The Project Gutenberg eBook of Le novelle della guerra This ebook is for the use of anyone anywhere in the United States and most other parts of the world at no cost and with almost no restrictions whatsoever. You may copy it, give it away or re-use it under the terms of the Project Gutenberg License included with this ebook or online at www.gutenberg.org. If you are not located in the United States, you will have to check the laws of the country where you are located before using this eBook. Title: Le novelle della guerra Author: Antonio Beltramelli Release date: August 19, 2023 [eBook #71446] Language: Italian Original publication: Milano: Treves, 1919 Credits: Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (This file was produced from images made available by the HathiTrust Digital Library) *** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK LE NOVELLE DELLA GUERRA *** ANTONIO BELTRAMELLI Le Novelle della Guerra MILANO Fratelli Treves, Editori Secondo migliaio. PROPRIETÀ LETTERARIA. _I diritti di riproduzione e di traduzione sono riservati per tutti i paesi, compresi la Svezia, la Norvegia e l’Olanda._ Milano, Tip. Treves — 1919. Le novelle della guerra. A MIO PADRE. _A te, vecchio babbo, che mi passi nel tuo silenzio accanto; alla tua fierezza raccolta e al tuo saldo cuore di soldato consacro questa mia amorosa fatica._ _Il nostro orgoglio è uno: l’Italia; ma io vedo inferiore il mio còmpito di fronte a ciò che fu per te la vita. Io narro, tu hai agito; tu hai vissuto il tuo poema d’amore da Curtatone a Custoza: dalla tua prima giovinezza alla tua maturità compiuta, essendo sempre fra coloro che vollero._ _Fermo alla tua fede fin da quando ti nacque dal cuore, per disdegno e gagliardia, fin da quando ti valse la dura prigione e ti pose di fronte alla morte, hai veduto nascere e smorire e rinascere questa Italia nostra alla quale ciascuno di noi, entro il proprio confine, ha dedicato tutta quanta l’anima; e nei giorni più oscuri, allorchè ogni sogno di grandezza pareva vano, di fronte alla miseria degli uomini, non hai deprecato nè dubitato mai._ _Altri gridava maledicendo, tu hai taciuto nell’attesa. Io mi ebbi da te la forza del perseverare, la dura costanza che macera e affina, la virtù che ti regge all’incrociata e veglia lo spirito tuo chè non s’afflosci e troppo non ascolti e vilipeso non s’adiri e martoriato non si stanchi. Ciò che tu fosti e sei, vorrei essere io. E se pari siamo nell’amore all’Iddio indigete, vorrei avermi perenne, sul trascorrer degli anni, il religioso silenzio del tuo cuore che non dubita mai. Non più di questo e in questo la mia vita intiera. Fosse il mio come il tuo solco e la mia forza pari alla tua, nel campo del mio travaglio, fra i due vesperi. Ora che troppe cose si separano e tralignano e tormentate tormentano a ricercare inverosimili strade, e l’insincerità le conduce, ora più che mai io cerco il terreno delle tue radici per impiantarmi in quello e, nella mia qualsiasi forza, prosperare per quel che sono e voglio essere. L’ombra della casa degli avi non costringe nè immiserisce. È l’eterna montagna che dà vita alle fonti. Ed ogni casa ha una finestra all’alba ed una al tramonto e, sopra, il cielo infinito; ogni casa ha la sua porta che si chiude su la notte e sulla tempesta; e, se tu vegli, vedrai sul tuo nido, sul tuo esiguo spazio, sul tuo sacro nulla, il volto delle stesse stelle che sono sul mare smisurato e su le montagne abissali._ _La parola è la stessa, sempre, per tutti gli uomini, su tutte le terre; e l’aspetto e l’anima è una. Ora troppi si sperdono che vanno per roveti e sterpeti a ricercare ciò che è alla loro soglia, ciò che si stende su la loro piccola casa quando il sonno li coglie._ _Meglio è radicarsi alla terra antica ed essere la nuova pianta della selva sacra, dalla quale parlarono già le prime voci degli uomini e degli Iddii, e conoscer le virtù della stirpe sì che la tua forza e la tua ansia profonda ne siano rinsaldate._ _V’è un’ombra smisurata alla quale non farai fronte da solo se ben non t’impianti e ciò che più solo ti appare, più profondamente si radica nel suo popolo._ _Così io ho inteso il tuo amore, babbo, e per questo è tua la prima fatica che valga al mio fine._ _E con te è di tutti coloro che su la terra e sul mare hanno rinnovato questa Primavera Sacra. Ed ai vivi ed ai morti e alla magnifica masnada giovanile e al cuore dei Condottieri la voglio dedicata._ Per ricordare. “Il coraggio è di tutti i popoli, ma l’eroismo è solo di quelli che debbono vincere.„ ALFREDO ORIANI, _Fino a Dogali_. _Cominciammo con uomini che si avventuravano soli per le terre dell’Africa oscura, soli ed indifesi ma temprati al sacrificio e alla morte per condurre innanzi con la loro volontà il Destino della patria._ _Morirono disperando. Non seppero e non videro forse che una generazione non lontana avrebbe raccolto i loro nomi per iscriverli nel martirologio della stirpe. Forse giacciono tuttavia lungo le piste carovaniere, pei deserti._ _Pellegrino Matteucci, Antonio Cecchi, Giulietti, Bisleri, Chiarini, Bianchi, Diana, Monari: ecco i pionieri autoctoni._ _La giovinezza del popolo andava innanzi a loro; la fatalità di un disegno storico li sospingeva al sacrificio. Morirono e lo squallore delle anime non seppe la bellezza e la grandezza del toro gesto. La trepidante ansia dei governanti deprecò la loro morte. Non si voleva agire. L’Italia, bollata dalla secolare servitù, impaurita dalle sue ultime disfatte sul campo di battaglia, sbigottita dal disastro di Lissa che era, nei secoli, la sua prima pagina ingloriosa sul mare, era renitente al suo Destino, si umiliava per non seguir la sua via. Non ardì quand’era tempo, non si rimosse quando altri le apriva la strada, si condusse da schiava ne’ suoi rapporti con le Nazioni, volle passar come l’ombra, essere nulla e nessuno per non trovarsi di fronte al pericolo e vi riuscì. Si salvò perchè necessaria ad un equilibrio di forze, ma l’anima sua si immiseriva sempre più. Ebbe uomini d’accatto che per la loro timidezza politica le tolsero anche l’ultima dignità. Cadde in dispregio. Le sue glorie nazionali si offuscarono. Ma il fato la premeva e dovette ubbidirgli._ _Così mentre era stata facile giuoco della Francia dapprima e si era rifiutata di seguir l’Inghilterra poi e, accecata dalla più grande insipienza politica e da un vergognoso timore, aveva trascurata la sua migliore fortuna, si decise ad entrare in campo meschinamente acquistando una piccola terra nell’Africa lontana._ _Agì come colui che rasenta i muri e segue l’ombra dei viottoli. La sua incorreggibile umiltà le vietava la strada a fronte serena, in pieno sole. Agli irresoluti è serbato sempre il cammino più aspro._ _E ancora, alla dolorosa terra mancò l’accorgimento. Si volle e non si volle. Si ubbidì all’Inghilterra stretta dal Madhi a Karthum, le si promise aiuto senza provvedere nella misura necessaria all’aspro còmpito, e quando l’Inghilterra, dopo un tragico eccidio, desistè dal suo disegno, si ricadde nell’irresolutezza avviliente. Si lesinarono i mezzi, si lasciarono uomini quasi indifesi, si preparò Dogali._ _Con Dogali ebbe principio una tragedia ed un’alba. Da allora si iniziarono le conseguenze inevitabili della timidezza nostra ma si dimostrò anche il nerbo delle nostre genti._ _Ciò che fu guardato a vergogna ci doveva insuperbire. Non si perde quando una gente muore come morirono gli uomini di De Cristoforis._ _Ricordiamo il rapporto del capitano Tanturi:_ “.... Dietro la cresta del monticello superiore vidi l’immensa catastrofe. Tutti giacevano in ordine come fossero allineati.„ _Se l’inettitudine dei governanti procacciava la sventura dell’Italia, i suoi soldati le accrescevan fierezza. Ma altro doveva sopraggiungere. Avemmo nemici di fronte e nemici nell’ombra, questi forse più temibili di quelli perchè il loro giuoco era subdolo e colpivano alle spalle. Ancora non ci sapemmo destreggiare. La nostra impresa si imbattè in un nuovo ostacolo ogni giorno. Mentre per raggiungere il fine necessario sarebbe occorsa la maggiore concordia, il paese era dilaniato dalle fazioni. I soldati partivano fra il silenzio e le grida sediziose; l’anima del popolo non li accompagnava. E si giunse ad Adua. Ma la vergogna non fu nella fatale disfatta, fu nell’atteggiamento che ne seguì. Raumiliati ci imponemmo il silenzio e si lasciò crescere la leggenda della nostra viltà. Di questa si valsero i demagoghi all’interno, gli ipocriti amici e gli aperti avversari all’estero. Nessuno più ci temette e fummo vassalli nelle alleanze, schiavi nelle amicizie. Pareva la compiuta rovina e, per una gente d’altra tempra, forse non vi sarebbe stato riparo; ma nessuno sapeva il cuore delle stirpi italiche._ _Come non si parlò più di Adua e si temette di sentirla menzionare dimenticando tutti gli eroi che anche nel disastro avevano tenuto alto il nome della loro patria, così non si badò all’umile, al paziente, al tenace lavorio del popolo che veniva preparando un’êra nuova. Il settentrione con le industrie, il mezzogiorno con l’emigrazione risollevarono l’Italia. Si compì nel silenzio un’impresa colossale. Le gigantesche colonne furono risollevate a sostenere le nuove arcate; turbe macilente vi si adoprarono notte e giorno; tutti dal primo all’ultimo figlio di questa terra benedetta, dettero un poco del loro sangue; fu un’opera anonima ed insigne; un popolo antichissimo e nuovissimo lavorando e morendo, ricreava il suo Tempio e il suo Nume. L’opera volle le sue vittime, e furono migliaia. Dietro il Tempio fu il campo dei morti. Unico sacerdote, il silenzio. Sempre il Silenzio; ma i popoli sani non cianciano, creano. E dall’operoso mare delle turbe non aggallarono che le scorie; su le spiagge non si videro che i rifiuti, dal raccoglimento taciturno non si levò che lo strido dei nibbî. E chi ascoltò si illuse ancora. Chi ascoltò vide un’Italia dilaniata dalle fazioni, immemore, scettica, spiritualmente impoverita, trattenuta da mille pastoie, incapace di un’azione concorde. La parte migliore del popolo sfuggiva all’analisi. Il sentimento nuovo, serpeggiante per le anime, non si appalesava se non per rade e inascoltate voci. La gente che avrebbe mirato a un apogeo era uscita appena dagli ipogei; ma quando dalla torre millenaria suonò l’ora storica, il rombo fu seguito da un grido inusitato. Il popolo multanime rompeva il suo silenzio, si faceva innanzi, si scagliava alla luce. Il Tempio, se non compiuto, era giunto a’ suoi fastigi. E la lotta incominciò._ * _Ora della guerra che segna nel nostro cammino un assurgere dello spirito collettivo e il formarsi di una individualità nazionale io ho raccolto qui qualche aspetto._ _Se l’arte è mancata mi valga il grande amore che mi costrinse all’opera._ _Adoratore di ogni forma di energia, ho cercato di esprimere la potenza energetica degli uomini e dei fatti. Ho osservato ed ho amato, serrandomi entro una severa misura._ _Certo non è qui che un pallido soffio delle ore del magnifico entusiasmo. Queste ebbero il loro Grande che le cantò. Ricordo il commovimento ineffabile che passava, alle trincee, pei crocchi intenti alla lettura di una nuova Canzone. Erano volti di fanciulli e di eroi, cuori incorrotti, anime di fede. Si protendevano ad ascoltare con negli occhi una smarrita letizia. Sentivano la grande voce della Patria attraverso l’anima del suo Poeta. Forse la bellezza di questa compiuta unità di un popolo non si intende tuttavia. Il genio della stirpe accomunò allora il più grande al più umile e non vi fu disarmonia nessuna. Ogni cosa meschina: gli odî, i livori, le basse brutture non furono più, parve non fossero state mai. L’Italia non aveva che il suo destino. Era sorta e camminava._ _Ma è appunto l’antitesi violenta fra l’oggi e l’ieri che non deve farci dimenticare. Vi sono altre tombe lungo la via, sulle quali non è stato mai il fior di un ricordo._ _Rivolgiamoci; qualcuno parlò che non fu inteso. Riapro il libro. È un soldato che narra: Nicola D’Amato. Ascoltiamo:_ “_Penso a quel giorno fatale.... Rivedo i miracoli di quei soldati degni di miglior fortuna; rivedo il generale Dabormida, il colonnello Airaghi, il capitano Mottini. Lasciarono sul campo di Adua il loro nome scritto col sangue._ “_Era il momento supremo e gli ultimi sforzi, gli estremi prodigi di valore si compivano dalla brigata, per coronare quella giornata con la vittoria._ “_Dopo un combattimento come quello sostenuto dalla brigata Dabormida, non si poteva perdere: il grido di vittoria, che, già entusiasta, saliva lungo le creste del monte Mariam-Sciavitù, pareva che, insistente, chiedesse nella valle una eco nel grido: Italia! Savoia!... I petti ansavano forte, le palle non si temevano più, quando un fremito ci corse per le vene: la tromba batteva la ritirata!_„ _E più oltre:_ “_Muta, ansante, disperata saliva la colonna dei vinti su per l’altura ed io ero alla coda di essa. Fu su quell’erta che la brigata combattè l’ultima volta, mentre gli eroi ricevevano il battesimo del sangue dall’angelo della morte. Fu quella una battaglia accanita, selvaggia: quattro pezzi di artiglieria vomitavano mitraglia, seminando il campo di morti: quattro pezzi più in su, con tiri precisi, proteggevano dall’assalto i cannoni sottostanti che prendevano frattanto posizione salendo, tratti su a forza di braccia. Più in alto ancora, il fuoco ben nutrito dei fucili si manteneva ordinato come in piazza d’armi. Tutto era un finimondo. La coda della brigata si batteva calma contro i nemici vicini, tanto che potei servirmi della rivoltella ottenendo buon risultato. I neri, impassibili innanzi alla morte, venivano come il destino a strapparci l’ultimo brandello della vittoria._ “.... _Ho ancora presente, con un ricordo lucidissimo, il capitano Mottini, il quale, dopo aver ridotto al silenzio i cannoni abissini, guardava col cannocchiale l’effetto prodotto da’ suoi colpi che sfollavano il nemico. Notavo con meraviglia l’impassibilità di quell’ufficiale._ _Mottini, suonata la ritirata, cessò il fuoco esclamando:_ “— _Se perdo la batteria non torno più in Italia!_ “_Poco dopo cadde, riverso tra i suoi cannoni._„ “.... _Saliva affannosamente per l’erta un tenente con la sua ordinanza. Il soldato era un siciliano. Il tenente, ferito, cercava afferrarsi alla roccia e il soldato lo spingeva, lo strappava, lo contendeva al pericolo; e, mentre l’uno si fermava un istante per acquistare lena e riposare, l’altro caricava il fucile e faceva fuoco. Poi, chinava sul ferito uno sguardo fraterno come per incoraggiarlo. Piangevano! Il tenente, affranto, con la destra sul cuore e l’occhio velato, pregava il soldato perchè si salvasse._ “— _Non voglio! — rispose costui scrollando la testa._ “— _Vattene! — gli ingiunse il superiore._ “— _No, — rispose l’altro risoluto._ “— _Ma.... io non posso andare avanti!_ “— _Moriremo insieme; ma uno con me me lo porto!_ “_L’ufficiale ristette un momento._ “— _Allora mi siedo, — disse in tono reciso, e sedette._ “— _Siedo anch’io, — ripigliò l’ordinanza, e, calmo, al fianco di lui, imitò l’esempio._ “_Erano rivolti dalla parte d’onde il nemico saliva; restavano tranquilli in mezzo all’imperversare delle palle. Il soldato continuava a far fuoco, ed il tenente, con la sinistra sul capo di lui, come per proteggerlo, abbassava lentamente la testa sul petto. Li vidi l’ultima volta, distesi tutti e due, l’uno a fianco dell’altro, con un sorriso sulle labbra, reso ancora più bello dagli ultimi raggi del sole che li salutava mentre spariva dietro i monti di Axum._„ “.... _Ad una svolta della via una scena di orrore si presentò a’ miei occhi. Ferito e sanguinante in tutte e due le gambe era il colonnello Airaghi, e, accanto a lui, un sergente incolume attendeva il supplizio._ “_Il colonnello faceva sforzi sovrumani per impedire lo sfregio; aveva i pugni serrati e si mordeva a sangue le labbra. Invano, che il coltello inesorabilmente tagliava, mentre il volto del martire si torceva in un riso convulso e diabolico._ “— _Coraggio dottore, — mi disse Airaghi, — sono questi gli eventi della guerra!_ “— _Cammini, signor colonnello, pensi per lei che è ferito alle gambe, — risposi, e lo salutai militarmente, ciò che mi guadagnò dal mio aguzzino una sciabolata al polso sinistro. Tirai oltre senza aver la forza di rivolgermi; ma involontariamente mi voltai scosso da un grido che nulla aveva di umano e che era l’ultimo anelito di quel prode!_„ “.... _Sapemmo ad Adua della sorte toccata al generale Arimondi, ed al colonnello Galliano; noi non sapevamo che fossero morti e chiedemmo i particolari della loro fine. Ci riferirono che per il campo di Adua furono vedute le loro teste portate in giro sulle picche! Quello che ci fu assicurato trovò riscontro nei particolari fornitimi da Grasmac-Joseph._ “_Arimondi fu riconosciuto quale generale quando era già agonizzante, ferito in più parti del corpo, ed i nemici, rinunziando alla speranza di poterlo condurre vivo innanzi al Negus, lo finirono sul posto._ “_Galliano, invece, fu preso incolume, e camminava fra i vincitori, afflittissimo per la sventura della patria. Ma, presso Adua, rientrò in sè stesso, e gli balenò un’idea che tradusse immediatamente in atto. Quell’anima di bronzo, non spostava di una linea le sue decisioni, avesse contro lui tutte le minaccie e tutta la forza dei nemici. Si abbandonò tranquillamente a terra, ribellandosi agli sforzi dei suoi carnefici, che volevano presentarlo vivo all’imperatore._ “— _No, — disse, — non voglio veder la faccia di quel maiale._ “_Il Negus lo seppe e, o perchè lo credesse stanco, o per sembrargli generoso, gli mandò un muletto. Galliano lo respinse con parole più sdegnose e più acri._ “_Quando Menelick seppe la ferma volontà del colonnello, comandò che glie ne fosse portata la testa._„ “.... _Spingiamo più tardi i muli innanzi per raggiungere un uomo che ci precede di passo sicuro e misurato, come se diretto ad una mèta prefissa e inesorabile come il destino._ “_Lo raggiungiamo: è il tenente Caruso, il piccolo Ercole di Altavilla Irpina. Figura degna di ammirazione altissima, mantenutasi rigida e disdegnosa anche nel colmo della sventura, tutta un esempio raro di resistenza, di amor proprio, di serietà, di abnegazione direi impossibile. Dopo la giornata di Adua aveva digiunato per più giorni, e, nudo come l’avevan ridotto, aveva la fissazione dolorosa di un’idea e su le labbra un sospiro: la sventura della Patria! Egli fermò un giorno il famoso Clochette, che passava a cavallo fra i nemici, e fieramente gli gridò in volto:_ “— _Vergogna d’Europa, rifiuto delle nazioni, sei contento di vedere i tuoi fratelli latini trattati così?_ “_Clochette, annichilito, abbassò gli occhi, non osò rispondere, scomparve._„ _Queste sono le parole di un soldato che vide e sofferse la penata vigilia e la prigionia. Da Toselli al tenente Pini, dal maggiore Gamerra al sottotenente Piccinini il martirologio è grande. La robustezza della razza si appalesò allora. Non vi fu vergogna. A volte basta il gesto di un uomo solo a temprare il cuor di una stirpe._ _Il coraggio è di tutti i popoli, ma l’eroismo è solo di quelli che debbono vincere._ La scuola degli uomini. “Perchè il cuore dei demagoghi esulti.„ _Se l’ora è giunta ben ne godremo — e se non, attenderemo con fede._ _Le ceneri non hanno dispento il fuoco; dietro la mala nuvola il sole non perde chiarore._ _Qualcuno ha dato al mio popolo l’odio e la bestemmia e tutto gli ha tolto per l’idolatria del suo truogolo e ne ha fatto una masnada berciante, un gregge senza pastore, una tenebra con baleni._ _Come andranno e dove andranno costoro nella notte serrata? Come reggerà la loro stoltezza se talvolta l’anima pericoli su l’abisso?_ _Perchè la maschera cade, perchè il dolore non si discaccia, perchè la morte è muta sul gorgo._ _E coloro che berciano si troveranno col loro orrore dinanzi, come chi si risvegli di sussulto, sbiancando e più non sappia orizzonte nè punto invariabile._ _Poi che l’armentario si è allontanato sul suo nero cavallo, a testa bassa, levata la lunga asta contro il cielo che si chiudeva, l’armento tramugghia e si sbanda e si incanisce a fuggire dietro la propria libertà che lo uccella._ _Ed ogni spirito si incatena al suo corpo e tutta l’anima è nel volto ubbriaco e nell’occhio torvo e nella parola che bestemmia._ _E se domani qualcuno del gregge, un uomo dei silenzi che più sappia il brivido dell’inavvertibile, ti si levasse di contro tutto pallido nella sua pena umana a chiederti ragione del deserto per cui l’hai sospinto, che potresti tu dirgli, figlio dell’aridità?_ _Quando la tua negazione non bastasse, nè il tuo pane meschino, nè la tua stolta scienza bastassero a saziare la sua tremenda bramosia e il suo cuore approfondito ti incalzasse e ti stringesse da presso, allora quali confini erigeresti tu al suo sepolcro e quale scialba certezza al suo spasimo?