di una rivolta,
scoppiata, pochi giorni prima, in Egitto (63).

Era un voler pigliare due colombi ad un favo. Da un lato si veniva così
a placare l’ira del vincitore di Mitridate, dall’altro, nel caso di una
cavalleresca accettazione dell’invito, Aulete si sarebbe aperta intera
la via al riconoscimento del suo dominio in Egitto. Come tutte le
audacie, l’ambasceria del Lagida lasciava anch’essa adito al pericolo
di un violento spodestamento da parte di colui che s’invocava come
protettore, ma non era certo quella l’occasione di guardar tanto per il
sottile, e, costretta a scegliere tra soluzioni impossibili, la corte
di Alessandria ebbe il merito di appigliarsi alla meno pericolosa.
Pur troppo, la fortuna non arrise pienamente. L’ira del generale fu
placata, ma nessuna voglia di viaggiare in Egitto potè suscitarsi nel
di lui animo riboccante di vanagloria[375]. Dovette trattenerlo sia
una naturale diffidenza verso il cortese invito del Tolomeo, sia la
preoccupazione delle responsabilità, di cui si sarebbe caricato di
fronte alle varie opinioni dei suoi cittadini[376]. Per ora intanto
l’Egitto era salvo e la benevolenza del più cospicuo personaggio
politico romano accaparrata per l’avvenire.


VIII.

I primi atti del primo consolato di Cesare (59). Tolomeo XIIIº
riconosciuto dal governo romano (59). Tolomeo XIIIº alleato (59).

Dopo tante esitazioni e tergiversazioni, si avvicinava oramai il
giorno, in cui Aulete avrebbe ottenuto il pieno riconoscimento
dell’autonomia del proprio regno. Al 59, Cesare, dopo tanti palpiti e
drammatici scoraggiamenti, perveniva al consolato, e la sua elezione
inaugurava un’era nuova nella storia di Roma republicana. La prima
legge[377], che egli presentò, fu — lievemente modificata — la
trascorsa legge agraria di Servilio Rullo. Ma, adesso che egli aveva
nelle mani il potere, era fermamente deciso a far passare, contro la
cocciutaggine degli oligarchi, la volontà propria, e a soddisfare i
bisogni, da secoli inappagati, di tanta parte delle popolazioni di
Roma e d’Italia. Sullo sfondo del duello titanico si disegnavano i
soliti oppositori e le solite opposizioni, e, a corto di argomenti
più persuasivi, l’aristocrazia scatenava contro Cesare l’invalicabile
veto del di lui collega Bibulo, il pretesto di contrari augurî
metereologici, e, la sorda opposizione del proprio organo politico, il
senato. Ma, quando fu chiaro che nulla avrebbe fatto presa sull’animo
del console, essa, dopo aver consentito che Bibulo con altri pochi
fosse accorso ad oppugnare con la violenza la legge, lasciò che il
medesimo venisse sbalzato dalla tribuna, dalla quale perorava, che gli
si spezzassero i fasci, segno supremo del potere, e che i magistrati, i
quali l’avevano seguito, riportassero anch’essi delle ferite. A tanta
viltà, che misurava la catastrofe inevitabile alla classe, da secoli
detentrice del potere, Bibulo, dopo aver invano tentato che la legge,
già approvata dai comizi, subisse la rescissione della seguente seduta
senatoria, rinunziato al maneggio dei pubblici affari, si chiuse per
tutto l’anno in casa propria, mentre, alla sua diserzione, il senato
e i più minacciosi fra gli oppositori, tra cui M. Porcio Catone[378],
s’inchinavano a giurare l’osservanza della legge.

Una così tremenda lezione aveva infranto i nervi di un’aristocrazia
ormai fiacca e corrotta. Cesare aveva dichiarato che mai più,
durante la sua gestione, si sarebbe chinato a chiedere il parere dei
senatori[379], e questa dovè essere la via tenuta nella ratifica del
riconoscimento di Tolomeo Aulete e dell’alleanza col medesimo. Bibulo,
ritiratosi sdegnosamente della vita pubblica, non ebbe questa volta nè
agio, nè voglia di consultare gli auspicî[380], e la legge, approvata
ai comizi, ricevè del pari la sanzione del senato[381] (59). Così il
popolo romano, dopo venti anni d’indugi, terminava per riconoscere
l’effettiva autonomia del regno d’Egitto.

Il merito primo di codesto atto, nel quale si nota un’opportuna
attenuazione dei propositi altra volta affermati dai democratici,
risale anzi tutto all’uomo, che allora sedeva alla suprema carica del
governo, e che, col contegno energico, tenuto durante l’approvazione
delle sue anteriori proposte di legge, avea ritolto al senato ogni
voglia di resistenza. In seconda linea, esso spetta a quel Pompeo, il
quale ora in Roma, di ritorno dall’Oriente, avea, col fascino della
sua alleanza, sospinto alla riscossa la democrazia medesima, e la cui
gratitudine era stata pochi anni prima accaparrata con tanto lusso
dal Tolomeo. A dar retta anzi a Svetonio, Cesare e Pompeo, con una
richiesta ormai quasi inevitabile nelle nuove consuetudini politiche
romane[382], si fecero pagar caro il frutto della loro benignità,
sì che ben seimila talenti andarono divisi fra il console ed il suo
protettore[383].

Ma nell’arrendevolezza del senato, noi, anche senza guardare troppo pel
sottile, siamo altresì costretti a riconoscere un atto di fine astuzia
politica. Poichè il console era adesso G. Cesare, il quale fra breve
sarebbe stato per legge assunto agli onori del proconsolato, e, poscia,
al governo di qualche provincia, era bene cogliere qualsiasi occasione
per allontanare la già da tempo temuta possibilità di una luogotenenza
egizia, e, in vista di tanto pericolo, il senato non indietreggiò da
una resa, sia pure poco onorevole, di tutte le sue mire sul continente
egiziano.

La ratifica, come era naturale, fu suggellata dal rinnovamento
dell’alleanza egizio romana[384], a tal uopo venne spedita in Egitto
un’ambasceria, che ne ristabilisse gli obblighi ed i diritti. Quali ne
fossero i componenti e quali i resultati noi ignoriamo completamente.
Significativo episodio, anteriore alla medesima, ci è però pervenuta
una notizia, la quale ci fa intravedere la esistita possibilità
dell’inclusione di M. Tullio Cicerone fra i membri della medesima[385].
Le di lui speranze — chè tali infatti ci appariscono — vennero però, e
senza dubbio, frustrate. Ma, ancora una volta, egli ebbe a dichiarare
che, se non fosse stata la presenza degli _optimates_, e, peggio
ancora, di Catone, i quali avrebbero potuto sospettarlo corrotto,
non avrebbe esitato ad obliare le sue trascorse opinioni egizie, ed a
recarsi alla corte alessandrina, nunzio sorridente della buona novella
di Cesare e di Pompeo[386].




CAPITOLO VIII.

ROMA E L’EGITTO DAL 59 AL 57. LA SPEDIZIONE CONTRO CIPRO.


I.

Il 58 a. C. e i partiti politici in Roma. Opera legislativa di P.
Clodio. P. Clodio e M. Porcio Catone.

Al 59, l’anno memorando del primo consolato di G. Cesare, segue il
58, l’anno febbrile del tribunato di Clodio, l’anno dell’esilio di
Cicerone, che questi soleva compiacersi di definire per eccellenza
fatale a sè ed alla republica, forse perchè egli non era mai riescito
a liberarsi dall’immodestia di confondere la propria vanità colla
grandezza della sua patria. La coalizione della democrazia con
l’esercito, rappresentato da Pompeo, pur contenendo in se medesima i
germi della propria dissoluzione, aveva, pel momento, riportato piena
ed intera vittoria sulla restaurazione sillana, che ormai faceva acqua
da tutte le parti. Ed a Cesare il dipartirsi alla volta dell’agognata
provincia delle Gallie non avea dovuto in nessun modo riescire
doloroso, poichè i nuovi consoli, C. Pisone Cesonino ed A. Gabinio,
l’uno, suo suocero, l’altro, ufficiale di Pompeo, non ne avrebbero che
continuato l’opera, e, meglio di loro, si sarebbe condotto il nuovo
tribuno P. Clodio.

E l’anno fu realmente fatale alla potenza del senato e
dell’aristocrazia. Cicerone espiava coll’esilio, che gli veniva
fulminato in perpetuo, la strage dei Catilinari del 62 e del 61.
La censura, onnipotente e inappellabile nell’escludere dal dritto
di voto, dalle pubbliche cariche e dall’assemblea senatoria chi
più fosse talentato all’ordine sociale, da cui essa di regola
emanava[387], veniva destituita del principale dei suoi mezzi di
offesa, la segretezza, e sottoposta al controllo della pubblicità e
della collegialità[388]. Per opera di Clodio venivano ricostituite le
già disciolte associazioni proletarie[389], votata una radicale legge
frumentaria, per cui, d’ora innanzi, era concesso grano ai cittadini
non abbienti[390], e due altre, non meno notevoli, di cui la prima
vietava che, per contrari auguri, (antico pretesto dei sacerdoti,
casta quasi inacessibile al popolo minuto)[391], potessero ostacolarsi
assemblee popolari, mentre la seconda abrogava la legge Fufia, che per
anni ed anni aveva escluso dal Foro e dal Campo marzio gli abitatori
della lontana campagna, i quali più non avevano potuto valersi della
fortunata coincidenza dei giorni festivi coi comiziali.

La legislazione adunque di Clodio, questo Rabagas in quarantottesimo,
come Cicerone e chi su lui à modellato la propria narrazione, si sono
compiaciuti di rappresentarcela, era opera certamente democratica,
tutta intesa a dismagliare le fitte reti giuridiche e politiche,
con cui gli _optimates_ avevano consolidato e corazzato i propri
interessi, ma non era certo agire da uomo tristo e perverso. Abile,
favorito dai magistrati allora al governo, audace e sprezzante della
propria vita, con una noncuranza, che la sua fine suggellò dell’aureola
del martirio, contro di lui si ergevano minacciosi gli avversari
più cospicui e più potenti. Primeggiava fra essi, avvolto nella sua
consueta alterezza, sprezzante in cuor suo gli eterni gracchiatori,
i pseudo-democratici col nome di patria e di popolo sulle labbra, i
Ciceroni dell’aristocrazia[392], e avversante con tutta la forza delle
sue tradizioni aristocratiche la marea che saliva minacciosa, l’ultimo
romano del bel tempo antico, M. Porcio Catone. Era fra tutti il più
fragile perchè il meno opportunista, ed il più incommodo perchè il più
immacolato ed inflessibile. Nè Clodio poteva non accorgersene, anzi
veniva da ciò moralmente costretto a tentare ogni via per allontanarlo
dal teatro della propria azione, e, nei limiti del possibile, legarlo
ai propri interessi, insignendolo di qualche onorificenza o creandolo
esecutore e coadiutore di qualcuno degli atti del suo tribunato[393].
E gli espedienti, che riescirono di felice effetto, non tardarono a
rintracciarsi.

Il primo di essi rientra nell’ordine della nostra narrazione.


II.[394]

La spedizione cipria (58). L’incarico a Catone.

Contemporaneo a Tolomeo Aulete, regnava, l’abbiamo notato, in Cipro,
antico possesso egiziano, un altro membro della casa dei Lagidi, e
precisamente un fratello di Tolomeo Aulete[395]. Nessuna relazione
egli aveva mai vantato col popolo romano, rimanendo così escluso da
quei rapporti cordiali di amicizia e di alleanza, da recente istituiti
col Tolomeo d’Egitto. Sprovvisto quindi della garanzia, che, contro
le pretese romane, concedeva, almeno teoricamente, la condizione di
_socius_[396], egli, giusta lo spirito del dritto pubblico del tempo,
era da considerare come un vero e proprio _hostis_[397]. Da questo
rispetto, nessuna accusa di illegalità poteva essere rivolta contro la
legge, che, intorno al destino del di lui principato, si accingeva a
proporre P. Clodio, e chi, come Cicerone[398], ne l’avesse dichiarato
colpevole non avrebbe fatto se non dell’innocuo, sebbene opportunistico
sentimentalismo, che accusatore ed ascoltatori non avrebbero potuto
pigliare sul serio. Ciò non ostante, tutto dava a credere che questo
principe non socius avrebbe, contro qualsiasi pretesa, trovato sicura
salvaguardia nella sua stessa impotenza e nella neutralità da lungo
tempo, serbata[399]. Ma alla scelta del re di Cipro, come vittima
espiatoria dell’allontanamento di Catone, concorrevano due motivi,
che non sono da rigettare senza discussione, quando ci vengono offerti
dalle fonti come determinanti del piano di Clodio.

Circa dieci anni prima del 58, questi — lo vedemmo — [400] era stato
catturato dai pirati, ed a lui, o a chi per lui chiedeva al re di
Cipro il prezzo del riscatto, necessario alla propria liberazione,
erano stati, con imprudente zelo, lesinati i talenti del ricolmo erario
ciprioto, venendosi così a dimostrare una tal quale noncuranza verso
la dignità, sovra ogni altro sacra ad un romano, quella che a lui
conferiva il nome della propria cittadinanza, e ad offrire, al tempo
stesso, sospetto di un’intesa coi corsari del Mediterraneo.

Ma a siffatto motivo, che in parte costituiva soltanto una questione
personale, se ne aggiungeva un altro molto più grave, e che non avrebbe
fatto indugiare un istante nell’indecisione i componenti dei comizi
centuriati.

Cipro era una delle province più ricche dell’impero dei Lagidi. I
tesori dei suoi re e le dovizie minerali e vegetali del suolo non
conoscevano paragoni. Era dessa la patria feconda del rame, che le
aveva elargito il nome, dell’argento, dei diamanti, degli smeraldi,
dei coralli, dei giacinti, degli anemoni, dei cipressi, delle palme,
dell’ulivo, della vite[401]. E tanti tesori eran lì, depositati
su uno scoglio del Mediterraneo, lago per eccellenza romano, come
una preda, verso cui bastava tendere la mano per impossessarsene.
L’erario della capitale d’Italia era esausto, il roseo orizzonte
dell’annessione dell’Egitto sfumato. A che indugiare, simulando
uno scrupolo, che non si aveva mai avuto?[402]. In tale ordine di
considerazioni Clodio dovè avere dalla sua non soltanto le classi
minute, ma molti dell’aristocrazia, che col loro assenso avrebbero
fatto scordare la tenace opposizione all’assoggettamento dell’Egitto.
Il _senatus-consultum_ non trovò quindi ostacoli, ed esso fu a grande
maggioranza tradotto in legge dai comizi centuriati[403].

Il disposto del popolo recava che Catone, in qualità di proquestore,
con poteri pretorii, accompagnato da un questore[404], si recasse
a Cipro a destituire della dignità e del regio potere il Tolomeo
ivi regnante, a confiscarne i beni e a rivenderli all’asta pubblica
in pro dell’erario[405]. Quanto all’isola così conquistata, la
sua amministrazione doveva temporaneamente passare nelle mani
dell’incaricato da Roma[406], in attesa di ulteriori decisioni del
senato[407]. Marco Catone, per quanto in cuor suo di mal’animo, chinò
rispettoso il capo al supremo decreto del suo popolo e si apparecchiò
a recarsi alla volta di Cipro, ove, forse, d’altro lato, imponendo
silenzio alle sue ragionevoli proteste, lo sospingeva l’ambizione
di provare con quanta scrupolosa onestà egli avrebbe disimpegnato il
delicato ufficio.


III.

Il viaggio. Il suicidio del Tolomeo di Cipro.

Oltre all’equipaggio dei marinai, al questore assegnatogli ed alla
ormai rituale _cohors amicorum_, non l’accompagnavano colà nè fanti, nè
cavalieri. Tra le persone, a lui più strette per vincoli di amicizia e
di parentela, si notavano, un suo nipote, un familiare, Munazio Rufo,
il quale scriverà una dettagliata relazione dell’opera di lui[408],
mentre un altro suo amico, Canidio, era da Catone già stato spedito
in precedenza perchè annunziasse al re il volere del suo popolo e lo
consigliasse a cedere senza resistenza. Così soltanto avrebbe forse
salvato la propria vita e potuto attendere la nomina a sacerdote di
quella Venere Pafia[409], che, pur troppo, s’era dimostrata così
vana protettrice dell’isola malaugurata. Ad attendere l’esito di
quest’amichevole ambasceria, Catone col suo equipaggio aveva gettato
l’ancora a Rodi.

Quando il Tolomeo Ciprio potè avere notizia della procella, che gli
si addensava sul capo, fu quasi per ismarrirne la ragione. Compreso di
supremo disdegno e disperato per la propria irrimediabile situazione,
ordinò che tutte le sue ricchezze venissero accatastate sulle navi,
ove, montato di lì a poco egli stesso, salpava dall’isola, deciso a
seppellirsi con tutta la flotta nei gorghi delle acque circostanti.
Ma, quando fu giunto in alto mare, l’assalse vergogna dell’atto
irragionevole, a cui egli s’era risoluto, pietà forse dei suoi compagni
e dei tanti tesori, che era stato lì lì per scagliare nell’abisso, e,
ordinato alle navi di rivolgere la prua verso il regno, ormai non più
suo[410], fece presto a suicidarsi con quello stesso espediente, il
veleno, che già tempo prima era rimasto unica via di scampo alla figlia
di Mitridate, da lui scelta a fidanzata, e che Roma gli aveva ritolto,
così come adesso gli ritoglieva e il regno e la vita[411].


IV.

Catone a Cipro (58). Il tesoro regio all’asta pubblica.

Se però così grande era stato lo strazio del principe, pari ad esso
non fu la disperazione, tanto meno la resistenza dei sudditi. Quando
Catone, informato della catastrofe, mosse da Rodi verso Cipro per
prenderne possesso, l’accoglienza, che gli abitanti dell’isola fecero
al proquestore romano fu tutt’altro che ostile, e ciò, anche nella vana
speranza di essere creati _socii_ e non sudditi del popolo romano.
Catone però non recava istruzione alcuna sul proposito, e, quindi,
anzichè occuparsi del definitivo riordinamento politico di Cipro,
si affrettò, giusta le norme ricevute, a darvi solo un provvisorio
assetto amministrativo, e, più che a questo, a ritirare dai possessi
e dall’erario regio gli schiavi ed i tesori abbandonati dal defunto
monarca[412]. Le ricchezze, di cui egli in tal guisa si faceva
riscotitore, furono enormi[413], e, così scrupoloso fu il trattamento,
cui Catone, sin d’ora, si mostrò intenzionato, da potere più tardi
ripetere avere egli, sprovvisto d’armi e d’armati, recato alla sua
patria tanto danaro, quanto mai Pompeo da tutto l’Oriente sconvolto, in
seguito ad infinite guerre e trionfi[414].

Ma un’altra incombenza, insieme con quella di Cipro, egli aveva,
su proposta di Clodio, ricevuta dal popolo romano, e da ciò, dopo i
primi atti, fu costretto a interrompere le sue occupazioni nell’isola
per recarsi dall’Egitto alle rive del Bosforo, e precisamente a
Bisanzio[415].

In questa sua breve assenza, egli raccomandò al nipote la luogotenenza
dell’isola, non fidando troppo nella scrupolosità di Canidio. Indi,
sbrigata la seconda missione, tornato a Cipro, si accinse a commutare
in denaro sonante tutta la numerosa e preziosa suppellettile del
Tolomeo, ponendola all’asta pubblica, come prescriveva la legge, che
dell’incarico lo aveva rivestito.

Tale operazione era delle più delicate, poichè, era facile prevederlo,
numerosi si sarebbero esibiti a tentarvi bottino i sollecitatori ed
i mezzani. Catone non si fidò nè di servi, nè di banditori, nè di
mercanti, nè di amici[416], e presenziò lui stesso le operazioni della
vendita, interessandosi minutamente di tutti i loro particolari, delle
loro fasi, dell’offerta, del pagamento e persino della richiesta, che
curò rimanesse costantemente elevata[417].

A vendita compiuta, egli potè calcolare di aver raccolto ben settemila
talenti d’argento, la qual somma, al pari di tutti i precedenti suoi
atti, riportò integrale nei due libri di rendiconto della propria
amministrazione, ch’egli avea nel frattempo diligentemente compilati.
Indi, con l’avarizia più gelosa, non già del danaro, ma dell’opinione,
che ai suoi concittadini si apparecchiava ad imporre circa la propria
illibatezza, temendo il lungo tragitto, ripose il danaro in un numero
sterminato di vasi della capacità di due talenti e cinquecento
dramme, rilegandone ciascuno con una fune dal cui capo pendeva un
grosso sughero, indizio sicuro, in caso di naufragio, del luogo del
giacimento.


V.

Il ritorno (56).

Ma l’ironia della sorte non poteva peggio rispondere a tanta
scrupolosità, giacchè l’uno dei due libri seguì nel suo fatale destino
il liberto che lo portava, essendosi la nave rovesciata presso le
isole Ceneree[418]; l’altro, a Corcira, dove Catone coll’equipaggio
si era ancorato, perì tra le fiamme, che alla tenda del duce si erano
propagate dal posto, dove i nocchieri, per il freddo intenso, avevano
acceso grandi fuochi. Così a Catone, afflitto da tanta irreparabile
sciagura, non rimanevano garanti dell’opera sua, se ne eccettui i
ministri dell’estinto re, che egli aveva avuto la venturosa accortezza
di condurre seco, e nella cui testimonianza avea ragioni sufficienti di
fidare[419].

A Roma intanto, all’annunzio del ritorno, gran folla di popolo era
accorsa alle rive del Tevere, insieme coi sacerdoti, i senatori ed i
magistrati. Se non che il questore ciprio, disprezzando alteramente
l’ovazione apparecchiatagli, così come avea disprezzato le ricchezze,
non smontò dalla capitana, al qual’uopo egli avea scelto la nave regia
del Tolomeo, bella di sei ordini di remi, se non quando fu pervenuto
colà, dove avrebbe deposto il danaro[420]. Alla constatazione di
tante ricchezze e di altrettanta scrupolosità, il senato si affrettò a
rivestire, in via eccezionale, Catone dell’onorifico titolo di pretore
e della facoltà di assistere in pretesta purpurea ai ludi pubblici.
Ma l’uno e l’altro privilegio[421] furono rifiutati, e, in luogo dei
medesimi, Catone chiese, come unico compenso, la manomissione del
tesoriere dell’estinto Tolomeo, che egli avea condotto seco e della cui
fedele diligenza dichiarava di rendersi testimone[422], (56)[423].


VI.

L’ordinamento politico di Cipro (56).

Quale ci apparisce intanto l’ordinamento politico, che a Cipro fu dato
dal governo romano?

Catone, lo avvertimmo, non aveva sul proposito recato disposizione
alcuna, e forse una misura di tal genere non era per allora rientrata
fra le cure del popolo e del senato romano. Se non che, nell’anno
medesimo, in cui quegli avea fatto ritorno da Cipro, il governo della
Cilicia era sorteggiato dal console P. Cornelio Lentulo Sfintere[424],
cui, come tale, veniva, per legge, quell’anno stesso, affidata la
luogotenenza di Cipro[425].

L’infelice isola, più infelice ancora della Cirenaica, perdeva così,
d’un tratto, la propria indipendenza, e le speranze dei suoi cittadini
di assurgere almeno agli onori di una relativa autonomia venivano
duramente frustrate. Ed era ragionevole che così fosse. La Roma del
56 poteva qualcosa di più della Roma del 94, come l’Egitto d’adesso
qualcosa di meno dell’Egitto, che avea visto regnare Filometore. Il suo
monarca, profugo e spodestato, era diggià venuto a cercare asilo nelle
braccia del popolo romano. Nulla quindi a temere da codesto lato, del
pari che dalla pericolosa, ingorda ambizione di un governatore. Cipro
era una quantità trascurabile come territorio, nonchè, (dopo la recente
espilazione), come fonte d’immediata ricchezza. Continuava per contro
a valere indiscutibilmente quale chiave del Mediterraneo. Il tempo
avea maturato ciò che Evergete avea fatto sperare durante i lunghi
anni della sua guerra civile, e senato e popolo non avevano ragione
di esitare, nè esitarono a raccogliere il frutto agognato dei loro
desiderî e del trascorso affacendarsi di altre età.


VII.

Clodio e Cicerone dopo la spedizione (56).

Così, dopo le province greche, dopo le asiatiche e le altre della
Cirenaica e della Libia, dopo la sentenza di morte della propria
dignità e della propria autonomia, sempre in grazia dell’alleata
d’oltre mare, andava per l’Egitto perduta la nuova provincia cipriota.
Ma l’entusiasmo, di cui tale fatto era stato cagione nella capitale
d’Italia, non aveva però sanato il profondo dissidio fra il partito
e le tendenze politiche di Catone e quelle del tribuno, che della
spedizione cipria a lui aveva proposto l’incarico, ed anche questa
volta, come più gravemente in seguito, una questione egizia si
apparecchiava ad assurgere agli onori di pomo della discordia fra
i partiti e gli uomini politici romani. Aspettando però che tali
eventi maturassero, essa incendiava il campo stesso dei conservatori,
suscitando Catone contro Cicerone, ed attuando in tutti i suoi
particolari il piano, concepito da Clodio nello spedire a Cipro il più
implacabile fra i propri avversari.

Il facondo oratore, dal giorno in cui il popolo romano l’aveva
costretto a metter piede fuori di Roma, da altro pensiero non era stato
animato, se ne togli quello di far toccare con mano, anche a coloro
che non lo desideravano, tutta l’enormità del delitto, che contro la
maestà della sua persona era stato perpetrato, e quindi atterrare,
demolire, disperdere l’opera e l’uomo, che ne erano stati autori.
Perciò, di ritorno dall’esilio, egli, nell’assenza di Clodio, un bel
dì, scortato da un codazzo di popolo, si era data la briga di strappare
dal Campidoglio le tavole, recanti il testo delle leggi proposte
dal suo avversario. L’atto impensato di un così incauto conservatore
provocò una seduta senatoria, nella quale, contro le giustificazioni
di Cicerone, partenti dal presupposto che Clodio non avesse diritto
al tribunato per irregolarità della sua _transitio ad plebem_[426],
credette opportuno di replicare Catone medesimo, facendo osservare come
anzitutto tanta pretesa illegalità era una legale consuetudine, di cui,
per via di adozione, avevano fruito mille altri cittadini romani, e
che, pur data, ma non concessa, non poteva ora offendersi impunemente
l’autorità e la scrupolosità di quei magistrati, (tra i quali lui
stesso, stante le sue incombenze a Cipro e a Bisanzio, non poteva non
essere annoverato), da Clodio rivestiti di qualche missione.

Quantunque la seconda parte della replica offrisse troppo il
fianco alla critica, stantechè con un annullamento, motivato così,
come Cicerone lo avrebbe proposto, non si veniva punto a ledere
l’onorabilità dell’esecutore, ma del proponente, pure l’opposizione
di Catone bastò ad impedire l’annullamento delle leggi, il che mise
in evidenza le inconciliabilità morali, e, in fondo, politiche, tra il
fiero conservatore e l’incosciente opportunista (56)[427].


VIII.

Clodio e Catone, (53).

Di lì a poco scoppiava una più violenta rottura fra Clodio, sostenuto
dai maggiorenti del partito democratico, e Catone medesimo.

L’anno 55 era stato quello del consolato di Pompeo e di Crasso, a
conseguire il quale i due pretendenti avevano a Lucca, insieme con
Cesare, stabilito di non trascurare mezzo alcuno. E gli argomenti
elettorali, cui essi dettero mano, coronarono così brillantemente i
loro sforzi che anche Catone rimase escluso dalla pretura, cui già
pare i comizi l’avessero eletto, e, solo scaduto il 55 e ripartite
le province, così come i triumviri avevano fissato[428], Catone potè
finalmente assurgere agli onori della carica, che già da un anno
a lui legalmente spettava[429] (54). Come era previdibile, la sua
gestione non potè non sollevare il contrasto della democrazia, per cui,
spiratone il termine[430], Clodio, sentinella avanzata dei triumviri,
dette anche questa volta il segnale dell’attacco.

Già prima di quel giorno, erano fra i due uomini — per motivi in
apparenza trascurabili — nati degli screzi a proposito della missione
cipria.

Subito dopo il ritorno di Catone, Clodio aveva richiesto che gli
schiavi deportati assumessero, in memoria della sua legge, il
soprannome di _Clodii_. Catone vi si era opposto recisamente, ed
aveva per coerenza contraddetto al desiderio di altri, che, dal di
lui nome, proponevano l’appellativo di _Porcii_. La contesa fu pel
momento risoluta col denominarli semplicemente _Cipri_. Ora invece si
riaccendeva sul terreno stesso dell’amministrazione catoniana, e Clodio
chiedeva i non più esistenti libri, entro i quali l’altro avrebbe
dovuto consegnare il rendiconto della medesima, insinuando che la loro
perdita era stata dolosa, che buona parte dell’erario del Tolomeo era
stato dall’ex-questore distolto ad usi tutt’altro che vantaggiosi al
popolo romano, e facendo, tra le righe, balenare il pericolo di un
processo _de repetundis_[431].

Pompeo e Cesare spalleggiavano l’accusatore, e quest’ultimo rincarava
la dose con una lettera, alla quale fu data pubblicità, fra le cui
insinuazioni se ne notava una circa l’offerta e il rifiuto della
pretura da parte di Catone al 56, quasi avesse questi voluto dimostrare
tanto onore essergli venuto meno solo per sua deliberata volontà[432].
Ma l’abile lavorio dell’opinione pubblica, per cui, dietro il fatto
particolare, si mirava a demolire l’uomo, e, dietro l’uomo, il partito,
nient’altro poteva generare che un momentaneo intorbidamento dell’animo
degli spassionati. Catone aveva ragione da vendere e testimonianze
più che attendibili da contrapporre, e bastò, in pubblica adunanza,
il confronto dei tesori, da lui con mezzi pacifici portati da Cipro,
con quelli, recati da Pompeo, da l’Oriente, in seguito a guerre
dispendiose, non che il suo rifiuto della provincia, spettantegli dopo
la pretura, con l’affacendamento dei triumviri intorno alle proprie,
perchè tutto il pallone dell’accusa si risolvesse in una bolla di
sapone ed il suo merito ne riescisse più che immacolato[433] (53).




CAPITOLO IX.

ROMA E L’EGITTO DAL 57 AL 53. LA RESTITUZIONE AL TRONO DI TOLOMEO XIIIº
AULETE.


I.[434]

Tolomeo Aulete a Roma (58). Suo incontro con Catone (58). Decisioni del
senato in suo favore (57).

Se così infausti erano riesciti per l’Egitto i primi atti di
Roma dopo il riconoscimento di Tolomeo Aulete, non meno dolorose
si apparecchiavano allo stato romano le conseguenze di codesto
riconoscimento medesimo.

Ad Alessandria infatti il re si era tosto trovato in conflitto con
l’opinione pubblica a cagione delle violenze, cui aveva più volte
ricorso per riscuotere dagli Egizi quei proventi, che dovevano, tra
l’altro, servire a compensarlo del denaro a più riprese largito per
conciliarsi l’opinione pubblica e i principali uomini politici di
Roma[435]. I malumori crebbero a tal segno da far sì che Tolomeo
Aulete abbandonasse la capitale e s’avviasse alla volta del Lazio col
deliberato proposito di accasare il suo popolo nel cospetto del senato
medesimo (58)[436].

Per via, a Rodi, si era scontrato in M. Porcio Catone, già partito
per eseguire la legge Clodia concernente l’annessione dell’infelice
Cipro, ed ivi, ritenendo opportuno ingraziarsi un tanto personaggio,
il Tolomeo avea fatto annunziare il suo arrivo, sicuro che l’altro si
sarebbe affrettato a muovergli incontro. Ma il fiero aristocratico,
con la posa di romano antico a lui consueta, rispose che, se il re
aveva qualche cosa a riferirgli, venisse pure a trovarlo nella propria
dimora. E, quando il monarca egizio, meravigliato di tanta alterigia,
transasse con i diritti della sua posizione, accorrendo umilmente
all’udienza accordatagli, nè M. Porcio Catone si levò in piedi a
riceverlo, nè si scomodò più di quello che occorreva per additargli
alteramente una sedia.

Dopo che il Tolomeo gli ebbe esposto la sua situazione, il romano
credette di consolarlo, facendogli prevedere vano ogni tentativo,
stante le lotte intestine della sua patria e descrivendogli l’enorme
opera di corruzione, cui per riescirvi avrebbe dovuto dar mano. Che
quindi tornasse piuttosto in Egitto a rappaciarsi coi suoi sudditi,
al quale uopo egli non era alieno dal favorirlo come intermediario.
Parve che tali parole colpissero l’animo del principe, il quale uscì
da quel colloquio col fermo proposito di obbedire, ma bastarono i
posteriori, avversi eccitamenti degli amici, che l’accompagnavano, per
farlo rientrare nell’antico ordine di propositi ed indurlo a ripigliare
la via dell’Italia[437], che, di quali traversie gli sarebbe stata
cagione, non avrebbe durata gran fatica a sperimentare.

Con una strana celerità in affare di tanta delicatezza, il senato
incaricò P. Lentulo Sfintere, proconsole di Cipro e della Cilicia,
della restituzione del re nei suoi stati[438] (57). Tanta fretta, che
lo conduceva ad una decisa ingerenza negli affari d’Egitto, cozzava con
tutti quei motivi, che l’avevano sino a poco tempo addietro indotto
a disinteressarsi completamente dell’eredità egizia, e la nuova,
repentina decisione poteva, da ciò soltanto, prevedersi a quanti
contrasti non sarebbe andata incontro.


II.

Un’ambasceria egizia al senato romano (57). Sua fine. L’inchiesta.
Processi.

Ad Alessandria intanto, sia che il viaggio del Tolomeo fosse rimasto
ignorato, sia che la corte avesse avuto poca fiducia in un’azione
energica del governo romano, era stata insediata sul trono la figlia
dell’esule, Berenice[439]. Ma le notizie dei maneggi del padre non
tardarono a pervenire, e, in vista delle nuove imprevedute circostanze,
fu decisa un’ambasceria di ben cento delegati coll’incarico di
giustificare dinnanzi al senato l’opera del gabinetto d’Alessandria e
di notificare al medesimo i capi d’accusa gravanti su Tolomeo Aulete.

L’infelice ambasceria non giunse neanco al suo destino. Fatta in gran
parte massacrare per via dallo spodestato re d’Egitto, i superstiti
finirono la loro vita a Roma, o, senza neanche esservi fatti
pervenire[440], intimoriti e corrotti, desistettero dall’occuparsi
della loro missione e, caso ancora più grave, dell’eccidio dei loro
compagni[441]. Per quanto però Aulete avesse cercato di soffocare la
voce del suo misfatto, questo era stato così enorme da non permettere
che il senato se ne disinteressasse. Su proposta di uno dei suoi
componenti, fu aperta quindi un’inchiesta, e primo ad interrogare
si stabilì fosse Dione, già duce della malaugurata ambasceria. Se
non che questi subì una sorte identica a quella dei suoi compagni di
sventura. Corrotto dapprima dal re d’Egitto, ne veniva più tardi fatto
assassinare, mentre l’inchiesta, avendosi il Tolomeo già accaparrato
la buona volontà di parecchi fra i più cospicui uomini politici romani,
non arrecava se non frutti negativi[442].

Se infatti da un lato non riescì possibile raccogliere sufficienti
prove di reità sugli alessandrini citati in giudizio[443], più
brillante esito riscossero i cittadini romani, che del delitto erano
stati o partecipi o provocatori.

Nell’esercito dei complici morali del re, che, per di lui mezzo,
cercavano gl’interessi del proprio partito o del proprio patrimonio,
si annoverava fra’ primi l’ospite liberale del principe, il grande
Pompeo[444]. Al di sotto del medesimo formicolava una serqua più o meno
estesa e sconosciuta di pubblicani, alle cui porte quegli aveva bussato
per ottenere i quattrini necessari alla sua opera immorale, mentre una
folla enorme e nauseante di corrotti e di prevaricati s’industriava a
soddisfare i debiti e l’appetito, accattando le briciole disperse del
luculliano banchetto. Questi ultimi, come gli sprovvisti di una classe
sociale e di un partito cui appellarsi, erano i soli passibili di
accuse e di condanne, e soltanto di due fra i medesimi ci è pervenuta
menzione di regolare processo.


III.

Processo di P. Ascizio e M. Celio Rufo (56).

Furono infatti accusati dell’uccisione del capo dell’ambasceria egizia
un P. Ascizio e l’ottimate M. Celio Rufo, che venne altresì incolpato
di avere espulso da Pozzuoli gli ambasciatori alessandrini, spediti
dalla reggente d’Egitto. Difensore di ambedue fu M. Tullio Cicerone,
il quale, nel secondo processo, venne coadiuvato dal suo collega in
oratoria forense, M. Crasso.

Il processo di Ascizio precedè l’altro di Celio, e l’esito fu quale
migliore non poteva aspettarsi: la piena e completa assoluzione
dell’imputato[445] (56).

Più clamoroso dovea riescire il secondo dibattimento. Sembra infatti
che M. Celio, oltre a figurare tra i corrotti dal principe egiziano,
sia stato, nella qualità di creditore del medesimo, uno degli strumenti
più interessati di corruzione[446]; nè il rango sociale che egli
occupava avrebbe consentito che lo si trascinasse ad un pubblico
dibattimento, se un ripicco privato della gente Claudia non gli serrava
contro una mezza dozzina circa di sottoscrittori[447]. L’accusa che
gli fu mossa, una molteplice accusa _de vi_[448], c’interessa per due
soltanto fra i suoi «_a capi_»: l’imputazione della cacciata degli
ambasciatori alessandrini da Pozzuoli ed il mandato assassinio di Dione
per mezzo degli schiavi di quello stesso cittadino romano, L. Lucceio,
che l’aveva ospitato[449].

Gli argomenti della difesa vennero ripartiti fra i due oratori.
Crasso parlò in discolpa di Celio circa l’affare dell’espulsione degli
ambasciatori, Cicerone in merito alla supposta complicità nell’omicidio
del loro capo.[450]. L’orazione del primo ci è perfettamente
sconosciuta; l’altra di M. Tullio si ridusse ad opporre all’accusa
l’assoluzione di Ascizio[451] e la testimonianza favorevole di Lucceio,
sotto la cui autorità quegli cercò di schiacciare tutto l’edifizio
degli avversari. Come Ascizio, Celio fu assolto[452], e Cicerone potè
esser lieto di avere da un canto resa la pariglia a quei Clodi, per la
cui sollecitudine era stato imbastito il processo, dall’altro, d’avere
avuto agio di accaparrarsi, con l’apologia di Lucceio, lo storico
futuro delle sue gesta politiche[453].

Questi i soli processi di cui abbiamo menzione. Se non che lo scandalo,
represso in maniera così fortunata, rimetteva il Tolomeo nel pieno
diritto di tornare alla richiesta dell’aiuto di Roma, aprendo in tal
guisa una seconda fase della vertenza più spinosa della precedente.


IV.

Agitazione e rivalità fra i pretendenti all’incarico della restituzione
del Tolomeo.

L’incarico della spedizione egizia era infatti un boccone così ghiotto,
un orizzonte così foriero di potenza civile e militare che nessuno
dei più cospicui uomini politici del tempo se ne sarebbe volentieri
vista sgusciare di mano l’occasione. Un precedente _senatus-consultum_
avea, come osservammo, incaricato dell’impresa P. Lentulo proconsole di
Cipro e di Cilicia. Se non che, contro di lui sorgeva adesso temibile
concorrente Gneo Pompeo, alle cui costole il principe egiziano, verso
la fine del 57, allontanatosi prudentemente dal territorio romano[454],
aveva messo un suo incaricato, l’egizio Ammonio[455]. Col triumviro,
in grazia dell’aureola democratica, stavano i più, non esclusi
coloro, che in buona fede pigliavano a cuore la causa del re, e,
quel che più monta, uno degli stessi membri del collegio dei tribuni,
L. Caninio Gallo, mentre Pompeo, in mezzo all’aperta lotta, che per
lui sostenevano i suoi amici, cercava di disarmare gli avversari più
temibili e più tenaci col mostrarsi affatto alieno dall’impresa[456].

Deliberati ad infrangere tutte le rosee speranze del vecchio e del
nuovo concorrente erano invece i più rigidi membri di quel partito
conservatore, che si era mantenuto sempre avverso alla riduzione
dell’Egitto a provincia romana, guatando con occhio sospettoso
l’avvento di un governatore in quelle regioni.

La caduta di un fulmine sulla statua di Giove sul Monte Albano era
intanto servita ai tribuni quale occasione per tentare il responso dei
libri sibillini, e il provvido oracolo avea profetato, vietando pel re
d’Egitto altro soccorso all’infuori di una platonica amicizia. Questo
avea divulgato il tribuno Caio Catone[457] prima ancora della nuova
decisione senatoria, forzando altresì i pontefici a leggere e comentare
pubblicamente l’oracolo, e ciò bastava pel momento a destituire di ogni
importanza il già trascorso _senatus-consultum_ in pro del governatore
della Cilicia[458], mentre a tale «calunnioso ostacolo», come per ora
ebbe a definirlo M. Tullio Cicerone, era giocoforza che la grande
maggioranza dei sostenitori, sia di Pompeo che di Lentulo, fosse
pronta, in ogni modo, a inchinarsi.


V.

La questione in senato. Iª seduta (15 gennaio 56) IIª seduta (16
gennaio).

Tre erano quindi le opinioni che si sarebbero conteso il campo nella
prossima tornata senatoria fissata pel 15 gennaio: una tendente
a riproporre Lentulo, aggiungendo però la clausola che questi,
nell’eseguire la sua missione, non facesse, concordemente all’oracolo,
uso alcuno della forza armata; una seconda, tendente ad eleggere non
uno, ma tre privati, ed una terza, schiettamente in favore di Pompeo,
contro del quale, al più, concedeva la garanzia di un paio di colleghi,
tutti però rivestiti del dritto di _imperium_, nel pieno esercizio cioè
dei loro poteri militari[459].

La prima opinione, concretata in un relativo ordine del giorno,
doveva essere sostenuta da Q. Ortensio, M. Lucullo e Cicerone, che
al proconsole della Cilicia doveva, riconoscente, la fortuna del suo
ritorno; la seconda, da M. Calpurnio Bibulo, nemico di Pompeo perchè
genero di Cesare, del quale egli era stato collega ed avversario
nell’edilità, nella pretura e nel consolato; la terza, da M. Licinio
Crasso e da L. Volcacio Tullo.

Dopo lunga e vivace discussione, si stabilì di passare ai voti. Giusta
la gerarchia del rango, doveva avere la precedenza l’ordine del giorno
di Ortensio, cui avrebbe dovuto seguire la votazione sull’altro
di Volcacio. Ma, poichè i consoli avversavano la causa di Lentulo,
di cui Ortensio era noto sostenitore, dettero, valendosi dei loro
poteri discrezionali[460], la precedenza a Calpurnio Bibulo, il quale
avversava tanto la causa di Lentulo quanto quella di Pompeo.

Ma, poichè il suo ordine del giorno implicava due questioni: 1)
il dovere di ottemperare all’oracolo, 2) la nomina di tre privati,
ne fu chiesta immediatamente la divisione. La prima parte riscosse
l’unanimità dei voti ed il _veto_ dei tribuni Catone e Caninio; la
seconda venne, a grande maggioranza, respinta.

Seguiva l’ordine del giorno di Ortensio, quando un tribuno della plebe,
P. Rutilio Lupo, fattosi avanti, richiese di presenziare e verificare
la votazione[461]. Ne nacque un uragano di proteste. I consoli, che
miravano a far sì che le proposte di Ortensio non fossero votate,
lasciarono che la discussione si prolungasse all’infinito, e ciò bastò
perchè, esaurita la giornata, tutto fosse rimesso alle sorti della
dimane[462].

La nuova seduta senatoria riescì senza confronto, più grave della
precedente.

Dopo un lungo, prolisso polemizzare, i fautori di Lentulo e di Pompeo
parvero trovarsi di fronte ad un ostacolo imprevisto ed insormontabile.
I tribuni C. Catone[463] e L. Caninio Gallo[464] vennero fuori con la
strana dichiarazione, che, valendosi dei loro diritti, si sarebbero
ora e sempre astenuti dal presentare ai comizi proposta alcuna di
legge innanzi le future elezioni magistratizie[465]. Ciò bastava perchè
l’insistere per un’immediata decisione equivalesse ad un voler lottare
contro l’ineluttabile.


VI.

La condotta dei tribuni. Il senato. I consoli.

Ma, se alla fine delle fini tale dichiarazione poteva pel momento
rassicurare i più pessimisti, e, insieme col ritardo dell’incarico a
Lentulo, provocare quello dell’incarico a Pompeo, grave fu la sorpresa
degli amici del primo, quando, di lì a poco, si vide C. Catone medesimo
proporre il richiamo di Lentulo dalla Cilicia[466] ed il suo collega
Caninio far approvare dai comizi, mentre altri leggeva al popolo le
concordi lettere del monarca egiziano[467], che l’incaricato della
missione fosse Pompeo, sia pure sfornito d’esercito, col semplice
accompagnamento di due littori[468].