_ _Io ho veduto i tuoi seguaci sostare alle soglie del Tempio, dietro un feretro, e li ho visti inchinarsi contro la nera soglia punteggiata di cerei._ _Ho veduto gli ubbriachi di vin giovine chinar la faccia contro la tenebra. E quelli che morivano sbalordire e tramortir di spavento._ _Anche ho veduto le tue femine urlanti ritrarsi su la pietra del focolare, maledetta, e ricercare un’ombra eterna nel loro cuore devastato._ _Perchè l’anima non si spegne nè il rapporto fra il visibile e l’invisibile, fra il giorno e la notte, fra l’oggi e il domani._ _E verrà ora nella quale tu stesso ti sperderai nel più profondo dell’Universo._ _Dietro la mala nuvola il sole non perde chiarore._ _Ora della oscura tragedia tu non hai còlto che il lato effimero e solo ti ha colpito il suon della voce sfuggendoti il senso della parola._ _E Iddio non muore fra le rovine degli altari._ _Tu sei come il fanciullo che si incanisce contro le cose e le distrugge per alleviare il suo dolore. E percuote la pietra e più si strazia nell’ira sua vana._ _Or quando seminerai la rovina e troncherai ogni legame e vorrai che la tua lampada basti all’impervio cammino, soffermati su la pietra del focolare ed ascolta il canto della giovine madre al fior del suo ventre straziato._ _E leva gli occhi e avvicina l’anima tua ai confini della terra, nel silenzio sublime._ _Da quel silenzio eterno udrai allora la voce di un murmure senza mai tregua eterno: il pianto degli uomini._ I. Ora poteva darsi che di una razza salda e di bella tempra ne sortisse negli anni, per la dottrina che non ha volo nè grandezza, una specie di tediosa chiericìa infrollita in ogni esaltazione di egoismo, povera di anima e di cuore; poteva darsi che i lupi doventassero agnelli per troppo amore a sè stessi e che la viltà insinuasse il suo piccolo pallido volto di femmina meschina fra le genti della grande pianura. I vecchi morivano, essi che avevano saputo ciò che era servire e soggiacere perennemente a una volontà estrania; se ne andavano col loro sogno remoto, superato ormai, dimenticato; e fra i campi ed i fiumi, nel paese dei rivi e dei maceri, la nuova giovinezza, ebbra di una volgarità senza nome, dimentica di ogni freno di urbanità, senza Dio e senza amore, bestemmiava il passato e le forme del passato aggirandosi, cieca, nella propria miseria angustissima e pensando di conquistar l’avvenire. Ciò era nel prossimo tempo trascorso; nulla si vedeva intorno che accennasse ad arginare la mala piena. E l’antica forza di una stirpe, moriva. Così nella vecchia casa sul fiume, presso le roveri e le acacie, con la sua aia stretta dagli olmi giganteschi, spersa fra il grande mare delle canape. Era una casa remota, oltre le strade battute, che non aveva se non una viottola erbosa per giungervi. Il fiume, verde e silenzioso, passava fra le sue sabbie grigie, nel fondo, velato dai canneti e dai salici. Non lontano era il mare. E quando Borea scendeva dai monti dell’Istria e tempestando sommoveva le acque del mare, ecco che dalla casa antica, fra i querceti, si udiva un muggito senza fine e a quel mugghio cominciavan le prime fiammate sotto il camino dall’enorme cappa. Le opre nei campi eran quasi ultimate. Già l’aratro sementino era riposto sotto la capanna fra l’erpice e il giogo e le corbe per la semina; e i buoi, distesi nelle lor poste, ruminavan sonnecchiando nella calda stalla. Forse sopravvanzava qualche campicello da arare, ma con pace, a tempo guadagnato, quando fosse agevole il giorno col suo piccolo sole. Era una casa vecchia, di gente antica che si perpetuava in quel luogo da secoli e ogni generazione vi aveva lasciato alcunchè del suo tempo: l’arredamento di una stanza, una pendola, un calesse su le cigne, un’arca nuziale tutta scolpita e dipinta; e nulla di quel che v’era esulava mai perchè ciascuna cosa aveva il nome di un avo, di un bisavolo ed era considerata famigliare come la memoria dello scomparso. Solo gli arnesi rurali non avevano età, chè, per essi, era la tradizione, l’uso più che millenne e rappresentavan la stirpe e non la famiglia. La chiamavano la Casa degli Antoni. Anche nel nome patronimico era come una santità antica. Era cominciata dal poco, poi si era ingrandita tanto da racchiudere una vasta corte su la quale si aprivano i magazzini, le stalle, il pollaio, i fienili e, in fondo, le stanze per i braccianti, quando venivano a opera per mietere, e per le ragazze che maciullavan la canapa, nell’autunno. La casa si era ingrandita col podere e con la fortuna degli Antoni. Era la famiglia; la sua vita e la sua storia. Quando il primo degli Antoni si era stabilito laggiù, fra la foce del Po di Primaro e quella del Lamone, era quasi tutta palude all’intorno e poco si seminava per raccogliere quasi punto; poi la tenace opera diuturna degli uomini aveva cambiato aspetto ai luoghi e la fortuna degli Antoni si era aumentata lentamente e continuamente passando di padre in figlio, intatta. La casa aveva seguito la vicenda della fortuna. Con l’accrescersi del benessere si era ampliata, ma negli anni, rispondendo ai bisogni che erano pochi e tardi e ai quali non si badava se non quando non era possibile fare altrimenti. Così da piccina che era, con tre sole stanze e una stalla e il tetto ricoperto di stipa, si era alzata e allargata fino a comprendere fra le sue ali una vasta corte. E il tempo le aveva dato le sue macchie e il suo color d’ombra fra il grigio e l’argento vecchio e aveva quasi cancellata, sul muro a solatìo, una meridiana della quale non era visibile che l’asta arrugginita, una gran falce dipinta e il numero del meriggio. Le generazioni si eran succedute nel nido ramingo come le età nella storia degli uomini, uguali, fatali, lasciando il ricordo della loro vita in una più intima storia famigliare fatta di bontà e di silenzio. Ora, reggeva la casata, secondo la consuetudine patriarcale, l’avo ottantenne: Giuseppe degli Antoni e gli eran sottoposti i suoi tre figli e i nipoti e le donne. Nessuna cosa si effettuava senza il consiglio del vecchio e il voler suo: nè l’amore dei giovani, nè la coltura delle terre; egli tutto disponeva nei giorni e nel tempo, secondo il bene della famiglia. Lo chiamavano il Vecchio e, in presenza sua, le donne non cianciavano vanamente e gli uomini non trascendevano a litigi. Egli parlava poco e a tempo e non abbandonava l’anima sua alla curiosità dei minori. Viveva un poco appartato, quasi sempre taciturno. I suoi molti anni non gli erano gravi più che non lo siano alla rovere. Era della tempra delle creature centenni che più si rinsaldano quanto più il tempo trascorre. Non sapeva malanno, come non conosceva la faccia del vizio. La sua vita era condotta secondo i principii degli uomini semplici, di tutti coloro che hanno il sole a compagno e con esso si levano e lo seguon nel sonno. Come tornavano i suoi pastori fanciulli dalle lande e riponevano le greggi nel chiuso, inseguendole con urla e sibili; come la stella del crepuscolo declinava sul mar delle canape, verso le montagne azzurre, adunate le sue genti alla mensa, spartiva il pane sul palmo della mano, essendo diritto innanzi alla tavola e gli altri seduti; e, compiuta la cena, saliva alla sua stanza disadorna, a riposare. Con l’alba era in piedi, innanzi a tutti e, come l’udivan nella corte aprir la porta delle stalle, si levavano i garzoni, i braccianti e le donne della famiglia. Egli era la diana: bastava che il passo di lui risuonasse su le pietre della corte perchè ogni sonno fosse interrotto e le piccole finestre stridessero sui loro cardini e si levassero le voci degli uomini e quelle dei fanciulli. Il vecchio non amava novità, amava che tutto andasse per la sua via antichissima così come le cose che per non tramutare si eternano. E in ciò che era opera ed apparenza era ubbidito, ma il cuore dei giovani non lo seguiva. Così il suo poco parlare proveniva anche dal sentirsi troppo solo, dal non veder gli occhi dei nipoti levati negli occhi suoi, quand’egli diceva dei doveri che la vita impone, dal non sentire l’acconsentimento concorde il quale, senza parole, è manifesto. E vedeva, nel suo chiuso, che, quand’egli avesse ceduto alla morte, la Casa degli Antoni si sarebbe disfatta. Svaniva l’antico sentimento famigliare che teneva unite le genti dello stesso sangue in un solo nido, per una sola fortuna; ognuno pensava più a sè che alla casata; aveva in mente la ventura sua nel mondo e nulla più che fosse l’antica devozione ad una comune fede. Prevaleva un egoismo meschino che nulla vedeva più in là del proprio tornaconto. E le leggi del sangue, le sante leggi che facevano delle genti di un solo ceppo come una costellazione, ecco, non eran più intese, anzi erano combattute e dovevan morire. Questo sentiva e vedeva Giuseppe degli Antoni, il vecchio senza miserie, l’ultimo Nume nel tempio corso dall’irriverenza e dalla discordia. Ma a lui nessuno si opponeva in contrasto. Se comandava era ubbidito. De’ suoi tre figli, due si erano ammogliati ed erano schiavi delle loro donne, nè avrebbero saputo mai risolversi ad una qualsiasi cosa senza l’acconsentimento delle donne loro. Il terzo era prete, quindi perduto. E il vecchio sentiva che l’anima sua non aveva intorno un nido in cui rifugiarsi e, nella santità della sua vecchiaia, guatava l’immensa solitudine che accompagna la morte degli ultimi. I nipoti disertavan la casa e i campi, muti alla dolcezza dell’antichissimo nido fra le canape stellate. Protervi, bestemmiatori, paghi di ogni volgarità pur che la loro rozzezza bruta sopravalesse in un simulacro di impero, preferivan le comitive dei loro simili al raccoglimento severo della casa veneranda e si sperdevano fra bagordi e tumulti, pronti a urlare e a fuggire, ad essere spavaldi contro i deboli e vili contro i forti, a non avere virtù nessuna che non fosse quella della loro prepotenza. E l’ignoranza loro conosceva la parola — diritto — e la elevava oltre ogni termine ed ogni giudizio ed ogni giustizia. Ribelli come il bove che tragioga e si scaglia innanzi contro il dirupo, non potevano nè avrebbero voluto sottostare ad alcuna legge che avesse menomato, ai loro occhi, l’assoluta libertà alla quale tendevano; e credevano di ubbidire al Vecchio, solo per la sua vecchiezza e per la morte sua non lontana, non volendosi confessare l’invincibile umiltà che li teneva proni di fronte a quella gagliardia. Così si iniziava il disfacimento. Il vecchio sentiva dietro di sè non già la sua morte ma la morte di un mondo e il silenzio eterno là dove avevano pianto e cantato tutte le genti dell’antica famiglia. Ora non c’era che un’anima, fra tante, una creatura sola che lo intendesse ed era una sua piccola parente: Rinotta. Era questa, una ragazza bella e forte, che rideva volontieri e più cantava fra la corte e le redole e nella sua stanza angusta, presso i magazzini. Rinotta aveva quindici anni, ma tanto le aveva profittato il tempo della sua vita che era già donna. Fresca come il pomo novello, grande e ben fatta, tranquilla ed operosa, era l’unica serenità della casa. E non v’era altri che sapesse la gioia ch’ella sapeva, nè la sua pace. Nessuno più di lei era lontano da ogni noia e dal tedio che inasprisce la vita e nessuno sorgeva ad ogni alba con maggior letizia. Questo piaceva al Vecchio e glie l’aveva fatta prediligere. S’incontravano nella corte, ogni giorno, che appena era schiarito il cielo e gli altri eran tutti nel sonno, dimentichi, oltre le imposte chiuse. Dormivan vicini. Appena il Vecchio si rimoveva per la stanza che già udiva, nella pace soave dell’alba, il passo frettoloso di Rinotta e l’udiva scendere e salire con l’acqua tersa, poi gli giungeva lo sciacquio del suo lavarsi e, a volte, cantava come l’usignuolo presso il nido, che appena s’ode e mormora sul romper della luce. E questo era ad ogni giorno, anche quando il pigro inverno faceva l’alba più tarda e tutta la campagna era un gelo. Poi com’egli discendeva, ecco un passo vivace dietro il suo passo tardo od una voce fresca incontro alla sua voce grave. S’incontravano nella corte: — Buongiorno, nonno. — Buongiorno, Rinotta. E talvolta s’accompagnavano nel giro mattutino attraverso alle stalle e ai pollai; tale altra Rinotta correva a risvegliare le genti assopite o, nei giorni della calura, traeva dal catro i maiali e li menava giù per il fiume che si ristorassero fra l’acqua e la melma, là dove potevan trovare pastura e frescura. Ella sedeva su la riva essendo presso l’acqua co’ suoi piedi scalzi e batteva il suo vinciglio su le esili canneggiole fischiettando, chè i maiali non avessero a sbandarsi; o, tutta abbandonata, seguiva la lieve linea solare, così dolce come l’amor che si sogna, levarsi, vincere e baciare e dissolvere l’azzurra opacità dell’alba; e le pareva di esser mille: di essere il fiume, il cielo, il verde delle piante e le salde radici e il fiore che nasce e l’immensa gioia del mondo. Non c’era nessuno intorno ma ella sentiva il suo cuore per tutto e il suo cuore parlava. Il fiume era come uno specchio antico, col suo verde opaco, e pareva prendesse le cose dentro l’anima sua tanto le rispecchiava a chiarore e mormorava col ramo sporgente, s’increspava in un sorriso presso la canneggiola che sorgeva dal suo fondo, dal suo dolce fondo tepido dove era dolce andare coi piedi nudi. Talvolta il Vecchio scendeva fino a lei e, dopo aver riposti i maiali e riempito il truogolo, se ne andavano attraverso ai campi insieme, per le redole, lungo le porche e le prode e parlavano poco ma stavano bene l’uno accanto all’altra. — Quest’anno il grano promette bene! — Guardate le belle spiche, nonno! E si perdevano nel sole, ella con la sua pezzuola rossa gettata sui capelli neri, il Vecchio sotto il suo grande cappello a cencio dalle larghe tese. — Le viti non hanno alleghito. Ha piovuto troppo! — Il moscadello sì! Guardate quanti grappoli! E andavano innanzi, muti, accarezzando con gli occhi le messi, da campo a campo, da filare a filare. Altre volte si fermavano a un’ombra a sorvegliare i braccianti; poi ella ritornava nell’alto sole, alle sue faccende. Il Vecchio la vedeva allontanarsi diritta e forte e saltare i fossi e aprirsi un varco fra le siepi. Si amavano senza dirselo chè uno era il loro mondo, nè il desiderio di giungere alle vie maestre e di allontanarsi per le vie maestre dalla solinga dimora li tormentava; anzi se andavano alla città, talvolta, nei giorni di mercato o nelle feste solenni, vi si trovavano a disagio affrettando l’ora del ritorno. Ed erano i soli della casata i quali sentissero che non c’era su la terra altra cosa desiderabile all’infuori della loro fattoria; ma l’uno era presso il punto di abbandonare il sole e l’altra era una fanciulla che non avrebbe potuto imporre la propria volontà, se pur non avesse ascoltato qualcuno della casa che l’amava, e non ne avesse riso. Qualcuno le stava da presso inutilmente e ella, in sè, tutto dimenticava che non fosse la vita di lei. II. Una sera di marzo la vecchia casa fra le roveri era in grande tumulto. Si udivano le donne gridare e gli uomini imprecare. Rinotta cantava nella corte, indifferente al frastuono, raccogliendo al pollaio le sue oche reali. Siccome i litigi non erano rari per questioni di interesse, ella non vi badava più che tanto chè la curiosità non la pungeva nè il pettegolezzo. Il Vecchio non era tuttavia rientrato. Però la stupì la violenza delle grida e il loro persistere. Gli uomini e le donne si erano raccolti in una stanza a terreno e, attraverso alle inferriate, si vedevano a quando a quando rimuoversi. Si udiva la voce di Giorgio salir più alta delle altre in qualche imprecazione. Per un attimo Rinotta si rivolse a guardare pensosamente, poi, come vide Maddalena, la vecchia serva, che attraversava la corte in quel punto, le domandò: — Che hanno fatto? Maddalena alzò una spalla: — Cosa vuoi che ti dica, io? Urlano, non si capisce niente! Ho sentito che parlavan di soldati e di guerra. C’è anche il _tuo_ Giorgio. E si avviò ciabattando verso le stalle. Rinotta rise da prima, per l’accenno della serva, poi non cantò più. Una lieve increspatura le era passata fra ciglio e ciglio. La luce era quasi morta e già Lorenzo, il garzone, aveva accesa la sua lanterna e si avviava ai magazzini. Come ebbe raccolte le oche e chiuso il pollaio; Rinotta ristette pensosa: doveva salire alla sua camera e non farsi viva o non era meglio sapere quale gran male era toccato a Giorgio? Stava in forse quando udì il bubbolio di una sonagliera e tre colpi forti sul portone, dal canto dell’orto. Corse ad aprire al Vecchio. Come la cavalla varcò l’andito ed entrò nella corte, trascinando lo stinto bagherino a mantice, ogni vociare fu spento. Solo si udì ancora l’aspra voce di Giorgio urlare: — Io me ne infischio del Vecchio!... Io, devo andar via e non lui! Un puledro annitrì nella stalla e si udì il tubare dei colombi su la loro torretta roggia, sopra la casa. Rientravano le greggi. Giuseppe degli Antoni non chiamò il garzone, staccò da sè la cavalla, senza parlare. Era accigliato; non guardò Rinotta che gli si era ferma vicina. Poi giunse Lorenzo, tolse la capezza dal cassetto del bagherino e condusse via la bestia, parlandole piano. La stanza a terreno, dove si era adunata la famiglia, appariva deserta. Tutti si erano sbandati all’arrivo del Vecchio, chi pei magazzini, chi per le cucine e per le stalle e chi era uscito sulla viottola. Giorgio passeggiava nel fondo della corte, a grandi passi, il capo curvo, brontolando fra sè, e il suo viso era fosco e gli occhi suoi accesi. Pareva cercasse un appiglio qualsiasi per un litigio. Rinotta guardava ora lui, ora il Vecchio, tutta sbigottita. Sentiva che un urto doveva avvenire fra i due. Il suo cuore batteva forte e si domandava s’ella non poteva intervenire per ciò che le aveva detto tante volte il giovane, ma non sapeva che farsi. La madre di Giorgio si affacciò su la soglia della cucina e chiamò stizzita: — Maddalena?... Vi siete messa in testa anche voi di farmi morire?... Che fate là? Poi rientrò sbattendo l’uscio. La vecchia serva attraversava la corte col suo carico di carbone e ancora si udì la voce di lei, nel silenzio: — Oh santa Vergine, che pazienza!... Come scomparve, per un istante non si udirono che i cavalli franger la biada. Passarono Lario e Gildo, i due pastori fanciulli che già avevano raccolte le greggi. Li seguiva il loro cane bianco. Si diressero al lato opposto della corte dove era la loro stanza buia. Il Vecchio si era fermo in mezzo alla corte come sperduto in un pensiero remoto. Aveva un involto sotto il braccio. Si mosse e si fermò di nuovo. Guardava la terra. Poi disse rivolgendosi a Rinotta e tendendole l’involto. — Porta questo in casa. E seguì Lorenzo che si avviava verso i magazzini. Faceva freddo. La stella del vespero era presso a morire. Gli animali eran già raccolti nel sonno. Lario e Gildo ricomparvero e si accosciarono presso il muro a sbocconcellare il loro pane e non parlavano. Il cane li guardò scodinzolando, fermo innanzi a loro. Poi la corte fu deserta e l’ombra e il silenzio discesero uguali. Come la vecchia pendola su le scale sonò le otto, tutta la famiglia era raccolta intorno alla tavola, per la cena: Giovanni e Pietro, i due figli del Vecchio; Clotilde e Teresa le loro mogli e i sei figli di Clotilde e i cinque di Teresa. Non mancava che Giuseppe degli Antoni, il Vecchio. E quella sera Rinotta guardava Giorgio ma questi non guardava lei. Clotilde domandò alla ragazza: — Dov’è il Vecchio? Rinotta disse: — Era nei magazzini, con Lorenzo. — Va a chiamarlo, — fece Giovanni. — Forse non avrà sentita l’ora della cena! — Sì, va a chiamarlo, — soggiunse Teresa; poi come Rinotta fu uscita, mormorò: — Bisognerà parlargli. — E chi si arrischia? — disse Clotilde. I due uomini tacevano guardando nei loro piatti. — Voi, — riprese Teresa con voce aspra, e guardava il marito, — voi che state là che sembrate di stucco, dovreste mostrarvi uomo e parlare! Pietro scrollò le spalle e rispose: — Non mi seccare! — Come seccare? — continuò la donna levando la voce. — Come seccare?... Non è vostro figlio, Giorgio?... Vi piacerebbe che morisse?... — Uff, quante chiacchiere!... — disse Pietro. — Ce ne sono tanti che partono! — Ma io no! — urlò Giorgio. — Io no perchè è ingiusto! Fate partire i signori chè son loro che vogliono questa guerra! Partite voi, se vi piace, ma io no! Poi, — soggiunse battendo il pugno su la tavola, — poi se nessuno ha core di parlare al Vecchio, gli parlerò io! — No, tu starai zitto! — disse Teresa. — Tu starai al tuo posto! — La vedremo! I piccini avevano approfittato dal battibecco per picchiar sodo su la tavola con i cucchiai. Clotilde li redarguì. Giovanni disse: — Con la calma si accomoderà tutto! — Ma che calma! — urlò Giorgio. — Ha ragione! — dissero in coro Livio, Cesare e Umberto. — È una guerra ingiusta!... Io non mi sento di andare ad ammazzar gli altri in casa loro. Che direste se qualcuno entrasse qui e volesse mandarvi via? Si farebbe a mori e ammazza per difender la roba nostra e avremmo ragione! Così l’hanno loro. No, io non parto, e se tutti pensassero come me e se non ci fossero degli imbecilli, vedreste la bella sorpresa!... Altro che patria e patria!... La patria è dove si mangia!... — Ha ragione!... — ripeterono il fratello e i due cugini. — Ha ragione! — Ed essi pure aggiunsero una grossa bestemmia alle innumerevoli delle quali Giorgio, il buon comiziatore, aveva infarcita la sonante discorsa. I bimbi avevano levato il capo di su, la tavola e stavano ad ascoltare, edificati. — Mi pare che potreste fare a meno di bestemmiare! — mormorò Clotilde che ancora sentiva un lontano pudore della sua fede semispenta. — Ecco la bigotta! — fece Cesare ghignando. E Giorgio che ormai era in calore e gli pareva di rifare il mondo con le sue parole, soggiunse: — Non ci vorrebbe altro che il vostro Dio per farci ancora più servi! Ma a questo punto una voce forte gridò: — Imbecille! E tutti ammutolirono. Il Vecchio era giunto inavvertito; dietro di lui stava Rinotta. Colpito dalla parola improvvisa, Giorgio abbassò gli occhi chè non resse lo sguardo del Vecchio, e non fiatò altra sillaba. Neppure un volto si levò a guardare il sopraggiunto; passò come un gelo improvviso da core a core e l’imbelle volontà del pecorume si sentì soggiogata. Poi il silenzio non fu più interrotto. Il Vecchio spartì il pane e sedette a capotavola. I bimbi mangiavano compunti chè sentivano la nuvola nera passar su l’anima del nonno e dei parenti. Solo Teresa guardava Pietro e lo incitava a parlare, gestendo muta. E quando la cena stava per compirsi, il pover’uomo, temendo le segrete furie della sua compagna, parlò e disse: — Babbo, sapete nulla della guerra? Il Vecchio rispose: — So che hanno richiamata la classe dell’ottantotto. E guardò Giorgio. Pietro inghiottì la saliva amara. Dopo una sosta penosa, riprese: — E.... che ne dite di questa guerra? — Dico che è necessaria! — rispose il Vecchio. Giorgio si accontentò di mugolare qualcosa che non fu inteso e Teresa soggiunse senza guardare la chiara faccia del temuto: — Già.... voi leggete i giornali! L’impresa doventava sempre più ardua. — Così.... il nostro Giorgio dovrà partire! — soggiunse Pietro. — Già! — Noi avevamo pensato.... — S’interruppe. — Sapete, Edoardo.... Edoardo Fambri.... ha scritto dalla Germania.... e invita Giorgio laggiù, chè c’è lavoro! — Ah! — Noi.... avevamo pensato che.... forse sarebbe la sua fortuna.... e.... se a voi non dispiacesse.... lo faremmo partire!... Il Vecchio non rispose, si rivolse a Giorgio e gli domandò: — E tu, che ne pensi? — Io la penso come mio padre, — rispose il giovine. — No, come tua madre! — Sicuro, anche come lei!... Come tutti quelli che ragionano! Il Vecchio ebbe un impeto che solo si rivelò per il bagliore degli occhi, ma ancora seppe rattenersi e disse: — Domani ti presenterai al Distretto. — Ma.... — Ho detto che domani ti presenterai, e ti condurrò io stesso! Il giovine era di brage. Brontolò: — La vedremo! Allora il gran pugno nocchieruto dell’avo scese violentemente su la tavola; i bimbi n’ebbero un tremo: — E bada, bada di non disubbidire!... Bada che se ho detto “voglio!