L’enigmatica condotta dei tribuni si rivelava adesso a luce meridiana
come la graduale attuazione dei piani concepiti dalla più fine arte
degli amici di Pompeo[469]. Ma il guaio si era che le due proposte
tribunizie urtavano, specie la seconda, contro gli antichi sentimenti
del senato, già da tempo ostile alla creazione di un proconsolato
egizio; ed esso, aiutato da un improvviso attacco in pubblico tribunale
di Clodio, accusatore di Milone, contro Pompeo, difensore del medesimo
e da un altro, di C. Catone[470], s’affrettò ad annullare ogni
deliberazione popolare, dopo avere sapientemente preparato all’uopo
l’opinione pubblica, allegando che Pompeo non poteva assentarsi dalla
capitale, poichè, in qualità di prefetto dell’annona, gl’incombeva
l’incarico di provvedere la città di vettovaglie[471]. Al tempo stesso
il console Marcellino Lentulo, inaugurando le ferie latine, sospendeva
i giorni comiziali, allo scopo d’impedire a sua volta qualsiasi
proposta di legge di Catone, o, peggio ancora, di Caninio[472].
All’annunzio di tante disavventure, Tolomeo, che non aveva fidato in
altri se non in Pompeo e che, pare, fosse già partito per l’Oriente,
disperando d’ogni buona riescita, si ritirava scoraggiato in Efeso.


VII.

Cicerone e P. Lentulo. Pompeo, A. Gabinio e Tolomeo Aulete.

Non erano così rassegnati i partigiani dei due concorrenti.

Tra essi Cicerone consigliava per lettera Lentulo, qualora lui, che si
trovava più vicino, ne giudicasse più opportuna l’interna situazione,
vigendo ancora il _senatus-consultum_, il quale l’aveva investito
della missione in Egitto, di rimettere coraggiosamente Aulete sul
trono, riconducendolo magari a Tolemaide od altrove, indi marciare con
l’esercito e la flotta, senza fare uso delle armi, su Alessandria, ed
assicurarvi stabilmente colla presenza delle sue truppe, il dominio
del re. Così il Tolomeo sarebbe stato rimesso sul trono, giusta il
primo _senatus-consultum_, e, senza azione militare alcuna, giusta il
responso dei libri sibillini. Se poi, soggiungeva l’oratore, Lentulo,
costretto o meno, fosse riescito a conquistare l’Egitto, agli occhi
del pubblico, il successo dell’impresa sarebbe bastato a giustificare
l’impiego di qualsiasi mezzo[473].

Ma l’abile e poco scrupoloso piano dell’oratore non persuase il
pretore della Cilicia, il quale fu l’unico a rassegnarsi al suo crudo
destino. Se non che, mentre ciò avveniva, ed il 56 trascorreva in vane
querimonie, Aulete, raccomandato da Pompeo, si presentava al proconsole
della Siria, Aulo Gabinio[474].

Quando Gabinio ricevette Tolomeo, pensava, — e le condizioni della
provincia lo richiedevano, — ad una guerra contro i Parti. Ma le
istanze di un suo, per allora, oscuro luogotenente di cavalleria, M.
Antonio, il futuro competitore di Ottaviano[475], prevalsero alla
coscienza del proprio dovere, cui del resto Aulete non gli avrebbe
concesso di porgere eccessivo omaggio, dappoichè aveva, insieme col
generale, corrotto l’esercito, sborsando immediatamente metà della
somma pattuita, ben diecimila talenti[476], e rimettendo il resto al
saldo della ricevuta promessa, la restituzione in patria.


VIII.

La spedizione di Gabinio (55). Aulete rimesso sul trono (55).

Forte così dell’oro del Tolomeo e, per giunta, di una a noi sconosciuta
clausola della legge, che, investendolo della luogotenenza della Siria,
gli aveva altresì concesso un «_imperium infinitum_»[477], Gabinio,
lasciatovi il figlio Sisenna, ancor giovanissimo e spedito innanzi
M. Antonio medesimo, marciò, attraverso la Palestina, alla volta
dell’Egitto (55)[478].

Regnava ancora Berenice, la figlia di Tolomeo Aulete, la quale
si era recentemente sposata ad un siro, un tale Archelao Sillano.
Gabinio fece dapprima arrestare e poi liberare costui per estorcergli
maggiori somme, avendo divulgato ad arte la notizia che egli si fosse
liberato da sè. A Pelusio, valendosi della generosità degli Ebrei,
che s’affrettarono a sgomberargli il passo[479], divise in due corpi
l’esercito e sconfisse le milizie egiziane venutegli contro. Due
nuove vittorie, l’una sul Nilo, l’altra terrestre[480], assicurarono
definitivamente la clandestina impresa e l’ingresso trionfale delle
armi romane in Alessandria. Archelao[481] fu ucciso nei massacri
ordinati, non si sa bene se dal Tolomeo o dal generale romano, mentre
Aulete, rimesso sul trono, inaugurava il nuovo regno, assassinando la
figlia Berenice[482] ed i più cospicui e benestanti cittadini della
capitale, con le cui sostanze egli pensava rifarsi delle ingenti somme
sperperate in Roma alla riconquista del trono.

Fatto nuovo e importantissimo, Gabinio lasciava presso il re, sotto
forma di presidio, un numeroso corpo di legionari romani[483].
L’indipendenza dell’Egitto subiva così la più grave _capitis deminutio_
possibile, e Roma veniva posta nella piena, effettiva possibilità
d’ingerirsi costantemente negli affari della sua politica interna.


IX.

Gabinio sotto processo (55). Tentativi di salvataggio. Condanna
contumaciale di Gabinio (54).

La prolissa questione aveva avuto, pel re d’Egitto, la sua definitiva
soluzione, e, quando Cicerone, scornato nella sua olimpica ingenuità,
apprese la clamorosa novella, che, insieme colle proprie, spacciava le
speranze di Lentulo, scriveva a un amico lontano, senza il coraggio
di uno solo rigo di comento: «A Pozzuoli si buccina che il Tolomeo
sia diggià nel suo regno; se hai qualche notizia più sicura, fammela
sapere.»[484].

Non così avvenne, nè poteva accadere per Gabinio.

Questi, conscio della gravità del suo operato, non ebbe neanche il
coraggio di redigere la regolamentare relazione al senato. Ma di ciò,
in sua vece, si presero cura i Siri, da cui, avendo i pirati fatto
amaramente sperimentare gli effetti della lontananza del governatore
romano, partì un acerbo reclamo al governo della città dominatrice.
I pubblicani medesimi non avevano, in quell’intervallo, potuto
riscuotere i tributi, per cui, se Gabinio avea ricolmo il proprio
scrigno, le casse dell’erario e degli appaltatori delle imposte della
regione ne erano state, in grazia sua, tutt’altro che favorite[485].
Un provvedimento disciplinare s’imponeva; Gabinio fu messo in stato
d’accusa[486], e l’accusa fu duplice[487]: _de maiestate_, in quanto
avea violato i decreti del popolo romano, _de repetundis_, cioè di
concussione, in quanto aveva gravemente esorbitato dalle proprie
attribuzioni, s’era fatto corrompere da un principe alleato, e, per
esso, aveva, non senza gravi conseguenze, trascurato l’amministrazione
della provincia affidatagli[488]. Il candido Cicerone, tutto tenero
del «_calunnioso ostacolo_» della religione, com’egli aveva altra
volta definito l’oracolo, adesso, più violento che mai contro Gabinio,
eccitava il popolo a voler riletti quei libri della Sibilla, di cui
egli poco prima avea eccitato Lentulo a trasgredire il responso.
Sperava che in tal guisa vi si sarebbe trovata la pena con cui i
tribunali avrebbero dovuto colpire colui, che avea frodato Lentulo
dell’incarico di ricondurre Aulete nel regno. Ma i consoli Pompeo
e Crasso, l’uno, intimo di Gabinio e già istigatore della sua
impresa, l’altro, o solidale per interessi di partito, o corrotto dal
governatore della Cilicia, lottarono disperatamente perchè non venisse
presa decisione alcuna in proposito (55). Se non che, scaduto l’anno di
carica e successi nel loro ufficio Domizio Enobarbo ed Appio Claudio,
ambedue membri della conservatrice aristocrazia romana, la rosea
situazione dell’antico ufficiale di Cesare si oscurò; e, sia indettato,
sia favorito dai consoli, il senato decretava che gli oracoli venissero
riletti. Delle disastrose inondazioni furono interpetrate come segno
dell’ira degli Dei, e tutto cooperò a rendere inevitabile il processo
di Gabinio, che, contumace, fu, per la prima soltanto delle due
imputazioni, condannato alla pena capitale[489].


X.

Suo ritorno (20 settembre 54). Purgazione della contumacia. Gabinio
assolto _de maiestate_ (fine dell’ottobre 54). Gabinio condannato _de
repetundis_ (fine del 54).

Tanta vendetta saldava eziandio i conti del processo, che rimaneva.
Ma, appunto per questo, Gabinio volle tentare l’estrema audacia, ed il
20 settembre dello stesso anno 54, rientrava in Roma, intenzionato a
provocarvi la purgazione della contumacia[490].

Il suo ritorno risollevò l’ira e le proteste del senato e dei suoi
avversari[491], fra cui non ultimo Cicerone, il quale si riaccinse a
scagliare contro Gabinio tutti i fulmini della sua eloquenza[492].
Ma i nuovi processi seguirono un andazzo ed ebbero un esito assai
diverso dal precedente[493]. Lentulo, suo accusatore nel processo
_de maiestate_, apparve da ultimo[494] così remissivo da suscitare
persino in Cicerone il dubbio che avesse subìto la pericolosa
influenza di Pompeo[495]. La giuria venne corrotta dalle enormi somme
dispensate da Gabinio e dalle raccomandazioni del solito Pompeo[496].
L’opinione pubblica fu turbata dall’oscura minaccia di una prossima
dittatura[497], e Gabinio tornava trionfalmente assolto del reato di
lesa maestà con voti 38 contro 32[498] (fine dell’ottobre 54)[499].

La sentenza portava, come suo motivo, una strana interpetrazione del
responso della sibilla, la quale avrebbe alluso ad altri tempi e ad
altri re egizi, nè prescriveva condanna alcuna contro l’imputato[500].
Ma, se tale argomento ebbe la virtù di convincere i giudici, non
scosse d’un punto l’opinione e la superstizione della maggioranza del
pubblico, spettatore del dibattimento. La notizia di tanta enormità
provocò un tumulto, ed i giudici, così audaci nell’averla perpetrata,
affidarono adesso la loro salvezza alla fuga, scampando a stento
all’indignazione popolare[501]. Ma, strana ironia della sorte, il
terzo processo _de repetundis_, i cui auspici si presentavano assai
più favorevoli che nei precedenti, doveva da ultimo subire l’esito più
infelice.

Esso si era dovuto rimandare stante le condizioni di salute del pretore
incaricato dell’istruzione[502], e, quando il processo ottenne il suo
turno, Gabinio, oltre a trovarsi in certo modo garantito dall’esito
brillante dell’altro _de maiestate_, potea contare a favor suo
l’acquisto del già non disagevolmente placato Cicerone, che gli si
apprestava quale patrocinatore[503] e la presenza di Pompeo, che si era
affrettato ad intervenire al giudizio ed a perorare innanzi al popolo
radunato la causa del suo protetto, leggendovi le lettere speditegli da
Cesare in favore di quest’ultimo. Ma l’odiosità della causa[504], lo
zelo eccessivo di Pompeo, il nauseante voltafaccia di Cicerone[505],
e fors’anco una tal quale negligenza di Gabinio, già sicuro del fatto
suo, nell’accaparrarsi la benevolenza dei giudici, cogli argomenti
più solidi della corruzione, pare abbiano concorso gravemente a farne
abortire le speranze. Gabinio infatti, scampato a tante più gravi
situazioni, colpito da condanna, non ostante si fosse abilmente difeso,
allegando a motivo della sua spedizione il timore di un accordo tra
la flotta egizia e le galere dei corsari, fatale in caso di successo
alla sua provincia[506], nonchè, a giustificazione della medesima, la
clausola dell’_imperium infinitum_, contenuta nella legge, che l’aveva
investito della luogotenenza della Siria; e, benchè avesse insistito
nell’affermare di non avere ricevuto altro denaro, se non quanto era
occorso a indennizzarlo delle spese[507], veniva adesso costretto a
pigliare la via dell’esilio[508] (54).


XI.

La società romana contemporanea.

Siamo pervenuti al periodo più caratteristico di quella nuova società
romana, che Giugurta, il quale ne aveva intravisto soltanto gli esordi,
e nella cui fantasia tutto albergava, tranne l’ipotesi di una questione
alessandrina e di un processo gabiniano, marchiò colla frase scultoria,
lanciata alle porte della metropoli: «_Tu venderesti te stessa, se
trovassi un compratore_»[509]. La gran maggioranza degli storici
spiegano tanto travolgimento di coscienze coll’infelice tautologia
di una corruzione morale, di cui ci sarebbero sconosciuti i motivi
prossimi e remoti. In realtà, la società romana raccoglieva adesso, e a
piene mani, i frutti di quella politica, nel cui vortice, per ragioni
particolari, l’aveva lanciata la classe detentrice del suo governo.
La corruzione morale era il contracolpo di un radicale perturbamento
di tutti gli antichi rapporti sociali e del tenore di vita, che ai
cittadini imponevano le nuove, mutate condizioni circostanti. Le guerre
senza interruzione avevano rovinato la media e la piccola proprietà
terriera, precipitandole nel baratro del pauperismo, costringendole a
vivere di elemosine e a sollecitarle con insinuazioni e con insolenze.

Destituita d’ogni risorsa industriale, l’antica republica di
agricoltori si era, contemporaneamente, per mezzo di un’altra classe
di cittadini, gli _equites_, che alle prime avvisaglie, avevano fatto
in tempo a salvare dalla crisi agricola i loro capitali, gettata al
saccheggio delle province, mentre l’alta aristocrazia della terra,
i possessori dei latifondi, i candidati al consiglio senatorio,
riscotevano le rendite dei loro possessi mostruosi, impinguati dal
sudore degli schiavi, e, di fatto, se non di nome, gareggiavano coi
primi nell’espoliazione del pubblico demanio, i così detti _praedia
populi romani_.

«Compagni e forieri della mutata vita economica erano stati i nuovi
andazzi dei costumi, delle fogge, delle maniere di vita. Con l’eco
delle vittorie e con l’oro dei vinti erano penetrati in Roma, a frotte,
tutta la corrotta genia dei parassiti, tutto quel nugolo di artefici
della corruzione, che si erano schiusi dal seno della decadente civiltà
greca, ed al rustico Lazio apportavano i più raffinati amminicoli
di un’età più corrotta, tutti i più fieri veleni della vita, larvati
sotto le più liete apparenze. L’elemento greco certamente aveva avuto
sempre a mezzo delle colonie italiche contatto con la vita romana,
e non aveva potuto non esercitarvi la sua azione, ma ora addirittura
v’irruppe, e con le sue correnti meno sane, fatte per giunta tramite»
della «corrotta vita orientale»[510]. Tutti gli effetti di una vittoria
sfrenata, di un bottino senza contrasti, una febbre d’oro di piaceri,
di seduzioni avea invaso l’esercito trionfatore dei morigerati
cittadini del Lazio. Pena la morte o la disfatta, i partiti e gli
uomini politici non poterono più, nelle lotte d’ogni giorno, trascurare
tante nuove quantità e consuetudini, il cui maneggio bastava da solo
a decidere della vittoria o della sconfitta. Poveraglie cenciose,
schiavi emancipati, impotenti od ignari dei lavori concessi ai liberi,
stranieri ingordi di rapine e pronti, al pari dei succitati, ad
arrolarsi, quali bravi o mercenari, al servizio dei candidati e degli
uomini politici del tempo, vagavano, come orde fameliche, cui bisognava
saldare i conti prima di tentare l’agone della vita pubblica[511].
Ogni elezione era quindi una voragine pei candidati, un incendio di
debiti nuovi, che il posto da conseguire doveva colmare ed estinguere
coi rivoli infiniti delle dilapidazioni provinciali. «La corruzione
elettorale e la dilapidazione delle province erano come i due estremi
di una linea, che, ripiegandosi su se stessa, formava un circolo chiuso
e il più vizioso che mai fosse.

«Si corrompeva per ottenere la carica, e si voleva la carica per fare
una fortuna»[512]. E la fortuna da conquistare era tanto più pericolosa
quanto più grande, come quella che riscoteva i reclami dei dilapidati,
le invidie e gli odii degli avversari, pronti a tradursi in altrettanti
processi, nuova fonte di sperpero e di corruzione. Come infatti,
prima dell’elezione facea d’uopo comperare gli sgherri e gli elettori,
occorreva adesso comperare il pubblico, i giudici e gli accusatori,
pena ineluttabile, in caso d’insuccesso, l’interdizione dei pubblici
uffici, equivalente all’interdizione del pubblico espoliamento.

Tali erano alcuni soltanto dei frutti della trascorsa politica
imperialista del senato romano, che storici e retori esaltano quale
capolavoro di sapienza stataria, e che invece, originata, come abbiamo
visto[513] da gretti interessi di classe, terminava per inabissare,
sotto le sue conseguenze, il mondo conquistato ed i conquistatori.


XII.[514]

Il processo di C. Rabirio Postumo; l’accusa; la pena.

Frattanto neanche la condanna di Gabinio avea chiuso la serie delle
conseguenze della questione alessandrina. Diretto contracolpo ne fu un
processo contro un personaggio, rimasto, durante i fatti precedenti,
nell’ombra, ma che pur troppo avea avuto gran parte nella loro pratica
attuazione.

Era questi un cavaliere romano, C. Rabirio Postumo. Seguendo
la carriera del padre, egli avea partecipato a moltissime delle
speculazioni e delle imprese dei pubblicani. Avea ottenuto appalti
nelle province, era stato largo d’imprestiti a popoli e a monarchi,
e, per sua malaventura, fra i re, che ne avevano chiesto i favori,
s’era imbattuto in Tolomeo Aulete[515]. I primi suoi imprestiti a
quest’ultimo rimontavano ad una data anteriore alla venuta di lui
a Roma. Dopo quel tempo essi non erano stati continuati con minore
zelo, anzi Postumo vi avea impiegato, non solo i propri, ma eziandio i
capitali dei suoi amici. E, quando Aulete, come vedemmo, era ripartito
definitivamente da Roma per Efeso, nuovo danaro gli era stato rimesso,
in seguito a più di una scrittura, rogata in casa di Pompeo[516]. Non
avendo riscosso nulla di tante somme sborsate, Postumo si era più tardi
acconciato a recarsi alla corte di Aulete, in qualità di amministratore
delle finanze dello stato (διοικητής)[517], nella speranza di rifarsi
di tanti crediti inestinti. Ma, disgraziatamente, anche adesso, avea
dovuto sopportare tutta la bieca ferocia, di cui più volte s’era
dimostrato capace il re d’Egitto. Era stato costretto a vedersi
imprigionare i più fedeli compagni, e, privo dell’ultimo resto delle
proprie sostanze, avea dovuto fuggire dal regno[518]. Dopo di che, a
detta di Cicerone, se non fosse stato il soccorso di Cesare, egli non
avrebbe potuto più mantenersi nel rango sociale ereditato dalla propria
famiglia[519]. Come se ciò non bastasse, in grazia dell’insolvibilità
di Gabinio, egli era stato quindi citato in giudizio da C. Memmio, uno
degli antichi accusatori di quest’ultimo[520].

Il crimine, che gli s’imputava era il medesimo, per cui già era stato
condannato Gabinio, un crimine di concussione[521]. L’ex-proconsole
della Siria non aveva coi propri beni potuto saldare la multa, di
cui era stato ritenuto passibile, e, giusta un articolo della legge
_Iulia de repetundis_, il residuo del debito avrebbe dovuto essere
colmato da colui, che, come Rabirio, nella qualità di ministro delle
finanze in Egitto, avea procurato ed esibito il denaro, necessario
alla consumazione del crimine, falcidiandone, come era presumibile, una
parte nel proprio, esclusivo interesse[522].

Questo il pernio dell’accusa. Intorno ad esso però ne gravitavano delle
altre non meno acerbe ed infamanti.

Sosteneva infatti l’accusatore: 1) le somme sborsate in Roma da
Postumo ad Aulete essere valse a corrompere il senato[523], sì che, fra
l’altro, poco o nulla s’era per esse concluso dall’inchiesta aperta
sulla tragica fine dell’ambasceria alessandrina; 2) Postumo avere,
mirando al proprio interesse, sospinto, per via di danaro, Gabinio
a restituire sul trono Tolomeo Aulete, violando così il tassativo
disposto del senato e l’ammonimento dei libri sibillini; 3) lui stesso,
cittadino romano, essersi abbassato a funzionare da ministro di un re
straniero[524], e, quel che più monta, avere, in tale ufficio, mirato,
anzichè a servire fedelmente il monarca, ad accumulare ricchezze in pro
di se medesimo[525].

La pena, come nel precedente processo, variava dall’esilio alla
interdizione dei diritti politici[526], e, come per Gabinio, sotto le
pressioni di Pompeo, il difensore ne era M. Tullio Cicerone[527].


XIII.

La difesa di Cicerone.

La principale tra le difese di quest’ultimo volse sull’interpetrazione
del capoverso della legge _Iulia_, che implicava nelle reti del
processo precedente il malcapitato cavaliere.

— Anzi tutto, opponeva il difensore, Postumo non è, a tenor di legge,
di nulla imputabile perchè, nè, in genere, nel processo di Gabinio,
nè tanto meno nella conseguente _litis aestimatio_[528], egli è stato
citato come imputato o come testimone, nè mai vi si è udito menzionare
il di lui nome, il che, giusta la consuetudine giudiziaria, avrebbe
dovuto essere richiesto, perchè Postumo potesse venire imputato[529], e
non già in un giudizio distinto, sibbene in quello medesimo, tenuto per
il reo principale[530]. Ma, aggiungeva Cicerone, data l’imputabilità
di Rabirio, come individuo, non ne consegue la possibilità di una
condanna, dappoichè la legge _Iulia_ non è applicabile all’ordine degli
_equites romani_[531] —.

Se non che, tali argomentazioni non bastavano a separare la causa di
Postumo dall’altra di Gabinio, ed è perciò che Cicerone insiste su
questo punto con tutto il calore, di cui egli è capace.