„ non se n’esce!... Teresa e Pietro cercavano invano di frenare e con gli occhi e coi gesti la furia del loro figliuolo. Questi, che ormai ne era travolto, non cedeva. — Io credo, — disse, — credo che potrò fare della mia vita ciò che mi piace! — Quando ti sarai sbattezzato, sì! Allora potrai essere vigliacco e disertore. Ma fin che sarai degli Antoni, no!... E non mormorare!... Alza quella faccia e parla forte! — Io dico che non partirò!... L’avo sbiancava. — Bada, bambino, non t’impuntare, non mi mettere nel caso di dover fare ciò che non voglio! — E la nativa violenza forzava i freni. — — Se ho detto che partirai.... vedi.... anche se ti dovessi legare con queste mie mani e portarti così al tuo posto di uomo, lo farei.... lo farei per il nome d’Iddio e per il nome nostro che vuoi disonorare!... — Che c’entrate voi, dopo tutto? — Che cosa dici? — Dico che non sono più un bambino e che non ho dovere di ubbidirvi! — Ah no? — No! — Tu puoi fare ciò che vuoi? — Se è vero che mi chiamo Giorgio, sì! — Tu puoi andare, stare, disporre come vuoi da intiero padrone? — Per ciò che mi riguarda, sì. — Giorgio! Giorgio!... — urlò Teresa spaurita, chè sentiva la nera tempesta sopravvenire. — Lasciatelo dire! — disse il Vecchio. E continuò: — E se ti piace di essere disertore, lo sarai?... — Potete togliervi dal capo l’idea ch’io parta! — E non darai retta a nessuno? — Solo ai compagni del mio Partito! — Ah!... solo al tuo Partito, dunque? Solo ai tuoi compagni?.... — E si levava lentamente. — Solo ai vigliacchi pari tuoi? — E il suo corpo di vecchio atleta tremava forte. — Babbo, babbo!... — gridarono i suoi figliuoli, — che fate babbo?... Non gli date retta!... Non sa quel che si dice! Solo Rinotta si levò col Vecchio. Era accigliata e bianca. Questi si diresse lentamente verso la parete, ne staccò la doppietta. Giorgio lo guardava fare, livido ed impietrito. Poi si volse, si avvicinò di tre passi al caparbio che ancora era seduto e, fra un pauroso silenzio, gli disse, e scandì le parole: — Ora lèvati e camminami innanzi! — Babbo.... per carità!... — implorò Giovanni e fece per levarsi ma il Vecchio lo fermò a mezzo. Giorgio aveva conserte le braccia su la tavola e il capo sopravi. Dalle contrazioni del suo corpo pareva singultasse. — Che cosa ti ho detto? — riprese il Vecchio. Poi come vide che l’altro non rimuoveva, abbassò lentamente la doppietta e l’impostò su la spalla. — O ti levi, o t’ammazzo!... Passò un attimo tragico in cui non una bocca ebbe un respiro, nè un volto un moto; gli occhi eran come di pietra e le femmine spasimavano. Si era alla risoluzione, al punto in cui non è via d’uscita se l’una delle due forze in contrasto non piega. Ogni secondo era eterno. Il cocciuto si rimosse, levò il volto di morte, sfigurato in guisa che pareva scarnito e disfatto dall’attimo della furia e dell’orrore, guardò il Vecchio, si contrasse, si rannicchiò, s’aggomitolò contro il cugino, su la panca; tese innanzi le braccia, vi nascose la faccia e d’improvviso schiantò dai singhiozzi. E quel pianto ne raddusse molt’altri. Allora Rinotta, che era diritta dietro l’avo, si fece innanzi, si accostò al giovine, lo prese per un braccio e gli disse: — Su, vieni via!... Su.... vieni con me!... Giorgio ubbidì, travalcò la panca, si avviò incurvo e tremante per il suo pianto, al fianco di Rinotta. Gli pareva ch’ella dovesse comprenderlo, ch’ella dovesse dirgli una parola confortevole. Furono all’uscio, scomparvero. Tutto ciò avvenne nel tempo di un battibaleno. Nella corte i due pastori fanciulli erano addossati tuttavia al muro: dormivano con la testa su le ginocchia e il bianco cane ai loro piedi. La notte era buia. Si udiva lontano lontano il grand’urlo del mare. Come furono soli, nel buio, Giorgio cominciò a dire a dire, fra i singulti, nel tremore dell’anima sua e Rinotta, diritta vicina a lui, l’ascoltava. Ma quando il ribelle tacque, quando credette che il giovane cuore di Rinotta l’avesse compreso ed assolto per l’amore ch’egli da tanto tempo invocava invano da lei, quando tese le mani a conforto, la ragazza si scostò di un passo e non seppe dirgli che una parola: — Vigliacco! Allora egli levò i pugni a minaccia ma Rinotta non si scompose. Il Vecchio li guardava di su la soglia. III. Rinotta aveva disciolti i suoi capelli neri al sole e, ferma nel vano della piccola finestra adorna da un geranio rosso, si volgeva a quando a quando ad una piccola spera, chiusa in una cornicetta di stagno e appesa allo stipite, all’altezza del viso. Il pettine s’impigliava fra i capelli aggrovigliati ed ella con una mano ne levava una gran ciocca sopra la tempia. Aveva le braccia nude, le sue belle braccia piene, di ragazza sana, e il volto sereno. I suoi occhi lucevan di sole, avevano un’anima di primavera. E cantava sommessa, interrompendosi allora che era più aspro l’aggroviglio da superare. Cantava: Di là dal mare c’è un camin che fuma,... È il cuore del mio amor che si consuma! Nella corte c’era Lorenzo che governava la cavalla fra un gran battere e trepestare e fra grida improvvise. Passò Maddalena che tornava dall’orto con l’erbe per la cucina, poi un contadino e Teresa. Questa levò gli occhi alla finestra di Rinotta e li rivolse altrove. Dal giorno in cui Giorgio era partito, accompagnato dal Vecchio, ella non aveva più detto parola e passava per la casa come un’estranea. Anche gli altri si erano fatti muti e l’ora dei pasti trascorreva fra un gran silenzio interrotto solamente dal ciangottìo dei bimbi. Il Vecchio e Rinotta vivevano fra i loro come gente d’altra lingua e d’altri costumi, senza che nessuno mai li accostasse; ma ciò non li turbava, nè la vita loro si era, per questo, oscurata. Vivevano come per l’innanzi, come erano stati sempre soli per l’innanzi e il loro sonno non era meno tranquillo. Il tempo volgeva su la vecchia casa le sue ore uguali e il giro delle stagioni. Trascorreva un dolce novembre, tepido come una primavera e s’anco le giornate scemavan sempre più e il sole s’addormentava a mezzo il cielo, il rovaio non era giunto tuttavia e le finestre si aprivano di buon mattino all’aria appena appena fresca. Rinotta cantava, il cuore un po’ turbato e l’anima pensosa. Il nonno era uscito all’alba all’alba. Ora andava ogni giorno alla città e qualche volta vi si tratteneva a lungo. Ritornava con un grande fascio di giornali e leggeva anche sul bagherino, tanto che per due volte aveva rovesciato in un fosso per aver dimenticato le redini. Ogni giorno Rinotta andava ad incontrarlo oltre la lunga viottola e percorreva anche un buon tratto di strada maestra, fino alla chiesa. Poi lo aspettava sul sagrato. Giungeva, si salutavano. — Che notizie ci sono? — domandava Rinotta. — Buone, — rispondeva il Vecchio. — Ha scritto? — No! Ed erano più di quaranta giorni che la domanda si ripeteva e il lontano non aveva scritto ancora. — Che dicono i giornali? Il Vecchio glieli passava: — Leggi. Leggi forte! E mentre la cavalla andava al passo, travagando e nitrendo a chiamare il suo redo, Rinotta leggeva delle lontane terre conquistate all’Italia e delle vittorie delle nostre genti. A volte fermavano la cavalla, quando c’era il racconto di una grande battaglia e dimenticavano il desinare. A volte Rinotta chiedeva: — Avrà combattuto anche Giorgio? Che farà laggiù? E il Vecchio si stringeva fra le spalle. Ambidue, senza confessarselo, attendevano ansiosamente che Giorgio scrivesse. Ma molto maggiore era l’ansia di Rinotta. Ella si accorgeva di pensare troppo spesso e troppo intensamente al lontano, si accorgeva di non essere più tranquilla come una volta e di non poter tutto dimenticare in sè stessa come la giovine pianta nel sole. Perchè?... E di questo perchè era tutta turbata e pensosa e, benchè non sapesse e volesse rispondersi, le tornavano alla memoria tante e tante cose che aveva dimenticate e che certo non l’avevan commossa così quando erano accadute. Un tempo dormiva dalla sera al mattino sì profondamente che le accadeva di ridestarsi nella stessa positura in cui aveva preso sonno. Ora non più. Poteva darsi che ciò dipendesse dalle notti troppo lunghe; ma anche da qualche altra cosa: dal suo turbamento. Un turbamento che l’aveva fatta piangere talvolta: cosa che non le era accaduta mai. E se Giorgio moriva? Le tornava in mente la sera in cui l’aveva strappato dalla furia del Vecchio e l’aveva condotto nella buia corte per dirgli la parola amara, e le pareva che egli non le avrebbe saputo perdonare mai la dura accusa e che, se fosse morto, ella sola avrebbe dovuto portare l’immensa pena di quella morte. E quando le sorgeva innanzi un tal pensiero, ecco che il suo sonno esulava ed ella udiva la pendola su le scale batter le ore una dopo l’altra fin che non fosse l’alba. E nelle ore più fonde della notte le accadeva che, per non poter più sopportare il peso delle coltri e quello della sua pena, si levava e s’inginocchiava sul pavimento, innanzi ad un piccolo crocifisso, indugiandosi a pregare fin che il freddo glielo consentisse. Allora ritornava fra le coltri ad attendere l’alba, senza sonno. E poi le riapparivano certe giornate serene di cui s’illuminava tutto il ricordo; giornate di pace, lontane come il motivo di una canzone appassionata, udita in un dormiveglia, come una cosa vissuta appena senza che l’anima ignara pensasse a fissarne il contorno nella memoria. Una volta che s’era addormentata sotto un salice su la riva del fiume e che Giorgio l’aveva risvegliata al suono di una sua nunnola. Egli era ancora fanciullo. Andava scalzo e aveva le gambe nude fino al ginocchio e la testa scoperta. Ricordava di avere aperto gli occhi e di averlo veduto d’improvviso nella luce, contro il cielo, e più di questo non ricordava; ma a quella apparizione si era aggiunta nel tempo una malia d’incantamento tanto vaga, che la dolcezza pareva scendesse a lei non dalla vita ma da una paradisiaca tenuità. E un’altra volta ancora ch’egli veniva sotto la stella del crepuscolo, solo, e la terra languiva nella frescura della sera trascorrendo il luglio. Ella era seduta al margine di un campo di trifoglio tutto fiorito, fra un silenzioso aliare di farfalle. La volta stellare era color delle viole con qualche venatura rosa e una dolcezza di amaranto sul gorgo chiuso contro la morte del sole. Non pensava, godeva la frescura, ascoltava i campani delle greggi che ritornavano dai pascoli marini, e il fiorire di un angelus nel cuor della sera. E Giorgio, era giovinetto allora, veniva su per la viottola erbita con passo leggero e gli brillava sul capo la stella del pastore. Egli le disse qualcosa che non ricordava, poi si fermò a sorridere. Nulla più; ma l’amore getta un seme e scompare e dopo tanti anni ritorna! Ma ancora ella non sapeva di essere innamorata; credeva che la pena di lei sorgesse da un po’ di rimorso, dall’aver aggiunta la sua volontà a quella del Vecchio, dall’aver colpito il giovine con una parola che non si perdona. E quando le sorgeva tale ultimo dubbio era colta da uno smarrimento di tutto l’essere. E se Giorgio non le avesse parlato mai più? Se non le avesse saputo perdonare l’insulto atroce? Così nasceva il suo amore e per tale contrasto dalla fanciulla ignara sorgeva la donna che soffre. Il solicello era già fra le rame dispoglie. I biolchi ed i pastori erano usciti dietro le mandre e le greggi con le loro lunghe aste e i vincigli. La corte era deserta. Uscirono Lauretta e Lucio, i due bimbi di Carlotta; si fermarono al sole, sotto i porticati dei magazzini, in un angolo. Li udì parlucchiare, poi non li udì più. Discese. Il Vecchio le aveva detto, la sera innanzi, che sarebbe ritornato più presto quel giorno ed ella pensò di andare all’incontro e di giungere oltre la chiesa, fino ai tre canali. Uscì dal portone su la viottola; non vide nessuno nè in casa nè fuori. Camminò piano piano lungo le prode dei fossi, e le siepi non avevano più se non qualche rada foglia e qualche boccilano. Si vedevano i campi senza più confine, fino alle lande. Delle belle canape stellari neppure il ricordo. Erano nati i nuovi grani: un piccolo, rado verde fra le terre nere. Giunse alla chiesa, l’oltrepassò. Camminava guardando le prode e gli ultimi fiori delle margherite. Un piccolo prato contro una vecchia villa abbandonata era tutto fiorito dai gigli del freddo. Poi udì il trotto di un cavallo e levò il capo. Era il Vecchio. Si fermò ad attenderlo. Lo vide gestire ma non intese che volesse. Quando le fu vicino si accorse che aveva gli occhi radiosi. — Che diresti, se avessi una bella cosa per te? Ella arrossì dalla gioia ma ancora non azzardò sperare. — Che cosa? — Indovina! — Non saprei.... — Non ti dice nulla il cuore? Ella sorrise, si avvicinò al bagherino, chiese con un fil di voce: — Ha scritto?... — Dopo tutto, — fece il Vecchio, — è un buon ragazzo! E le porse la lettera che aveva aperta innanzi. Rinotta gettò un’occhiata su la soprascritta e disse, e gli occhi le si inumidivano: — Ma.... è proprio per me?!.. — Sì.... è per te. Leggi, leggi. Poi frustò la cavalla e non mutarono altra parola. IV. Era partito con il proposito fermo di finirla, di sacrificar sè stesso alle idee che professava. Ciò era necessario, chè non avrebbe conosciuta mai più la serenità se non avesse saputo cancellare, con un gesto qualsiasi, la parola che Rinotta gli aveva lanciata, nella corte, la sera innanzi la dipartita. Votarsi al concetto borghese della guerra, no; partire con sentimento di italiano per cooperare alla grandezza della patria, neppure: troppo odio era accumulato in fondo all’anima sua e tanto l’aveva immiserito e pervertito ch’egli non vedeva al mondo se non due classi: quella dei poveri e quella dei ricchi e non ne sentiva che l’assiduo antagonismo. Oltre tale concetto tutto era tenebra e negazione, tutto annegava in una vuotezza assoluta. Inoltre l’aver dovuto ubbidire al Vecchio e la promessa che aveva fatto ai compagni di non andarsene, a qualsiasi costo, lo rinfocolavan nel suo acerbo tumulto. E doveva apparire diverso agli occhi di Rinotta, e questa doveva avere, per tutta la vita, il rimorso dell’atroce accusa. Forse l’avrebbe maledetto, ma che importava? Dopo il fatto, sarebbe caduta di per sè stessa la taccia che distrugge l’uomo e lo fa men di una pallida femmina. Perchè egli era pronto a sacrificar sè stesso, a gettarsi per un cammino dal quale non si può ritornare mai più. Stretto e costretto nella foschia di tali pensieri era partito coi nuovi compagni per le città della moltitudine. E nulla gli era stato presente se non ciò che rimane all’uomo quando la miglior parte di sè ha esulato: l’ironia. E se talvolta per l’ebbrezza delle folle, per l’ardore improvviso che attraversava l’Italia da un punto all’altro, si sentiva trascinare nel gorgo, cercava in sè ogni possibilità avversa, tanto da contrapporsi, da non cedere da non essere vinto. Anche tale costrizione lo inaspriva sempre più. Passava fra la gaiezza dei nuovi compagni senza esserne partecipe; il volto di lui non era mai sereno ma ombrato perennemente dall’odio. Non sentiva alcuna fratellanza, non provava simpatia per nessuno. Guardava i superiori suoi come carnefici, come i primi e peggiori rappresentanti del regime capitalistico. Essendo scomparsa dalla sua angusta concezione morale, ogni idea di patria e di grandezza, avversava le istituzioni militari come quelle che perpetuavano uno stato di barbarie e si opponevano più fieramente all’attuazione de’ suoi ideali. Sempre si era esaltato dell’esaltazion di coloro che pongono sè stessi oltre ogni umana possibilità nel più fondo cuore del più cieco egoismo. E per aver accarezzata la propria vita sotto ogni forma ed averla posta sì in alto, al lume dell’intelletto, da deificarla, per essersi creduto sacro ed inviolabile e non aver pensato mai di dover nulla a qualcosa di più grande del suo io, tanto si era ammutolito nell’amor di sè stesso da compiangersi e da veder sè come uno sciagurato che una violenza nemica, senza alcuna ragione, voleva spingere alla morte. L’anima sua imbelle scambiava per illuminata coscienza tale decadimento e velava d’odio e d’ingiustizia la propria paura. Era terribilmente combattuto; si avviava a quel punto in cui la disperazione trasmuta un’anima e l’innalza alla più pura bellezza o la scaglia verso le vie del delitto. Egli doveva uscire da tale stato di angosciante incertezza, doveva risolversi e agire in qualsiasi modo, ma agire. E sempre che s’appartasse o chiudesse gli occhi nel suo silenzio, gli appariva Rinotta, la bella giovinetta fiera ch’egli amava come s’ama l’amore a vent’anni, e gli pareva di non esser più di un meschino di fronte a lei e di non poterla rivedere (se pur ciò poteva essere mai) se non dopo una prova tale che dovesse spengere ogni dubbio. D’altra parte gli appariva il ghigno dei compagni e udiva le loro parole e i giuramenti solenni. Così sempre più s’infoschiva in sè stesso rimanendo estraneo alla vita circostante. Attendeva di giorno in giorno l’ispirazione che lo illuminasse, il movente che lo conducesse di balzo al punto risolutivo. E se gli altri cantavano egli più si turbava nel suo buio e tutto gli era insoffribile e nemico. Trascorsero alcuni giorni così, fin che un ordine repentino giunse ed essi dovevano partire la sera stessa per Napoli. Come un automa, preso fra l’impeto e la gaiezza dei compagni, raccolse le sue poche cose, si pose in assetto di guerra, entrò nei ranghi allo squillar delle trombe. Si udiva per le vie il tumulto del popolo che attendeva. Qualcuno parlò ma egli non intese parola, guardava intorno con occhi foschi essendo pallido come la morte. Poi si mosse con gli altri, uscì fra l’impeto delle fanfare e l’urlo delle genti assiepate. Procedette fra una fiumana di popolo, sotto un continuo gettito di fiori. Vide una giovinetta che stava per accostarglisi e che si ritrasse, sbigottita dalla sua faccia sinistra. Non raccolse un fiore; non guardò in volto la gente, non volle doni nè rispose a chi gli parlò. E l’isolamento al quale si condannava poneva il colmo alla sua fosca tristezza perchè il sorriso ironico che gli increspò l’angolo delle labbra procedeva direttamente dalla sua desolata, immensurabile tristezza. Pensava che tutti l’odiassero e tutti dovessero leggergli nell’anima e sapere ogni cosa della vita di lui fino alla parola di Rinotta; vedeva ch’egli non poteva raccogliere nulla dal suo passato che gli fosse come un ardore e uno splendore, ma soltanto odio e null’altro che odio. Ed il suo cuore era misero; e si isolava nella landa di cenere per la quale l’avevan condotto e l’avevano fatto disperdere, sotto un cielo senza aurora. Avrebbe pianto ed ucciso perchè la sua giovinezza deserta si doleva come la terra senza il sorriso delle acque, e avrebbe voluto rinascere e non poteva. Così, attorto e sconvolto, procedeva nel suo muto dolore quando, ad un’incrociata, qualcuno gli si accostò e gli infisse fra le cigne una piccola bandiera. Tutti i compagni suoi se ne erano adorni, egli no. Non volle fregiarsi del simbolo che dispregiava. Lo strappò dal petto, lo spezzò bestemmiando. Allora un capitano che gli era da presso gli si avvicinò e gli disse, forte: — Vergognati, rinnegato!... Egli non rispose ma gli occhi suoi ebbero un losco bagliore. E fermò in sè il suo patto. V. L’alba era prossima. Dovevano imbarcarsi a mezzogiorno: forse partire per non ritornare mai più. Giorgio degli Antoni levava a quando a quando la pallida faccia: i compagni suoi dormivano del loro sonno più bello. Da quando avevano suonato il silenzio, fino a quell’ora antelucana, egli non aveva saputo riposo nè sosta, preso nel vortice del suo sinistro divisamento. Si vedeva alla soglia dalla quale non si retrocede, avvicinandosi l’ora del suo più grande destino. Tutto si dipartiva da lui, anche ciò ch’egli avrebbe voluto più da presso per la necessità del conforto. Sentiva la soavità di una voce vicina e la rifiutava, intravvedeva la bellezza di una memoria e la discacciava. Doveva essere solo come un dèmone e la giovinezza di lui insorgeva tuttavia per il suo ultimo sereno. Era presso a quella solitudine che supera il vuoto della morte; discendeva ai tetri ipogei che solo conoscono coloro che tutto rifiutano. Nè la postuma riconoscenza dei compagni valse a illuminargli la strada. Forse nessuno, fra i tanti, avrebbe avuto animo a superare lo stesso valico perchè il berciare della moltitudine non vale il gesto del solitario e la moltitudine acefala è vile. Ed egli sentiva la volontà del gregge sbandato gravargli le spalle e si sentiva spinto innanzi da tutti quelli che si ritraevano, da coloro che non avrebbero saputo mai, nella loro bruttura, il compiuto distacco dal mondo per seguire il vortice di un’idea ribelle. Qualcuno era andato innanzi a lui ed egli ne vedeva le orme e ne sentiva il dolore perchè tutto si vince fuorchè il dolore. Il tempo scorreva oltre la volontà dell’uomo e la sua meschina misura. Già si udiva per le vie sottostanti il primo rotolar dei carri e i campani delle capre che si avviavano verso la città dell’amore e qualcuno passava cantando per malinconia. Napoli si apriva nella sua gloria eterna e nella sua pena disconosciuta. Si udiva il grido cadenzato e sospiroso di coloro che scendevano dagli orti. Giorgio degli Antoni si levò sul suo letto. Tutti dormivano in pace, l’un presso l’altro, il volto invermigliato dal sonno. Egli vide ciò che sarebbe accaduto, percorse le ultime ore che lo separavano dal compimento. Fra il turbinare dell’essere suo, la scena si compose e si scompose, si precisò, apparì e disparì dal silenzio, nel silenzio, animata di orrore. Vide i gesti ed i volti; udì le parole e le urla; seppe la tempesta causata dalla sua violenza, e più, nel suo chiuso, per la volontà inasprita, s’ingrandì ogni aspetto quanto più ne soffriva. Varcato il confine nulla più era possibile in eterno. Non un ritorno, adunque; ma solo la forza di sopportare; solo la sua forza di fronte a tutta l’umanità. E coloro che l’avevano preceduto non avevan lasciata parola per lui ma il lungo, l’interminabile seguito delle loro orme su la landa, verso un vespero sanguigno. Erano discesi oltre il vespero, nelle terre del sogno e dell’incubo; erano scomparsi per sempre là dov’egli doveva scomparire, nel grembo della morte senza parola e senza speranza e senza pace nessuna. Riudì di repente le voci degli uomini e ritornò nella vita. Balzò a terra che gli altri gridavano intorno, ridesti. La realtà lo riprendeva di schianto, sbiancò. L’ora era giunta. Qualcuno prese a motteggiarlo, invano. Rispose a monosillabi a un graduato che lo interrogò. Poi come tutti furon presti, li lasciò allontanare e rimase solo nella corsia. Il cuore di lui pareva il maglio dei metalli che strapiomba nell’impeto uguale. Gli tremavan le mani nell’approntar l’arme ed era terreo. Compiva ciò fra un dilagar vasto di canzoni e di risate. Quando fece per uscire dalla corsìa si scontrò nello stesso che gli aveva rivolto la parola poco prima. — Che facevi qui? — Nulla. — Presto, raggiungi gli altri, chè c’è il rancio e poi si parte. Si gettò giù per le scale, ma al primo ripiano si fermò guatando intorno. Gli era parso che l’altro lo guardasse ancora. Non c’era più. Riprese a discender le scale grado per grado e il suo passo or s’appesantiva nella sosta, or scivolava leggero a seconda delle raffiche che si scatenavano su lo spirito di lui. Una vita attendeva il proprio destino, ignara, nel tepore di un autunno pieno di promesse e di canti; uno, segnato dalla cieca rabbia di chi sbava e s’impantana e rinnega sè ed il suo sangue, doveva morire. Morire per l’idolo fallico delle piazze dalle mille bocche voraci. Giorgio degli Antoni era, in quel punto, la parola che s’incarna, l’odio agitato per mille continue brutture che trova il suo valico e si scatena. Scivolò per gli anditi deserti che si aprivano in fondo alle scale: evitò il cortile con tutti i suoi canti, col tumultuare di un’ardita giovinezza la quale gli diveniva sempre più insoffribile; aveva bisogno di esser solo, di andarsene in compagnia del proprio delitto, senza veder nessuno, senza che nessuno lo ascoltasse o gli parlasse, chè non voleva udire altra voce o diverso tumulto da quello fondo e livido che aveva preso a dibattere tutta l’anima sua come un oceano. Giunse ad una porta chiusa; l’aprì appena, con mano tremante, poi si ritrasse chè gli parve udire un passo dietro le sue spalle. Stette in ascolto. Fioriron due voci. Si persero lontane. Ora egli sapeva che l’uomo designato doveva trovarsi nella caserma perchè era fra coloro che partivano e sapeva che i condottieri si adunavano in un piccolo cortile oltre quello nel quale si raccoglievano i soldati. La porta che stava per dischiudere si apriva su questo cortile. Attese come chi si agguata ed occhieggia a coglier sua preda, poi, con mano cauta socchiuse l’uscio e guardò per lo spiraglio. L’uomo non era là. Si ricompose. Doveva attendere o andare braccando fin che non l’avesse colto? Attendere no, chè potevano sorprenderlo. E se era fra i compagni? S’egli non avesse avuto campo a colpirlo? Uscì sul cortile, l’attraversò, fu per un androne nel quale ogni suo passo ridestò un tonfo ingrandito dalla vôlta. Un terrore inesplicabile lo tenne; ristette, si nascose nel vano di una porta, si acquattò, pronto a sparare su chiunque giungesse. L’anima sua convulsiva cercava una liberazione. E così stava, contratto, allorchè udì qualcuno avvicinarsi. Era giunto al limite ultimo, su l’abisso; solo doveva sporgersi e lanciarsi verso l’invisibile fondo. Ma non era il designato, era un giovine, quasi un fanciullo, entrato da poco al reggimento, tale da non ridestar odio in alcuno. Neppure da un anno aveva rivestito il grado di sottotenente; era conosciuto ed amato per la sua giovinezza radiosa e per la bontà sua. Si chiamava Furio Valerio. Partiva con gli altri per il suo ardore. Ma il nemico doveva uscir dal covo e la sorte lo aveva spinto al bivio dal quale non si retrocede: o uccidere o esser colto in agguato. La risoluzione nacque fulminea. Attese poco ancora, tanto da non fallire il colpo, poi s’inginocchiò appoggiando la canna del fucile allo stipite della porta: chinò le spalle, la faccia: prese la mira. Ma in quel ch’egli era per premere sul grilletto, qualcosa intervenne che non gli consentì l’azione. Dietro il giovine era apparsa d’improvviso una donna, una vecchia donna vestita di nero, umilmente, il viso nascosto da un velo; e questa creatura aveva chiamato forte l’adolescente che si era rivolto di scatto alla voce più cara di quant’altre ci sieno vicine su la terra: alla voce di sua madre. E si erano abbracciati. — Non sei venuto a salutarmi? Il giovine non rispondeva; teneva il chiaro volto inchino su la spalla di lei. — Perchè non sei venuto? — Perchè.... non avresti voluto.... — Oh!... non lo dire!... Non lo dire!... E gli stringeva il capo fra le mani e lo guardava negli occhi. — Non lo dire!... Non lo dire!... — ma la voce di lei si affiochiva nel pianto. — Anche le tue sorelle ti volevan vedere!... Ti salutano. Va.... va, creatura mia!... Via e Iddio ti benedica!... L’adolescente era scosso dai singulti e l’altra ripeteva dolce, a pena, accarezzandolo sempre, nella sua bontà sconfinata: — Iddio ti benedica, figliuolo!... Iddio ti benedica!... Allora Giorgio degli Antoni si levò dal suo covo, uscì dal suo covo come chi si ridesti sbalordito da un orribile incubo e camminò adagio da prima, poi più forte, più forte, fin che corse, corse lontano dove nessuno l’avesse veduto, dove nessuno mai avesse potuto sorprenderlo. E la dolce voce insisteva in lui: — Iddio ti benedica!... Iddio ti benedica!... E quando fu solo gettò il fucile lontano, si lasciò cadere in un angolo e, rattrappito in sè stesso, si sciolse in un gran pianto, così, come quando era fanciullo e non sapeva che il sole e il suo piccolo cuore che soffriva. VI. Lo seguì sempre. Gli pareva che l’altra gli parlasse. Ormai egli non era più di sè stesso ma di quel fanciullo e della madre lontana che gli era apparsa nell’umile veste nera, nell’attimo più tragico della vita di lui. Furio Valerio non sapeva che si avesse quel soldato fosco il quale sempre gli era alle terga ogni qualvolta uscissero in battaglia e un giorno gli chiese: — Perchè mi stai sempre vicino? Il soldato non gli rispose. Aveva inchinato il volto come in un subito, strano pudore. Furio Valerio non domandò altra cosa e si convinse che il taciturno fosse preso da una inesplicabile mania. Lo lasciò fare. Lo chiamò Ombra e tutti lo chiamarono Ombra. Giorgio degli Antoni non se ne adontò e non per questo rivelò il proprio segreto. Gli era troppo caro, era la prima fonte di ogni suo ardore. Ancora non aveva scritto a nessuno e da più di un mese era lontano, e v’erano stati giorni di cupa ansietà dopo il tradimento degli arabi e le male arti del nemico. Non aveva scritto perchè non era in pace con sè stesso ancora, e l’anima sua, sebben dissonnata, non era conscia della grande via per la quale si era posta. Taceva, ma sempre vedeva i luoghi suoi e la casa e il fiume e il volto di Rinotta: sempre. E nella vita rude e faticata, nel continuo pericolo di avere la sua rozza croce sotto la terra sabbiosa, di cadere per non sollevarsi mai più; nel senso religioso che lascia intorno a sè la morte e il pericolo della morte, ogni cosa lontana si affinava, si ingentiliva, dileguando la volgarità che tutto deforma e impoverisce. Ogni asprezza di contrasti era caduta, egli non sentiva che uno sconfinato amore per il proprio nido e per la sua gente che era un po’ dell’Italia, anzi la miglior parte agli occhi suoi. Il fato che lo aveva trattenuto sul punto della propria rovina, la forza inesplicabile del fato che aveva deciso della vita di lui, quando egli ormai più non era se non il masso precipite, gli aveva dischiuso la mente al senso del mistero, al senso dell’inafferrabile che sospinge la vita nostra verso inattesi confini. E il ghigno e la brutale cecità dei lontani, di tutti coloro che vivevan bestemmiando, nel loro fimo, gli parve la cosa più miseranda che fosse stata mai. La sua mutazione lo faceva taciturno. Scopriva in sè un altro io: gli pareva di sentirsi uomo la prima volta nel mondo, di affermarsi per la prima volta, di essere uno. Fino a quel punto non era stato che un ubbriaco berciante dietro il carro dei distruttori; un dimentico; un qualcuno che aveva un nome e una coscienza fittizia e che s’imbrutiva fra la morale povertà del gregge; ma il confine era superato; sentiva ora di poter ritornare fra gli antichi compagni con serena fermezza. E il Vecchio? Talvolta, sotto la tenda, quando tutti dormivano ed egli chiudeva gli occhi senza sonno, talvolta gli accadeva di vederselo innanzi, fiero e muto e gli pareva di non sapergli parlare ancora, e tale era la sua pena più grande. Ma se fosse ritornato, se il destino gli avesse concesso di rifar tutta la lunga strada fino alla solitaria casa fra le due foci, allora forse avrebbe trovata la parola che non udiva tuttavia nel suo profondo. Viveva così, senza partecipare alla chiassosa allegria dei camerati, cercando solo di oprare, di esser posto innanzi, inflessibile ed instancabile. Della tragedia superata non gli era rimasto che il fermo silenzio. Nessuno sapeva nulla di lui, nessuno l’aveva udito lamentarsi mai e le sue parole eran conte. La razza dalla quale proveniva poteva ben dare simili piante dal buon ceppo antico, per il suo intatto cuore addormentato. Giorgio degli Antoni imparò che amare val più che odiare e che allora solo è bella e grande la vita e vai la pena di esser vissuta, allora quando sa essere eroica e votarsi al sacrificio per un bene di cui non godrà, di cui non avrà che la parte più pura nella coscienza del sacrificio stesso e del suo valore. Ed anche la bella creatura per la quale l’amor suo era nato con la vita, anche Rinotta non era più quella di un tempo. Egli lo sentiva. La fierezza era vinta dalla pena e l’indifferenza di lei da un pensiero senza soste, nutrito dalla muta lontananza. Forse la sua voce sarebbe stata più lieve nel canto, interrompendosi talvolta per ascoltare, per sognare, per non poter più vestirsi tutta quanta della propria festosità senz’ombra nessuna; forse questo avveniva ogni giorno, nel cuore della grande casa sperduta fra le due foci, là dove non si udiva che il mare, il vento, il lamentoso grido delle gru e il canto delle canipaiole fra le canape stellate. Questo avveniva ogni giorno a consolare il silenzio. Così come per lui che seguiva, nel proprio rinascere, una lunga scia ideale non mai conosciuta, una gentile bontà che lo empiva di ebbrezza. Tale era la mostruosa guerra, la scuola di ogni più empia brutalità per cui ogni animula bianca versava lacrime e clamori imprecando alla barbarie; tale era ad onta degli eunuchi di ogni schiatta e di ogni dottrina, dolorosa sì ma rivelatrice di uomini e di magnifiche tempre e di divine bontà. E molti si disbrutivano che erano ciechi per lo innanzi e le ebbrezze, ignote ai giorni trascinati nel livore e nell’uggia e nella miseria di una piccola vita in troppo angusti confini, le ebbrezze collettive per idealità immortali, rivelavano gli uomini a sè stessi, erano come un maggio improvviso dopo una tenebra grande. Tutto era superato con lieto cuore. La gioventù si moltiplicava fino a inverosimili tenacie, superava ogni ombra sinistra illuminando di sè l’asperrima vita. Ogni stirpe italica recava la propria anima e i suoi canti, i suoi canti sonori di cui si empivano le ruine e i bivacchi; le deserte selve e le oblique città. In tutti era un’idea sola: l’Italia, oltre ogni disparità di stirpe e su la terra e sul mare. Ora, dopo una tregua di giorni e giorni pareva che le mude del deserto si rimovessero a compire un loro piano d’attacco, spinte all’azione dagli invisibili eroi di ogni brigantaggio e del martirio e della turpe menzogna. Pareva che gli uomini senza pudore e senza legge, scendessero sicuri della riconquista, a ricacciare in mare gl’infedeli. E già, dai punti avanzati, dalle vedette di Sidi Mesri, da Bu-Meliana, da Gargaresh si scorgevano lontanissimamente, torme esulanti, per il deserto; cavalieri trascorrenti fra mutevoli nubi di polvere; esigue carovane. A quando a quando parlavano le bocche dei cannoni a salutare coloro che più si approssimavano alle difese e le notti eran corse dalle fantastiche luci dei riflettori, dalle spade d’adamante intersecantisi nell’ombra con subiti guizzi, o immobili come tese dalla mano di un arcangelo muto ed invisibile verso l’insidia discoperta. Nel cerchio della luce adamantina si vedevano come per prodigio, biancheggiare di un subito e gettarsi a terra e sbandarsi atterrite le torme sorprese, fin che non giungesse il mugghio del cannone. A volte tinnivano i reticolati per qualcuno che era giunto fino alle difese, strisciando; a volte passava l’allarme di una sentinella o il serpentino miagolìo delle palle nemiche, su l’accampamento. Sparavano a caso, ma avveniva che qualcuno morisse nel sonno, disteso sotto la sua tenda. E, di giorno, continuavano a giungere dal deserto i fuggitivi: vecchi, fanciulli e donne, orrende nel loro sfacelo, dagli scarsi capelli, rossi per l’_hennè_, dalle mandibole nude fino alla bocca contratta. Arrivavano sorridendo e urlando, inebetiti nella fame e nella loia, levando le braccia, prosternandosi, sospingendo innanzi un somarello carico di cose immonde. Solo i fanciulli non conoscevan nè voce nè pianto; sempre accigliati e diffidenti. Erano aggiunti al branco, condotti fra i soldati, alla città ospitale. E vedevansi lunghe teorie di carrette siciliane, cariche di luride donne e di bimbi; o gruppi di prigionieri avvinti fra loro per salde ritorte. Erano i giorni della lunga vigilia e dell’ardore, i giorni in cui ogni muro per l’oasi ed ogni casa recava una invocazione alla grandezza d’Italia. Giorgio degli Antoni vegliava nel suo fermo coraggio e amoroso. E pur oprando con sollecitudine, poi che vinto il mare della propria tristezza si era tutto ridesto, sempre era penetrato dalla intenzione nata nell’ora tragica del risveglio e lo turbava la possibilità della propria impotenza. Anche più: se talvolta gli appariva tale possibilità fino alla morte e vedeva il giovinetto procombere e il pallido volto della donna abbrunata inchinarsi straziato, nel silenzio che egli non sapeva, tanto ne era smarrito da accusarsene. Chè per trascorrere di giorni e mutevole avvicendarsi di avvenimenti il patto chiuso in sè gli era presente come il fermo dovere segnato. Se l’era promesso senza parole, nè gesti, nè pallide commozioni; l’idea era nata dalla sua essenza, decisa e concreta oltre ogni ragionare, nè poi si era perduto a considerarla. Di indole rude e schietta sdegnava sè stesso innanzi gli altri e non ammetteva per sè ciò che non gli sarebbe piaciuto vedere in altrui. Aveva tale forza inconscia che era l’eredità della sua razza. Era anche in ciò di una ruvida virilità, per troppo pudore di ogni moto dell’animo suo. Ora i piccoli scontri si moltiplicavano e tutto accennava alla prossimità della battaglia. I soldati la sentivano e se l’auguravano. Furio Valerio scherzava con Ombra sul prossimo avvento, ma Ombra non rideva mai. Grave e riverente di fronte al giovinetto pareva l’ascoltasse e non l’ascoltasse, profondato nel suo mondo interiore. E una sera la voce corse per tutto l’accampamento: — Domani, innanzi l’alba, si parte! E ridestò ogni ardore assopito. Fu anticipato il riposo. Le baracche e le tende raccolsero i loro ospiti nel sonno. Le stelle vegliarono sopra una gran pace serena. Si perser le canzoni innanzi l’ora e il vario vociare delle varie genti. Solo un padiglione più grande, nel mezzo del campo, rimase illuminato; le altre tende non ebbero il loro piccolo cuore di luce. Ma Giorgio degli Antoni non dormì; Ombra non seppe la calma notte riposata e non si abbandonò sul suo giaciglio, al fianco de’ compagni suoi. Si era seduto sul limitare della sua baracca; guardava la notte. Passò un uomo di guardia; si fermò: — Perchè vegli? — Non ho sonno! — Bada che domani sarà un giorno faticato! — Non importa! — Almeno tu potessi prendere il mio posto! Io non reggo più! E si allontanò a testa bassa, ondulando nel passo, la mano sulla bandoliera del fucile. Ombra non si rimosse. La notte svolgeva i suoi diademi stellari. Gli stipiti e i ciuffi delle palme parevan sculti in una oscura materia lievemente radiosa; si susseguivano come in una teoria ieratica profondando nel buio. E le stelle erano fra il fogliame, e più sopra, e intorno, nel loro figurato ardore. Innumerevoli colonne si appuntavano al cielo, mirabilmente uguali, vegliando un Dio fra il cuor della notte e la terra. Ritornavan ricordi di altri paesi orientali, intravveduti su gli altari, nelle piccole chiese del mondo ed echi di canti liturgici alla stella dell’oriente che si toglie dal mare, su l’alba. I palmizi erano dietro il sole, remotissimamente, nel paese di Dio. L’idea divina era ricongiunta così, fin dai primi ricordi dell’anima, all’albero mistico. Tutto era immoto nel prodigio della notte africana, assorto in un tenuissimo folgorìo, profondo e distinto. Le viottole fra i fichi d’india, i muricciuoli, le carreggiate, le pediche su le sabbie rossastre eran palesi nell’interlunio e l’umile erba come le palme altissime. Era una chiarità d’incantesimo sotto le spettrali fiamme degli astri. Una casipola cubica con la piccola porta archiacuta, senz’altro vano sui muri, appariva albeggiando, acquattata fra il volo delle palme lanciate a sorreggere l’immensità di una cupola divina. Era la tana goffa, costretta, per la grossezza degli uomini, alla forma discorde e brutale fra l’oltremirabile levità. La natura assecondava la linea lieve e salda come a contrapporre il suo impero di grazia e di forza alla sconfinata tristezza. E con l’assurgere delle forme oltre le morte arene, assurgeva l’anima alla contemplazione cercando, nel vacuo spazio impenetrabile, lo scampo al dolore. Un bagliore verdigno si accese, tracciò una scia fulminea nella cupola astrale, lumeggiò le vette dei palmizi, discese contro il deserto, approdò al segno di tre stelle per morire. Ombra levò gli occhi. Or non udiva che il grido lanciato e da presso e da lungi dalle sentinelle veglianti su le trincee e il misurato respirar del sonno dalle tende oscure. Levò gli occhi e la meteora era morta e pensò a ciò che gli dicevano negli anni ignari, quando, sul crocchio raccolto intorno all’acervo del granoturco, scivolava una stella sperduta. Gli dicevano: — Guarda e desidera! Se tu pensi innanzi che muoia la stella avrai ciò che pensi! E s’ingegnava a guardare e a pensare; ma la stella moriva col desiderio di lui, per sempre. Ne aveva sofferto perchè non chiedeva che piccole cose comuni, ciò che può chiedere un bimbo che va scalzo per le redole dietro un umile gregge; ed or si trovava con l’anima di allora a cercar la sua speranza nella fatalità dell’ignoto. Furio Valerio dormiva poco lungi, al termine di un’angusta e lunga baracca suddivisa in piccole stanze. Ed ogni stanza recava il segno dell’abitatore nell’arredamento, nell’armonica disposizion delle cose, nella scelta degli oggetti trovati nelle nuove terre o portati dall’Italia. Furio Valerio, accanto al suo piccolo letto da campo, non aveva che una scialba immagine di donna, una vecchia donna dagli occhi miti e pensosi e, innanzi all’immagine, ogni giorno si rinnovavano i fiori sì che non passava ora d’oblio fra le due anime lontane, congiunte dall’amore purissimo. Oltre ciò era la sua cameretta come una cella monastica nella quale non è cosa che distolga dalla perfezione della carità divina. Un solo amore empiva tutto quanto il mondo di quella giovinezza non ancora persa e dispersa fra ingannevoli allettamenti e tale semplicità rispecchiava il nido del suo riposo e del suo sonno. Ed anche l’immagine materna raffigurava l’ardore e l’alta idealità per la quale si cimentava alla morte. Ombra sapeva tutto questo, aveva veduto e compreso in un suo commosso stupore, chè ricordava l’angoscia raffrenata di lei quando, sul punto di lasciare il suo bene, forse per sempre, non aveva trovato che il cuor suo di cristiana per la più dolce fra le benedizioni e nessuna parola che rivelasse un livore verso qualcuno, un dispetto per la Patria che le toglieva il figliuolo. A tutto questo pensava, nella tersa notte, come a una inverosimile grandezza. Aveva veduto altre lacrime, aveva udito ben diverse parole fra coloro che tutto avrebbero rinnegato pur di non partire e più, per tale violento contrasto, tale umile semplicità si ingrandiva agli occhi di lui. L’uno, nella bellezza de’ suoi anni chiari, pur non avendone il preciso dovere, partiva quasi furtivamente pur di dare sè e la vita sua allo splendore di un’idea grande oltre il confine degli anni; l’altra rimaneva con le umili figliuole ad attendere nell’oscuro silenzio, reprimendo il suo pianto, chè nessuno ne avesse a soffrire e levando la voce solo per dolcezza. Quando mai aveva non che veduta, pensata, una simile cosa nel suo brutale egoismo? E quando mai il suo cuore aveva tremato per maggior tenerezza? E quando quando aveva sentito in sè una più serena e illuminata coscienza di essere in realtà qualcuno per poter giovare a qualcuno? Gli si chiariva innanzi una via per la quale l’andare in silenzio era più dolce che il sapersi d’improvviso amato, quando l’anima si pensa, in un eterno esilio, sperduta. E godeva in sè del suo ardore, immaginando insolite cose, mentre la notte approdava al suo confine, quando trasparì, di fra le palme, un tenue bagliore. Erano i fuochi del bivacco. VII. Si levò. L’ora era prossima. Un brusio sordo, come d’api nel folto di un tiglio in fiore, fu nell’ora antelucana. I lembi delle tende si sollevarono e ne uscirono i compagni suoi. Si mossero carretti e muli, si udì il cupo strepito delle artiglierie trascinate per l’oasi e il rombo di un carro automobile. Ma le genti appena fiatavano, scambiando a voce dispenta i comandi e gli ordini, tra il silenzio e la fiera compostezza che precedono le grandi azioni. In breve tutto si ordinò nella voluta misura. Ombra era presso Furio Valerio, allineato nei ranghi, muto. Il giovinetto conversava tutto gaio come andasse ad incontrare il suo sole. L’anima era in lui come la luce su l’acqua e la rugiada su l’erba novella. Pareva desse splendore e maraviglia. Passò un ordine sommesso ed ogni breve parola morì. Nasceva l’alba e i soldati si mossero verso l’ignota battaglia, fra due volontà oscure: quella del Condottiero e quella del Destino. Trascorsero innumerevoli i giovani dalla pelle bronzea, dagli occhi chiari e ciascuno parve un poco simile al compagno come se la sorte e la fede comune li pareggiasse. Guardavano innanzi, faticando fra le sabbie, tutti grigi come vestiti del loro umile eroismo e passavano e dileguavano oltre il varco fra le trincee. Camminarono a lungo. Le ore passaron come il fiato, inavvertite e il sole fu alto senza che ne avessero misurato il corso. Camminavano sul fondo di un mare, sopra un aperto sepolcro e tutto era uguale intorno, in una fulva aridità. Di repente sostarono e si gettaron supini, imbracciando il fucile. Via per l’impietrito mare, di dorso in dorso, in un abbacinante splendore si distendeva il sole fino ai confini chiusi da una foschia albicante e non era forma d’albero o di casa, nulla se non la faccia del deserto, accesa di squallore e di luce. Ma, sul fondo, qualcosa appariva e dispariva nella immobilità senza memoria e senza respiro, come un guizzare di ombre esigue, visibili nello spazio dell’attimo e tosto inghiottite nelle interposte fosse fra dorso e dorso. Si attendeva. I soldati mutavan rade parole: — Li vedi? — Sì. — Quanti saranno? — Forse mille. Il punteggio dell’ombre si distendeva per cento dune, scarseggiando, in discontinua catena. — Perchè non spariamo? — Sono troppo lontani! — Guarda.... piegano a destra! — Vengono! E si vedevano i volti, obliqui al calcio del fucile, rocchio alla mira. Qualcuno s’adunava innanzi un monticello di sabbia, un’esigua trincea a difendersi dai colpi radenti; qualche altro si irrigidiva, contratto su l’arme, impassibilmente. Furio Valerio, inginocchiato innanzi ai suoi, scrutava l’orizzonte. Gli era dietro Giorgio degli Antoni, levato come lui contro il nemico, per l’intiero torso. — Signor tenente, si ripari! — Non mi seccare! Ed Ombra insisteva: — Guardi.... qui si vede meglio! Un rombo passò per la conca del mattino; fu fra cielo e terra, enorme. Si udì rimbalzare contro rupi invisibili in successivi scoppi per la squarciata profondità e, quel che pesava su l’anima degli uomini, enigmatico silenzio, fu travolto e dissolto dal formidabile ululato! Seguì come un polverìo di colpi fittissimi, su la sinistra, verso Gargarèsc. Ora le masse lontane apparivano più distinte, si vedevano muoversi con maggiore rapidità. L’orgasmo dell’azione accendeva gli uomini, fermi nell’ordine voluto, ma nessuno aveva più che un guizzo, una contrazione, una rapida parola. Fischiaron le prime palle, miaularon alte. La _mehalla_ nemica si avvicinava felinamente, balzando ed acquattandosi. Si vedevan più lungi, torme di cavalieri percorrere il deserto in vari sensi. E le bianche vesti inconsutili si empivan di vento materiando nell’aria la figurazione della furia. Ora, di fronte all’impetuoso avvicinarsi dell’orda selvaggia, Furio Valerio non mutava posa nè volto. Levato di tutto il torso sui soldati distesi al suolo, scrutava l’avvicinarsi del nemico e se l’anima sua ebbe un sussulto non apparve sul volto che mantenne la sua dolce e ferma chiarezza. Giorgio degli Antoni, immobile dietro il giovinetto, non fiatava. Le sue mani stringevano il fucile, tremando un poco per la repressa pena. I sordi miaulii si accrescevano quanto più si avanzava la discontinua catena del nemico. I soldati reprimevan l’impeto, nella grandezza dell’ubbidire. Poi un siciliano dagli irsuti capelli e dal viso gagliardo si levò e ricadde rovescio. Fu trascinato fuor dalla linea del fuoco. Giorgio degli Antoni sbiancò. — Signor tenente, si farà ammazzare! E la sua voce implorava come parlasse a un fratello d’amore; ma l’altro non udiva. Così stettero fra l’irrompere della morte fin che la _mehalla_, fatta più ardita, non si lanciò urlando fino alle prossime dune. Allora incominciò l’aspra battaglia. Sorpreso dall’inattesa resistenza, il nemico sostò, ondeggiò su le dune, scomparve nei cammini celati. Vi fu un istante di tregua in cui non si udì che il boato delle artiglierie. Poi l’orda selvaggia ricomparve più vicina, aumentò in ardire abbandonando dietro di sè i morti. Una donna, cinta da armille lucenti, spaventosa nel suo orrido ceffo incanito, dai grigi cernecchi ondeggianti su le tempie vuote fino alla bocca cavernosa, si agitava urlando, correndo, come invasata dal demone della follia e allo strido di lei rispondeva il gregge furibondo con un urlo spasmodico, gutturale, rinnovato a balzi come su l’impeto del cuore. Furio Valerio accennò ai più prossimi la megera, qualcuno mormorò sorridendo: — La bella Paradisa! E pareva non fossero in campo, contro la morte, ma per le vie consuete del mondo, senza pensiero. Poi come l’onda dei barbari pareva forzasse a furore ed altri ne sopravvenivano, passò un comando conciso, una voce che rimbalzò da plotone a plotone balenando. Si udì il crocchiare delle baionette innastate e passò nel sole un fulgido guizzar di lame. Finalmente! Era l’attimo atteso, l’attimo della bella violenza che ognuno si augurava, inasprito dalla costretta immobilità. L’orda avanzava sempre più, imbaldanzita da ciò che giudicava pauroso silenzio e già si udivano i ghigni e i cachinni e le schernevoli risa interposte al consueto latrare: — _Barra taliani!_... _Barra!