— Ciò che Gabinio avea fatto, obbiettava il difensore contro la
seconda delle accuse appendicolari gravanti sul proprio patrocinato,
è unicamente imputabile all’opinione di Gabinio medesimo, nè l’accusa
di corruzione, volutamente esercitata da Postumo, rimane al di sopra
di una pura ed illogica diceria[532]. I citati testimoni alessandrini
hanno lodato Gabinio, il che implicitamente ridonda ad onore di
Postumo, a meno che non si voglia lodare colui, per il quale fu
raccolto il danaro, e biasimare chi materialmente lo raccolse[533].
Essi medesimi, nel processo di Gabinio, negarono che a costui fosse
stata offerta mercede alcuna, e Pompeo ebbe allora a testimoniare
averlo il re assicurato nessun’altra somma al proconsole della Siria
essere stata esibita se non quella necessaria alla spedizione. Come
potersi quindi credere ora ai medesimi, quando affermano che parte
di codesto inesistito mezzo di corruzione sia rimasto nelle mani di
Rabirio[534]? —

Liberata così la causa di quest’ultimo dal processo Gabiniano, Cicerone
tenta svincolarla dalle rimanenti quistioni, cui l’accusatore l’aveva
strettamente connessa.

— L’accusa di aver partecipato alla corruzione dell’assemblea
senatoria, dichiara Cicerone, nè è questo — a rigor di legge — il
luogo in cui possa venire dibattuta, nè è congiunta con la causa
di Postumo, sprovvisto di mezzo alcuno per prevedere l’uso, che dei
propri imprestiti avrebbe fatto Aulete, non già nemico, ma alleato di
Roma, dalla quale avea riscosso l’affidamento della restituzione sul
trono. Sarebbe curioso, obbietta di nuovo il difensore, condannare,
non già chi trafisse, sibbene chi ebbe l’infelice idea di fabbricare la
spada[535].

Nè può egualmente il cavaliere Postumo venire accusato di essersi
moralmente compromesso per aver servito il re egizio. Certo tale
decisione fu stolta, ma Postumo vi ricorse per saldare da sè i crediti
ch’egli vantava con Aulete, a tutto intenzionato piuttosto che a
soddisfarli. Data la mala volontà di quest’ultimo, altro dilemma non
rimaneva se non quello di vestire il pallio per tornare togato a Roma,
o rimanere in questa per rimetterci le possibilità della toga[536]. Chi
può del resto, aggiungeva il difensore, affermare che l’amministrazione
di Postumo abbia peccato di disonestà? Duplice era la via di guadagno:
o, riscotendo i tributi, ritenerne la consueta percentuale, e in ciò
nulla di men che corretto; o frodare nella esazione e nella consegna
della somma promessa a Gabinio, e ciò è in contraddizione colla mercede
di 10000 talenti, che l’accusatore, fondandosi sul processo di Gabinio,
ritiene promessi e pervenuti per intero a quest’ultimo[537].

L’accusa poi che Postumo, con tutta la sua ostentata indigenza,
possegga e celi delle ricchezze è destituita d’ogni fondamento e
contraddice alla misera fine della di lui gestione in Egitto. Chi
narrò di navi noleggiate per suo conto a Pozzuoli, fra cui una, che
alle dimensioni apparve la depositrice del tesoro, chi intravide merci
preziose, celate sotto carte e pannolini e simili bazzecole, non si
fondò che su vane e inattendibili dicerie —.

E così, forte dell’assenza quasi completa di prove, Cicerone entra
nell’ampio torrente della perorazione, rammentando come la disgrazia
del danaro prestato sia da sola sufficiente a costituire la peggiore
delle condanne, enumerando le sciagure, di cui Rabirio era stato parte
e spettatore ad Alessandria, la stima e la generosità, di cui era
stato fatto segno da Cesare, invocando la solidarietà degli _equites_,
allora, giusta la legge Aurelia[538], membri del tribunale giudicante,
solleticando coi frequenti accenni alla propria autorità l’ordine
senatorio, cui egli si dichiarava onorato di appartenere, e chiedendo,
per tutto ciò, l’assoluzione dell’imputato.

Riescì Postumo assolto?

Nessuna notizia ci è pervenuta sul proposito ed il silenzio è pari
all’arditezza di qualsiasi supposizione. Qualunque però sia stato
l’esito del processo, nessuno degli argomenti difensivi poteva, a rigor
di termini, vantare un valore meno che causidico, e tutta l’orazione,
quando non sonò puro appello alla sensibilità dei giudicanti, rimase
nella bassa sfera dei doveri d’ufficio del difensore. La causa
di Postumo era moralmente e logicamente inseparabile da quella di
Gabinio, e Cicerone era troppo bene informato della colpabilità di
quest’ultimo per potersi con coscienza afferrare alla contraddizione
dei legati alessandrini, e, peggio ancora, alla testimonianza di
Pompeo. Nè era egualmente possibile svincolare la causa di Postumo da
quella della corruzione del senato, chè il primo avea avuto tempo di
sincerarsi della fine dei propri imprestiti[539], e la legge _Iulia
de repetundis_ poteva, oltre ai diretti, permettersi di colpire i più
remoti responsabili, anche se semplici privati[540]. Le giustificazioni
poi circa i motivi dell’ufficio, da Rabirio spontaneamente assunto ad
Alessandria, ne attenuavano, ma non giustificavano la colpabilità,
e, peggio ancora, cozzavano contro l’ipotesi d’intendimenti onesti
nell’amministrazione, che l’imputato aveva intrapreso[541]. La causa,
poteva _a priori_ dirsi irrimediabilmente perduta, e a Cicerone nulla
era necessario attendere per convincersi della colpabilità del proprio
cliente[542]. Ciò non ostante, come ad ogni passo della sua vita,
preferì sacrificare sugli altari dell’opportunismo più ingenuo e dei
_matchs_ oratorii più fanciulleschi la sua facondia e la sua reale
onestà, e di altro non possiamo dichiararci addolorati se non del fitto
buio, che ai nostri occhi ricopre l’esito di questo, non ultimo fra i
suoi malaugurati _tours de force_[543].


XIV.

Cronologia del dibattimento.

Rimane la questione della cronologia del dibattimento.

L’unico accenno alla medesima, contenuto nell’unica fonte rimastaci,
l’orazione ciceroniana, si è il richiamo ad uno dei più notevoli
eventi politici del tempo, la minacciata demolizione della potenza di
Giulio Cesare[544], in nome del quale il difensore ricerca le ultime
vie della coscienza dei giudici. Se non che, di minacciate demolizioni
del proconsole delle Gallie, per opera di avversari e di amici, se
ne ebbero a contare più d’una dall’anno ormai trascorso dell’ultimo
processo di Gabinio, cui, quello di Postumo si ricollega quale
appendice, all’altro della sua rottura finale con gli _optimates_ (49),
e, peggio ancora, alla di lui morte (44). Occorrono quindi ulteriori
considerazioni per poter fissare con approssimativa sicurezza la
cronologia del giudizio, che direttamente ci riguarda.

Esso, anzitutto, data l’intonazione della difesa, ci si rivela
vicinissimo all’altro di Gabinio; ma, quel che più importa, gli ultimi
capitoli dell’orazione accennano chiaramente a un periodo di intima
riconciliazione dell’oratore con Cesare[545]. Or bene, i periodi
di simpatia fra i due uomini sono molto meno numerosi degli altri
delle svariate ostilità contro il proconsole delle Gallie. Infatti
nè possiamo più trovarne traccia durante o dopo la guerra contro
Pompeo, nè fra il 53 e il 49, nel qual periodo di tempo Cicerone si
chiuse in una completa parsimonia di giudizi e di decisioni, pari alla
incertezza, che allora lo dominava. Gli anni, dunque, che ci rimangono,
vengono costituiti dal biennio 54-53, e nel 54, a noi ampiamente noto
come quello della luna di miele degli amori cesaro-ciceroniani,[546],
ci apparisce ragionevole collocare il giudizio, che, per sua mala
ventura, ebbe a subire Rabirio Postumo.

Così si chiudeva l’era più drammatica delle relazioni di Roma con
l’Egitto, che, per due anni, aveva in maniera anormale tempestato la
vita politica romana, provocandovi una crisi, che solo poteva stare
a fronte dell’altra, avvenuta in sugl’inizi della guerra giugurtina.
Gli uomini ed i partiti vi si erano buttati a capofitto, l’uno contro
l’altro, per sfruttare con interessi opposti la situazione, e, quando,
dopo tanto affacendarsi, Tolomeo Aulete potè credersi tranquillo sul
trono d’Alessandria, non ebbe certo l’intuito di prevedere ch’egli
avea concorso a sollevare una tempesta, di cui, tra non guari, la sua
dinastia ne avrebbe subito, e fatalmente, il contracolpo.




CAPITOLO X.

ALLA VIGILIA DELLA SPEDIZIONE DI GIULIO CESARE. EPILOGO (53-50).


I.

L’ultimo strascico della questione alessandrina.

Il nostro racconto ormai volge alla fine. L’ultima eco della venuta di
Tolomeo Aulete a Roma, fu l’uccisione dei due figli di M. Calpurnio
Bibulo — il senatore che noi già abbiamo notato avverso a Pompeo,
e, quindi, alla spedizione di Gabinio — avvenuta in Egitto durante
il proconsolato del padre in Siria (50), per opera di quei soldati
medesimi, che Gabinio aveva lasciato a guardia di Aulete contro le
possibili rivolte degli Alessandrini[547]. Più tardi Cleopatra,
la futura regina, la favorita di Cesare, probabilmente indettata
dall’astuzia politica del suo amante, spedirà al vedovo padre i
colpevoli perchè questi potesse prenderne la dovuta vendetta. Ma,
egregio esempio di scrupolosa legalità, la storia avrà a registrare la
moderazione del senatore romano, per cui questi rimandò i prigionieri
in Egitto, dicendo che non a lui, sibbene al tribunale competente, il
senato, spettava il giudizio sul loro misfatto.

Noi non conosciamo se la questione abbia avuto seguito, ma, anche se
così fosse avvenuto, essa rientra in una fase cronologica, che esorbita
dai limiti della nostra trattazione.


II.

Morte di Aulete (50). L’Egitto e i partiti politici romani dopo la
spedizione di Gabinio. Epilogo.

Nuovi destini erano, con la reggenza di Cleopatra, già toccati
all’Egitto, e il duello ad armi invisibili, che, da due secoli
e mezzo, esso combatteva con Roma aveva avuto la sua catastrofe
colla sommissione piena ed intera della monarchia dei Lagidi. Colla
spedizione infatti di Gabinio, con il presidio da questo largito al
paese, Roma, senza saperlo, aveva affondata la sua zampa di leone nel
cuore dell’impero dei Tolomei. E l’ultimo principe semi-indipendente
della regione con un’incoscienza, che più non meritava attenuanti,
avea dato di mano a rincrudire le ferite, che non avea saputo evitare
alla sua patria. Aulete morente avea scongiurato il popolo romano a
voler rendersi (facile sacrifizio!) esecutore del suo testamento, copia
del quale egli avea curato di spedire a Roma, così come il senato di
depositare nelle mani di Pompeo[548].

Quella valle remota, dove un principe doveva a Roma, anzi a un romano,
Pompeo, e trono e vita, donde potevasi reclutare ancora una riserva di
soldati della republica[549], sarebbe fra breve, come tutto l’oriente e
l’occidente, divenuta palestra della prossima guerra civile fra Cesare
e Pompeo, ch’era anche la definitiva fra la nobiltà romana e le classi
inferiori della popolazione.

Allorchè quest’ultimo, dopo averne esaurito le risorse, navigò, come
ad estremo approdo, verso l’Egitto, a rifugiarsi sotto le ali della
potenza Lagida, il fato della monarchia Tolomaica fu segnato per
sempre. Invano si tentò bruciare l’ultima cartuccia, allorchè l’ultimo
dei Lagidi, continuando la politica della sua corte, immolò sugli
altari della gloria del vincitore il capo del fuggiasco generale.
L’ex-proconsole delle Gallie, l’autore della legge agraria di Servilio
Rullo, il corifeo di quel partito democratico, che da venti anni
sosteneva l’annessione piena ed intera dell’Egitto, non aveva più
assemblee senatorie con cui fare i conti, nè motivi per continuare
nell’opportunismo e nella transigenza; e, dalla rada di Alessandria,
dalle lagrime sparse sul mozzo capo del nemico, spiegata la pompa
eloquente delle insegne consolari, passò ad installarsi nella magione
dei Tolomei. Nove mesi ancora e tutto l’Egitto sarebbe caduto nelle sue
mani[550].

Giammai, quasi senza colpo ferire, aveva Roma ultimato impresa più
ricca di utili materiali. L’immenso patrimonio egizio di vantaggi
naturali, industriali, commerciali e pecuniari, come fiumana di cui
si fosse spostata l’incanalazione, veniva a riversarsi dall’Africa in
Italia. La chiave fatata dei suoi tesori era stata ritolta all’Oriente,
e, come da Cartagine, dalla Grecia, dalla Sicilia, rivoli infiniti
d’oro e di gemme sarebbero affluiti a smorzare l’inedia dei pezzenti e
a colmare i debiti e lo spreco degli epuloni della capitale d’Italia.
La politica di vampirismo cosmopolita, verso cui l’oligarchia romana
aveva, fin dalla terza delle guerre puniche, indirizzato decisamente
i suoi sudditi, e delle cui conseguenze era stata costretta ad
atterrirsi, aveva, per le necessità medesime del conseguito svolgimento
della società romana, rintracciato il più fedele dei suoi continuatori
nel più tremendo ed implacabile dei democratici. Con Giulio Cesare,
salvo transitorie mutazioni, il circolo della sua storia era chiuso: ai
suoi due capi rilucevano foscamente l’incendio di Cartagine del 146 e
quello di Alessandria del 49.




SOMMARIO


  PREFAZIONE                                                 pag. III

  CAPITOLO I. — _Roma e l’Egitto nel III.º secolo a. C._ —
    I. L’agricoltura in Egitto sotto i Tolomei; pastorizia;
    commercio. L’industria, le classi sociali; la
    costituzione e l’indirizzo politico; arti e scienze.
    II. Agricoltura in Roma durante la repubblica;
    industrie; decadenza dell’agricoltura; pastorizia;
    indirizzo politico. Situazione reciproca dei due stati.
    III. Guerra tarantina; Pirro. Ambasceria di Tolomeo IIº
    d’Egitto ai Romani (273). Motivi politici; motivi
    economici.
    IV. Alleanza romano-egiziaca (273).
    V. Alessandria e Cartagine al tempo della 1ª punica.
    VI. Roma durante la guerra fra l’Egitto e Antioco Jerace
    (238-5).
    VII. L’Egitto vettovaglia Roma durante la guerra
    annibalica (216).
    VIII. Le si dimostra favorevole dopo la resa di Capua ad
    Annibale.
    IX. Rinnovamento dell’alleanza egizio-romana (210). Roma
    e Cartagine nel secondo periodo della guerra annibalica.
    X. Roma, la Macedonia e l’Egitto durante la guerra
    annibalica.
    XI. Rinnovamento dell’alleanza egizio-romana dopo la
    guerra annibalica e preparativi per l’avvenire (201)        »   1

  CAPITOLO II. — _Roma e l’Egitto durante la 2.ª guerra
    macedonica e la I.ª siriaca_ (200-189) —
    I. Roma, l’Egitto, la Macedonia e la Siria.
    II. Critica della pretesa tutela romana su Tolomeo Vº.
    III. La politica estera e le classi sociali romane.
    IV. L’ambasceria egizia in aiuto di Roma contro la
    Macedonia.
    V. Possessi egizi in Asia e in Asia Minore. Conquista
    macedone dei medesimi.
    VI. _Ultimatum_ di Roma a Filippo di Macedonia. I primi
    due anni della seconda guerra macedonica. Trattative di
    pace. Ripresa della guerra. Pace definitiva (196).
    Trascuranza degli interessi egizi da parte di Roma.
    VII. Contemporanee devastazioni di Antioco di Siria sui
    territori egiziani nell’Asia e nell’Asia Minore.
    VIII. Nuova umiliante ambasceria egiziana a Roma.
    IX. I Romani ed Antioco.
    X. T. Quinzio Flaminio e gli ambasciatori di Antioco
    (194-3).
    XI. Nuove pratiche.
    XII. Ragioni della trascuranza degli interessi egizi da
    parte dei Romani durante codeste trattative.
    XIII. Nuova ambasceria egiziana (191).
    XIV. Guerra romano-siriaca. Ultima ambasceria egiziana.
    XV. Nuove trattative di pace (190).
    XVI. Pace definitiva (189). Fine dei possedimenti
    egiziani asiatici.
    XVII. Ragioni del contegno egoistico di Roma                »  28

  CAPITOLO III. — _Roma e l’Egitto durante la V.ª guerra
    siro-egiziaca_ (180-68). —
    I. Tutela romana su Tolomeo Filometore?
    II. Ambasceria romana in Oriente, e preludi di una terza
    guerra macedonica (173).
    III. Preludi di una nuova guerra egizio-siriaca.
    Ambasciatori siri ed egizi a Roma.
    IV. Svogliato intervento del senato.
    V. L’Egitto conquistato da Antioco Epifane di Siria
    (171-0). Disperata ambasceria al senato romano (170).
    VI. Viaggio dell’ambasceria romana ad Antioco (168).
    Fine della IIIª guerra macedonica.
    VII. Precedente ritirata di Antioco dall’Egitto.
    L’azione conciliatrice di Roma (168).
    VIII. Seconda invasione di Antioco in Egitto (168).
    IX. Fine della guerra (168). Nuove delusioni della
    corte alessandrina. Ambasceria di ringraziamento.
    Ambasceria di Antioco Epifane. L’Egitto e l’Oriente
    rispetto a Roma nel 167 a. C.                               »  61

  CAPITOLO IV. — _Roma e l’Egitto durante la guerra civile
    fra Tolomeo Filometore e Tolomeo Evergete II.º_
    (168-151). —
    I. Discordie fra i due re egizi. Ambasceria romana in
    Oriente (164). Tolomeo Evergete a Roma.
    II. La querela di Evergete in senato. Decisioni
    senatorie.
    III. L’ambasceria romana ed Evergete alla volta
    dell’Egitto.
    IV. Gli ambasciatori romani alla corte di Filometore.
    Insurrezione della Libia e della Cirenaica contro
    Evergete. La condotta dell’Egitto.
    V. Nuova discussione in senato. Il senato contro
    Filometore. Guerra civile in Egitto. Evergete di nuovo
    a Roma (154).
    VI. Nuovo decreto del senato. Suo platonismo.
    VII. Ragioni del fatto. Vicende estere di Roma dal
    161 al 154.
    VIII. Esito della guerra civile d’Egitto. Sua
    cronologia.
    IX. Nuova astensione del senato e ragioni del fatto.
    Nuove vicende estere di Roma.
    X. Ragioni della simpatia del senato verso Evergete         »  73

  CAPITOLO V. — _Roma e l’Egitto dal 152 al 116._ —
    I. L’Egitto in Oriente favorisce la politica romana.
    Uccisione di Antioco Eupatore. Roma contro l’usurpatore.
    L’Egitto in favore del protetto da Roma.
    II. Tolomeo Filometore rinunzia al trono di Siria (147).
    III. L’ascesa al trono di Evergete IIº e l’aiuto di Roma.
    IV. Relazioni di Evergete con Roma. Roma, gli Ebrei e
    l’Egitto.
    V. La politica romana in Egitto giudicata da M. Porcio
    Catone il censore.
    VI. L’iscrizione di Delo.
    VII. Scipione Emiliano in Egitto (135)                      »  88

  CAPITOLO VI. — _Roma e l’Egitto dalla morte di Evergete IIº
    a quella di Tolomeo Alessandro IIº_ (116-81). —
    I. Morte di Tolomeo Evergete IIº (116). Roma eredita la
    Cirenaica (94). Quistione cronologica. Quistione
    topografica.
    II. La Cirenaica autonoma. Ragioni del fatto.
    III. Prima guerra mitridatica. Vana ambasceria di L.
    Licinio Lucullo in Egitto (96).
    IV. Mitridate cerca di legare l’Egitto ai propri
    interessi (87). Silla e Tolomeo Alessandro IIº (81).
    L’Egitto testato al popolo romano? (81).
    V. Questioni sull’autenticità del testamento. Rinunzia a
    tanta eredità. Ragioni del fatto                            » 103

  CAPITOLO VII. — _Roma e l’Egitto dalla morte di Alessandro
    IIº al riconoscimento di Tolomeo Aulete._ (81-59). —
    I. Vane pratiche dei pretendenti siri presso il senato.
    Ragioni del fatto.
    II. Nuove pratiche di Tolomeo XIIIº Neo-Dionigi Aulete e
    sua assunzione al trono. _Optimates_ e _populares_
    rispetto alla questione egizia.
    III. Roma e l’Egitto durante la guerra contro i pirati
    (67). La cattura di P. Clodio e il Tolomeo di Cipro (67).
    IV. Imparentamento della casa egizia con Mitridate.
    V. Roma eredita tutta la Libia (65).
    VI. La legge agraria di P. Servilio Rullo e l’Egitto (64).
    VII. Pompeo in Oriente e l’Egitto (63).
    VIII. I primi atti del primo consolato di Cesare (59).
    Tolomeo XIIIº riconosciuto dal governo romano (59).
    Tolomeo XIIIº alleato (59)                                  » 117

  CAPITOLO VIII. — _Roma e l’Egitto dal 59 al 57. La
    spedizione contro Cipro._ —
    I. Il 58 a. C. e i partiti politici in Roma. Opera
    legislativa di P. Clodio. P. Clodio e M. Porcio Catone.
    II. La spedizione cipria (58). L’incarico a Catone.
    III. Il viaggio. Il suicidio del Tolomeo di Cipro.
    IV. Catone a Cipro (58). Il tesoro regio all’asta
    pubblica.
    V. Il ritorno (56).
    VI. L’ordinamento politico di Cipro (56).
    VII. Clodio e Cicerone dopo la spedizione (56).
    VIII. Clodio e Catone (53)                                  » 137

  CAPITOLO IX. — _Roma e l’Egitto dal 57 al 53. La
    restituzione al trono di Tolomeo XIIIº Aulete._ —
    I. Tolomeo Aulete a Roma (58). Suo incontro con Catone
    (58). Decisioni del senato in suo favore (57).
    II. Un’ambasceria egizia al senato romano (57). Sua fine.
    L’inchiesta. Processi.
    III. Processo di P. Ascizio e M. Celio Rufo (56).
    IV. Agitazione e rivalità fra i pretendenti all’incarico
    della restituzione del Tolomeo.
    V. La questione in senato. Iª seduta (15 gennaio 56) IIª
    seduta (16 gennaio).
    VI. La condotta dei tribuni. Il senato. I consoli.
    VII. Cicerone e P. Lentulo. Pompeo, A. Gabinio e Tolomeo
    Aulete.
    VIII. La spedizione di Gabinio (55). Aulete rimesso sul
    trono (55).
    IX. Gabinio sotto processo (55). Tentativi di salvataggio.
    Condanna contumaciale di Gabinio (54).
    X. Suo ritorno (20 settembre 54). Purgazione della
    contumacia. Gabinio assolto _de maiestate_ (fine
    dell’ottobre 54). Gabinio condannato _de repetundis_
    (fine del 54).
    XI. La società romana contemporanea.
    XII. Il processo di C. Rabirio Postumo; l’accusa; la pena.
    XIII. La difesa di Cicerone.
    XIV. Cronologia del processo                                » 156

  CAPITOLO X. — _Alla vigilia della spedizione di G. Cesare.
    Epilogo._ (53-50). —
    I. L’ultimo strascico della questione alessandrina.
    II. Morte di Aulete (50). L’Egitto e i partiti
    politici romani dopo la spedizione di Gabinio. Epilogo      » 187

  SOMMARIO                                                      » 191

  ERRATA-CORRIGE                                                » 196




                      ERRATA                 CORRIGE

  p.  37, n.  3.      Id. 7                  Masè-Dari et.
  p.  37, n.  4.      Masè — Dari etc.       Id. 7
  p.  42, r. 24.      Calchedone             Calchedonte
  p.  51, r. 21.      , tre                  e tre
  p.  56, r. 24.      Cleopatra I            Cleopatra
  p. 111, (margine),  80                     81
  p. 112, n., r. 3.   80                     81
  p. 129, r. 2-3.     s’accorgevano          s’accorgono
  p. 137, (margine),  59                     58
  p. 161.             Aulo Plauzio Caninio   L. Caninio Gallo




NOTE:


[1] Die politischen Beziehungen der Römer zu Aegypten bis zu seiner
Unterwerfung. p. 1-45. Heiligenstadt, 1863.

[2] Rom und Aegypten in ihren politischen Beziehungen bis Costantin.
Rottweile (Progr.) 1870, p. 1-16.

[3] De Lagidarum cum Romanis societate, p. 1-48. Lutetiae-Parisiorum.
1879.

[4] De rebus inter Romanos et Aegyptios intercedentibus, p. 5-43
Berlin. 1893.

[5] Le precedenti monografie, tranne quella dello Schneiderwirth,
la più antica e quindi la più incompleta, e l’altra dello Schmid,
compendiosissima e senza indicazione delle fonti, sono tutte, del
resto, lavori scolastici. Il Bandelin ha poi un torto, secondario sì,
ma non insignificante. Egli non si limita, come dichiara anche il
titolo del suo lavoro, alle relazioni politiche, ma, così facendo,
lascia molto a desiderare nell’enumerazione e nella trattazione dei
rapporti commerciali e religiosi di Roma con l’Egitto.

[6] Anche i più arditi, per non dire audaci, nel dar di frego a
tutte le convenzioni storiografiche del passato, non hanno saputo
liberarsi dai più gravi pregiudizi, quando si trattava di rimutare
sostanzialmente i nostri concetti su codesta storia medesima. Così,
per es., il Pais, nella prefazione a due sue grossi e ribelli volumi
intorno alla storia di Roma, (St. di Roma — Torino, 1898-99), ha una
pagina della più ingenua retorica sulle pubbliche e private virtù
romane, per cui egli ritiene che «alla nazione», alla quale «in tempi
meno lontani è stata così a lungo mossa accusa di aver formulata la
teoria del macchiavelismo», «può tornar di conforto l’esempio degli
antichi romani, che lottando contro Pirro, Annibale e Filippo, tanto
nella diplomazia, quanto sul campo di battaglia, combatterono a viso
aperto» (XV-XVI), della quale asserzione, se altro non fosse, il
presente scritto sarà — involontariamente e implicitamente — la più
categorica smentita.

Un libro, per contro, scevro di qualsiasi pregiudizio ho riscontrato
nello splendido e recentissimo saggio del Masè Dari — M. T. Cicerone e
le sue idee sociali ed economiche. Bocca. Torino, 1901.

[7] La questione della decadenza delle nazioni latine, che non ha
proprio nulla che fare con una questione di razza, non è, in gran
parte, se non l’estrema illazione della decadenza della società
romana, e molta luce essa verrebbe a ricevere da una seria ricerca
delle cause di tale fenomeno. Ma questa non può non rimanere tentativo
sterile e doloroso, giacchè i pochissimi, che, con nobile sforzo, vi
si affacendano intorno, di tutt’altro genere di fatti e di fenomeni
hanno pratica che di quelli del mondo e della civiltà classico-romana.
Uno per tutti citerò il Sergi ed i suoi studi: «_Come sono decadute
le nazioni latine_» [in N. Antologia, 1 agosto 1899] e «_La decadenza
delle nazioni latine_». Torino. Bocca, 1900, che della mia affermazione
costituiscono la prova più irrefragabile.

[8] Colgo quest’occasione per deplorare, come in altri miei scritti,
la diffidenza, colla quale in Italia, viene, di consueto, accolto
qualsiasi tentativo di studio storico, che esca dal campo di una pura
trattazione erudita. Ed il curioso si è che i più diffidenti s’illudono
così di assurgere alla serietà degli studiosi tedeschi, i quali invece,
(ironia della sorte!), costituiscono con la loro teorica [Cfr. Böch
(Encyklopädie und Methodologie p. 306-8. Leipzig, 1886), il quale è
poi l’erede diretto del grande F. A. Wolf] e colla pratica quotidiana
la più categorica condanna della nostra esclusivista pedanteria.
Così un tempo non pareva fosse per accadere, quando, prima del nostro
risorgimento, fioriva, specie nelle provincie meridionali d’Italia,
una pleiade di cultori di studi storici, i quali erano anzi tutto dei
pensatori e degli uomini politici, e che, per fermarci al mondo della
filologia classica, rispondevano ai nomi di un Pagano, di un Delfico,
di un Cuoco e di un Trinchera, il quale ultimo, al 1850, traducendo
un ottimo compendio latino di antichità romane; fidava in un futuro
orientamento di codesti studi verso punti di vista più alti e più
larghi che non «le nude e grette osservazioni riguardanti la filologia,
le origini, le allusioni delle frasi, la etimologia ed il significato
delle parole», ed offriva, nelle aggiunte all’opera tradotta,
osservazioni mirabili e novissime sulla «costituzione, la politica, le
oscillazioni del potere del senato e del popolo, i mezzi del governo,
la legislazione, infine le _cagioni_ degli eventi, della durata,
della decadenza e della ruina dell’impero romano». [Antichità romane
dell’Aula tradotte dal latino da F. Trinchera V^i. 2. Napoli. 1850.
Pref. VII]. Da quel tempo ad oggi solo i miopi potranno affermare di
avere, per questo rispetto, notato un progresso, ed io ho rammemorato
uno sconosciuto traduttore di un manuale che nessuno più legge, per
additare nel di lui metodo un esempio di quell’accordo delle operazioni
della filologia classica, imprescindibile ad ogni storico e la cui
assenza è causa unica del volgare dilettantismo dei quotidiani giudizi
sui fenomeni del mondo classico romano, che noi abbiamo precedentemente
deplorato, e con cui il Trinchera si sarebbe vergognato di baloccarsi.

[9] Cfr. Iomard — Mémoire sur l’Agricolture etc. de l’Égypte, sect. 1º,
T. XVII.

[10] Robiou — Mémoires sur l’économie politique, l’administration et
la législation de l’Égypte au temps des Lagides, p. 44 e segg. Paris,
1875.

[11] Ibid. 54-5.

[12] Ibid. 32 e segg.

[13] Ibid. p. 63.

[14] Ibid. 72.

[15] Ibid. p. 52 e segg.

[16] Cfr. Cap. 1º, § II, del pres. lav. Robiou — Op. cit. p. 118 e segg.

[17] Mayr — Lehrbuch der Handelsgeschichte, p. 17-8. Wien 1894.

[18] Il Sergi (N. Antologia, 1 apr. 1899) à avuto il torto di
paragonare invece all’inglese il popolo romano.

[19] Ciccotti — Il tramonto della schiavitù, p. 138 e segg.

[20] Lombroso — Économie politique de l’Égypte sons les Lagides, p. 100
e segg. Turin. 1870. Robiou — Op. cit. p. 108 e segg.

[21] Cfr. Ciccotti — l. c. e Robiou — Op. cit. 66 e segg.

[22] Riv. di cultura moderna. Fasc. 7-8, 31 Agosto 1900. Curis — «La
clientela e la schiavitù nell’antichità.»

[23] Ziebarth — Das griechische Vereinwesen, p. 109 e segg. Leipzig.
1896.

[24] Robiou — Op. cit. 66 e segg.

[25] Ficker — Manuale della lett. classica antica, trad. dal De Castro,
I, 165 e segg., 192 e segg., 210 e segg. Venezia, 1840.

[26] Riv. di cult. mod. l. c. p. 79-80.

[27] Ciccotti — Op. cit. 141-3. Mayr — Op. cit. 30-5.

[28] Böger — De mancipiorum commercio apud Romanos, p. 25-1841.

[29] Barbagallo — Il _Senatus-consultum ultimum_. Cap. II, § 1 e op.^e
ivi cit. Roma. Löscher, 1900. Cfr. altresì Cap. II, § III e Cap. IX, §
5 del pres. lav.

[30] Nitzsch — Die Gracchen und ihre nächsten Vorgänger p. 15. Berlin.
1847.

[31] Cfr. Masè-Dari. M. Tullio Cicerone etc. p. 241 e segg.

[32] Mommsen — Storia romana. III, 430-532, trad. it. del Sandrini,
1865.

[33] Guhl e Koner — La vita dei Greci e dei Romani, § 69 e segg., trad.
dal Giussani. Löscher. Torino.

[34] Aula — Compendio di Antichità romane, trad. dal Trinchera, II, p.
107-13. Napoli, 1850.

[35] Mommsen — St. rom. 391-412. Ihne. Römische Geschichte I, 452-53.
1879.

[36] Pirro morì al 273 e non al 274, come generalmente si crede (Niese
— Geschichte der Griech. und Maked. Staaten etc. II, 61, n. 51, 1899).

[37] Iustine — Histoire universelle avec trad. franc. de I. Pierrot et
Boitard. XVIII, 2. 1862. Zonara — Epitome historiarum. VIII, 6. Lipsia,
1869. Dion. Hal. Quae supersunt. XX, 11. Eutr. — Breviarium ab urbe
condita. II, 15 ed. Ruehl. Lipsiae, 1887.

[38] La dinastia dei Tolomei, imperante in questo tempo in Egitto,
dicesi anche dei Lagidi da _Lagos_, padre del fondatore della medesima.

[39] Droysen — Geschichte der Hellenismus. P. IIª, V. 2º, p. 244.

[40] Ib. 256. Niese — Op. cit. I, 35-43, 1896.

[41] Droysen — II, 2, p. 129-3. Duruy — Histoire des Grecqs depuis les
temps les plus réculés jusqu’à la réduction de la Grèce en province
romaine, III, 383-7. Paris, 1887-9. Niese — I, 321-2.

[42] Droysen — II, 2, p. 146-72. Duruy — III, 388. Niese — I, 322-33.

[43] Droysen — II, 2, 258. III, 56. Duruy — III, 398.

[44] Droysen — II, 2, 296-8. Duruy — III, 398.

[45] Droysen — II, 2, 284, 286.

[46] Droysen — II, 2, 236. Duruy — III, 399.

[47] Droysen — II, 2, 318. Duruy — III, 401.

[48] Droysen — III, 1, 56, 305-7. Cfr. Meltzer — Geschichte der
Karthager — I, 411-13. Berlin. 1896. Mayr — Op. cit. p. 17-18.

[49] Droysen — III, 1, 237 e segg. Niese — II, 130 2.

[50] Lo Schmid, che per spiegarsi l’ambasceria è ricorso a tali voglie
e desideri, (Cfr. Op. cit. 1-2), non s’è dovuto formare una chiara idea
della situazione di Pirro, Lisimaco e Tolomeo nell’Oriente antico.

[51] Mommsen — II, 140 e segg. Ihne — II, 336 e segg.

[52] Meltzer — Op. cit. II, p. 228-32, 246-8. Niese — II, 42.

[53] Engel — Kypros. 40-71. Berlin. 1841.

[54] Mayr — Op. cit. p. 18.

[55] Droysen — III, 1, 305. Schneiderwirth. Op. cit. p. 5.

[56] Plin. Hist. nat., XIII, 11 e XXVI, 26 ed. Lemaire. 1827. Lumbroso
— Op. cit. 147-8.

[57] Cfr. Willems — Le sénat de la rép. romaine. II, 497.

[58] Zonara — l. c. Val Max. — IV, 3, 9. Dio — l. c.

[59] Id. I, 279, n. 4.

[60] Willems — Op. cit. I, 279, n. 4.

[61] Iustin. XVIII, 2.

[62] Liv. Periochae, XIV.

[63] Op. cit. p. 8.

[64] Cfr. Böck — Corpus inscriptionum graecarum, n. 5795.1843. Plautus
— Pseudolus. act. I, sc. II, v. 14, ed. Lemaire.

[65] Zonara — l. c. Dio — l. c.

[66] Ibid. e Val. Max l. c.

[67] Che sia stata la prima si rileva dal confronto della sua
cronologia con quella del regno di Tolomeo Filadelfo.

[68] Mommsen — Op. cit. I, 2, p. 1-18. Richter — Handelsgeschichte in
Alterthum, p. 97 e segg.

[69] App. Sic. I.

[70] Schmid — Op. cit. 2-3. Ameilhon — Hist. du commerce et de la
navigation sous les Ptolémées, p. 103-4, 1766.

[71] Op. cit. III 1, 305.

[72] Cfr. Fasti consulares (in Bouché — Leclerq. Manuel d’autiquités
romaines. p. 497. Paris. 1886).

[73] Droysen — Op. cit. III, 2, p. 15.

[74] Droysen — Op. cit. III, 317-349.

[75] Mahaffy — A history of Aegypt. The ptolomaic dynasty. 130-4, 1899.

[76] Mommsen — Op. cit. I, 2, p. 124.

[77] Droysen — Op. cit., l. c. p. 17-18.

[78] Tale è anche l’opinione del Gutschmid (in Sharpe — Geschichte
Aegyptens. Ubers. v. H. Iolowicz, berichtigt von. A. v. Gutschmid.
II, Ausg. I, 221 A. 2). Il Bandelin (Op. cit. 10) à cercato di
contraddirvi, opponendo erroneamente un passo di Giustino (XXVII,
2, 9), secondo il quale pareva al critico che al 237, all’infuori
di qualsiasi guerra, fosse stata ratificata una pace decennale fra
Tolomeo, Seleuco e Antioco. Se non che Giustino fa solo menzione di
una pace fra Seleuco e Tolomeo, a cui come la sua stessa narrazione
ci assicura (XXVII, III, 9-11 e III, 9 e segg.), certo non partecipò
Antioco. Lo Schmid (Op. cit. 4) riferisce l’ambasceria romana alla
guerra da noi indicata, segnandola però erroneamente come del 241 a. C.

[79] Il Droysen (Op. cit. III, 1, 387) e lo Schneiderwirth (Op. cit.
p. 9, n. 3), sulla fede di Svetonio (Claud. 25), pare propendano a
credere che, nella guerra egizio-siriaca del 219-7, i Romani abbiano
contro i Tolomei sostenuto le parti del pretendente Seleuco, ma nè
Svetonio afferma che l’alleanza fu stretta contro l’Egitto, nè è
facile attribuire il passo al Seleuco implicato nella IIIª guerra
egizio-siriaca.

[80] IX, 44, 1-3.

[81] Mommsen — Op. cit. I, 2, p. 125.

[82] Pol. l. c.

[83] Cic. — Rhetorica ad Herennium. III, 2, 2. Lemaire. Parisiis. 1831.

[84] Di ciò, benchè sforniti di testimonianze positive, ci assicurano
le prossime cordiali relazioni con Roma.

[85] Cfr. Cic. — Orat. in Rullum II, 326 (ed. Lemaire).

[86] Pol. l. c.

[87] Ihne — R. G. I, 514, n. 1 e II. 215.

[88] XXIII, 7-10.

[89] Erano i comandanti del presidio romano di Capua o i _praefecti
iuris_.

[90] Liv. XXVII, 4. Il Bandelin (p. 12) crede che la testimonianza di
Polibio sull’ambasceria romana, chiedente vettovaglie, che noi abbiamo
riportato all’anno 216 (Cfr. § 5), coincida con quella di Livio, di cui
adesso discorriamo, e ciò perchè a lui sembrava che le parole di Livio
contraddicessero ad un’anteriore richiesta di aiuti.

Tale contraddizione è affatto inesistente, ma quel che più importa
si è che le circostanze, menzionate da Polibio, non si attagliano più
all’anno 210, cui con certezza deve riferirsi la menzione liviana.

[91] Mommsen. I, 120-48.

[92] Ibid. 145-6.

[93] Niese. II, 475 e segg. Ihne. II, 339-40.

[94] L’Ihne (II, 339) e il Weissenborn (n. a Liv. XXVII, 30, § 4-7)
ritengono la mediazione del 208, il Niese (II, 485) del 209.

[95] Liv. XXVII, 30, § 4-7, 9-15. App. Mac. II.

[96] App. l. c.

[97] Liv. l. c.

[98] Liv. XXXI, 2.

[99] Mahaffy — Op. cit., p. 142-7.

[100] Cfr. Bandelin — 14.

[101] XXXI, 1.

[102] XV, 23 § 1-3 e XVI, 21 e segg.

[103] Ibid. V, 63, § 1.

[104] Inst. XXX, 1-3.

[105] Pol. XVI, 21-2.

[106] Niese — II, 637, n. 2.

[107] App. Mac. III.

[108] Taccio delle testimonianze di Val. Max. (VI, 61), di Tacito
(Annales — II, 67, ed. Iacob. 1875-7) e — per ora — della leggenda
incisa nella moneta riprodotta in Mommsen (C. I. L. Iº, n.º 474.
Berlin. 1868), che, nella migliore delle ipotesi, dovrebbero riferirsi
ad altra età. Tacito inflitti parla di «Ptolemei _liberis_,» mentre
Tolomeo IVº non aveva che un solo figliuolo. Val. Max. menziona Lepido
come già pervenuto per la seconda volta al consolato ed allora _P. M._,
nel qual caso l’ambasceria deve essere posteriore al 175, poichè il
pontificato massimo di Lepido è del 180, mentre i suoi due consolati,
rispettivamente, del 187 e 175. Infine la moneta ci presenta Emilio
Lepido, (al 201 ancor giovanissimo), già calvo. (Pighius — Annales rom.
II, 404. 1615. Cfr. Cohen. Description générale des monnaies de la rép.
rom. Pl. I, 6. Paris. 1857). Non tralascio però un’ultima osservazione
non scevra d’importanza. Il tutore di Tolomeo Epifane, M. Emilio
Lepido, dovrebbe, cosa più che inverosimile, essere probabilissimamente
quello stesso, che, quattro anni di poi, sarà ancora così giovane
da meritare, solo in grazia di codesta sua qualità, l’indulgenza di
Filippo di Macedonia (Pol. XVI, 34, § 1-6. Liv. XXXI, 18, § 1 e segg.).
Cfr. anche Band. 15.

[109] Appiano veramente parla di Tolomeo IVº, ma la qualifica, che ne
offre («ἔτι παῖς ὤν») dà ad intendere che si tratta del figlio, Tolomeo
Vº.

[110] Pol. III, 2. È bene rammentare come in quel tempo l’Egitto
subisse una generale insurrezione delle sue province, di cui, più che
gli storici greci, ci avvertono le iscrizioni demotiche di Canopo e di
Rosetta (Cfr. Révillout. _Les décret de Canops_ etc. in _Rev. arch._
nov. 1877).

[111] Cfr. anche Liv. XXXI, 14; 1, § 10, 2, § 1. Pol. XV, 20.

[112] Affinchè, dice Polibio, insieme con Epifane, si erigesse a
intermediario fra Roma e la Macedonia, o meglio, secondo App. (l. c.),
facesse eguale ingiunzione di desistere dalle ostilità.

[113] Cfr. Cap. I, § 8 del pres. lav.

[114] Era salito al trono al 204, di cinque anni circa (Letronnes —
Recueil des inscriptions grecques et latines de l’Egypte. I, 265-6.
1842-8). Circa le versioni delle _fonti_ sulle origini della seconda
guerra macedonica cfr. Nissen — Kritischen Untersuchungen über die
Quellen der vierten und fünften Dekade des Livius, p. 119 e segg. e
Anhang. II, 306. Berlin. 1863.

[115] Liv. XXXI, 5, § 5-7. L’assenza di qualsiasi tutela da parte di
un emissario romano sulla corte di Alessandria, oltre che da codeste
due ambascerie, è altresì palese da tutte le altre, che verremo notando
durante la prossima guerra macedonica e la prima siriaca.

[116] Liv. XXXI, 9 § 1-5.

[117] Babelon — Monnaies de la république romaine; 126-8. Paris. 1885.
Infatti Giustino, Massimo e Tacito sono tutti posteriori all’anno di
coniazione della moneta.

[118] Troplong — De la contrainte par corps. X e prec. Bruxelles. 1848.

[119] Lange — Römische Alterthümer. Iº, p. 446-7. Berlin 1856. De
Ruggiero «Agrariae leges» in (Encicl. giuridica it. § 2 e segg.).

[120] Questa popolazione minuta non bisogna però crederla tutta, ed
in ogni tempo, avversa alla grande politica estera, voluta allora dal
senato. Finchè fu composta di proprietari sulla via della rovina o di
rovinati con speranza di risurrezione, essa ebbe motivo di avversare
la politica delle classi dominanti. Ma, quando il proprio disastro
fu irreparabile, quando le file dell’esercito furono aperte anche ai
non censiti, e la speranza di assegnazioni demaniali e di elemosine
da parte dei benestanti e degli uomini di governo — tanto più laute,
quanto più sontuosa ne era la mensa — brillò anche pei veterani e pei
proletari, i loro interessi ebbero agio di coincidere coll’imperialismo
dei dominatori. Tanto più che, chiusa ogni altra via legale, quella
del comando militare rimase ai capi della democrazia mezzo fortunoso
di vittoria e di governo, mentre intanto, presago del nuovo pericolo,
il senato, come avremo a notare, (V^i. Cap. VI, § 2 del pres. lav.)
inorridiva dal perseverare nella via con tanto calore intrapresa.

[121] Mommsen — St. rom. II, 148.

[122] Liv. XXXI, 6.