_... E qualcuno danzava goffamente trepestando e balzando, il fucile levato sul capo. Ma la beota certezza, nutrita dalla fede turca, nella sua continua miserevole viltà, cozzava contro la troppo spregiata razza che non aveva manti imperatori per il suo vestire, nè iperboli per il suo coraggio. La barriera umana si levò di scatto, si allineò d’istinto, attese il cenno supremo, a testa bassa, ferma come il timone e l’antenna. Due cadder sul fianco prima di muover passo, nel baleno della sosta e, immobili nel loro sangue, urlarono il nome benedetto fra i mille. Poi si levò il comando, i condottieri si lanciarono innanzi, la rivoltella tesa nel pugno e si udì una invocazione di potenza: — Savoia!... La parola, moltiplicata da cento impeti, si convertì in un grido enorme che saettò come un gran brivido per l’aria, via, con la massa precipite: — Savoia!... Savoia!... E da ogni singolo ardore sorse un’anima smisurata. La falange avanzava rapidissimamente sotto il fuoco del nembo barbarico d’un subito immutito; saliva le dune, superava ogni valico, trabalzando, sospinta via da un prodigioso ardire e il grido terrifico la precedeva come la raffica innanzi la nube olivigna. Furio Valerio era primo tra tutti. Agile come l’antilope, superava la sua gente. Ombra gli era alle terga. Cozzaron primi contro l’oscuro baluardo poi fu la mischia e la rotta dei fedeli d’Asrael. Or come i soldati sostarono al comando e si rivolser d’intorno e si ricercaron con gli occhi, due uomini mancavano al muto appello: Furio Valerio e Giorgio degli Antoni. Ogni ricerca fallì. La sera, alle trincee, li dettero come sperduti fra il silenzio del cielo e del deserto. VIII. Ancora il fanciullo implorò con la sua voce dispenta: — Lasciami qui. Viene il buio.... non arriverò alle trincee!... Salvati!... Ma Ombra non rispondeva. Una tremenda furia di vento scendeva dall’oscura vastità traendo seco nembi di sabbie che saettavan nell’ultimo crepuscolo, simili a impenetrabili nubi rigonfie levate dalla terra alle sommità dell’aria. La notte era prossima. Là dove l’astro era disceso, sui cieli della stella d’oro, saliva, fra l’abbaglio ininterrotto dei baleni, una cupola nera e densa e grave come il piombo; saliva compatta, lasciando un deciso confine fra sè e il sereno, senza interposte nubi. E dal cielo alla terra era un diffuso orrore. Ombra si fermò. Depose il ferito allo scarso riparo di una duna; gli si pose contro, dal lato in cui il vento più faceva impeto; si accosciò; tacque. Furio Valerio chiuse gli occhi come a sopire la viva sofferenza ed era esangue, di un bianco pallor mortale. Non dissero verbo. Sentivano la furia degli elementi rompere l’enigmatico silenzio come se nessun’altra voce potesse essere fra cielo e terra là dove l’uomo non giunge, nessuna voce diversa da quella della morte. Superati gli effimeri confini, usciti dalla lieve trama delle apparenze e degli inganni e dei falsi valori era dunque quello l’aspetto di Dio?... La parola dell’immensità eterna e della sconfinata morte?... Tutto non era più di una festuca, più di una gola che trilla nell’attimo, fra gli astri, e da sola si ode e si duole e muore, sempre da sola fra l’impassibile. Ombra, l’uomo ridesto, levò l’arsa faccia contro i cieli remoti, fissò gli occhi sul brivido dei baleni, sentì un gran freddo, sentì come se una volontà inespressa ma presente e diffusa per ogni aspetto ignoto, l’opprimesse senza tregua sotto il suo segno deciso. Il fanciullo taceva, raccolto sotto la mantella di cui gli aveva coperte le spalle e non apriva gli occhi se non per guardare il compagno in una adorata tenerezza. La notte era giunta. Era giunta con la rapidità del fulmine, chiusa come il sepolcro. Ombra si levò. Gli parve che il vento lo avrebbe guidato come guida la rondine sul mare, quando emigra; come conduceva le gru che passavan su la sua casa, nelle notti più fonde e più tempestose del novembre. Tanto valeva cadere in quel luogo o più innanzi. Ciò deve l’uomo: camminare anche se gli appaia vana la meta, anche se il suo sangue l’abbandoni e la vita, a mezzo la strada; ciò deve, sotto il mistero, per levar la fronte pallida e grande alla luce degli astri. E come disse: — Andiamo! Il fanciullo levò un poco il capo e rispose: — Lasciami qui!... Lasciami morire qui!... Trascorreva il mugghio delle raffiche violentissime e il cielo si accendeva rivelando una spettrale profondità senza fine. — Andiamo! — riprese Ombra e si chinò. L’altro non disse parola, tese le braccia alle braccia che gli si tendevano, si sollevò ripiegandosi sul saldo torace dei compagno. Furon per via, sotto il turbine. Poi Furio disse: — Sanguini.... Ombra rispose: — No! E nessuno lo vide sotto il suo carico se non l’occhio dei baleni, nessuno seppe il suo martirio se non il cuore suo, grande come la bontà che tutto perdona sapendo, e ricinge l’orrore di una fresca ghirlanda. Andava e andava, reprimendo in sè la voce del suo spasimo, cercando una forza sovrumana, costringendosi al martirio il quale per macerare il corpo nella grandezza del volere, dona all’anima, più libera, due grandi ali al suo volo. Non si domandò se era quella la strada, non cercò tracce per dirigersi. A quando a quando la notte si squarciava in una fulminea rivelazione sotto le vampe verdigne e allora appariva la terra, la dolorosa terra del suo cammino. Ma quanto si appesantiva il passo ad ogni nuova duna! Ogni duna doventava un Calvario ma non vinceva la volontà di lui. Giorgio degli Antoni non seppe il gelo della disperazione; l’anima della sua razza fu in lui come il ferro nell’antenna della nave e le chiavarde nelle torri centenni e lo resse; l’anima non per anco rivelata nel bestemmiare della vita trascorsa fra le tane delle talpe e le aridità dei retori, ma viva solamente e solamente intiera nell’ora del suo amore e del suo martirio. Si era detto di morire e sarebbe morto nè gli sembrava grave lasciar la vita se pure, dal fondo di una incommensurabile distanza, gli sorridevano gli occhi dolci ed ardenti di una giovinetta, in una promessa attesa da troppo tempo perchè non dovesse turbarlo. Ma si era detto di morire, aveva fermato in sè il suo patto. E scendeva e saliva fra il balenare sempre più frequente, investito dalle raffiche; la gola, gli occhi e le narici riarse dalle sabbie. La tempesta rinvigoriva col crescer della notte. Ora si udiva un cupo e continuo bubbolìo, un rombo e un rimbombo e lo schianto delle folgori. I baleni spesseggiavano. Dalla terra al cielo, la lotta, pur dianzi accesa fra gli uomini, si rinnovava nell’impeto titanico dei venti contrari. E nessuna rivelazione era innanzi al cuore dell’uomo e nulla scendeva dall’abisso ai sensi della creatura che non fosse affanno ed angoscia e rovina. Camminare, lottare, morire. Ed oltre la morte quale altra lotta coglieva la nostra sostanza a erigerla al lume di un astro, a una coscienza nuova? Dove era la fine del gurgite? Dove mai la tenebra senza raggio e senza moto e senza il palpitare di un Dio? Due uomini andavano per il deserto: anzi un uomo ed un fanciullo, una sola volontà sorta di pianta millenne pel fior di una stirpe tenace e su questa s’aggravava ogni angoscia ed ogni sofferenza, invano. Fin che il cuore reggeva, fin che le forze non fosser venute meno di schianto, Ombra avrebbe proseguito, si sarebbe trascinato innanzi senza rivolgersi, senza misurar la via. Ogni pietà pel suo soffrire era morta; tanto aveva martellato il suo volere in sè, da renderlo insensibile. Ancora si fermò. Riprendeva lena solo allora che si sentiva prossimo a procombere, solo allora quando il suo passo si attardava ed egli cedeva sotto il peso intollerabilmente grave. Come le altre volte depose il ferito al riparo di una duna e gli si accosciò a lato senza parlare. Avrebbe voluto che Furio Valerio non avvertisse se non la presenza dell’amico, come una certa salvezza, come una vigile forza incrollabile e nulla più. Il suo nome non importava, la sua parola era vana. Si chiamava Ombra. Tacquero. Anche Furio Valerio non ebbe parola. Lo vedeva ad ogni lampeggiare con gli occhi chiusi e la bocca serrata e, se accostava l’orecchio, sentiva il suo respiro interrotto. Gli posava la rude mano callosa, su la fronte: era fredda. La bufera era sui loro capi, fra il tempestare di un vento gelido. Ora abbrividivano. Incominciò un dirotto imperversare di pioggia. Allora il fanciullo si riscosse, si levò un poco sul torso, tese una mano, disse a pena, e Ombra sentì il tremito della mano diaccia, disse: — Addio! Fu un silenzio. Ombra sapeva portarlo ma non sapeva le parole che consolano. Lo strinse forte, lo coprì; gli si chinò più sopra per ripararlo dal diluvio. Ma Furio Valerio non lo vedeva più; parlava ai fantasmi del suo farnetico. — Non ho nulla.... Eravamo soli.... lontani!... No.... non ho nulla.... guarda.... guardami, mamma!... Ombra ascoltava. — Bisognava vincere!... Bisognava vincere ad ogni costo!... Perchè non mi perdoni, mamma?... Mamma.... perchè non mi baci?... Allora l’uomo che non sapeva parole di dolcezza, si chinò sul fanciullo e lo baciò su la faccia. Poi lo risollevò con rinnovata forza, se lo prese su le quadrate spalle e riprese la strada fra il bagliore e il rovinìo della bufera. Dopo, la memoria di lui si offuscò. La tenebra notturna invase l’essere suo. Ancora si vide in cammino, ma la fatica troppo grande fece del suo corpo una cosa inconscia. Erano ormai estranei e lontani. E l’alba li trovò esangui, presso una cubba: l’uno disteso su le sabbie, l’altro accosciato da presso. Poi l’inaudita pena ebbe il suo termine. Più tardi, nella corsìa dell’ospedale, quando riaprì gli occhi e riebbe coscienza, a coloro che gli eran dintorno, non chiese che una sola cosa e quando seppe che Furio Valerio viveva e che non sarebbe morto, una gran pace discese in lui e null’altro udì di ciò che gli dissero. Ma dal fondo rasserenato del suo cielo, ancora gli apparve una dolente creatura abbrunata, una vecchia mamma, sola fra le sue tristi figliuole, e udì la voce più grande e più bella di quant’altre sieno nel mondo, l’udì in tutto l’essere suo dilagare, ingrandirsi nella soave benedizione che già l’aveva ridesto: — Iddio ti benedica, figliuolo!... Poi gli parve che una dolce mano gli chiudesse gli occhi, gli assopisse la sofferenza e discese nell’ombra della sua pace. Fu quando ritornò verso la vita con le sue forze gagliarde ch’egli pensò di poter scrivere a Rinotta. Aveva poche cose da dirle ma chiare, precise e tali ch’ella avrebbe capito anche oltre le parole di lui. E una sera si pose all’opera faticosa, imbastì a gran pena la lettera. Non parlò, alla lontana, dell’avventura di lui, ma le disse che forse avrebbe meritato da lei una parola meno cattiva di quella ch’egli aveva sempre in mente e le disse che sperava rivederla, un giorno, e che le voleva bene anche più di prima. Poi, dopo i saluti, aggiunse una postilla nella quale pregava il Vecchio di perdonarlo perchè credeva di non aver disonorato la casata, e firmò. Da quel giorno fu più contento. Ma non mutò contegno. Furio Valerio aveva raccontato l’atto di abnegazione del soldato taciturno e l’avventura si era diffusa, era corsa pei giornali ampliandosi, aveva celebrato il nome di Giorgio degli Antoni in tutta Italia. Non passava giorno che qualcuno non giungesse fino a lui per udire dalla sua voce il racconto dell’impresa. Ombra non ricordava più nulla nè sapeva spiegarsi la ragione di tanto tumulto per ciò che aveva compiuto. Solo una volta si commosse quando gli giunse la lettera della madre di Furio Valerio e dentro c’eran dei fiori. Si appartò perchè non voleva che altri vedesse il suo pianto. Forse solo la dolce creatura lontana sapeva dire con tanta semplicità le cose soavi ch’egli non aveva udite mai e per quelle cose sarebbe andato incontro a tutte le pene, con tranquillità. Pose la lettera nel suo vecchio portafoglio. Fu la sola che serbò. Poi, un giorno, fra i soldati che presentavan le armi, un Condottiero gli fu vicino e gli parlò con voce commossa nel nome della Patria e lo baciò su la fronte. Il suo dovere di uomo era compiuto. IX. Imbruniva. L’angelo era disceso a salutar la sera con le sue dolci campane. Il bimbo, aggrappate le piccole mani alla veste di Rinotta, insisteva nella sua domanda: — Che cosa mi darai, se sarò buono?... Che cosa mi darai?... Rinotta posava il lavoro. — Ti darò.... — e levava gli occhi all’aria, — ti darò i tre rubini, i tre piccoli rubini rossi che hanno le cicale fra gli occhi.... E il bimbo ripeteva guardando l’aria a sua volta, nel delizioso stupore: — Rossi, rossi!... E poi? Che cosa mi darai ancora? — Ti darò.... ti darò la bella freccia della cicala.... — Che cosa ne faremo?... — Andremo a caccia! — A caccia delle allodole, come Cesare? — No, le allodole non si toccano. — Perchè? — Perchè cantano. — Cantano!... — riprendeva il bimbo ripensando chissà quale bagliore mattutino. — Zia, zia, perchè non mi canti un poco? Sì, sì, zia!... Sì!... Rinotta aveva ripreso il lavoro. — Lasciami in pace ora; lasciami lavorare! E, dopo una pausa: — Senti, senti i pastori che ritornano?... Va, va ad incontrarli, va a vedere le pecore belle! Il bimbo saltò giù dalle ginocchia di lei, corse verso il portone che era aperto. — Non scendere nel fiume, sai, — riprese Rinotta. — Bada, c’è l’uomo nero che ti mangia! Ma il bimbo non le badava più, non udì forse le parole di lei, attratto dalla voce dei due fanciulli che ritornavano e dal belo delle pecore e degli agnelli. Rinotta tacque, inchina sul suo lavoro. Il Vecchio uscì dalle stalle e si fermò a guardarla: — Ci vedi ancora a lavorare? — Sì. — Che fai? — Finisco un gonnellino. — E indicando il lato dal quale il bimbo era scomparso, riprese: — Quel monello li rompe tutti! È sempre fra le siepi! Il Vecchio si accostò di qualche passo, la guardò, fu sul punto di parlare, ma si rivolse, avviandosi al portone. Le rondini erano sotto le gronde; si udiva tuttavia qualche pigolìo dai nidi. Una voce si levò da una stanza, poi un ciangottìo di bimbi e il lamento di un assiolo dalle roveri. Maddalena e Lorenzo attraversaron la corte. Il Vecchio uscì per la via. Rinotta fu sola, seduta presso il portico dei magazzini, incontro al cielo dove il giorno moriva. E la luce scendeva su le sue ginocchia, da sopra i tetti, con dolcezza amorosa, ed ella raccoglieva come un’ospite che sia sul punto di varcare la soglia e dalla soglia si rivolga ancora a mostrar la sua faccia e a dir l’ultima parola soave. Aveva vissuto quel giorno come fra terra e cielo, nel sogno, con tutta l’anima abbracciata da un semplice amore giocondo. Il cielo era chiaro con le sue nuvole sparte; venato e delicato come il polso di un fanciullo; brillava per allegrezza. Era discesa al fiume di buon mattino e si era ferma, come tante volte, su la riva a guardare, invasa dal beato torpore della vita vegetale e delle cose placide, in una passività dolce e pigra, senza barlume di pensiero. Si era distesa fra le canneggiole e i viburni, di contro a un greto, e sentiva sui piedi scalzi il carezzìo dell’acqua e su la faccia la brezza del mare e le stille della rugiada. Seguiva l’aliare lievissimo delle libellule vellutate, il guizzare delle idrometre, il trascorrere dei pesci in cerca di preda. Vedeva tutto e nulla come in uno specchio tersissimo, riposando l’anima nei sensi distesi a voluttuosa letizia. Era come la terra beata, come il fiume presso la foce che un poco ristagna, dimentico dell’aspre cime e ancora ignaro del tumultuoso mare. Godeva senza sapere perchè, sperduta nella calma dolcezza mattutina come tutte le cose. Padron Antonio passò lontano, diguazzando nelle pozze co’ suoi grandi piedi color bronzo e le gambe irsute. Aveva la mazzacchera. Tornava dall’aver pescato i ranocchi nei maceri. Dileguò nell’azzurra levità dell’aria fra l’acqua e i greti. Poi una verletta, vaiata come la buccia del castagno, volò fra i rami sopra il capo di lei, ad un nido. Una voce stornellò dal forteto. Allora Rinotta incominciò a pensare. Il pensiero nacque tranquillo dal silenzio dell’anima sua immobile, come la gallora nel rincollo del fiume. Dilagò. Pensò il mare, le navi, le terre lontane, l’amore. Una luminosa catena. E la voce cantava sempre. Il cuore cominciò a battere un poco più forte, a rallegrarsi di un qualcosa che non aveva aspetto. Guardò una fila di nubi color di rose poi le innumerevoli foglie delle acacie, una riga di sole. Fu dapprima come un mareggiare e un fluttuar di nebbie sottili e dalle nebbie ritornò la sua giovine pena. Dov’era? Che faceva? Le aveva scritto una volta e non più. E così, com’è della natura di ciascuno, tanto più si appassionava quanto più pareva le sfuggisse ciò che non le era parso tesoro allorchè le si offriva ad ogni ora, apertamente. Poi si figurò ciò che era nella sua bramosia e tutta si perse, l’anima abbracciata da un semplice amore giocondo. L’ora era trascorsa fin oltre il meriggio così, ed ella era ritornata all’opera sua a malavoglia che non avrebbe voluto veder nessuno e nulla udire che la togliesse dal suo chiuso a ricondurla alla vita com’era, alla muta realtà presente. E, a tarda sera, si era raccolta nella corte, coi bimbi, ad agucchiare intorno a una vesticciuola pensando alle cose miti che le davano una materna soavità. Poi la luce fu per esulare. Il portone fu chiuso e più non si vide la viottola erbita. Bartìn, l’ultimo figlio di Carlotta, il bimbo che più le piaceva, era rientrato con i due pastori. Passò Maddalena con l’utello e una lampada spenta. Non si udirono che rare voci sommesse. La casa era assorta come la sera alla quale approdavan le stelle. Abbandonò il lavoro sul grembo; levò gli occhi ed il viso; guardò. E se fosse morto?... Se fosse morto?... Allora si sentì affondare nel silenzio, si trovò sola di fronte al suo dolore e alla vanità della vita, non ebbe più ardimento, si smarrì come chi, dalla casa serrata, si affacci al livido orrore del turbine: pianse. Che poteva, più che piangere, la sua giovinezza incompiuta? Un’ombra le passò da presso e non si fermò. Ella non la vide: vide il cielo oscurato. Non si udiva più nulla, più nulla, più nulla!... Si passò le mani su la faccia, nascose il volto fra le palme, singhiozzando, ripiegandosi su sè stessa, sotto l’ombra e la notte impassibile. Nessuno poteva risponderle, nessuno l’avrebbe racconsolata mai! E, come avviene nelle nature forti, la raffica si ingrandì e la travolse. Non un lume era acceso. Dov’erano andati? Perchè tanto silenzio su tutta la casa?... Si alzò, mosse qualche passo, udì battere tre colpi sul portone. Sbigottì rivolgendosi e attese che qualcuno andasse ad aprire ma nessuno comparve. Ancora fu bussato e più forte. Allora attraversò la corte, senza fretta, a malincuore. Quando fu presso il portone domandò: — Chi è? Non le risposero. Tirò il catenaccio rugginoso, aprì. Un’ombra si fece innanzi senza dir parola. Rinotta la guardò, col batticore: — Che volete?... L’ombra non rispose. — Chi cercate? — disse più forte e si pose nel vano ad impedir l’entrata. Una voce sommessa rispose: — Cerco te!... Rinotta sbigottì, non battè ciglio, non intese. Passò un silenzio. Erano fermi ad un passo l’una dall’altro. E la voce riprese: — Rinotta?... Allora ella si sentì raggricciare e abbrividire come per la gioia e per lo spavento e domandò: — Chi sei?... È mai possibile?... E lo spasimo non durò che un baleno che ella ebbe un grido: — Giorgio?... Giorgio?... Sei tu?... Sei proprio tu, Giorgio?... Per la prima volta nella sua vita, egli si sentì tutto quanto illuminato. Non se l’aspettava!... Credeva tuttavia di trovarla come un tempo, di dover guadagnare l’amore di lei con fiera costanza e si vedeva trascinato in un impeto di tenerezza tale da morirne. Gli era caduta fra le braccia e lo stringeva forte, senza baciarlo, mormorandogli all’orecchio, fra i singhiozzi: — Sei tornato!... Sei tornato!... Ho pianto tanto!... Ti ho aspettato tanto, Giorgio!... Giorgio mio!.... Ed egli non seppe che dire, si lasciò trasportare come una cosa dolcemente morta, pianse con lei. Tutti sapevano del suo ritorno, vero?... Tutti lo sapevano ed ella no!... Perchè non dirglielo!... Chi le aveva nascosta la cosa?... I giornali non comparivano più, il Vecchio non parlava più!... Entrarono. Egli vestiva ancora la divisa grigia. Lo vide al lume degli astri; le parve bello come un Dio. E sospirava adagio, tremando nella soavissima voce: — Ho saputo tutto.... ho saputo tutto!... Oh perdonami, perdonami!... Egli se l’attirò fra le braccia e le disse solamente: — Ma se ti voglio tanto bene!... Tacquero ancora, più a lungo. Poi udirono un passo dietro le loro spalle, un passo misurato e tranquillo. Si discostarono rivolgendosi. Era il Vecchio. Non aveva il cappello, insolitamente; pareva ancora più alto nella notte illune. Attesero la sua voce e la voce del vegliardo si levò dal silenzio e disse: — Benvenuto, figliuolo. Vieni, chè ti dia un bacio!... Giorgio si accostò scoprendosi e chinò la faccia. Il Vecchio lo baciò sulla fronte. — Ed ora, — riprese, — ora che sei il primo fra noi, meriti tutto!... Domani ti passerò le bisacce e tu reggerai la casata d’ora innanzi. Lo vuoi?... Giorgio scosse il capo a dir di sì, chè non poteva parlare. Il Vecchio accarezzò Rinotta sui capelli, poi se ne andò senza rivolgersi più, nella notte illune, come l’attendesse la morte. Poteva morire ormai, nel cuor del suo Dio. La casa degli Antoni aveva trovato il suo continuatore. Le nonne. “Per la soave e forte umiltà e per il chiuso dolore di tante donne italiche.„ _Così come un’umile alba del duecento_: “.... lo maitino è sonato, Zorno me par che sia.„ _È il popolo che parla in un remoto canto freschissimo. Così: le campane del mattino han suonato pei cieli appena chiari. Il giorno è sorto. E, col dischiudersi delle prime finestre, abbiamo udito le voci delle creature che ci sono vicine e lontane perchè trascorrono la vita umilmente, chiuse su poco spazio._ “Sa’ tu qual donna è da gradire? Quella che fila pensando del fuso, Quella che fila iguali e senza groppi, Quella che fila e non le cade il fuso....„ _Francesco da Barberino, quanta dolcezza nella vostra allegoria! E ognuno di noi ha nella memoria, se non nella vita:_ “Quella che fila iguali e senza groppi„. _Una bontà cristiana in un cuore di donna amata. Se un riposo c’è concesso, è verso tale creatura che l’anima nostra si inchina; se si cerca un rifugio, non vi è altra soglia più chiara al nostro sostare._ _Donna e madonna dicevano i miei vecchi e la loro anima adunava le scarse parole gentili del dialetto disarmonico, per onorarla._ — _Voi siete padrona fra il focolare e la soglia, fra la madia ed il telaio, fra l’arcolaio e l’arca!