[123] Masè-Dari — Op. cit. 242 e passim.

[124] Id. 7.

[125] Id. 8.

[126] Il Bandelin (16) dichiara di non scorgere tale intenzione
nell’ambasceria egizia, tanto più che la corte alessandrina non era
da alcun trattato con Roma obbligato ad aiutare i propri alleati, solo
«_ex autoritate populi romani_». Crede invece che, desiderando aiutare
gli Ateniesi e trovandosi minacciata da Filippo e da Antioco, la corte
alessandrina abbia cercato di servirsi dei Romani in pro dei loro amici
della Grecia.

L’atto diplomatico della corte alessandrina non può spiegarsi senza
tener conto della identica posteriore condotta in due altri prossimi
eventi (Cfr. § 12, 13 del pres. cap.), i quali, per le opposte loro
circostanze, escludono l’ingenua interpetrazione del Bandelin.

[127] Cfr. Cap. I, § 8.

[128] Niese — Op. cit. II, 169. 1899. Strack. Die Dynastie der
Ptolomäer p. 383. 1896. Droysen — Op. cit. III, 1, 399.

[129] Droysen — III, 1, 399.

[130] Niese — II, 357, n. 1. Droysen — III, 1, 347.

[131] Niese — II, 122. Head — Historia nummorum. 496. Oxford. 1887.

[132] Niese — II, 406 e 169.

[133] Niese — II, 101, 406. Starck. l. c. Head. p. 624.

[134] Niese — II, 169. Droysen — I, l. c. e n. 1.

[135] Niese — II, 406, Droysen — l. c. e III, I, 347.

[136] Niese — II, 169. Droysen — III, 1, 347 e 399, III, 2, 145.

[137] Niese — II, 139, n. 2. Droysen — III, I, 399.

[138] Niebuhr — Kleine historische und philologische Schriften I, 238 e
289. Bonn. 1828.

[139] Niese — II, 101, 143-4, 406.

[140] Niese — II, 169. Droysen — III, 1, 357. Head. 670, 2, 45.

[141] Niese — II, 141-2.

[142] Dr. III, 1, 256. Head. 680.

[143] Head. — 678.

[144] Head — 677. Su codesti possessi egizi cfr. anche Niebuhr. Op.
cit. I, 288-95. Bonn. 1828.

[145] Cap. Iº, § 2º.

[146] Lumbroso — Op. cit. p. 226. Guiraud — Op. cit. 4-5.

[147] Lumbroso — Op. cit. 154-5.

[148] Lumbroso — Op. cit. 139-40. Robiou — Op. cit. p. 136-47.

[149] Lumbroso — Op. cit. 155. Guiraud — Op. cit. 3 e segg.

[150] Niese — II, 371.

[151] Niese — II, 581.

[152] Liv. XXXI, 15, 8, 31, 4. Pol. XVIII, 37, 8.

[153] Pol. XV, 23, 9 e segg. XVII, 3, 11. XVIII, 34, 5. Niese — II, 581.

[154] Pol. XV, 23, 9. XVII, 2, 4. Cfr. Niese — II, 581.

[155] App. III, Niese. II, 583. Essa però tornava poco dopo in potere
dell’Egitto (Niese. II, 588 e n. 1).

[156] Pol. XVI, 15, 6. Niese. II, 586.

[157] Pol. XVI, 11, § 2-6.

[158] Pol. XVI, 12 e 24. XVII, 2, 3. XVIII, 27, 4. Liv. XXXIII, 18 e
segg. Niese. II, 587.

[159] Liv. XXXI, 16, 3 e segg.

[160] Niese. II, 593.

[161] Al 206-5. (Mommsen — St. rom., I, 2, 144).

[162] Pol. XVI, 34, 2 e segg.

[163] Cfr. Mommsen — Op. cit., I, 2 p. 217-27. Ihne — R. G. III, p.
23-52. Holm — Op. cit. IV, 435-43. Niese. II, 595 e segg.

[164] Liv. XXXII, 10. App. Mac. V. Niese. II, 610.

[165] Pol. XVIII, § 13-14. Liv. XXXII, 33, 4. App. Mac. VI. Flathe
— Geschichte Makedoniens II, 367 e segg. Leipzig. 1834. Niese — II,
621-3.

[166] Liv. XXXII, 37.

[167] Pol. XVIII, 27 § 1-4. Liv. XXXIII, 30. Livio pare identifichi
Mirina con l’omonima città eolia dell’Asia Minore; Polibio con la città
su Lemno (Cfr. Liv. ed. Weissenborn — l. c., n. 1 e 9). Valerio Anziate
(Cfr. Liv. XXXIII, 30 § 10-11) aggiunge che Rodi ebbe Stratonichea e
le città carie, come Atene qualcuna delle Cicladi; ma sono notizie
inattendibili (Cfr. Nissen — Kritische Untersuchungen. 125-6;
Weissenborn — l. c., n.; Niese. II, 648, n. 2.

[168] Dal fatto che più tardi, nella pace con Antioco IIIº di
Siria, Efeso passerà ad Eumene, re di Pergamo, il che, a norma del
trattato romano-siriaco, non poteva darsi, se questa fosse già stata
riconosciuta autonoma, ne consegue che essa dovette rimanere sotto il
dominio dell’Egitto.

[169] La difficoltà di fissare con precisione tali perdite, che furono
certo maggiori di quelle possibili a rilevare, è enorme, e ciò proviene
dalla nostra parziale conoscenza, sia dei possedimenti egiziani in
ciascuna delle succitate regioni, sia delle conquiste ivi compiute
da Filippo. Siamo anzi talora ridotti ad arguire la precisa località
dei possessi egizi dalla presente invasione macedone e dalla prossima
siriaca.

[170] Pol. XVIII, 33, § 6 e Iust. XXXI, 1.

[171] Hieronymus — Comentaria in Danielem. Cap. XI, col 709. (in
Opera. Vº, Veronae 1736. Iustini. XXXI, 1.) Starck — Forschungen zur
Geschichte und Alterthumskunde des hellenistichen Orients; Gaza und die
philistäische Küste. p. 400-1 e segg. Iena. 1852. Niese — II, 578.

[172] Starck — 402-3. Niese. II, 579.

[173] Iosephi. — A. I. XII, §. Iustini — XXXI, 1. Champollion Figeac. —
Annales des Lagides. II, 92-100. Paris. 1819. Starck. 403-5. Niese. II,
579-80.

[174] Iosephi — XII, 3. Hieronymi — l. c. Eusebii Caesaris — Chronicon
bipartitum. II, p. 237. Venetiis. 1818. Cfr. Champollion. Figeac — Op.
cit. e l. c. e Starck — 425-8.

[175] Liv. XXXIII, 19, 8 e segg. 20, 4. Hier. in Dan. XI, col 709.

[176] Hier. l. c. Liv. XXXIII, XX.

[177] Liv. XXXIII, 20 § 12. Pol. XXXI, 7, 6.

[178] Liv. XXXVII, 17, 3.

[179] Hier. l. c. Su questa campagna di Antioco, cfr. Flathe — Op. cit.
I, 362 e segg., Niese. II, 639 e segg.

[180] Liv. XXXIII, 38.

[181] App. Sir. l. c. Liv. XXXIII, 38. Niese. II, 641-68.

[182] App. Sir. II.

[183] Liv. XXXIII, 34. § 2-4.

[184] Liv. l. c. Pol. XVIII, 30, § 1-2.

[185] Pol. XVIII, 32 § 3-4. Liv. XXXIII, 39. App. Sir. II, 3. Polibio
e Livio dicono al solito che l’ambasceria fu inviata per conciliare
la pace fra Tolomeo e Antioco, ma ciò è smentito dal contenuto della
conferenza medesima.

[186] Pol. XVIII, 33 § 1-6.

[187] Pol. XVIII, 33 § 1-9.

[188] Antioco avrà probabilmente accennato al matrimonio fra la figlia
ed Epifane, non ancora celebrato e che avrà luogo al 193. Cfr. § 12 del
pres. cap.

[189] Pol. XVIII, 34. Liv. XXXIII, 40. App. Sir. III.

[190] Niese. II, 643, cfr. p. 642.

[191] Pol. XVIII, 35, 1-5. Liv. XXXIII, 40 § 1-5. App. Sir. III.

[192] Liv. XXXIII, 40 § 1-5.

[193] App. Sir. IV.

[194] Liv. XXXIII, 58 § 2-4.

[195] Liv. XXXV, 16-17. App. Sir. 2.

[196] Liv. XXXV, 13 § 4-5.

[197] Liv. XXXVI, 4 § 1-4.

[198] Liv. XXXVII, 3 § 9-11.

[199] Liv. XXXVII, 35, § 1-3. Pol. XXI, 11, § 2. (Cfr. 10, § 1-14).
Diodorus Siculus — Bibliothecae historicae quae supersunt. XXIX, 7.
Didot. 1855. App. Sir. 29.

[200] Liv. XXXVII, 25 § 9-10.

[201] Sulle questioni riguardanti codesta linea di confine cfr. Mommsen
— Römische Forschungen. II, 57 e segg. Berlin. 1879.

[202] Liv. XXXVIII, 38. Diod. XXIX, 10. App. Sir. XXXVIII. Pol. XXII,
26. (Cfr. XXI, 14).

[203] Niese. II, 749, cfr. p. 24, n. 4, p. 122, n. 5.

[204] Id. p. 760.

[205] Niese. II, 760. Liv. XXXVIII, 39. Pol. XXII, 27. App. Sir. 44.

[206] Champollion — Figeac. Op. cit. II, 28. Strack — Op. cit. 183.

[207] Strack — Op. cit. 183 e 196, n. 18. Berlin 1896.

[208] V^i. Cap. II, § 2 del pres. lav.

[209] Op. cit. II, 404.

[210] Cfr. p. 31, n. 8 del pres. lav.

[211] Ep. 59. Cfr. Drumann. Geschichte Roms etc. V^e 4º p. 60-1.
Könisberg. 1838. Fu questi P. Licinio Crasso Dives cons. al 133, da
non confondersi con l’altro P. Licinio Crasso, di eguale soprannome,
console al 205. (Cfr. Drumann — Op. cit. IV, 59-60).

[212] Cfr. Eckhel — Doctrina nummorum p. 123-6. Credo opportuno far
notare, sull’autorità del Mommsen. (Hist. de la monnaie romaine etc.,
trad. par De Blacas. II, 501. Paris. 1870), che la moneta romana, di
cui s’è già discorso (Cap. II, § 11), non riproduce la cronologia
di Val. Max., poichè, «secondo le disposizioni della leggenda, i
differenti titoli onorifici, in essa contenuti, non debbono essere
letti di seguito».

[213] Liv. XLII, 6. (Cfr. XLII, 17).

[214] Pol. (XXXVII, 17 e XVIII, 1) parla della sola Celesiria e della
Fenicia, ma, se la questione si agitava per la Celesiria, non esiste
ragione alcuna perchè non dovesse agitarsi per le città egizie della
Siria e della Palestina.

[215] Pol. (l. c.) e Liv. (XLII, 29, § 5-7) ci danno notizie
contradditorie. Cfr. Pol. XXVIII. 17, 6 e segg. Hofman — De bellis ab
Anthioco Epiphane adversus Ptolemaeos gestis, p. 5. 1855. Starck — Op.
cit. 427.

[216] Starck — Op. cit. 430-4.

[217] Pol. XXVIII, 1 e Liv. XLII, 29 § 5-7. Diod. XXX, 2.

[218] Pol. XXIV, 4, 16.

[219] Pol. XXIX, 10, § 3.

[220] Porphyrius (in Fragm. hist. graec. ed. Muller, p. 720).

[221] Liv. XLIV, 19, § 6-14.

[222] Liv. XLIV, 20, 1.

[223] Liv. XLIV, 39, § 1-5; XLV, 10.

[224] Ihne. R. G. III, 235. Mommsen — Op. cit. II, 283.

[225] Pol. XXIX, 7.

[226] Pol. XXIX, 8-10, § 1-4.

[227] Bandelin — Op. cit., p. 22.

[228] Liv. XLV, 11, § 9-11.

[229] Liv. XLV, 12 § 1-4. Val. Max. VI, 4, 3. Vell. Pat. I, 10.

[230] Pol. XXIX, 4. Liv. XLV, 12 § 1-8. App. Sir. 66. Cic. Phil. VIII,
8, 23. Val. Max. VI, 4, 3.

[231] Pol. l. c. Liv. XLV, 13 § 1. Ios. Flavii. A. I. XII, 5, 2.

[232] Pol. XXIX, 11, § 9.

[233] Pol. XXX, 11, 2.

[234] Pol. XXX, 11, 2.

[235] Pol. l. c. e Liv. XLV, 13, § 1-8.

[236] Liv. l. c. e Pol. l. c.

[237] Liv. XLV, 13. Cfr. Champollion. Figeac — Op. cit. II, 144, n. 1.

[238] Tale situazione esporrà Evergete nella sua prossima venuta a
Roma (Cfr. Pol. XXXI, 18 e Zonara IX, 25). Quanto alla Libia, essa
ci risulta in suo potere dal fatto che egli, pur essendo entrato
in lotta col fratello, vi approderà indisturbato dopo il suo primo
viaggio a Roma (XXXI, 25, 8 e 26, 3) e dall’esplicita dichiarazione
di Polibio che, poco dopo, i Cirenesi insorgeranno contro di lui
insieme coi _Libi_ (XXXI, 26, 9 e 11). Benchè gli storici antichi e
moderni confondano spesso la Libia con la Cirenaica, poichè questo
curioso nome di Libia può attagliarsi a tutta l’Africa, come quello
di Cirenaica può slargarsi sino a coincidere con la Libia in senso
ristretto, fa d’uopo distinguere nettamente le due regioni. La Libia
propriamente detta comprende la costa nord dell’Africa, che dall’Egitto
si stende ad Occidente sino alla Gran Sirti (Kiepert — Lehrbuch der
alten Geographie, p. 210-1. Berlin. 1878), mentre la Cirenaica è
quella regione, che, a nord dei deserti libici, si addentra nel mare,
elevandosi a mo’ di isola per 500 o 700 metri di altezza (Ibid. 216).

[239] Pol. XXXI, 12, 14.

[240] Sugli avvenimenti narrati nel pres. paragrafo, cfr. Engel —
Kypros, p. 409-16. Berlin. 1841. Pauly — Realencyclopedie. VI, 1. p.
220. Schmid — Op. cit. p. 7-8. Mahaffy. A history etc. 175-6. Drumann
— G. R. V, 128 e segg. Champollion. — Figeac — Op. cit. II, 149-52.
Come si rileva dal nostro racconto, noi non ammettiamo il precedente
esilio di Tolomeo Filometore e la sua susseguente venuta a Roma, cui
hanno prestato fede la maggior parte degli storici (Vaillant — Hist.
Ptolemaeorum Aegypti regum, p. 96. Amsterdam. 1701. Pighius — Ann. Rom.
II, 403. Eckhel — Op. cit. IV, 16. Pauly. l. c. Schneiderwirth. p. 24.
Mahaffy — Op. cit. p. 175. Mommsen. St. rom. III, 54, etc. etc.), e
ciò per varie ragioni: 1) Perchè, anzi tutto, le fonti più antiche, su
cui i medesimi si fondano, o non specificano, come Diodoro (XXXI, 18),
di quale Tolomeo si tratti, e debbono, in questo caso, interpetrarsi,
confrontandole con le rimanenti; o i loro autori si sono trovati essi
medesimi nel nostro imbarazzo, come Eusebio dichiara di sè (Chronicon
I, 239-41), e come probabilmente dovette accadere a Valerio Massimo
(VI, I, 1) ed a Livio (Periochae 46, § 10), se pure il testo di codesti
due A. non debba subire qualche mutazione (non si tratterebbe che
di cambiare un _maiore_ in _minore_), o se, per lo meno, il passo di
Valerio Massimo non debba riferirsi a Tolomeo Aulete, quarto successore
di Filometore (Cfr. l. c. p. 284 ed Helfrecht. 1799). 2) Perchè così
vien rimosso il grave inconveniente di una fuga di Filometore, la
quale, oltre a riescire inesplicabile, data l’enorme disparità di
difesa e di offesa, di cui disponevano i due fratelli, che ci è,
fra l’altro, rivelata nei costanti, prossimi e disastrosi insuccessi
delle guerre suscitate da Evergete, non è se non un duplicato, con
identiche circostanze, di quella che di lì a poco seguirà allo stesso
Evergete. 3) Perchè altrimenti rimarrebbe difficile spiegare i motivi,
per cui il senato, che una prima volta avea dovuto stabilire in un
modo, credette poscia di dover dar di frego ai propri decreti in pro
di Filometore (Pol. XXXI, 18), proprio in grazia del competitore che
vi si ribellava, e s’interessò tanto dell’affare da disdire in un atto
supremo d’indignazione l’alleanza contratta col primo. La cacciata poi
di Filometore per opera di Evergete, di cui tratta Polibio (XL, 12), è
invece, secondo me, come secondo il Drumann (Geschichte Roms, V, 128),
da riferirsi al tempo della prima invasione di Antioco Epifane. Cfr.
Cap. V § Iº, ultima n.ª del pres. lav.

[241] Diod. XXXI, 18.

[242] Porphyrius. p. 711 (in fragm. hist. graec. ed. cit. Cfr. Ibid. p.
718 e Champollion-Figeac. — Op. cit. II, 150, n. 2.)

[243] Pol. XXXI, 20, 8 e segg.

[244] Val. Max. VI, I, 1.

[245] Sul numero degli ambasciatori Polibio ci dà notizie
contradditorie, (Cfr. XXXI, 18, 9 e XXXI, 25 e 26).

[246] Pol. XXXI, 18.

[247] Pol. XXXI, 25.

[248] Pol. XXXI, 26.

[249] Schmid — Op. cit. p. 7.

[250] Pol. XXXII, 1.

[251] Pol. XXXIII, 5-7.

[252] Mommsen — Op. cit. II, 22-4. Ihne — III, 171 e segg.

[253] II, 7. Cfr. p. 6 e 149 e Ihne — III, 825 e segg.

[254] Diod. XXXI, 33; Pol. XL, 12, 6. Zonara. IX, 25.

[255] Diod. l. c., Zon. l. c. Liv. Per. 47, 5.

[256] Zon. l. c. L’Engel (Op. cit. p. 415) narra questi episodi come
anteriori al 154 non rilevando che il passo di Polibio (XL, 12, 6), cui
solo era dato definirne la cronologia, in quanto un capitolo precedente
contiene la narrazione dell’ultimo viaggio di Evergete a Roma, è
incastonato in una commemorazione laudatoria di Filometore, ove si dà
saltuariamente notizia degli episodi della vita del medesimo.

[257] Op. cit. p. 416. Cfr. Starck. — Op. cit. 437.

[258] Mommsen — II, 153-4.

[259] Cfr. Starck. — Op. cit., 437-8.

[260] Mommsen — II, 26-33.

[261] Mommsen — Op. cit. II, 6-19.

[262] Id. II, 40.

[263] Schmid — Op. cit. 7.

[264] Sharpe — Op. cit., p. 266, n. 2.

[265] Mommsen — St. rom. II, 54-5.

[266] Pol. XXXII, 7.

[267] Pol. XXXIII, 14, 1 e 16, 9-13.

[268] Ios. Fl. A. I. XIII, 21-4. Iust. XXXIV, 1. Pol. III, 5, 3.

[269] Iust. l. c.

[270] Ios. Fl. A. I. XIII, 4.

[271] L’avversione di Filometore contro Demetrio porta altresì, come
sua causa, un tentativo di Demetrio su Cipro, che può essere collocato
fra il 161 e il 154, (cfr. Pol. XXIII, 32, ed. Engel. Op. cit. 416-7).
Tale atto, io credo, c’illumini sulla questione della cacciata o meno
di Filometore dal trono d’Egitto per opera di Evergete (Cfr. Cap. IVº,
§ 1º, n.^e del pres. lav.). Come conciliarlo infatti con l’esibizione,
da parte di Demetrio, di tutti i suoi buoni uffici e la sua mediazione
presso il senato (Diod. XXXI, 18), al preteso arrivo di Filometore in
Roma?

[272] Cfr. Starck — Op. cit. 437-8.

[273] Ios. Fl. A. I. XIII, 4, 6 e segg. Zonara. IV, 23. Cfr. Pol. XL,
12 e Lib. Machabaeorum I, XI, vº 1-17. (in Scriptura Sacra, T. XX.
Parisiis. 1841).

[274] Starck — Op. cit. p. 184 e 198, n. 23.

[275] Mahaffy — Op. cit. 183-4.

[276] Gius. Flavio — Contro Apione II, 3, 2. (in Collana degli antichi
storici greci volgarizzati. _Delle antichità giudaiche._ Vº Milano.
1822). Iust. XXXVIII, 8. Mahaffy — Op. cit. 144 e segg.

[277] Moisè Schwab — Storia degli Ebrei dall’edificazione del secondo
tempio ai giorni nostri, p. 19-22, trad. it. di G. Pugliese, Venezia.
1870.

[278] Gius. Flavio — Contro Apione II, 3, 2; Macchab. I, III, 5 e segg.

[279] Machab. I, VIII, 22 e segg.; I, XII, 1 e segg.

[280] Schwab — Op. cit. 24.

[281] Machab. I, XIV, 18 e segg. Ios. Fl. A. I. XIII, 13.

[282] Lib. Machab. I, XV, 16-21.

[283] Tale cronologia è definita dall’ascensione di Simone giudeo
agli onori di principe indipendente del suo popolo, avvenuta al
142 a. C., sotto gl’inizi del cui dominio il libro dei Maccabei (l.
c.) e Giuseppe Flavio (l. c.) menzionano avvenuto il rinnovamento
dell’alleanza con Roma, e dal prenome di _Lucio_, console firmatario
del rescritto concernente la medesima. L’ottenne (Gius. Fl. A. I. XIII,
14) dominazione di Simone comprende, nel suo giro, due soli consoli con
simile prenome, L. Calpurnio Metello al 142 e L. Furio Filo al 136, [il
creduto L. Calpurnio Pisone del 139 non è un _Lucio_, sibbene un _Gneo_
(Cfr. Drumann — G. R. II, 87)], ma l’ordine della narrazione dei Libri
Machab., che ce la ricollegano al primissimo esordio della dominazione
di Simone, fa propendere tutte le probabilità della scelta sull’anno
del consolato di Metello (142). Calcolando il tempo necessario al
viaggio della vecchia e della nuova ambasceria orientale e romana, si
ha il biennio 142-1.

[284] Gellio — XVIII, 9 (in Meyer — Oratorum romanorum fragmenta cfr.
p. 108-10, 1842).