_ _E la donna entrava nella casa severa ed appendeva il ramo d’ulivo sul letto, ed accendeva il fuoco fra gli alari, e distendeva le ordite dal pettine al subbio, nel telaio di quercia._ _Con la sera, le lampade erano riaccese innanzi che l’uomo ritornasse, la bianca tovaglia era su la tavola e le vivande sul fuoco._ _Una severità tranquilla, un reciproco rispetto, una misurata letizia reggevano la vita dei congiunti e donna era parola sacra come la creatura._ _Così l’uomo parlando della compagna eletta, diceva:_ — _La mia donna! — E non la menzionava diversamente nè la nominava in presenza di estranei come non si nomina Iddio._ _La casa era un tempio._ _Ora troppe volte le piazze valgon più che le case e il raccolto silenzio non ha dolcezza e il ramo di ulivo non è più a capo del letto come le fronti soavi e gli occhi raggianti più non si sanno inchinare; ma noi ricordiamo. Ciascuno ricorda di avere incontrato lungo il proprio cammino, per aspro che fosse l’andare, un orto soleggiato, una fontana chiara, una casa d’amore, un volto illuminato, e, nel segreto dell’anima, l’immagine si è rifugiata, inespressa per anni ed anni, per aggallare, trascorrendo qualche ora nostalgica. Non v’è uomo che non abbia sentito talvolta, su la terra precipite, la bellezza di un simile amore._ Venivano tutte tre di passo uguale, ravvolte nei loro scialli neri, all’antica. Un po’ inchine, procedevano in silenzio per la via deserta della chiesa, scarpicciando sull’acciottolato, e il loro passo spaventava qualche passero saltabeccante fra gli scarsi rifiuti, nel tardo sole. Era il maggio, un maggio bianco di tenui nebbie. E sopra loro eran le mura dei giardini conventuali, sempre chiusi nel loro segreto amore e qualche casa malinconica, appena albicante fra macchie rogge e nerastre su per i muri scalcinati. Per tutta la strada non c’era anima viva se non ombre e sbadigli di finestre vuote. Ondavan le campane; il sole non si vedeva più. Lontano, in fondo a un vicoletto, passò un fanciullo e si udì il suono della sua nunnola, poi si udì cantare una donna da qualche cortile e s’udì anche il rotolìo di un carro; ma tali suoni morirono come il fumo che sale e si fa di cielo per disparire. E le nonne andavan di passo uguale, a fianco a fianco, guardando la terra. Due tenevan le mani aggroppate sotto lo scialle, la terza aveva la corona. Non parlavano; Vespero le immutiva e le ricordanze. Erano già presso la chiesa, al pesante coltrone che ne chiudeva l’entrata. Un vecchio giaceva sulla soglia, immobile, la faccia levata all’alto e le braccia abbandonate fra le ginocchia. Non si vedeva la sua infermità; pareva fosse tutto perduto in Dio, anima e cuore, tanto era fermo il suo volto nel silenzio dell’ora. Come giunsero alla chiesa, furon rideste dalla voce lamentosa dell’infermo: — Fate la carità, creature di Dio! E una d’esse si fermò ad esaudire la domanda, poi, a passo lieve, a volta a volta, scomparvero nella chiesa e il coltrone si appesantì su l’ombra. Così tutte le sere, come il giorno mancava, entravano nella remota chiesa della piccola città provinciale ed ivi restavano finchè non fosse sopraggiunta la notte con le sue stelle. Allora si toglievano dagli inginocchiatoi e, a passo lento, l’anima ad un solo pensiero, parlucchiando appena, rifacevan la strada l’una a fianco dell’altra, chiuse nei loro scialli neri, all’antica, le mani aggroppate sotto lo scialle. Poi ad una piazzetta si soffermavano tutte tre inchine e intorno c’era qualche raro passante; si scambiavano l’augurio consueto con un leggero rammarichio nella voce: — Buonasera Pasquina! — Buonasera Concetta! — Buonasera Fortunata! — Buonasera! E ognuna se ne tornava sola, lungo i muri, alla sua piccola casa. Così fin che il giorno non risorgesse, fin che la sera non ritornasse con la salutazione angelica. E tutti le sapevano, in città, e tutti le chiamavan le nonne, per dolcezza. Per dolcezza solamente, perchè la gioia di sentirsi rinascere nei figli dei figli, di lasciar qualcosa della propria anima al tempo, non era stata concessa che ad una fra loro, alla più vecchia, a Fortunata. E il nome suo era sorto dalla sua fortuna. Quando il figliolo di lei ebbe sposato e quando le nacque un nipote, nonna Pasquina e nonna Concetta, che sempre le erano dintorno, le dicevano ad ogni sospiro: — Come siete fortunata! E Fortunata si chiamò. Nessuno la conobbe diversamente nè in casa nè altrove; nè fra i poveri nè fra i ricchi. Erano vecchie, ma vecchie di tanti anni che quasi più nessuno dei loro coetanei sopravviveva; tutto il mondo della loro giovinezza era scomparso da sotto il sole, o permaneva come in un’alba di accorante mestizia, fra le ricordanze più remote, simili a un sogno vissuto appena fra vespero e aurora, inenarrabile. Avevan veduto altri costumi, sapevano altri governi e le persecuzioni e le morti e le battaglie e l’ansito del batticore. Nonna Concetta ricordava le grandi feste che s’eran fatte in città per il passaggio di Pio IX. Allora era giovinetta! e piacente, co’ suoi grand’occhi chiari, pieni di carezzosa mestizia, e i giovani le stavan d’intorno, per l’amore di lei che era desiderato. Era un giorno sereno, con un gran sole e una letizia, diffusa talmente per tutta l’aria, che pareva ne ridesser le case e le torri e ogni opera umana ed ogni cosa del mondo. Ella gioiva come la rondine ebbra di aurora e sentiva la sua giovinezza illuminata, raggiare. Aveva un bel vestito a righe, color di rose, un’acconciatura con certi boccoli morbidi e lucenti che pareva le baciassero il viso sereno e una gran voglia di ridere e di piangere insieme per la commozione che le serrava la gola. Stava a una finestra, sul Corso; tutte le finestre erano gremite di donne, di fanciulli, di bimbi e il Corso era una grande fiumana di gente. I giovani passavano nella via e levavan la faccia a salutare. L’amore passava con loro nella gran luce serena. Quali giornate senza fine! Poi un lungo fremito attraversava la folla. Le voci s’incrociavano, si fondevano crescendo; non eran più una ed una, ma il grido della folla ebbra del suo gran core. — Viene!... Viene!... — Eccolo!... Eccolo!... Molti piangevano e mostravano le lacrime loro senza alcuna vergogna. Ella pure piangeva, ma un pianto di piena dolcezza che non le toglieva il sorriso. Le piccole mani bianche le tremavano come il core. Che avveniva mai? E il grido si espandeva e la folla si stipava sempre più, spessa come le spiche nel campo, agitata da un soffio di ardore. Si udivano squilli di trombe. Poi fu come uno schianto improvviso, nulla più valse a trattenere il turbine delle genti. Erano apparse le staffette in livrea e una grande berlina ondeggiava in fondo facendosi strada a gran pena. Allora il cuore parve fermarsi; la vita fu sospesa nell’attimo prodigioso. La parola che stava in ogni anima raggiando, ma che non era mai echeggiata a delirio, si liberò, fu gridata a voce di pianto, a voce di gioia. Andò, ritornò, si elevò su da quel crogiuolo di ardore, con l’impeto dei battimani, fra il ritornello degli evviva. E l’uomo pallido, nella sua berlina, s’inchinava e benediceva commosso dalla formidabile commozione del suo popolo, trascinato dall’enorme violenza. Allora ella sentì i singhiozzi serrarle la gola e non sorrise più. Gettò tutti i suoi fiori, a fascio a fascio, e quando più non ne ebbe sul davanzale agitò le piccole bianche mani. La sua voce fu fra le infinite; ma ella sentiva, come tutti sentivano intorno a lei, che non era un uomo che passava, nè un pontefice che si acclamava piangendo, ma un’altra cosa più grande, per la quale era giusto soffrire e morire: l’Italia! — L’Italia che si levava dalla sua secolare sofferenza, purificata e intatta per ricominciar la via. E anche quel giorno era tramontato, ma nel grigio cerchio degli anni splendeva tuttavia come una gemma solitaria. Poi qualcuno ch’ella adorava umilmente e tenacemente era morto a Calatafimi, in battaglia, nelle giornate del prodigio ed ella aveva impallidito come il fiore senza più sole e aveva veduto trascorrere i giorni e gli anni, i mesi e le stagioni senza più nulla domandare, ferma ad un vespero della sua giovinezza e ad una ricordanza di amore e di pianto. Nonna Pasquina aveva saputo più mondo; non era stata, come la compagna sua, il fiore del brolo, la conchiusa malinconia che appena s’illumina di una fuggevole luce. Sposata a un giovane fiero e combattivo, costretto all’esilio in tempi sinistri, era fuggita con lui in Inghilterra, donde era ritornata sola. E anche il destino di lei si era risolto in amarezza. Solo nonna Fortunata era giunta ai suoi novant’anni vedendo serenare i giorni innanzi a lei e compiersi la sua speranza nel tempo. Comunque fosse, la diversità dei destini non le aveva disgiunte. Come andavano insieme ai tempi belli della loro primavera, così si trovavano al vespero, unite. Allora avevan compagno il desiderio, ora il silenzio, per le stesse vie, negli stessi luoghi. Ma il cuor loro era immutato e l’anima senza cruccio. Scendevano, serene, alla porta che non si riapre mai più, declinando con la soavità dell’ombra, nell’amore di Dio. E le genti le sapevano ormai come le cose che sfuggono al tempo ed alla morte, nella loro raccolta umiltà; come le cose sempre vedute, sempre uguali, che dànno al core una pace improvvisa e la nostalgia delle memorie. Quella sera nonna Fortunata era più gaia e gli occhi suoi rendevano splendore. L’allegrezza sua si era comunicata alle compagne, perchè palpitavano di uno stesso bene tutte tre. Nonna Concetta leggeva una lunga lettera e, a quando a quando, si soffermava e le altre con lei. Eran per via, verso la chiesa, come ad ogni vespero. Cantavan le campane, e qualche donna, dagli angusti cortili, cantava d’amore a salutar la sera. Nessuno c’era per la via, come sempre, se non il povero, immobile presso il coltrone, all’oscura soglia del tempio. Nonna Concetta levò il volto di su la lettera e disse: — Che santa creatura! Fate che ci ritorni, Signore! E nonna Fortunata: — Avete letto, eh?... Belle prodezze davvero! Va a cercar tutti gli arrischi! — Sempre uguale! — soggiunse nonna Pasquina. Percorsero un altro tratto di via, in silenzio, e non si udì che il loro scarpicciare sull’acciottolato. Poi nonna Pasquina si fermò e le compagne si fermarono con lei e la guardarono. — Com’è lontano! — disse Pasquina. E Fortunata: — Dove sarà mai questo Tripoli? Nonna Concetta sospirò e soggiunse: — Dicono sia di là dal mare! Ripresero il cammino scuotendo il capo. Fortunata ripiegò la lettera che nascose fra le vesti, sul seno. Poi riudirono l’invocazione del povero: — Fate la santa carità, creature di Dio! E il coltrone si appesantì su l’ombra. Quella sera pregarono più fervidamente, inchine su lo stesso inginocchiatoio, innanzi a un altare propiziato da una lampada scialba. Nè l’una si addiede dell’altra, nè scambiaron parole sommesse come solevano a quando a quando, fra una prece e l’altra, sì come un pensiero estraneo irrompeva subitamente a turbare il santo raccoglimento. Non seppero di cose umane se non quella che premeva loro sul cuore giganteggiando ed oltre quella fu lo spazio e la gloria di Dio. Nè le scarne ginocchia provarono stanchezza per la lunga ora della sosta. La sera era morta ed esse erano ancora su la panca antica, innanzi al solitario altare; erano nate tutte le stelle nella gran notte e le nonne sognavano e pregavano senza mutar parola, sperdute nella immensità divina. Senonchè quel che di più dolcemente umano animava il loro mondo pallido di anime stanche, si univa all’immagine di Dio e come nasce il canto per l’umida serenità del mattino, nasceva la ricordanza dall’anima memore. Ed esse si vedevano sole: Concetta e Pasquina, e già era trascorso il tempo di sperare, chè ogni anno accresceva il carico grave e giovinezza era lontana. Aspettavano di morire solamente. Una scialba inerzia era sul mondo e sul cuore degli uomini; non v’era intorno che un fiacco abbandono. A quando a quando le campane suonavano a morto e la voce triste correva di casa in casa e si faceva un nome. Un altro di quelli che erano stati giovani con loro aveva compiuto il transito. E pareva morisse così anche il ricordo di tutto il palpitare e del combattere e del vivere d’ardore dei giorni purpurei dei trionfi. Il mondo era sempre più squallido, impoverito come la terra abbandonata. Si vedevan più di rado. Nonna Fortunata andava a cercarle a quando a quando per condurle con sè o in chiesa o negli orti, ma esse pregavano Iddio che le togliesse dal mondo. Erano vecchie, sgagliardite e nessuno era intorno alla loro madia. Ma un giorno nonna Fortunata andò a loro col viso acceso di gaiezza e come le vide, disse: — Il fiore che non si vuole, nasce nell’orto! Nonna Concetta e nonna Pasquina si rivolsero a lei. Fortunata soggiunse: — Non sapete? Il mio Giovanni ha avuto un figlio! E pensare che non lo desiderava! — Sarà contento! — dissero a una voce Concetta e Pasquina. — Ora sì! Allora parve che nella solitudine di tanta vecchiaia nascesse d’improvviso un’aurora; parve che dalla castità del cielo scendesse il canto dell’allodola mattutina. La gioia di nonna Fortunata fu la gioia delle compagne sue e incominciò da quel giorno una vita inattesa. Il nuovo venuto s’ebbe in battesimo il nome di Donato, e s’ebbe fin da’ suoi primi giorni, l’amore delle tre nonne. Visse con loro più che con sua madre e non conobbe mai il cruccio di un desiderio insoddisfatto. L’arida vita delle nonne si inalbò per la vita di quel bimbo e nell’unico lume si sentirono tutte tre sorelle. Erano sempre insieme, sempre con lui: in chiesa, nei prati, nei piccoli cortili delle loro case modeste. Egli s’ebbe quel che avevan loro, distrusse ciò che gli piacque, senza veder mai sul loro volto, se non un sorriso. Così crebbe in amore, bello e forte, ed esse lo videro tramutare adorando e quando più non poterono seguirlo, lo benedissero ugualmente e il loro pensiero vigile non lo abbandonò mai nelle sue venture di giovane ardito. Anzi piacque loro la sua virilità gagliarda che non si umiliava ma si imponeva per dominio; piacque loro quel poco di scapestrataggine che lo faceva più giovine e più uomo e più ricco di ardore, e l’aspettavan su la soglia al volgere della sera, quando giungeva a salutarle, perchè allora, e allora solo, le piccole squallide case parea si accendessero tutte quante. Rinascevano adorando. Così fino al giorno in cui, essendo egli sotto l’armi, tanto aveva tempestato finchè non l’avevan fatto partire per la guerra. Quel giorno le tre nonne non avevano avuto querele. Ricordavano altre partenze, altre ansie uguali. Solo nonna Fortunata gli aveva detto: — Bambino mio, non fare più di ciò che devi! E nonna Pasquina, più sottovoce: — Cerca d’esser tranquillo, figliolo! Non sprecare il tuo coraggio! E nonna Concetta l’aveva tratto in disparte e aveva fatto cenno di volergli parlare da sola, all’orecchio, e quand’egli fu chino innanzi alla bocca di lei che tremava, ella, con un filo di voce, per non piangere, disse: — Quando ritornerai ti darò quella medaglia d’oro.... sai?... quella di Calatafimi.... che non fu portata mai!... Poi volse la faccia altrove e non rispose a ciò ch’egli disse. Troppo ricordava un’altra partenza. Ma quando il treno fu in moto rimasero ferme tutte tre sotto la tettoia ad agitar le mani fin che lo videro ed egli andò con quella gran luce nel cuore. * Avevano ancora, nell’arca, i loro scialli di Ternò, a quattro doppi, tutti frangiati e da tanto tempo non li portavano più perchè bastava loro l’umiltà dello scialluccio nero nel quale si imbacuccavano a nascondersi, quasi vergognose di farsi vedere tanto vecchie; ma quel giorno ognuna, senza saper dell’altra, aveva voluto trarre dall’arca lo scialle di Ternò, per farsi bella. Nonna Pasquina mentre si adornava così, gettando talvolta una fuggevole occhiata nel vecchio inutile specchio verdastro, si era sorpresa a cantare una canzone dei tempi andati, semplice e grande; e cercava le spille e dimenticava dove fossero, e tutto dimenticava nella fretta, fermandosi a mezzo di un atto, senza saper più cosa fare. Si sperdeva, si obliava dietro un sogno, dietro un ricordo illuminato dalla gran gioia del presente. Aveva aperto le piccole finestre che davano sull’angustissimo giardino della sua casetta. Un giardino da bimbi dove anche poteva stare una vecchia col suo cuore pieno di ricordanze. Era maggio; c’era un sole tiepido che svegliava ogni vena; si udiva un grande brusìo per la strada che passava al di là di un muro. Il sole si era disteso sul pavimento, era salito sul postergale del letto fin su le coltri, pareva giuocasse con tutti i suoi pulviscoli d’oro e la stanza era un rifugio di luce. Nonna Pasquina cantava. Che ore erano? Guardò la vecchia pendola, ma si era ferma. La sera innanzi aveva dimenticato di caricarla. Era sbalordita, tanto sbalordita che aveva sognato di avere diciotto anni e aveva sognato tante altre cose che, a confessarle, una vecchia come lei avrebbe dovuto arrossire. Epperò ne era turbata, a volte, allorchè la visione le si ripresentava più chiara; scuoteva il capo sorridendo. Ed ecco non sapeva più a che punto rifarsi per compire l’abbigliamento suo e s’imbizziva finchè il ritornello della canzone tanto vecchia, quanto la vita sua, non le tornasse alle labbra. E cantava e s’obliava. Avevan bussato alla porta? Era forse Fortunata?... Stava in orecchio, non udiva nulla; udiva il grande brusìo della strada e il cuore le si stringeva tutto quanto e la gola anche. Una volta si sorprese a ridere ma di un riso tanto strano che, se non si fosse frenata a tempo, avrebbe finito col piangere. Poi guardò nel giardino l’aiuola delle violacciocche e pensò di farne un gran fascio. Bisognava spicciarsi, chè Fortunata sarebbe giunta da un momento all’altro; e girava e anfanava, dispersa nella luce del mattino e dell’anima sua. Poi giunse Fortunata e ristette sulla soglia. Anche Fortunata aveva lo scialle di Ternò e un vestito di raso a pieghe a pieghe, che pareva abbrividisse dal freddo, e i guanti. Si fermò sulla soglia. Era un poco pallida; domandò: — Non siete pronta? — Eccomi! Eccomi! Ora nonna Pasquina si affrettava per davvero. — Dov’è Concetta? — Non è con voi? — domandò nonna Pasquina. — Io non l’ho veduta! — Neanche io. — Forse la troveremo per via. E Pasquina fu pronta. Prese i guanti, anche quelli erano vecchi e piangevano per il lungo abbandono; gettò un’occhiata intorno, si avviò che già nonna Fortunata l’aveva preceduta. Quando fu per le scale esclamò: — E le mie violacciocche? — Quali violacciocche? — Quelle che volevo portargli! — Gliele darete dopo; ora non c’è tempo, andiamo. E svoltaron pei vicoli per sfuggire la folla, per non vedere, per non commuoversi troppo. Poi si vergognavano del loro abbigliamento; la loro consueta umiltà ne era ferita. Nonna Fortunata, tra per vincer l’emozione e per timore di avere esagerato nell’eleganza, si era aggrottata in volto e non parlava. Nonna Pasquina era troppo sperduta ne’ suoi pensieri per dir parola. Si tennero per le vie più deserte, giunsero alla stazione quasi di soppiatto e quando si trovaron d’improvviso fra la folla acclamante, fra il tempestar dell’urla e delle musiche, in quell’arruffio di gente che pareva fuori di senno, tanto era trascinata dall’orgasmo, non seppero più nè avanzare nè fermarsi, si lasciaron trasportare nel rigurgito, senza opporre resistenza nessuna. Poi non seppero spiegarsi ciò che avvenne; si videro ferme in un angolo della stazione, addossate ad un muro, le vesti sgualcite, sole, ma contente, ma liete di una grande gioia come se la giovinezza loro fosse ritornata e con lei i giorni della gloria. Donato le trovò in quell’angolo; le sorprese come due estranee, ignare di tutto; se le portò via nel turbine della gioia come in un trionfo d’amore e le due candide vecchie lasciaron fare, il volto rorido di lacrime. Poi corse un nome fra loro: — E Concetta? — Dov’è Concetta? — Andiamo, andiamo, ci aspetterà. La vettura divorò la via, passò fra le acclamazioni frenetiche, svoltò per le strade del silenzio. La porta era socchiusa. Donato si precipitò su per le scale gridando: — Concetta?... Nonna Concetta mia?... Ma nessuno rispose. Ristette all’uscio del ripiano. — Non c’è! — disse rivolto a nonna Fortunata. Entra, — rispose la vecchia. Come l’uscio fu aperto non la videro. — È uscita! — dissero. — Ti cercherà! Ma Donato si fermò di repente innanzi a una poltrona, rivolta alla finestra del cortile, e disse sottovoce, sbiancando: — Nonna Concetta! Le compagne si accostarono. Ella era seduta là, più bianca de’ suoi lini, contro il poco sole che illuminava un muro del cortile. Aveva su le ginocchia uno scialle, una veste antica color di rose, un po’ di fiori secchi, un astuccio. E le mani scarne tremavano e così la pallida bocca. Non era più lume in quel viso se non negli occhi mesti. I tre la guardarono senza parlare. Ella non guardò che Donato e brancicava e voleva dire. Per la squallida stanza era una pallida luce e non si udiva rumore. Poi il giovine le cadde di peso ai ginocchi, stette prono innanzi a lei. Allora l’angoscia della lenta agonia si accrebbe, non per la morte che era attesa e benedetta, ma per il costretto silenzio. Pareva che la gran pietra fosse calata per sempre ed ella dovesse partire così nella sua malinconia, senza poter dire la santa parola; ma Iddio le fu misericorde. Ed ecco che essi la videro levarsi; ecco che riudiron l’eco della voce dispenta: — Prendi.... bambino.... tienila per mio ricordo! È la medaglia di Calatafimi.... che non fu mai portata.... non te ne separare.... che è santa! E la pallida faccia malinconica si illuminò di una gran luce; più non parlò: vide e gioì nella sua morte, vide e gioì per l’ombra del suo lontano amore che riviveva in quell’ora, nell’anima sua moritura e nella giovinezza d’Italia. La vela nera. “_Per l’ignota e tenace masnada che mantenne viva, negli anni più oscuri, la tradizione italica fra gli imbestialiti montoni delle opposte sponde._„ _Pochi sanno delle navi e degli uomini tenaci che vanno per l’Adriatico. I piccoli porti, fra le lunghe palizzate, sono pressochè ignoti, si aprono nel silenzio delle terre estreme dove non passa la nostra fiumana._ _Una gente antica vi si perpetua. Il nome di Venezia e il cuore della città grande vi sopravvivono. È una forza invincibile di razza di cui l’Italia si illumina. Là i fanciulli battono le vie degli avi, sul mare, approdano alle stesse terre su le opposte sponde e scacciati vi ritornano e combattuti non cedono._ _Ogni porto ha un paese, una chiesa e una tradizione._ _I paesi son tutti di casipole dai colori vivaci, distese sui due lati del canale e si adornano di ampi camini ed hanno una piccola porta dischiusa all’ospite ed al viandante. Iddio vi dimora._ _Chi entra trova volti sereni e cuori grandi. Quello che dà la madia è per i figli e per l’ospite. E tutto ciò che l’anima ha di sereno vi si irradia. Case di uomini miti coi fratelli loro che vanno per il mondo nella volontà del Signore. Il mare insegna due cose ai navigatori: il silenzio e la bontà._ _La chiesa è povera, ha la modestia del luogo; una sola arcata, un solo altare. Poco basta all’amore di Dio._ _Tre campane che s’odono dal mare, da molto lontano sul mare; una soglia erbita; un coltrone roggio che ha il colore delle vele, che par fatto da una vela vecchia e chiude il vano della porta e spenge gli scarsi rumori e la luce troppo viva. Un raccoglimento discreto è fra le mura scialbe in cui si serrano in fila gli ex-voto. Giungono le donne sole a pregare in silenzio e i fanciulli che reclinano la testa scoperta. E chi parte non fa rumore e chi entra si inchina. Su l’altare non brillano che due ceri; due soli ceri color del miele._ _La tradizione è sacra come la famiglia e la nave e l’amore dei figli ed il pane. È il cuor della razza. Nessuno dimentica. Le parole dei padri e degli avi son parole di Vangelo; i loro costumi fanno legge; il loro ardimento è il segno verso il quale tendono e si avviano i giovani._ _Chi abbandona il mare è abbandonato a sua volta, esce dalla famiglia marinara, va ramingo fra gente diversa; chi non segue i segni delle stelle, che conducono all’opposta sponda, non è riconosciuto di buona tempra; chi non affronta ogni tempesta è vile._ _Leggi invariabili e secolari. Furono forse prima che Venezia fosse e le sopravvivono. Le tempeste non tramutano le grandi correnti del mare. La storia sottostà alla forza delle genti. Le maggiori virtù, come le aristocrazie, salgono dal cuore dei popoli saldi e taciturni._ _E questa stirpe chiusa fra gli estuari, distesa e sperduta lungo le coste piatte, là dove la nostra curiosità non giunge, coltiva da secoli una virtù di eroismo; forma un’aristocrazia del mare._ _L’Italia le deve il sopravvivere del suo nome e della sua lingua e della sua forza di civiltà per molte terre nelle quali il suo nome la sua lingua e la sua civiltà sarebbero dimenticate da anni. Sono le singole virtù delle varie stirpi unite a un sol ceppo che fanno grandi le nazioni._ Come il vento parve forzasse da poppa, Paròn Zorzi gridò: — Issa! Issa! Titta-Nane e Bepi s’attaccarono alle corde della vela maestra, che si levò contro il cielo. Annottava. C’era per l’aria, sotto la prima stella, un colore di vene e di ametiste, un color vago, trasfuso di gamma in gamma e come una cintura d’acciaio brunito fasciava l’estremo limite del cielo. Aperta che fu la gran vela nera, la tartana scivolò al suo viaggio per il mare taciturno. Governava al timone Paròn Zorzi. La terra si perdeva co’ suoi lumi scialbi. Eran sette a bordo: il mozzo, il _murrachin_ e i quattro figli di Paròn Zorzi. Nascevan le prime costellazioni. Quando apparve la stella incatenata, il vecchio levò il capo a misurare con sicura certezza la via da seguire e fatto ch’ebbe il calcolo e tracciata l’ideal scìa dal cielo al confine del mare piegò la prora a levante ad un nuovo segno di stelle, poi chiamò: — Fortunato? Alla voce uscì dalla stiva un giovane in capelli, diritto come l’antenna maestra. Domandò: — Che volete? — Sta al timone tu, ch’io vado a preparar la cena. — C’è Zuane al _focone_. Il vecchio non rispose, guardava il cielo. — Tienti alla stella rossa, là, sul levante e non sbandare! Fortunato si levò presso il timone e rispose: — Andate, babbo. Il mare era come uno specchio di eternità ai piccoli occhi degli uomini. Paròn Zorzi si avviò, la fronte levata alle stelle; poi come fu presso il boccaporto sostò un attimo e disparve. Allora Gugùll, che s’era accosciato sulla prora fra i cordami, presso il ceppo dell’ancora, guizzò dal suo rifugio, presto e leggero, attraversò la coperta, fu a fianco di Fortunato. Chiese: — Che t’ha detto Paròn Zorzi? — Niente! — rispose Fortunato. — Ma dove andiamo? — Alla malora! Gugùll, il mozzo, finse di non aver inteso. Riprese: — Staremo molti giorni in mare? — Il tempo di farti rinsavire. N’ebbe a giusta misura. Come s’addiede che Fortunato non avrebbe soddisfatto in alcun modo la curiosità che lo cuoceva si avviò lentamente presso la murata guardando qualche scialbo bagliore sul mare tranquillo. Ma come fu al boccaporto e stava per discendere sotto coperta, in quel che poneva il piede sul primo grado della ripida scaletta, gli apparve innanzi Toni, il _murrachin_. Era questi un fanciullo di dodici anni, un’aquiletta rapace, astuta e di tranquilla apparenza, che nascondeva, sotto il più chiaro volto di giovinezza, un’anima fierissima. Poi che si scontrarono, Gugùll domandò: — Dove vai? Toni si strinse nelle spalle e non rispose. — Non è pronta la cena? Toni rispose con una smorfia ambigua. — È giù Paròn Zorzi? — Sì. — Parlano? — Sì. — Che dicono? — Va a sentire. — Sai dove si vada? — Mah! — Tu non sai nulla? Non hai udito nulla? Allora Toni sorrise e disse: — Paròn Zorzi insegna che ciò che s’ode a bordo dev’essere per noi come un uccello che entra per una finestra ed esce per l’altra! Gugùll ebbe un atto d’impazienza. — Bè! E tu chiudi le finestre e dimmi quello che sai. — Che può sapere un povero _murrachin_? Fra me e Pomi non c’è differenza! Solo Pomi può dormire più di me perchè è un cane! Trascorse una pausa. Toni guardò giù per la scaletta, poi spense la voce e disse: — Andiamo a prua? — Andiamo! Scalzi com’erano attraversarono la coperta in tutto silenzio. Fortunato non li guardò. Come furono fra i cordami della prua Toni s’allungò e, puntati i cubiti sul bordo della nave, abbandonò la faccia fra le palme, fisso su l’infinita oscurità. — Bè? — fece Gugùll. Il vento forzava. Si udiva cantar l’acqua sotto la prora. E Toni disse: — Paròn Zorzi naviga a vendetta! — Eh?... — Ha detto a Titta-Nane: Figliuolo, questa volta non si ritorna se non col morto! — Andiamo laggiù? — Pare! — E se ci prendono? — Chi? — I turchi! — Senti. Paròn Zorzi ha saputo dal figlio suo che è a Taranto, ha saputo che c’è stata battaglia. I turchi le han prese. — Da chi? — Da noi. — Bene! — E ora Paròn Zorzi vuol fare il resto! — E che può fare? — Non so. Ha giurato di lasciarci l’anima o di portarsi via il suo morto! — E gli altri? — Chi?... I figliuoli? — Hanno giurato con lui. Si erano chiusi sotto coperta. Io era nel _trenta_ e li ho uditi. Ritornò il silenzio. Distesi l’un presso l’altro, il giovinetto e il fanciullo guardavano l’ombra. Gugùll ascoltava il vento che vola o dorme nel cuore dei nicchi, e ne sentiva la carezza fra i capelli gremiti, tutti crespi e azzollati in una bella scompostezza. La sua faccia bruna era immobile come gli occhi suoi larghi sul vuoto e come l’anima sua. — Di’, sai che cosa ha scritto Momi? — chiese Gugùll a un tratto. — No, — rispose Toni. — Non sai dove abbiamo combattuto? — Verso l’Epiro. Si vedevan le stelle tremare in vene di lucore come in un alternato giuoco di balzi, su l’onde. — È giusto, — riprese Gugùll. — E bisognerebbe andare cento miglia dentro terra a punire quella razza cane. — Anche mio padre è morto laggiù! — disse Toni. — Tuo padre? — La mamma mi ha dato questo.... guarda! Ed io ho fatto la croce sulla porta di casa, nel nome di Cristo! Si udì lo schiocco di un coltello a serramanico. — E che vuoi fare? Toni alzò una spalla e ripose il coltello fra il petto e la maglia. Poi strinse le mascelle e s’infoschì, tutto aggrottato nel suo corruccio. Inclinata da banda, per l’impeto sempre più forte del vento, la tartana procedeva come una freccia al suo punto e la gran vela nera cricchiava fra l’albero e i cordami. * Andarono senza approdare, tenendosi al largo, dove il mare sconfina ogni intorno. E il vento non tramontò, anzi li sospinse, uguale e costante, alla costa remota dove l’un dei loro riposava da tempo nella sua veste di stamigna. Paròn Zorzi e i suoi quattro figlioli guidarono la tartana a turno, ma più tenne il governo il vecchio, ch’era di tempra salda e sapeva il mare come la sua mano nocchieruta. Il tempo era in chiarore, sempre sereno fra i due vesperi. Ora un giorno Paròn Zorzi stava appoggiato alla barra del timone, chiuso nella sua maglia, a capo scoperto, e suo figlio Dore gli giaceva ai piedi. La nave filava piana fra le meduse lionate, galleggianti intorno. E Dore, ch’era il più giovane fra i quattro fratelli, appoggiato alla murata pareva dormicchiasse o sognasse co’ grand’occhi turchini, or socchiusi, ora aperti contro il cielo. Tacevano. Il vecchio seguiva un suo tumulto interiore; il giovane, la eco di un’albata, a gioconda serenità, sotto una tacita casa, fra le stelle smorte. Ora avvenne che le due anime si dipartissero da opposti pensieri per ricongiungersi, nel silenzio, ad un punto, e quando Paròn Zorzi parlò, Dore già lo ascoltava. — Se il vento non falla, stanotte arriveremo, — disse il vecchio. — Tenetevi pronti. Si appoggiò alla barra, rettificò la rotta. — Scenderemo in un punto deserto della spiaggia, presso il paese. Gugùll e Toni rimarranno a guardia della tartana. Sono anime perdute, staranno all’erta. Noi andremo a prendere il nostro morto. È sepolto sotto un muro, a tre chilometri dalla spiaggia. Ti senti core di venir con noi? Dore rispose: — Sì, babbo! — Bene. Ricorda che a scappare si volta le spalle, ma a ritornare si mostra la faccia. Hai la tua doppietta? — Sì. È nel _trenta_, fra la legna. — Bè, la prenderai. Non bisogna andar come agnelli. Una volta, quando i nostri nonni comandavano era un affare diverso, ora comandan loro e non vorrebbero vederci vivi. E noi si ritorna! Anche se tu ne ammazzi mille e duemila, i germani ripasseranno tutti gli anni, alla stessa stagione, per le stesse vie del cielo. È destino! Ci vorrebbero morti e incendiate le nostre tartane, ma hanno bisogno di noi e parlano la lingua nostra. Poi, mettili in una nave e andranno a picco. Chi governa? Chi sa le parole delle stelle e la via delle correnti? Noi abbiamo dietro noi l’angelo d’oro su la città grande, e nel cuor nostro il Signore e la nostra via l’abbiam battuta in centomila in tutti i tempi. Non navighi una lega che tu non passi sopra ai nostri morti che son nel fondo. E dove sono i tuoi morti è il tuo diritto! Se appicchi il fuoco a una vela ne voleranno mille sul mare; se affondi una tartana, ne vedrai navigare diecimila. L’angelo caduto risorgerà sulla sua cima in mezzo al cuore del mare. È destino. Dice: — Perchè ritorni se ti fan guerra?... — Perchè è sempre stato così e basta! Io ho lasciato laggiù il mio figlio grande, che era di quelli che comandano, un uomo che aveva dieci cuori per la sua sola vita; che, se lo guardavi, gli occhi ti si atterravano.... l’ho lasciato laggiù, e ritorno! Ebbene, ora se mi dicessero che sarà la volta mia e la tua e quella de’ tuoi fratelli, ritornerei ugualmente! Parlava guardando innanzi a sè come a uno spirito invisibile, eretto e grande nella piana marina e il suo volto, ch’era di bronzo, corso da solchi profondi, fino agli occhi e alla fronte, fino alla bocca sottile, fino al collo ignudo, il suo volto era fermo sul tumulto interiore come una maschera impassibile scolpita a fierezza. Faccia glabra di navigatore, indurita in ogni più grande travaglio, coronata tuttavia dai capelli bianchi, intorno all’alta fronte. La vecchiaia l’aveva ornata come di un fregio di serenità. Più era bella quanto più appariva segnata dal tempo, chè nulla in lei si afflosciva e la querula miseria degli anni non iscalzava l’anima sua. Dore sentì il commovimento del vecchio e levò quei suoi grand’occhi di Iddio sereno e il volto tutto bello ed effuso di luce ad ascoltare. La parola era prossima, egli la sentiva salire dal silenzio come la bolla affiora l’acqua immobile e la stella il suo cielo. — Vedi, — riprese Paròn Zorzi, — l’ultima volta avevam finito. Si ritornava senza guardar nè a destra nè a sinistra, diritti e soli per la nostra via. “Ci gridavan vituperi dalle porte e dalle strade e noi zitti; ci minacciavan di morte, insultavan la nostra terra e la gente nostra e noi pazienti, senza ridere e senza parlare come chi s’è fatto tutto quanto di marmo. “Eravamo soliti a ciò; era la buona accoglienza di quei cani. Ma quella volta si andò oltre la misura. Uno ce n’era, che l’anima sua sia dannata in eterno, un vigliacco rinnegato che aveva un nome dei nostri e parlava come noi. E per farsi bello e mostrare la devozione sua a coloro che lo soffrivano, ci seguiva da presso ghignando e bestemmiando. Ma si era detto e si era fermato il patto di non udire. Però quella volta fu troppo. Angelo veniva ultimo fra noi. Camminava guardando la terra. A un tratto, ecco che il rinnegato gli si accosta, e dietro a lui c’erano i compari. Gli si accosta e gli dà un urtone tale che Angelo ci piomba addosso, sotto la spinta. I compari ridevano a burla. Allora Angelo si volge, ed apre il suo coltello. Ê un momento. Guarda, s’inchina, piomba addosso al rinnegato e l’ammazza. Gli altri si sbandano urlando, ma ritornano duplicati. S’ode gridare: “Morte! Morte!...„ E ci si fan sopra armati d’ogni arme. Angelo li affronta da solo. Lo vedo menar giù colpi su colpi. Non si difende, tempesta. E non lo toccano. Hanno paura di lui. È un miracolo. Titta-Nanni mi grida: — _Vardè, pare, el leon de San Marco!_ — Alzo gli occhi. È là.... sul muro, sopra la sua testa. Mi pare sia la salvezza, ma in quel punto un turco gli si accosta di fianco e gli spara. Lo vedo levarsi con la faccia insanguinata e morire.„ Trascorse un silenzio d’angoscia in cui il respiro del vecchio si udì più forte. — Da quell’ora — riprese — ho sempre qua dentro le parole del Signore: — Avanti che il gallo canti due volte, tu mi rinnegherai tre volte. — E lo rinnegammo tre volte, per salvarci. Iddio ci perdoni! Detto questo, si rivolse con la faccia contro il mare, e si mise a piangere. * E la tartana dalla vela nera portò con sè il cuore di tutti i navigatori dell’estuario; il desiderio di un’antica razza tenace che venera la memoria della grandezza passata come una sacra sindone. Poichè non v’è uomo di mare, fra le foci del Po e le foci del Tagliamento, il quale non ricordi. Come la terra fu in vista, Paròn Zorzi chiamò i figliuoli suoi sopra coperta e disse loro: — Figliuoli, preparatevi; ora dobbiamo esser forti. E se dobbiamo morire moriremo, ma a bordo non si ritorna a mani vuote. E la cosa piacque ai giovani adusti. Poi chiamò il mozzo e il _murrachin_ e disse loro: — Voi starete a guardia della tartana fin che non torneremo. Ora la terra si avvicinava sempre più, nera ed uniforme. Era la notte. Appena si intravvedevano i dorsi delle montagne altissime. Avevano doppiato Corfù, navigavano lungo l’aspra costa che si svolge tra Parga e Prevesa. Erano più presso a quest’ultima. E non appariva alcun lume nè dal mare nè dalla terra; solo, lontanissimamente, forse sul dorso di una montagna, un’esigua fiamma appariva e dispariva come se fosse in via verso i sentieri altissimi. Il mare era quieto. Dalla prossima città non giungeva nè luce nè suono. Gli uomini vegliavano protesi dai bordi sull’ombra. Il _murrachin_ s’era inerpicato fra le corde fino alla cima dell’albero maestro e di lassù scrutava lo spazio. — _Che vidistu?_ — gli gridò Paròn Zorzi. — Niente! — rispose il fanciullo. S’udiva già il rompersi del mare alla spiaggia. E i quattro fratelli cercavano un bagliore per l’oscurità, perchè non era possibile che in tutta Prevesa non fosse una sola luce. — _Ciò, i la ga spianada!... No ghe resta niente!_ — mormorò Titta-Nane. Gli altri non fiatarono. Ora la tartana piegava obliquamente verso un punto della riva. La notte era senza nubi, ma oscura; propizia a quel discendere furtivo. Paròn Zorzi non ebbe incertezze su la scelta dell’approdo; conosceva le coste dell’Epiro come le bocche del Lido. Le scolte furono sciolte, le vele si allentarono e l’àncora fu gettata. La tartana si arrestò ondulando. Allora gli uomini discesero sotto coperta, ne ritornarono armati e, ad uno ad uno, si calarono giù dal bordo, nel mare. Dovevano attraversare un breve tratto con l’acqua alla cintola. Tennero il fucile alto sul capo e procedettero finchè si persero nell’oscurità. Quando furon dileguati Toni discese dall’albero della maestra. Gugùll era ritto sulla prora e non gli pose mente. Allora il fanciullo scivolò presso il bordo e scomparve a sua volta. E i navigatori camminarono per le note vie e tutto era deserto. Mute le rare case, vuoti i sentieri impervi. La strada era lunga. Dovevano superare un colle, discendere dall’altra banda per evitare la città. Andarono l’un dietro l’altro, incurvi, con piedi d’ombra nella gran notte. I loro occhi si affissavano immobili a scrutar la tenebra. A un tratto un cane uggiolò, abbaiò furiosamente dalla strada percorsa. Si fermarono perplessi, rivolgendosi. Udirono come se qualcuno si rimovesse dietro loro e già stavano per spianare i fucili quando tutto tacque. Solo si udì un bussa di piedi nudi sulla nuda terra, il ritmo di una corsa affannosa. Titta-Nane si acquattò dietro un cespuglio e attese; ma anche quel suono dileguò e non si udì più nulla su la terra misteriosa. Proseguirono. Paròn Zorzi volle esser primo. Gli fu obbedito. Andarono per l’aspro colle come salissero verso gli astri, nel profondo. E quando furono sulla cima, si fermarono. Sotto di loro era la città e il porto, ma ancora non videro un chiarore. Tutto era affondato nell’ombra più densa, sotto la faccia della notte. Che nascondeva mai quell’oscurità? L’agguato o la rovina? Poco importava. Essi dovevano giungere al luogo prefisso. Paròn Zorzi fissò gli occhi all’alto e lesse fra le stelle l’ora della notte, poi si mise giù per sentieri dell’altra china. Due volte ancora si fermarono, chè parve loro di riudire il busso dei piedi nudi su la nuda terra; ma come stavano all’ascolto, ecco, tutto taceva. Avevan le vanghe ad armacollo e il capo scoperto e su le spalle il fucile. Il colle fu superato, si trovavan ora innanzi una lunga teoria di case, l’una presso l’altra, tutte uguali, mute ed oscure. Chi dormiva o moriva dietro le piccole porte, sotto le terrazze anguste? Sembravano una fila di pecore, ferme nel cuor della notte, spaurite. Passaron oltre. Conveniva affrettarsi. Prima che fosse l’alba dovevan riprendere il largo, col loro carico. Videro un minareto lontano; incontrarono una torma di cani selvatici. Procedevano affiancati, il fucile proteso, pronti ad ogni sorpresa: ma il sonno delle creature pareva uguale e profondo come la notte. Poi Zuane affrettò il passo e Paròn Zorzi lo superò. Percorsero l’ultimo tratto correndo. Quando giunsero sotto un alto muro rossigno, diverso da ogni altra costruzione intorno perchè elevato dai nonni dei loro nonni in quel luogo, nel nome di Venezia, Paròn Zorzi si fermò e disse: — È qui! C’era una piccola croce segnata sul muro, sotto il leone di San Marco. Paròn Zorzi prese la vanga e dette il primo colpo, gli altri lo seguirono. La terra si accumulava, era già un mucchio e il mucchio cresceva. Sotto la vanga non si udiva suono se non quello della terra secca. E non ebbero requie, senza più sostare, incanendosi tutti cinque all’opera furtiva finchè Paròn Zorzi sospirò forte e si levò sul torso. Avevan trovato. Da quel punto l’opera procedette più regolata. In breve la cassa fu libera dal terriccio e fu issata sull’orlo della fossa. Allora, senza prender riposo, Paròn Zorzi, Titta-Nane, Zuane, Fortunato la levaron pei quattro lati e se la posero sulle spalle. Dore andò innanzi. E il corteo taciturno riprese la via del ritorno. Andaron giganteschi nell’ombra e oscuri, come quattro eroi recanti il simulacro di un Dio contro il mistero. Dore vegliava senza fiato, balzando innanzi di forza, ma gli altri procedevano a passo uguale, impassibili. Era discesa nell’anima loro la religiosità della morte, e ne ingigantivano. Nessuna cosa poteva essere più grande e nessuna più bella. Tutto il mondo e tutti gli uomini scomparivano agli occhi loro e il pericolo anche e la scimmiesca paura. Era nel loro cuore la divina grandezza della morte e il senso dell’infinito. Potevan camminare fra le stelle, eterni, come era eterna l’ombra che li incupiva transumanandoli. Non disser parola; anche il loro respiro non si udì, come il passo su la terra. Si avviavano al cammino dell’eternità. E le vie furon deserte. Ripresero il sentiero del colle com’eran giunti, inosservati. E salirono alla cima e discesero per l’altra china. Già si annunziava l’alba, ma appena, per la prima stella. Ora avevan di poco superata l’ultima casa quando udirono dietro di loro una voce, ma il loro cuore non ne tremò. Si udì anche un fracasso di rame stroncate e un urlo. Si fermarono. Dore ritornò sui suoi passi, avanzando col fucile spianato. Gli altri attesero senza sgravar le spalle dal loro peso, fermi ed impassibili. Fu un silenzio. Dore si fermò presso una macchia. Non si udiva più che il bombito del mare vicino e la tartana era là, su le acque. Ma in quella che Dore ritornava e stavan per riprender la via, si udì una voce fievole, come un grido d’angoscia straziante: — _Zorzi?... Zorzi?_... Allora il vecchio sbiancò; disse abbrividendo: — _El murrachin!... Fioi, xe la so vose!_.... I figli non risposero, ma senza comando, per un solo pensiero, deposero il sacro fardello. Titta-Nane si lanciò innanzi; lo seguirono tutti. E in una sosta riudirono la chiamata fievole: _ — Zorzi?... Zorzi?_... — _Dove ti se, Toni?_ — _So qua!... Veni che moro!_ Rifecero di corsa un tratto di via e quando furon sul luogo videro un uomo disteso di traverso sul sentiero e, presso a lui, Toni che rantolava. _ — No ti geri in tartana?_ — _No.... Zorzi! Son vegnù anca mi! Volevo vendicar mio pare!..._ Non chiesero più. Ora capivan le rapide peste nella notte, dietro il loro cammino. Il fanciullo li aveva salvati dall’agguato per compiere la sua vendetta. E andaron con due carichi alla loro tartana, e nessuno li vide e li fermò. Ma quando furon tese le vele, quando l’alba che sbianca innamorando d’amore, dolce di tutta freschezza, fu su la soglia del levante; quando la scìa si riaprì sul mare illuminato, ecco che apparver le navi, le navi d’Italia, nell’alba! Allora il cuore dei raminghi tremò. Un gran brivido li scosse, un gran singulto. Ritti di un balzo su la prora, tutti cinque su l’alta prora, si protesero urlando, acclamando, folli di gioia e l’anima loro era di sole. Ma ancora udirono una voce; ancora un’invocazione giunse loro nel supremo orgoglio che li ingrandiva: _ — Feme veder.... compagni.... feme veder!..._ Era il morituro che implorava. Discesero, lo tolser fra le braccia, lo levaron alto nella novella luce contro la superba visione e un guizzo illuminò quegli occhi di moribondo, un grido eruppe dal suo petto finchè il capo non si reclinò nella morte. Trasvolavan sul mare le grandi navi d’Italia. L’agguato. “Al generale Izzèt Pascià guerriero di molte parole.„ _Isola fiera e bella fra le rupi e la montagna del fuoco; isola dalle cento fontane, dalle mille leggende, sacra ai titani, agli iddii, ai castelli di Saturno, agli armenti del sole, ai popoli favolosi; isola amata come s’ama l’amore negli occhi della giovinezza, chiara più che l’alba, che hai nel tuo favellare e nei canti primevi una bellezza austera; isola madre, per la leggenda che di te corre nel mondo, per il male che ti accascia e per il bene che hai dato e che dai nel fior delle tue genti, che tu sia benedetta!_ _Dolcezza d’Italia, come le tre Iddie tesserono di te una veste di fiori al padre Giove; e come nelle tue viscere giace avvinghiato e sussulta il mostruoso gigante, l’anima tua si assempra in ogni mito soave e in ogni orrore._ _Così l’amore ti inalbi, Sicilia, come il mio cuore ti canta per l’eroica anima tua._ Levata la scure con ambe le mani s’inarcò a colpire più forte, giù per il solco tracciato, lo stipite della palma. Ebbe un gemito e un soffio; il torso si irrigidì ne’ suoi muscoli guizzanti, le braccia si tesero, le salde mani strinsero il manico della scure ancipite e il colpo piombò ben assestato. Volgeva la luce al suo finire. Nello spiazzo vuoto fra le case dirute e i giardini calpesti, Ninu Agghianu era solo. Si udivano da lungi le voci dei compagni alle trincee, e, a quando a quando, un colpo secco e un urlo e uno squillo di trombe. In quel punto l’oasi era sinistramente cupa. La luce radente pareva chiudesse il varco ogni intorno con lo addensarsi delle ombre. I giardini più prossimi si fondevano in una muraglia di agguati, non appariva varco se non fra le braccia delle palme, fra i tronchi scapitozzati contro il cielo. Tre case senza porta, con ampie brecce nei muri, mostravano i loro _patii_ deserti e nei _patii_ cumuli di rovine. Un cane disperso ululò da un chiuso, remotamente e all’ululo del primo altri risposero di distanza in distanza: da tutte le orme della morte fra le palme e le norie. Ninu Agghianu volse intorno la faccia aggrottata. Si udivano fruscii e squassi e colpi sordi all’intorno; si udiva come se qualcuno, andando, si intanasse e incespicasse incurvo fra le spine dei cacti e le radici degli ulivi. La faccia del nemico era oscura ed obliqua, dagli occhi incavernati sotto l’osso frontale. Egli la vedeva come le altre volte, nel numero dei giorni suoi consacrati alla guerra. E vegliava ascoltando, fermo al suo còmpito, senza pensare nè alla morte nè alla salvezza, come colui che vuole, oltre ogni fine, adempiere il dovere destinato. E potevano confondersi, sul morire del giorno, i fruscii dell’insidia con gli altri fruscii che scorrevano per la selva africana all’avvicinarsi dell’ombra periodicamente eterna. Gli innumerevoli voli, lo scivolare di un cane acquattato per la sua paura, un alito d’aria fra i palmizi, un subito cricchiare dalle case vuote traevano in inganno. Il volo di un’upupa, tanto vicina che più non lo è l’ombra al corpo, coglieva di sorpresa e di sobbalzo e per quanto il tonfo del cuore fosse misurato all’impero della fredda volontà, avveniva che a volte si turbasse d’improvviso, per il tempo di un brivido. Comunque fosse, Ninu Agghianu non si affrettava; non misurava l’opera sua col sole menomante, per ritornarsene innanzi che le stelle avessero cinta la radura. Fra due corde tese sul terreno veniva accumulando i ciocchi e si udiva il tonfo reiterato della scure e il gemito della sua fatica. Passò un piccolo soldato dal volto glabro, dalla giovine faccia adusta. Si soffermò per la viottola, una mano stretta alla bandoliera del fucile, guardò. — _A unni vai?