[285] Charisius — p. 137 (in Meyer — l. c.) Tale accenno a me sembra
decisivo per spostare al 141 o giù di lì la data dell’orazione. Durante
il regno di Filometore, tanta strana potenza di L. Termo è da giudicare
inverosimile. Piuttosto, dopo il favorito avvento di Evergete,
quegli potè, al pari del Tolomeo, pescare nel torbido della reazione
seguitane, e, sembra, in maniera più indecente del suo protetto, il
quale, alla fine, avea dovuto intimargli di smetterla. Così appunto
l’«_interdicere rem capitalem_», rimasto inintelligibile al Meyer (V^i
nª al l. c.), mi sembra possa invece acquistare un significato ben
definito. Il Meyer (Op. cit., p. 108) crede l’orazione del 154. Ma tale
cronologia è inverosimile, dappoichè il 154 è l’anno della partenza
degli ambasciatori romani, (fra cui L. Termo), dopo l’ultimo, disperato
appello di Evergete, e Termo, che al 145 soggiornava ancora in Egitto,
(Cfr. Gius. Flav. — Contro Apione. II, 3, 2) non poteva, come risulta
dalla presente orazione, (Cfr. Charis. l. c.), figurare in Roma al 154.
Per identico motivo erra il Drumann (R. G. Vº, 129), cui era sfuggito
il passato di Carisio, nell’assegnare l’orazione al 153.

[286] Prisc. T. I, 108 e 111 (in Meyer — Op. cit. 108-10).

[287] Gellio — XX, 11 (in Meyer — l. c).

[288] «.... Μάρ[χ]ον, συγγενῆ βαδιλέως, Πτολεμαίου Εὐεργέτου, καὶ
βασιλίσσης Κλεοπάτρας καὶ ἐπιστράτηγον Λ[ο]ύκιοζ καὶ Γαῖος Πέδιοι,
Γαίου υἷοί, ῥωμαῖοι, ἀρετὴς ἕνεκεν καὶ κἀλογαθίας καὶ τῆς εἰς εαὐτοὺς
εὐνοίας, Ἀπώλλωνι, Ἀρτέμιδι.» Cfr. Prideaux — Marmora oxoniensia p.
150-3. Oxonii. 1676. Mittaire — Marmora oxoniensia. p. 87 n. XXVI.
Londini. 1732. Letronne — Recherches pour servir à l’histoire de
l’Egypte etc. p. 276-9. Paris. 1823. Champollion Figeac — Op. cit. III,
406. Böckh. Corpus inscriptionum graecarum, n. 2285.

[289] Ve n’era infatti più d’uno. Cfr. Robiou — Op. cit. p. 198 e segg.

[290] Letronne — Op. cit. 273 e segg. Robiou — Op. cit. 198 e segg.

[291] Letronne — Op. cit. 321-8. Id. — Inscriptions grecques et latines
de l’Egypte. I, 372. Paris. 1842. Cfr. Robiou — Op. cit. l. c.

[292] Letronne — Op. cit. 298.

[293] Cfr. Cap. IX, § 7 del pres. lav.

[294] I «cordiali rapporti» non cessano di rilevarsi da una
iscrizione, capace altresì di illuminare sulle relazioni commerciali
romano-egiziache sotto Evergete. (Cfr. Bullettin de correspondance
hellénique, VIII, 107).

[295] La vera data di questa missione è rimasta in certo modo oscura,
come maggiormente ne sono i motivi. Cicerone [Somnium Scipionis,
3, (11) (in De Republica, VI), curato dal Pasdera. Torino. 1890],
c’informa che l’ambasceria di Scipione in Egitto, Siria, Asia e Grecia,
fu posteriore alla sua censura (a. 142), e che l’anno stesso, in cui
egli, ancora in missione all’estero, veniva nominato console per la
seconda volta (a. 135). Ma negli _Academica priora_ (II, 25), Cicerone
torna ad accennare ad un’antonomastica ambasceria di Scipione, che
questi ebbe a compiere prima della sua censura e che gli storici, per
il fatto di non conoscere altre sue ambascerie, hanno identificato
con la precedente. Come se ciò non bastasse, Cicerone medesimo nel
De Rep. [3, 35, 40, (Cfr. Cic. Opera. P^e. IV, 2 ed. Klotz. Lipsiae.
1874)], le cui scene s’immaginano avvenute nel 129 (Cfr. Teuffel —
Geschichte der Röm. Litteratur, I, 341, ed. Schwabe. 1890), fa menzione
di un viaggio _recentissimo_ di Scipione, compiuto insieme con Spurio
Memmio, il quale da Giustino (XXXVIII, 8) ci risulta come uno dei
membri dell’ambasceria recatasi in Egitto; e, quasi ad accrescere
l’incertezza, Val. Massimo (IV, 3, 13) riferisce l’avvenimento come
posteriore al secondo consolato (134) e al secondo trionfo di Scipione,
cioè al 133 (Cfr. Lange — Römische Alterthümer, II, 331, e Mommsen —
Op. cit. II, 19). D’altro canto Plutarco (Apophthegmata, p. 200, in Op.
mor. V. 2. Parisiis. Didot. 1841) ci dà notizia di parecchie missioni
diplomatiche di Scipione, di cui egli colloca questa in Egitto, che
sarebbe la terza, come posteriore alla gestione della censura, il che
noi, connettendo con la citazione del _Somnium Scipionis_, l’unico
passo, in cui, da fonte contemporanea, ci si ricordi una vera e propria
ambasceria in Egitto, ricaviamo nuovamente la data del 135, l’unica che
ci sembra attendibile.

Valerio Massimo, al solito, preoccupato dei suoi intenti apologetici
non ha dovuto badare alla cronologia. Cicerone negli _Academica_ avrà
errato per trascuraggine o accennato a qualche altra ambasceria, così
come l’altro passo del De Rep. (3, 35), che è del resto dubbio se
faccia al caso nostro, deve intendersi riferito a una data, non già
immediatamente, ma solo da recente trascorsa. Sulla questione della
cronologia e delle ambascerie di Scipione Cfr. Bendinelli — P. Cornelii
Scipionis Aemiliani Africani minoris Vita, p. 71-2. Florentiis. 1549;
Id. — Locorum historicum adnotatio: loc. XV, XVI, XVII [in Gruterus —
Thesaurus criticus. II, 352-3. Francoforte. 1604]; Simson — Chronicon
catholicum, a. m. 3875. 1651. Mai — Cicerone, De rep. quae supersunt,
p. 266, 1 e p. 317, n. a. Romae. 1822; Gerlach — Historische Studien,
I, Der Tod des P. C. Scipio Aemilianus, p. 220. 1841. Lange — Op. cit.
II, 329. Pasdera. Il sogno di Scipione, App. I, p. 30. Bandelin — Op.
cit. 31-3.

[296] Iust. XXXVIII, 8. Schneiderwirth — Op. cit. 30-1. Lumbroso —
L’Egitto al tempo dei Greci e dei Romani 82-3. Roma. 1882.

[297] Posidonius Apamensis (in Fragm. hist. graec. ed Muller p. 255 e
in Atheneo — Deipnosophistae. XII, 73. ed Meineke. Lipsia. 1858-9).
Plutarco — Apophtegmata p. 200. Episodio degno di essere rammentato
per la sua strana originalità è questo che Evergete, di cui gli storici
greci ci tratteggiano i più nauseanti ritratti fisici e morali, aveva
chiesto la mano della futura madre dei Gracchi, la quale, naturalmente,
avea rifiutato (Plut. Tiberius Gracchus. I, 3).

[298] Iust., Athen., Plut., Diod. l. c. Cfr. Lumbroso l. c.

[299] Non faccio, al pari dello Schneiderwirth (Op. cit. p.
30-1), rimprovero alcuno ai Romani per la loro indifferenza verso
la scandalosa condotta, privata e pubblica, di Evergete, per la
semplicissima ragione che codesto tratto della biografia del medesimo è
probabilmente un’invenzione o un’ingenuità delle fonti (Cfr. Mahaffy —
History etc. 186-7; 203-4).

[300] Mahaffy — Op. cit. p. 206. Strack — Die Ptolomäer, p. 185, 1896.

[301] Strack — Op. cit. 51.

[302] Iust. XXXIX, 5, 2.

[303] Iust. l. c. Eutr. VI, 11, 3. Historia miscella [in Muratori. Rer.
it. scriptores (col 39 B.). Mediolani. 1723]. Liv. Per. 70. Obsequens
— Liber Prodigiorum. CVIII. Lemaire. Parisiis. 1823. Cassiodoro —
Chronicon (in Op. I, 358. Venetiis. 1729). Ammiano Marcellino — Rerum
gestarum quae supersunt, XXII, 16. Lipsiae. 1753. Sextus Rufus. —
Breviarium rer. gest. etc. p. 285 (in Hist. rom. Epitomae. Amsterdam.
1630). Tacito — Ann. XIV, 18, 10. ed Iacob. 1877.

[304] Mommsen — Op. cit. III, 75. Ihne — Op. cit. VI, 155. Drumann — G.
R. II, p. 52 e segg.

[305] In Roncalius — Vetustiora latinorum scriptorum chronica, col.
391.1787.

[306] Eutropio avrà confuso il lascito della Cirenaica con l’altro
posteriore della Libia (Sex. Ruf. l. c.), che avverrà appunto nell’anno
4º dell’Olimpiade 178, (cfr. Roncalius — Op. cit. 398), (= 65 a. C.).

[307] Su questa doppia questione cfr. Scaligero — Animadversiones
in chronologica Eusebii, p. 151 e 154. Cfr. p. 126, nº MDCLXXXVIII.
Amsterdam. 1638.

[308] Cfr. Cap. IV, § 1, n^e, del pres. lav.

[309] Kiepert — Lehrbuch, p. 211-12 e 212, n. 2.

[310] I medesimi però contraddicono a Giustino nel non riferire codesto
lascito ad Apione, che ritengono invece testatore della Libia. La
cronaca eusebio-ieroniana concorda però con Giustino e nessuna delle
opinioni contradditorie di così tardi scrittori può avere un valore
decisivo.

[311] Marquardt — L’organisation de l’empire romain, I, 428-9. 1889-92.

[312] Kiepert. l. c.

[313] Liv. Per. 70. Cfr. Rossberg — Quaestiones de rebus Cyrenarum
provinciae romanae. p. 16. 1896.

[314] Mommsen — Op. cit. II, 41-9. Ihne — Op. cit. III, 265-6. Holm —
Griechische Geschichte. IV, 517. 1896.

[315] Cfr. Barbagallo — _Il senatus consultum-ultimum_, pp. 16-27.

[316] Il Marquardt (Op. cit. II, 432) ritiene che pel momento
il governo romano abbia preso possesso dei domini regii, levando
un’imposta sui principali prodotti della regione. Ma tale opinione non
sembra affatto provata dalle fonti, cui il medesimo esplicitamente si
riferisce.

[317] Mommsen — Op. cit. II, 265-8. Ihne — R. G. V, 311-21. Holm — G.
G. IV, 689-98. Cfr. Meyer — Geschichte des Konigreichs Pontos, p. 84-97
e 104 e segg. Leipzig. 1899.

[318] App. Mithr. 33. Plut. Luc. II, 3 e segg. Cfr. Cic. — Acad. pr.
II, 4. Lemaire. 1828. De vir. ill. 74.

[319] Cfr. App. Mithr. 22 e Strack — Op. cit. p. 207.

[320] App. Mithr. 23. Fl. Ios. A. I. XIV, 7, 2.

[321] Porphyrius (in Müller — Op. cit. p. 722).

[322] Circa la data erra lo Strack (Op. cit., 186). Il Drumann (G. R.
II, 494, n. 78 e p. 42) riporta a ragione i fatti succitati all’81 a.
C., come quelli, che, secondo App. (B. C. I, 103 e 104), sono anteriori
al consolato di Silla con Q. Metello Pio.

[323] Cic. de leg. agr. I, 1, 1 e II, 16, 41. È ormai ammesso dagli
storici più recenti che il testatore o pseudo-testatore sia stata
appunto Tolomeo Alessandro IIº, (Cfr. Strack — Op. cit., p. 64.
Mahaffy — Op. cit., p. 224. Guiraud — Op. cit., p. 30 e segg.).
Tuttavia è bene riepilogare le ragioni che ci sospingono ad escludere
le altre ipotesi avanzate. Cicerone (De lege agr. I, 1, 1 e II, 1,
16, 41) ci parla del testamento di un Tolomeo Alessandro, col quale
questi avrebbe lasciato erede del suo regno il senato ed il popolo
romano. Se non che di Tolomei Alessandri ne conosciamo due, uno,
morto all’88 (Strack — Op. cit. 186), e uno all’81. L’opinione,
che riferisce al primo il succitato testamento, trova un appoggio
nella IIª delle orazioni succitate, (XV, 38), ove, riepilogando
uno dei comma della legge agraria del 59 di P. Servilio Rullo,
Cicerone informa che essa prescriveva la vendita di tutti i beni
demaniali, passati al popolo romano sotto o dopo il consolato di
Silla e Q. Pompeo, che cade per l’appunto nell’anno 88 a. C., e, tra
questi, egli ricorda l’Egitto (II, 16, 41). Se non che la clausola
«_aut postea_», che segue immediatamente la succitata designazione
cronologica, vi scema qualsiasi determinatezza, sì che il riferire
il testamento ad Alessandro Iº rimane un’ipotesi infondata, tanto più
quando si considera che a questo non occorsero mai relazioni con Roma
(Schneiderwirth — Op. cit. 37, n. 29). Il Mommsen à quindi pensato
ad Alessandro IIº, (Histoire romaine, V, 27, n. 1, trad. par E. de
Guerle. Bruxelles. 1867.), ritenendone argomento decisivo il fatto che
la discendenza legittima dei Lagidi si estingueva solo con Alessandro
IIº, senza la quale condizione il dritto pubblico, in vigore presso
gli stati clienti di Roma, non autorizzava il reggente a disporre
del proprio dominio. L’argomento non è certo decisivo; ma tali a me
sembrano invece le seguenti inavvertite parole del primo paragrafo
della prima orazione _de lege agraria_: «post eosdem consules [C.
Silla e Q. Pompeo (a. 88 a. C.)] regis Alexandri testamento regnum
illud [int. l’Egitto] populi romani esse factum», dalla quale può
rilevarsi come il testamento di Alessandro cada in un’età posteriore
alla morte del primo Alessandro (a. 88). Non aggiungo parola per negare
l’esistenza di un preteso Alessandro IIIº, [Pétau — Doctrina temporum,
X, 48. Lutetiae-Parisiorum. 1707. Förster — Coment. acad. Gotting.
ad a. 1780. part. phil. p. 136. Mai — Scholia bobbiensia ad nonnullas
M. T. Cic. orationes cum integris annotationibus, p. 351 (in Orelli —
Cic. Op. V, 2. p. 351, Turici. 1833)], che, rigettata dagli storici più
recenti, ad altro non si riduce se non ad una vana ipotesi creativa.

[324] De leg. agr. II, 16, 41-2. De rege alexandrino p. 149-50 [in M.
T. Cicerone — Op. (Fragmenta), V^e XVIII, ed. Lemaire. Parigi. 1831].

[325] Cic. De leg. agr. II, 16, 42.

[326] Guiraud — Op. cit. 39.

[327] Willems — Le sénat de la république romaine, II, 570 e segg.
Paris. 1885.

[328] Mommsen — Op. cit. V, 110 ed. cit.

[329] Mommsen — Hist. rom. VI, 144.

[330] Id. V, 146-8.

[331] Tale cronologia è definita dal viaggio di uno dei medesimi a
Verre, propretore in Sicilia, (Cic. In Verrem. IV, 27, 61 e segg.
Löscher, Torino 1877), dopo circa due anni di soggiorno a Roma (Ibid.
IV, 30, 67). Poichè la propretura di Verre in Sicilia durò dal 73 al
71, (Op. cit. p. 10; Ciceros — Rede gegen C. Verres. Buch. IV, «De
Signis» erklärt. von K. Hachtmann, p. 35. Gotha 1889. Klein — Die
Verwaltungsbeamter der Provinzen der römischen Reichs I, 1, 73-4. Bonn.
1878), la venuta a Roma dei figli di Selene deve datare, al più tardi,
dal 72.

[332] Mommsen — Hist. rom. V, 33-4. Ihne — R. G. VI, 14-42.

[333] Mommsen — Hist. rom. V, 61 e segg. Ihne. R. G. VI, 56, 100.

[334] Mommsen — Hist. rom. V, 91 e segg. Ihne. R. G. VI. 43-55.

[335] Starck. l. c. e n. 39, 40 e 41. Cfr. Letronne — Recueil etc. II,
20 e segg.

[336] Strack — Op. cit. 186 e Mahaffy — The history etc. 223-4.

[337] II, 31, 76.

[338] Cic. — In Verr. Introd. XV. Torino. Löscher 1877 e «Rede gegen C.
Verres», p. 8.

[339] Cfr. Guiraud — Op. cit. 36 e 37.

[340] Plut. — Crass. XIII, 1-3. La censura di Crasso deve argomentarsi
del 65 a. C. (Cfr. Drumann — R. G. IV 85).

[341] Guiraud — Op. cit. 37.

[342] Dione — Hist. rom. XXXVII, 8 e segg. ed. Gros et Boissée.

[343] Svet. — Caes. XI. Cic. De leg. agr. I, 1, 1. Svetonio ci dice
che Cesare pigliò occasione dal fatto che gli Alessandrini avevano
_cacciato_ il loro re, _alleato_ di Roma. È ben difficile ammettere
che qui si intenda parlare di Tolomeo Alessandro IIº, ucciso, più che
scacciato, circa venti anni prima. D’altro canto, noi non conosciamo
in quel tempo nessuna ribellione alessandrina, nè re alcuno _alleato_
del popolo romano, quale non era infatti Aulete. Probabilissimamente
Svetonio avrà confusogli avvenimenti di quest’anno con quelli del 56,
che narreremo fra breve.

[344] App. — Mithr. 92. Cfr. Drumann — G. R. IV, 392 e segg. e Mommsen
— St. rom. II, 42 e segg. trad. it. del Sandrini.

[345] Strabo — XIV, 669.

[346] App. l. c.

[347] Dio — XXXV, 17; XXXVIII, 30.

[348] Cic. — De har. resp. XX.

[349] Dio — XXXVIII, 30.

[350] Strabo — XIV, 684.

[351] App. Mithr. 94.

[352] Floro. III, 6, 9. App. Mithr. 95.

[353] In quella lunga lettera ad Arsace, re dei Parti, che Sallustio
riferisce come vergata da Mitridate alla vigilia della sua finale
catastrofe, il re del Ponto, enumerate le rovine d’imperi e di
monarchie, di cui erano stati autori i Romani, concludeva con
l’eccettuare il re d’Egitto «_praetio in dies bellum prolatans_» (Sall.
Hist. fragm. p. 410-11, ed. Lemaire. Parisiis. 1801). Quest’interessata
neutralità Mitridate avea cercato per ben due volte di scuotere e
finalmente, sebbene troppo tardi, vi era riescito.

[354] Mommsen — Op. cit. II, 254.

[355] Mommsen — Op. cit., 244-80.

[356] Mommsen — Op. cit. II, 52-110.

[357] App. Mithr. 111. Cfr. Letronne — Recueil etc. II, 74 e segg.

[358] App. l. c. Mommsen — Hist. rom. V, 147.

[359] Chronica eus. (in Roncalius — Vetustiora chron. etc. p. 398).
Sext. Ruf. — Breviarium p. 385. Amm. Marc. Rer. gest. XXII, 16.

[360] Lo Scaligero, [Animadversiones chronologicae in Eus. 150-1 (Cfr.
p. 126, nº 1688). Amsterdam, 1658], crede si tratti di due Tolomei
_Apioni_.

[361] The history etc. p. 208.

[362] Guiraud — Op. cit, 27-9.

[363] L’organisation de l’empire romain. II, 431, n. 3.

[364] Marquardt — Op. cit. II, 430 e 430 e n. 5.

[365] Marquardt — Op. cit. 431, n. 3.

[366] The history etc. 208.

[367] Cic. De leg. agr. I, 1, 1; II, 15, 38.

[368] De leg. agr. II, 16, 41-3.

[369] Id. II, 7, 16.

[370] Id. II, 13, 32.

[371] I, 3, 9.

[372] Id. I, 4, 10; II, 21, 56. Cfr. De Ruggiero — «Agrariae leges», §
53 (in «_Enciclopedia giuridica italiana_»).

[373] Sull’ostilità di Cicerone alle leggi agrarie, cfr. il recente e
splendido libro del Masè-Dari. — M. T. Cicerone etc., p. 260-86.

[374] H. n. Plin. XXXIII, 47, 9.

[375] Flav. Ios. XIV, 3.

[376] Appiano enumera fra le ragioni, che dovettero distogliere Pompeo
dall’impresa, l’avverso responso dell’oracolo. Ma è da ritenere che
egli abbia, equivocando, riferito a quest’anno quanto accadrà di lì a
poco nel 56 a. C.

[377] Drumann — G. R. III, 203 e segg.

[378] Schol. Bobb. in orat. Pro Sext. 202, ed. Orelli.

[379] Dio — XXXVIII, 2 e segg.

[380] Cic. Ad Att. II, 16.

[381] Caes. B. C. III, 107. Svet. Caes. LIV. Dio — XXXIX, 12. Cic. Pro
Rab. post. III; Pro Sext. XXVI.

[382] Cfr. il cap. segg., § 7 del pres. lav.

[383] L’intera somma pattuita non fu però sborsata per intero. Quando
Cesare, al 49, si recherà in Egitto, sarà ancora creditore di 700
sesterzi (Plut. Caes. XLVIII, 5).

[384] Caes. l. c. Cic. l. c.

[385] Cic. Ad. Att. II, 5.

[386] Ibid.

[387] Lange. R. A. I, p. 574 e segg. Barbagallo — Il _senatus-consultum
ultimum_, p. 119-20, 115 e segg. La censura non era gerita se non da
chi avesse trapassato tutta la serie delle magistrature (Lange. R.
A. I, 513), il che, in pratica, non riesciva possibile, se non ai più
cospicui degli ottimati.

[388] Lange — R. A. I, 691.

[389] Cic. Pro Sext. XXV, XXVI e Liebenam. — Zur Geschichte und
Organisation des romischen Vereinswesens, p. 24-5, 1890. Gentile —
Clodio e Cicerone p. 118-9. 1876.

[390] Barbagallo — Op. cit. 120-1. Cfr. Bouché-Leclerq. Les Pontifes
de l’ancienne Rome, pp. 327-8, 329-30, 331, 334-5. 1871. Cic. De prov.
cons. XIX; De har. resp. XXVII; Pro Sext. XXVI. Bélot — Hist. des
chevaliers romains. I, 88 e segg. 1866. Drumann. G. R. II, 238.

[391] Pro Sext. XXV. Ascon — in Pison, IV (ed. Orelli). Drumann — G. R.
II, 238.

[392] Il lettore non si scandalizzi se ora o più innanzi, come sempre,
tratto con disinvoltura del buon Marco Tullio. Non ostante le vecchie e
le nuove, più o meno retoriche, indignazioni (Cfr. Pasculli — I libri
delle leggi di M. T. Cicerone, preceduti da un saggio sulla critica
del Mommsen. Trani. 1900), sta di fatto che l’oratore romano non può,
nelle sue qualità di uomo politico, essere giudicato da puri letterati,
ma da chi abbia anima e senso di uomo politico. E tale prerogativa
rende immortale l’opera ed i giudizi del Mommsen, nè fulmini più o meno
olimpici o _chauvenismes_, più o meno patriottici, possono esercitarvi
contro un valore decisivo. Cfr. sul proposito il recentissimo volume
del Masè-Dari, altre volte citato.

[393] Cic. Pro Sext. XXVIII; De prov. cons. XIX e Pro Domo sua, IX e
XXV. Cfr. Plut. Cat. min. XL e Cic. XXXV.

[394] Oltre alle monografie citate nella prefazione del pres. lav.,
cfr. su questo cap. Drumann — G. R. II, 262-8 e V, 166. Engel — Kypros,
435-447.

[395] Cic. Pro Sext. XXVI. Erra quindi il Matscheg (Cesare e il suo
tempo, 5, n. 5 Firenze. 1874), nel fare del Tolomeo ciprio un figlio
_minore_ di Tolomeo Aulete.

[396] La testimonianza di Ammiano Marcellino (XIV, 27), che lo dice
_foederatus ac socius_, è smentita dall’altra molto più autorevole di
Cicerone (Pro Sext. XXVI).

[397] Cfr. Ciccotti — Il processo di Verre, p. 23. Milano. 1895.

[398] Cic. l. c. Pro Domo sua. VIII.

[399] Cic. Pro Flacco, XIII.

[400] Cfr. Cap. VII, § 3º del pres. lav.

[401] Engel — Kypros, 40-71.

[402] Amm. Marc. XIV, 8 e 27.

[403] Velleius Paterculus — Quae extant. II, 38, 5-6; 45, 5. ed.
Lemaire. Parisiis. 1822. Florus — Epitone rer. rom. III, 9 ed. Lemaire.
1827. App. B. C. II, 23.

[404] De viris illustribus, III, 80. Vell. Pat. II, 45, 5. Cfr. in ed.
cit., n. 5.

[405] Cic. Pro Sext. XXXII, XXVII. Liv. Ep. 104. Floro III, 9. Schol.
Bobbiensia in orat. Pro Sextio, p. 302. ed. Orelli.

[406] Plut. — Cat. min. XXXIV, 3.

[407] Liv. Ep. 104. Vell. Pat. II, 38, 5-6.

[408] Val. Max. IV, 3, 2.

[409] Plut. Cat. min. XXXV, 1.

[410] Val. Max. IX, 4, 3.

[411] Dione — XXXIX, 22. Vell. Pat. II, 45, 5. Plut. — Cat. min. XXXVI,
1. Strabo — XIV, p. 684.

[412] Dio — l. c.

[413] Vell. Pat. II, 45, 5. Floro III, 9.

[414] Plut. — Cat. min. XLV, 2. Lucano — Pharsalia III, 64. ed. Lemaire.

[415] Plut. — Cat. min. XXXVI, 1. Cfr. Cic. Pro Sext. XXXVI. Questa
cumulazione d’incarichi, conferiti per unica legge, era il solo
elemento della medesima giuridicamente passibile di nullità, nè
Cicerone si astenne dallo scagliarvene minaccia (Pro Domo, XX); ma, pur
troppo, l’incostituzionalità riguardava le forme e non il contenuto,
(Cfr. Drumann. II, 24 e 265, n. 38).

[416] Ciò gli fruttò le ire e i libelli di parecchi, di alcuno dei
quali, per comodità politica, si fece forte anche Cesare nella sua
sperduta «_Anticatoniana_,» (Cfr. Plut. Op. cit. XXXVI, 3 e XXXVII,
1-4).

[417] Plut. — Op. cit., XXXVI, 1, 3.

[418] Plut. Cat. min. XXXVIII, 1-2.

[419] Vell. Pat. l. c. Plut. Ib. XXXIX, 1. Val. Max. VIII, 15, 10.

[420] Plut. Ib. XXXIX, 1-2. Dio XXXIX, 22.

[421] Plut. l. c.

[422] Cfr. Plut. Ib. XXXIX, 2 e XLII, 1, che ci segna sia i nomi
dei consoli, durante la cui carica avvenne il ritorno, sia quelli
successivi, e Dio (XXXIX, 22), la cui narrazione riguarda appunto
l’anno 56 a. C.

[423] Nel golfo Saronico, oggi Kenkri.

[424] Drumann — G. R. II, 534 e segg.

[425] Cic. Ad Fam. I, 7. Cfr. Ad. Att. V, 21 e Marquardt — Op. cit. II,
328.

[426] Cfr. Drumann — G. R. II, 222-5.

[427] Plut. Cic. XXXIV. Cat. min. XL.

[428] Erra Plutarco, (Cat. min. XLIII, 1), includendovi l’Egitto,
tutt’altro che conquistato. Egli infatti, oltre a smentirsi da sè,
(Cfr. Pomp. LII e Caes. XXI), è contraddetto da Dione. XXXIX, 33. App.
B. C. II, 118, Liv. Ep. 105. Circa il surriferito periodo cfr. Matscheg
— Op. cit. pp. 94-6.

[429] Plut. Cat. min. XLIV.

[430] Cfr. Plut. Cat. min. XLV, 2.

[431] Dio — XXXIX, 22 e Plut. Cat. min. XLV, 1. Dione ha il torto
di riferire tutti questi avvenimenti all’anno 56, cronologia che è
chiaramente smentita da Plutarco.

[432] Plut. Cat. min. XLV, 2.

[433] Matscheg — Op. cit. p. 56.

[434] Gli eventi, che sono soggetto del pres. e dei successivi
paragrafi, accennati di volo — non se ne capisce il perchè — dagli
studiosi delle relazioni di Roma con l’Egitto, sono narrati con una
certa ampiezza dallo Champollion-Figeac (Op. cit. II, 299-317), il
quale però, in gran parte per colpa dell’intrico delle fonti, riesce
poco preciso. Cfr. piuttosto Drumann — Op. cit. II, 535 e segg. Duolmi
non aver potuto vedere la monografia dello Stocchi — A Gabinio ed i
suoi processi. Torino. Löscher. 1892.

[435] Cfr. Cic. Pro C. Rab. post. passim. Cicerone (Op. cit. II) e
Plutarco (Pomp. XLIX, 7), l’uno, a bella posta, l’altro, riferendo da
un storiografo anteriore, insinuano che il viaggio di Aulete fu dovuto
_unicamente_ a brighe di Pompeo per aprirsi, con una spedizione egizia,
nuove vie di ricchezze e di onori. Ciò è smentito dai contemporanei
avvenimenti di Alessandria, ed è un’interpetrazione creata solo quale
arma politica, dopo l’esperimento delle brighe dei Pompeiani. Del pari
è da escludere tra le cause del malcontento dei sudditi di Aulete,
il rifiuto del medesimo a reclamare Cipro ai Romani, in quanto che
il prossimo incontro di Aulete con Catone a Rodi, (Plut. Cat. min.
XXXV), ci avvisa che quell’isola apparteneva ancora al suo naturale
possessore.

[436] Dio — XXXIX, 12 e Liv. Ep. 105.

[437] Plut. Cat. Min. XXXV.

[438] Cic. Ad Fam. I, 7, 2-6.

[439] Porphyrius — p. 723. ed. cit.

[440] Dio — XXXIX, 13-14. Strabo — XVII, p. 796. Cfr. Cic. Pro Coelio,
X. (ed. Lemaire). De harusp. responsis. XVI.

[441] Cic. Pro Coelio X.

[442] Dio — XXXIX, 14.

[443] Ibid.

[444] Cic. Ad Fam. I, 1 e Ad. Q. fr. II, 2.

[445] Cic. Pro Coelio, X.

[446] La cosa non è matematicamente sicura, ma in tale sospetto
c’induce gravemente lo strano interessarsi di Celio, nell’anno della
morte di Aulete alle condizioni dell’Egitto e la sua febbrile richiesta
a Cicerone di consiglio sul _da fare_, (Ad Fam. VIII, 4). Come è noto,
nessuno dei creditori aveva più potuto riscuotere la minima delle somme
sborsate (Cic. Ad Fam. VII, 17).

[447] Drumann — G. R. II, 376-80. Cfr. Cic. Ad. Q. fr. II, 13.

[448] Quinctilianus — Instit. orat. XI, 1, 51 ed. Lemaire 1820-5. Svet.
Clar. rhet. II. ed. Lemaire. 1828.

[449] Cic. Pro Coelio — X e XXI.

[450] Cic. Pro Coelio, X.

[451] Ibid.

[452] Ciò si rileva dal fatto che Celio continuò a rimanere a
Roma (Cfr. Cic. Ad Q. fr. II, 13), il che sarebbe stato vietato
dall’applicazione della condanna prescritta dalla legge Plauzia (Cfr.
Rein — Das Criminalrecht der Römer 740-1884.), sotto il cui impero
venne espletato il dibattimento.

[453] Cic. Ad Fam. V, 12. Sul processo di Celio cfr. anche Rhein. Mus.
II, 4, p. 598.

[454] Dell’assenza di Aulete durante il 56, oltre a Cicerone (Ad. Fam.
I, 1), ce ne avverte implicitamente Dione Cassio (XXXIX, 16).

[455] La connivenza di Pompeo con Aulete è provata altresì dal fatto
che questi aveva esibito una propria villa al principe egiziano, quale
luogo di ritrovo coi creditori. (Cfr. Cic. — Pro C. Rab. Post. III).

[456] Cic. Ad Fam. I, 1, 1 e segg. I, 2.

[457] Dio — l. c. 15 e 16 Cic. — l. c.

[458] Cfr. Cic. — Ad Fam. I, 2, n. 22 ed. Lemaire. 1827.

[459] Cic. l. c.

[460] Cfr. Cic. — Opere con trad. e n^e I, col. 1056. Venezia. 1848.

[461] «_ante se oportere discessionem facere_» (Cic. Ad Fam. I, 2).
La frase è oscura, nè l’interpretazione, che io con altri ho esibito,
è del tutto soddisfacente, dappoichè i tribuni avevano già da molto
tempo il diritto di presenziare le sedute senatorie (Willems — Le
sénat de la rép. rom. II, 162 e 202-3). Peggiore però sembrami quella
del Gronovius: «_se debere prius sententias rogare_», (Cfr. Cic. — Op.
Lettere. II, p. 117, n. 6 ed. Bentivoglio, Napoli. 1829), che confonde
il «_rogare sententias_» col «_discessionem facere_», e urta due volte
contro la grammatica.

[462] Cic. Ad Fam. I, 2 e I, 4. Ad Quint. fr. II, 2. Cfr. Dio — XXXIX,
15. In questa giornata Cicerone ebbe forse a recitare l’orazione «_de
rege alexandrino_», di cui noi possediamo soltanto brevi e slegati
frammenti, i quali a nessun critico possono permettere la sicurezza
dello Schmid (Op. cit. 11) nel riferirli all’anno della censura di
Crasso (65 a. C.), che gli Scholia Bobbiensia ricordano solo come
un’età già trapassata [«_tentaverat Crassus_». (Cfr. Ciceronis — Op.
Vº, P^e IIª, p. 350 ed. Orelli)]. Nè più valida parmi l’argomentazione,
che il Bandelin vuol trarre dal silenzio di Cicerone, il quale,
per contro, nelle sue lettere accenna a parecchi suoi discorsi _pro
rege alexandrino_, tenuti in quei giorni, o dal fatto, che allora si
discuteva su _chi_ doveva ricondurre il re, non _sulla restituzione_
del re, la quale, era in ballo tanto quanto la questione precedente.

[463] Drumann — G. R. V, 203 e segg.

[464] Ibid. II, 109 e segg. Plutarco, a torto, ce lo ha tramandato come
un Canidio.

[465] Cic. Ad Fam. I, 4.

[466] Ibid. 5 e Ad Q. fr. II, 3.

[467] Dio — XXXIX, 16. Cfr. Plutarco — Pomp. XLIX, 6.

[468] Timagenes Alexandrinus — Fragm., (in Müller — Fragm. hist. graec.
p. 222), e Plut. Pomp. XLIX, 5-6.

[469] Circa i sentimenti di C. Catone contro Lentulo, cfr. Fenestella
(in Nonio Marcell. — De vera sign. serm. p. 385. Lipsia. 1826).

[470] Ad Q. fr. II, 3 e Ad Fam. I, 5.

[471] Dio — XXXIX, 16 e Plut. Pomp. XLIX, 5-7. Cfr. Dio — XXXIX, 9.
Cic. Ad. Att. IV, 1. Pro Domo VII; X. App. B. C. II, 18.

[472] Ad Q. fr. II, 6.

[473] Cic. Ad Fam. I, 7, 2-6. È eloquente nei rispetti del carattere
di Cicerone, il contrasto fra tali consigli e le accuse lanciate
nello stesso anno contro Gabinio, (cfr. In Pis. XXI), colpevole di
avere eseguito il piano, che l’oratore consigliava al suo amico della
Cilicia.

[474] App. Syr. 51. Diodoro — Bibliothecae historicae quae supersunt.
XXXIX, 56 ed. Kiessling, e Prou. Parigi. Circa la nuova fase della
questione egizia, cfr. Drumann — G. R. III, 49-59.

[475] Plut. Anton. III, 1. Cic. Phil. II, 19, 48.

[476] Cic. Pro Rab. Post. XI. Schol. Bobb. p. 271 e 356-7. (in
Ciceronis — Opera ed. Orelli. Vª, P^e IIª).

[477] Pro Domo sua, IX e XXI. Pro Rab. Post. VIII.

[478] Dio — l. c. Cfr. Cic. Ad Att. IV, 10.

[479] Flav. Ios. A. I. I, VI, 2 e De bello Iud. I, 8, 7.

[480] Cfr. Val. Max. LIX, 1, 6.

[481] Cfr. anche Liv. Ep. 105.

[482] Porphyrius — p. 723, ed. cit.

[483] Caes. B. C. III, 4 e 110, ed. Lemaire. Parisiis. 1820.

[484] Ad Att. IV, 10, 1.

[485] Cic. Ad Q. fr. II, 13; III, 2; In Pis. XXI.

[486] Dio — XXXIX, 56-9.

[487] Cic. Ad Q. fr. III, 1.

[488] Sulla portata dell’accusa _de repetundis_, cfr. Rein — Op. cit.
p. 604-5 e 343-6. La contemporanea accusa _de ambitu_ (Cic. Ad Att. IV,
16; Ad Q. fr. III, 3) non può di certo, per la sua natura, riferirsi
alla spedizione di Gabinio in Egitto. Piuttosto è da considerarsi come
uno dei contemporanei mezzi di demolizione, praticato, per vendetta,
dagli avversari.

[489] Dio — l. c. 59-61.

[490] Dio — l. c. 62. Cic. Ad Qu. fr. III, 1.

[491] Cic. Ad Q. fr. III, 2.

[492] Dio — l. c. 62.

[493] Cfr. Rein — Op. cit. p. 563-4. Drumann — G. R. II, 52, 2; III, 54
e segg.

[494] Cfr. invece Cic. Ad. Qu. fr. III, 4.

[495] Dio — XXXIX, 63.

[496] Cic. Ad Att. IV, 16 e Dio — l. c., 62.

[497] Cic. Ad Q. fr. III, 4.

[498] Id. Ad Att. IV, 16; Ad Q. fr. III, 4. Cfr. Ad Q. fr. III, 7, 9.

[499] Circa la cronologia del processo, cfr. quella dell’immediatamente
posteriore epistola ciceroniana Ad Q. fr. III, 4 (in Cic. — Scripta
quae manserunt. Ep. ad Q. fr. l. c. ed. Klotz e Wesenberg. Lipsiae.
1873). Il §º dell’anteriore ep. ad Att. (VI, 16), che parla
dell’assoluzione di Gabinio, è frammento di una lettera posteriore alla
precedente.

[500] Dio — XXXIX, 62.

[501] Ibid., 63.

[502] Cic. Ad Q. fr. III, 1.

[503] Cic. Pro Rab. post. XII, 31. Val. Max. — IV, 2, 4. Quint. Instit.
orat., XI, 1, 73. (Cfr. Cic. Ad Q. fr. III, 5; III, 9; II, 1, e Drumann
— G. R. VI, 70-1). Circa la sua orazione _pro Gabinio_, cfr. Cic. —
Varia (ed. Lemaire, p. 185).

[504] Trattavasi, fra l’altro, dell’estorsione di 4000 sesterzi dalla
provincia, che Gabinio aveva adoperato per la spedizione egizia. (Dio —
XXXIX, 55).

[505] Dio — XLVI, 8.

[506] Sui pericoli, possibili a provenire dalla capacità personale di
Archelao, cfr. Drumann — G. R. III, 50 — 1.

[507] Cic. Pro Rab. post. VIII e XIV.

[508] Dio — XXXIX, 64. Schol. Bobb. Pro Archia, p. 336 (ed. Orelli).
App. (Syr. 51) lo dice erroneamente esiliato dal senato, cui elargisce
un’indebita competenza, mentre nei B. C. II, 24 lo fa esiliare nel 52
a. C. Sulla pena dell’esilio nei reati _de repetundis_, cfr. Rein — Op.
cit. 630.

[509] Sallustio — Bellum Iugurtinum. XXXV, 10. Löscher. 1900.

[510] Ciccotti — Il processo di Verre, p. 13.

[511] Cfr. Dézobry — Rome au siècle d’Auguste, I, p. 261 e segg., 270 e
segg. Paris. 1835.

[512] Ibid. 19 «Lugent omnes provinciae», scriveva una volta, in cui
gli tornava comodo, Cicerone, (In Verr. II, 3, 89) «queruntur omnes
liberi populi, regni denique jam omnia de nostris cupiditatibus et
iniuriis expostulant: locus intra oceanum jam nullus est neque tam
longinquus, neque tam reconditus, quo non per haec tempora nostrorum
hominum libido iniquitasque pervaserit».

[513] V^i Cap. II, § 3º del pres. lav.

[514] Sul pres. §. Cfr. Drumann — G. R. VI, 71-83.

[515] Cfr. Drumann — G. R. VI, 71-2.

[516] Cic. Pro Rab. post. II-III.

[517] Roblon — Op. cit., p. 171 e segg.

[518] Lo Schmid ne incolpa a torto (p. 13-4) un’inesistita insurrezione
alessandrina, provocata dalla fiscalità del ministro.

[519] Cic. Ib. VIII e XIV-XV. Cfr. Ad Fam. VII, 17.

[520] Cfr. Cic. Op. cit. III, Ad Q. fr. III, 2 e III, 3.

[521] Svet. (Claud. 16) lo dice a torto _de maiestate_.

[522] Cic. Pro C. Rab. post. IV e _passim_.

[523] Op. cit. III.

[524] Op. cit. VIII.

[525] Ibid. XI e segg.

[526] Rein — Op. cit. 630. Drumann — G. R. III, 215. Cfr. Cic.
Orationes. V^e 4º. «_Excursus ad orat. pro Flacco_, cap. 38» ed.
Lemaire.

[527] L’argomento della gratitudine pei servigi, resi da Postumo a M.
Tullio nei giorni dell’esilio, (Ibid. XVII), non ha valore alcuno come
motivo psicologico della difesa di Cicerone, dappoichè di null’altro
può trattarsi se non di un prosaico imprestito, spoglio di qualsiasi
attaccamento amichevole.

[528] Era questa la valutazione del danaro, del cui risarcimento
all’erario si rendeva responsabile l’imputato.

[529] Cic. Ibid. IV-V.

[530] Ibid. XIII.

[531] Ibid. VI-VII.

[532] Ibid. VIII.

[533] Ibid. XI.

[534] Ibid. XII-XIII.

[535] Ibid. III.

[536] Ibid. VIII-X.

[537] Ibid. XI.

[538] Laboulaye — Essais sur les lois criminelles des Romains, p.
216-27, 1845.

[539] Cfr. Cic. Ad Fam. I, 1.

[540] Rein — Op. cit. p. 626, nota.

[541] Persino l’ostentazione della miseria del proprio cliente era
pillola che Cicerone poteva solo dare a bere al primo venuto. Postumo
era un uomo troppo astuto, come tutti i suoi compagni d’affari, per non
ricorrere a simili espedienti. (Cfr. Schmid — Op. cit. 14).

[542] Ad Fam. I, 1 e Ad. Q. fr. II, 2.

[543] Il Guiraud (Op. cit. p. 47), naturalmente senza citare fonte
alcuna, lo dichiara recisamente assolto.

[544] XVI.

[545] XV e segg.

[546] Drumann — G. R. VI, 21 e segg. Matscheg — Op. cit. e segg.

[547] Caes. B. C. III, 110. Val. Max. IV, 1, 15. [Annaei Senecae —
Op. philosophica, II. Cons. ad Marciam. XIV ed. Lemaire. 1827. Cic. Ad
Att. VI, 5.] Quali fossero le cause del loro viaggio in Egitto è ben
difficile precisare. Tuttavia è probabile l’opinione del Drumann (G. R.
II, 105), accettata dallo Schneiderwirth, (Op. cit. 46), che esso sia
avvenuto allo scopo di richiedere aiuti contro i Parti. (Cfr. Drumann —
G. R. II, 101 e segg.).

[548] Caes. B. C. III, 108. Porph. (in Fragm. hist. graec. IV, 723).
Dio — XLII, 25 e segg.

[549] Cfr. Caes. B. C. III, 3, 4-5 e 103. App. B. C. II, 49 e 71. Dio —
XLII, 12.

[550] Drumann — G. R. III, 532-49. Matscheg — Op. cit. 345-63.
Schneiderwirth — Op. cit. p. 46 e segg. Schmid — Op. cit. p. 16 e segg.





Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo
senza annotazione minimi errori tipografici.

Le correzioni indicate a pag. 196 (Errata-Corrige) sono state riportate
nel testo. La notazione ^ indica che il carattere seguente è in apice.





*** END OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK LE RELAZIONI POLITICHE DI ROMA CON L'EGITTO DALLE ORIGINI AL 50 A. C. ***


    

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