_ — gli chiese Ninu Agghianu. — _’A vaju a viju chi dicino a Tripoli!_ — _S’av ’a risittari lu tempu, si voli Diu!_ — _Accussi spiramu!_ Poi l’uno proseguì per la sua istrada e l’altro s’inarcò a scagliar la scure sul legno. L’ombra restringeva il suo cerchio; la radura pareva farsi più angusta di minuto in minuto e il cielo soave era come la rama, che apre i suoi bocci all’alito della notte. Si udì il rotolìo di un carro e un canto troncato dallo schianto improvviso di due colpi secchi. Ninu Agghianu si levò sul torso. Passò un secondo. Altri due colpi e altri scoppiaron più vicini. — _Avi ’a chioviri!_ — mormorò. — _Suli d’ottuviru nun fallisci!_ Poi brandì il fucile e su quello si curvò rimpicciolendo come se tutta la sua vita si trasfondesse nell’arme protesa. Gli occhi suoi corsero intorno rapidi, si aguzzarono contro l’impenetrabilità delle masse vegetali, scrutarono ogni ombra, ebbero scintillii e bagliori. Rannicchiato dietro un tronco di palma girò torno torno quasi carponi e la faccia sua era impassibile, senza pallore, ferma e dura come sbalzata nel basalto. Ma appena s’era incurvo che intravvide una piccola vampata violastra e udì un colpo sordo. Un sibilo traversò l’aria. Ninu Agghianu non rispose; il pericolo lo faceva tranquillo. L’ombra ch’era sempre più scura e lo stipite della palma lo protessero ed egli s’era acquattato sì basso, vicino alle legna, da confondersi con la massa amorfa. Gli stava di fronte l’impenetrabile. Per quanto gli occhi suoi cercassero e si ficcassero per entro ogni ombra, nulla distinguevano: nè una forma, nè un moto, nè un segno infallibile. E non voleva sprecare il colpo. Un colpo sbagliato gli era più acre di una ferita. Gli Agghianu avevano saputo sempre dove colpire con la certezza della morte. Le loro armi non parlavano a vuoto, non eran come la bocca della femmina e del meschino. Attendeva, immobile come il tronco dietro il quale si riparava. Eran nate due stelle, le prime sopra l’ultimo gorgo solare. Un cane scivolò dietro il muro della casa più prossima, si fermò un istante a fiutar l’aria, fuggì arroncigliato. Si udì il suo mugolìo più lungi, poi un silenzio improvviso, grande e tragico come la faccia della notte. Il soldato non si fece illudere dalla sosta: conosceva le insidie, sapeva che fosse attendere per ore, lentissimamente eterne, un passo umano, una voce, il cigolìo di un carro. Un altro colpo scoppiò più vicino, poi qualche rama si mosse. Non era nè il vento nè un volo che avesse prodotto quel moto. Come un brivido era corso per gli alti rami di una gaggia, sul limite di un giardino, verso la Dara. Il segno era preso; la mira, se non precisa, aveva il punto su cui fissarsi. Ora fra il rifugio di Ninu Agghianu e la gaggia del giardino calpesto correva un tratto di terreno non del tutto libero. A sinistra era una casa sventrata con intorno cumuli di rottami e grandi arche nuziali aperte e capovolte; poco più innanzi un sentiero, poi una trincea abbandonata e il folto. Sul principio del folto, presso un muricciuolo coronato da fichi d’india, era la gaggia dietro la quale l’invisibile nemico si era rimosso. Ninu Agghianu non fiatò; la preda sarebbe venuta di per sè stessa ad offrirsi. Un altro colpo schiantò il silenzio crepuscolare. La palla mugolò a due palmi dal capo dell’uomo ricurvo. Poteva darsi che l’arabo lo avesse scorto anche nel suo covo? A chi mirava? Era forse per accertarsi che nessuno più poteva rispondere? Ma a tal punto si udì un fruscio di rami smossi, e prima ancora che Ninu Agghianu avesse puntata l’arme, un uomo saltò giù dal muricciuolo e scomparve nella trincea. Perduto! L’ira gli contorse la faccia. Fu per lanciarsi all’inseguimento e già si era levato dal covo quando udì cantare. Udì cantare una nenia dolce del paese suo: la leggenda di Santo Stanislao. Era Santu che ritornava da Tripoli. Il cuore gli dette un gran tremo. Che sarebbe accaduto ora? Si udiva la voce chiara come l’acqua lustrale e fresca di passione giovanile. Pareva cantasse le strade dei paesi in quel di Girgenti e i cammini dei pecorai e il tocco dei campani e le squille delle pievi fra campi e rovine verso i monti e le valli, dalle frescure alle solfatare d’inferno. _Partiu lu Santu e a Tunisi arrivau_ _E di Gesù la tonica pigghiau...._ Sempre più si avvicinava. Al volger della viottola, nella radura, mancavan pochi passi forse. Apparso l’uomo e troncata una vita, era cosa di un baleno, per il nemico. Ma ciò non doveva essere. La faccia del giovine si era indurita nel segno di una volontà grande e tragica. Conveniva giuocare d’astuzia e di coraggio. Tutto per tutto, vita per vita! Continuava la voce malinconica: _E a Innaro malato si curcau_ _e a Fivraru all’autra vita passau,_ _E la littra a la matri arrivau,_ _Allura dissi: “Mi’ figghiu muriu!„_ Si udì lo scatto di un caricatore; l’arabo si apprestava all’opera. Allora Agghianu balzò dal suo rifugio, si gettò a terra supino, si levò per ripiombare al suolo come se la morte lo cogliesse balenando, ad intervalli fulminei. L’ombra di un capo bendato apparve oltre il riparo, scrutò, riscomparve. Tutto ciò avveniva in una angosciosa rapidità. I veli del crepuscolo s’eran fatti sì tenui, sotto l’impero notturno, che più non erano se non un soffio luminoso, confinato nei lontanissimi cieli. Rise vespero d’oro su l’invisibile deserto, dietro Sidi Mesri. Apparve un primo incerto pallore di stelle. E si udiva il mare, il gran respiro senza tregua, dietro i cacti e le palme e le rovine fumanti. Fu una sosta. Santu non cantava più. Si era taciuto di repente come se la morte l’avesse colto alla gola o egli stesso si fosse proteso in ascolto. I tre uomini stavano senza fiato, raccolti ciascuno nell’ombra sua. Poi Ninu Agghianu volse gli occhi e vide il compagno avanzare in silenzio; l’intravvide nel raro lucore come un moto appena percettibile, come una forma indefinita. Tacea nel suo ricordo forse, immemore, nell’intimo tepore di un sogno; inerme, per l’abbandono di tutta l’anima sua a una deriva nostalgica verso l’isola di oltremare. Con l’urlo di Ninu Agghianu partì un colpo dalla trincea. — _Scansati Santu!_ E Santu ristette stordito, senza comprendere da dove fosse giunto il colpo, nè la ragione del grido. Se il figlio dei deserti avesse avuto buona mira, Santu era perduto. Allora fu che Ninu Agghianu si levò dalla terra rossigna, percorse correndo il tratto che lo separava dalla trincea e, giuntovi, balzò nell’angusta fossa. Si trovarono di fronte, chiusi nell’ambito breve e sul loro spirito turbinava la morte. L’arabo era gigantesco, nocchieruto, bestialmente torvo. Di fronte a quella mole, Ninu Agghianu pareva un fanciullo. Come l’uno saltò nella fossa, l’altro non fuggì ma si rivolse. Dieci passi li separavano, lo spazio di un balzo e il figlio della solfatara s’inarcò a piombare sul colosso ma questi spianò lentamente il fucile, mirò alla distanza minima, fece esplodere l’arme. Ninu Agghianu traballò, un’onda di sangue gli coperse la faccia, lo accecò, ma l’anima sua era in quel punto più grande della morte. Nè l’orrendo ceffo ebbe tempo a riprender la mira, appena aveva levato l’arme che sul suo capo turbinò una clava manovrata a ruina e il colpo gli piombò fra capo e collo violentissimo. Fu stordito. Il fucile di Agghianu si schiantò ma l’arabo era caduto di fianco, appoggiato alla parete franosa della fossa. Il giovine vide il sopravvento. Gettò l’arme monca, afferrò il fucile del nemico e cominciò allora la lotta titanica a viso a viso, a fiato a fiato, fra la morte e la morte, orrendamente. Tutto ciò avveniva nel tempo del baleno. La lotta fu breve. La forza contrastava alla forza, l’ansito all’ansito. Ora l’uno or l’altro cedeva un passo, non più; si guatavano arrossati dal loro sangue, ambedue: ebbri e folli della stessa furia, ambedue. L’uno più non aveva l’elmetto, l’altro aveva perduto la _taghìa_ e la sudicia benda. Nè il gigante si attendeva dal piccolo nemico la prodigiosa forza che gli contrastava la vittoria e più s’incaniva nell’impeto quanto più misurava quell’esigua persona di adolescente. Quale Dio era nella notte dietro l’infedele?... Ogni grido era spento. Nè l’uno nè l’altro aveva voce, stavano entrambi su l’orlo della loro fossa. E anche l’arme del nero si stroncò: cricchiò, si contorse nella morsa umana. Furono di fronte per l’ultimo brivido: muti e spaventosi. Le destre mani si riarmarono delle lame ancipiti, poi si curvaron d’istinto per colpire e non esser tocchi. Due volte tentaron l’assalto estremo, poi Ninu Agghianu si sentì urtato sotto la spalla. Un furioso dolore lo tolse di senno. Traballò e il gigante gli era sopra, lo premeva ansimando, mugghiando. Vide la sua fine: chiuse gli occhi, cedette a grado a grado, ma d’un subito l’anima sua si riaccese. Nel momento supremo quando già si sentiva finire, la faccia contro la tenebra e la volontà e la forza nemica sopra di lui come un peso intollerabile, quando si credeva dannato contro la rossa terra, sopraffatto come l’agnella dal lupo, nel momento supremo s’addiede che le sue carni e l’ossa sua trattenevano nella ferita la lama del colosso e questi arrancava a strapparla dalla stretta orribile, inutilmente. Intuì allora ciò che poteva tuttavia e si affloscì, scivolò come se la morte l’avesse dispento, piombò disteso sul fondo. L’arabo gli si chinò sopra, lo tentò col piede, premette. Ninu Agghianu ebbe la forza di resistere. In quel punto si udì la voce di Santu e un’altra voce più lontana. Fu un guizzo per la tenebra. Interveniva un fato diverso. L’arabo balzò innanzi, si rivolse, si acquattò nella trincea, ascoltando. Si udì l’urlo angosciato: — Ninu Agghianu?... _Cumpari_ Agghianu? Ma ancor prima che alcuno sopravvenisse, ancor prima che la bestia nera si fosse levata a fuggire, il morituro si alzò prodigiosamente, raccolse l’estrema energia, fu sul nemico, lo cinse, lo strinse, l’avvinghiò, l’attorse, ed una e due e dieci volte con la furia e l’urlo roco di chi risorge, di chi sopraffà la morte nell’orrore della morte lo trafisse. Il colosso ebbe un rantolo, stravolse gli occhi, si dibattè, strapiombò riverso. E la chiamata ruppe ancora il silenzio della notte: — Ninu Agghianu?... _Cumpari_ Agghianu? Allora il giovine più non badò al suo dolor mortale e i sopraggiunti videro un capo sconvolto sorgere di repente dalla fossa arrossata ed udirono una voce cupa: — _Ccà sugnu!... Cc’è cosa?_ Ma altro non videro e altro non udirono, chè il piccolo soldato grigio era ripiombato per sempre nella profonda trincea. I superstiti. “Ai martiri crocifissi e alla sconcia viltà dei gazzettieri d’oltr’Alpe e d’oltre mare.„ _V’è nell’oasi, oltre Suk-el-Gema, un pozzo: il pozzo della morte._ _Ifa el Targiani condusse la centuria dei prigionieri verso quel luogo, il giorno di Sciara-Sciat, ed empì dei loro corpi l’arca profonda. Erano bersaglieri. Colti asserragliati in una casa dell’oasi, furono chiusi in un cerchio umano e dovettero arrendersi. Attraversarono la strada di Tagiura, attraversarono l’ampio piazzale di Suk-el-Gema fra le case sventrate e la palazzina del Comando, volsero a destra per un sentiero angusto fra i muriccioli e i fichi d’India. Si arrestarono a una casa. Ivi era un pozzo e una spianata. Ifa el Targiani, la bestia, dette per primo il segno e la carneficina incominciò. Erano cento e cinque i nostri, e centocinque ne caddero fra il pozzo e la casa sinistra._ _Il condottiero, man mano che qualcuno moriva, tracciava su la terra, con una sua verghetta, una linea, ridendo del computo infame._ _E l’arca fu ben presto ricolma che l’olocausto non era compiuto. Allora si aperser le fosse, l’una vicino all’altra, nel campo contiguo, e come l’opera fu compiuta e ritornò il silenzio, solo rimase, su la terra rossa, il computo infame di Ifa el Targiani._ _Le linee si distendevano parallele per buon tratto; tante, quanti erano i sepolti. E così le trovammo il giorno di Tagiura._ _Poco prima di giungere al pozzo, vedemmo su l’uscio di una tana deserta, sei occhi umani._ _Tutti seppero allora, come io seppi, i tre abbacinati dall’orbite vuote e sanguinose; i tre corpi ignudi, lividi di battiture, ritti e brancicanti presso la tana acquattata fra l’urlìo degli irsuti sciacalli._ _Tutti seppero questo perchè non uno parlò. Poi fummo all’arca del pozzo e più lungi si udivano gli scoppi delle mine, il crepitar dei fucili._ _L’ora trascorse fra la muta pietà accigliata. Nè si udì una maledizione, nè una minaccia quando apparvero i dissepolti nell’orrendo sfacelo. I soldati che videro si rinsaldarono nel loro ardimento._ _Più tardi, un arabo fu sorpreso oltre le trincee di Henni. Era acquattato entro una cisterna e brandiva il fucile._ _Vistosi perduto si gettò innanzi a braccia levate. Chiese pietà. Ebbe salva la vita. Due soldati se lo posero in mezzo e si avviarono a condurlo al prossimo accampamento. Eran due giovani dell’Alpe di Luni, semplici, senza doppiezza. Supponevano la bontà frutto di ogni sole e dolce cortesia l’esser grati._ _E non usaron durezza. Si dissero: — È un uomo ed ha un cuore come noi!_ _Più tardi l’un d’essi era morto colpito alle spalle dall’arabo prigioniero e l’altro rantolava moribondo._ _E questa è l’anima della gente a cui la democrazia vorrebbe elargire una patria, un sentimento, una giustizia che non ha mai saputo e non sa. E questa è la nostra razza feroce, che gli ipocriti del mondo han voluto bestemmiare._ — Eccoli!... Eccoli!... Il grido passò sommesso, di bocca in bocca, fra i superstiti schiacciati alla terra, nei loro ripari. Erano presso i loro morti, sublimemente impietriti nell’ordine della battaglia. — Eccoli!... Eccoli!... Sbucavano tutt’intorno, sorgevano balzando, guizzando, strisciando come se la terra li partorisse in un subito prodigio. Alle spalle, ai fianchi, di fronte, da ogni siepe, da ogni viottola, da dietro le basse case, dalle norie con le loro braccia spettrali, dagli intrichi dei cacti e degli ulivi, dalle cavernose cisterne, ovunque fosse un riparo, in rivoli esigui o in fiotti improvvisi sopravvenivano tempestando. Si chiudeva su gli sperduti un cerchio di urla e di fuoco. Era un immenso rimuoversi di figure ammantate, una caotica miseria riversata a morte e a bottino, un muggire d’insaziata bramosia fanatizzante. C’era, nell’aria accesa su quel coro formidabile, c’era nel sole africano l’immensa ombra di un Dio. L’eredità di Javet pesava su l’orda dei pastori del deserto. Innanzi alla loro fame e alla loro morte regnava tale volontà divina. Nè un cuore era diverso dall’altro sotto tale afflato possente, nè la vita dalla vita, nè il pensiero dal pensiero. Essi vedevano i cieli: la loro barbarie ne era delirante, la loro asprezza rindurita. Ciascuno sapeva di superare un tetro destino, combattendo, e ciascuno urlava sopra possa come per farsi intendere dall’Invisibile che sovrastava. Erano duemila e più, un’orda incomposta e irruenta. E i superstiti non vedevano facce umane, ma stravolti ceffi e occhi di belva. E attendevano. Poco più oltre un altro gruppo esiguo sparava tuttavia. Ancora bastavano i radi colpi degli sparsi eroi a tenere in rispetto l’ondeggiante massa. Ma l’epica lotta dei piccoli soldati grigi si accostava al suo termine. Troppo incalzava l’infuriare nemico. La voce della vittoria sconfinava balenando, sì che sempre aumentava la moltitudine orrenda. S’era sperato invano in un possibile aiuto. Due staffette spedite al Comando non erano tornate. L’oasi era tutta un agguato. Morti i condottieri, l’uno dopo l’altro, senza indietreggiare, divinamente impassibili nel nome d’Italia, l’esiguo avanzo non si arrendeva tuttavia. Proni nel campo del loro olocausto, non sentivano ormai se non l’orgoglio della loro razza che li faceva prodi, irraggiando il pallore delle giovani fronti. Erano muti, contratti nello spasimo. Se la loro volontà avesse potuto armarsi di acciaio, non era turbine che l’avesse doma. Si conoscevano per nome; si sapevano come l’acqua e la terra; s’eran conti: erano quindici. Ma Giacomo Banti, l’uomo dell’Alpe, già rantolava bocconi. Frattanto i guidati dal Dio guerriero si stringevano sempre più da presso. Venivan di Tagiura, di Tarhuna, di Gariana, erano i cacciatori di gazzelle, i cammellieri, i guidatori di carovane, gli scarni pastori delle steppe, tutto il popolo nomade cantato dai poeti d’Israele. Una bieca massa guidata da una fede guerriera. Gli schiavi neri, i giganti del Sudan venivano innanzi come una muda di cani, accesi dal loro sguattìo, in una serra continua. Cadevano, si rinnovavano. Gittavan l’anima come la veste lacera raccolta su la loro magrezza. Si vedevano piombar di traverso, inarcarsi di un subito in un urlo atroce, le braccia arrancanti a vuoto, e morire. Ma che era mai un negro cane? La masnada turchesca, al riparo, li sospingeva a staffile ed essi andavano ebeti di sgomento. Frotta su frotta, muda su muda, sguinzagliati, affamati, orrendi. Giungevano al punto colpito fra Sciara-Sciat e Sciara-Zauiet, fra il mare e una cubba. Facevano forza d’impeto incuneandosi ovunque, cadendo e risorgendo, duri nella cotenna come il cinghiale; senza dolore. Stipati, apparivano e scomparivano in un balenio continuo; si acquattavano come la iena, con occhi lustrenti; davano un balzo, ricomparivano. E più dietro era la fosca genia dei deserti: l’arabo bestia. Per mille facce stravolte, strette nel fasciame delle luride bende, null’altro appariva se non il riverbero di mill’anime fosche come le coltella. Qualcuno, per le sgangherate mascelle strideva; qualche altro, fra la moltitudine briaca, correva a furore deliberato a morire per la sfrenata sua libidine; altri s’incitava in Allah; altri spasimava di furia e d’ardore. — “Combattete gli infedeli finchè non ne abbiate fatto carnaio....„ “Coloro che morranno per la fede non morranno....„ Essi non sapevano che la loro fame e tali parole, incruditi nell’obliqua barbarie, simili allo sciacallo irsuto, vili e tremendi. Ma i pochi superstiti erano come l’ancudine che percossa e straziata e maledetta rimane salda e piana senza commovimento che appaia. Altri tre erano caduti. Giacomo Banti rantolava in disparte nella sua smisurata sofferenza. Poi qualcuno, che aveva il color della morte si volse a mormorare: — Non ho più cartucce! Non gli risposero. I colpi si facevano sempre più radi, mentre moltiplicava ovunque la furia degli assalti. La rovina era prossima. Ciascuno la sentiva giganteggiare e guardava il compagno negli occhi comunicandogli il brivido disceso in lui come dal mondo del mistero. A volta a volta abbassavano il fucile. Soli Blesimme e Giannettasio sparavan tuttavia dal loro solco sanguigno. Un velo tenue di fumo passava sui volti intenti. L’ora era prossima. Di lontano giunse un urlo acutissimo; una voce tragica acclamò: — Italia!... Italia!... Si spense. Fu un baleno. Non si udì più nulla. Qualcuno era morto nel grido sublime, gittando l’anima eroica incontro al destino della Patria. Non permase se non lo sguattìo dell’orda incomposta. A un tratto Blesimme bestemmiò afferrando il fucile per la canna, e Giannettasio, cupo in volto, si rivolse a dire: — _Mo’ ce semo!...._ Si strinsero più da presso, si guardarono in fondo alle pupille dilatate; cercaron, fra loro, quell’uno che avesse una volontà da imporre. Giannettasio li raccolse intorno a sè. Erano dodici. Tutti risposero al cenno del più forte. Ma il loro improvviso rimuoversi attirò una tempesta di colpi. Altri due giacquero bocconi, poi un altro. Non furon che nove. La ressa divenne furiosa; si chiuse su di loro come la morsa e la tomba. Gli assalitori erano a dieci passi forse; erano a faccia a faccia. In quel punto Blesimme si scagliò contro la moltitudine obliqua; si aprì un varco, cadde, risorse, avanzò. La morte lo scansava. Nulla di vulnerabile era nella sua piccola persona salcigna. Si vide l’arme sua turbinare per buon tratto finchè, angosciato da cento ferite, non schiantò in un urlo, rendendo l’anima purpurea. Allora i morituri si levarono. In quel ch’essi apparvero, schierati di fronte, l’orda sostò. La fierezza degli inermi valse il prodigio. Stavano essi senza gesto, senza voce, senza un guizzo sul volto impietrito. Ebbero, in quell’attimo, dal loro ceppo millenne la forza che attraversa i secoli. L’anima loro fermò i lupi, li tenne a dominio. Morire è, a volte, dominare. La rossa ferocia, sopraffacendo gli ultimi superstiti, segnava la sua schiavitù, non vinceva. La forza di tutta una stirpe fu nella faccia degli ultimi vivi e i bruti ne sentirono la divina grandezza. * Camminaron diritti. Giannettasio andava innanzi. Colpito non fiatò, urtato, calpestato, non emise un suono dalle labbra sigillate su la sua fierezza. Solo ad un punto, poichè un nero cialtrone gli si parò dinanzi e lo colpì sulle guance, si protese e gli sputò su la faccia. Camminaron diritti, gli occhi fissi al loro cammino, ma non videro il paese che attraversarono. Tutto era estraneo intorno e ignoto, in un unico mistero: gli uomini, gli alberi le case, la morte! Tutto era fuso e confuso nell’ombra immensa che stava per inghiottirli. Si sentivano esuli dalla vita, distaccati da ogni cosa fittizia, prossimi all’eternità. Erano ignudi, tutti ignudi, dalle spalle alle calcagna e lividi di battiture. Cento mani avide s’erano azzuffate a strappar loro di dosso le armi, i panni mentre eran tratti verso il folto dell’oasi. Ora il sole volgeva al suo mancare. Incontrarono altri gruppi d’armati; e donne e fanciulle, ma non un volto pietoso. Una vecchia dalla voce stridente come l’arpione arrugginito, floscia ed orrenda, si trascinò innanzi a percuoterli di una sua mazza ferrata. I fanciulli gettaron loro sotto i piedi foglie spinose di fichidindia. Giulio Volpi era fatto guercio, e per l’occhio abbacinato sanguinava; Vincenzo Asciani aveva trapassata una spalla da parte a parte; Lorenzo Ippoliti mostrava, dalle labbra socchiuse, i denti frantumati e le gengive rossigne. E non fiatavano. Ciascuno guatò il suo dolore con occhi fermi, con anima pura e tenace. Nè la folle paura potè sommuoverli. Fra la viltà della lurida accozzaglia mussulmana compirono così il duro transito. Ed ecco che giunsero ad una casa presso una radura e a fianco della casa sorgeva un recinto. L’orda si soffermò sul luogo. Gli anziani si fecero innanzi e si raccolsero a disputare. Il consiglio fu breve. Poi che la decisione fu presa, vennero sospinti ad uno ad uno in un andito e dall’andito in un cortile sul quale si aprivano tenebrose stanze. Gli armati fecero ressa dietro loro e l’opera parve volgesse al suo fine, ma non finì, chè in quel ch’essi attendevano, legati e avvinti mani e piedi per solide ritorte, ecco che si udì un grand’urlo e un rintronar rapido di scoppi, e il rumor di una corsa anelante. Di repente il cortile si sgombrò e le vicinanze furon deserte. Gli otto martiri erano soli. Fatto che fu il silenzio, interrotto da un cupo rimbombo lontano, Giannettasio levò il capo che aveva tenuto inchino fino allora, e gli occhi suoi d’aquila guizzarono d’un bagliore selvaggio. Egli era stretto ad un palo, nel mezzo del “patio„, presso la bocca di una cisterna. Levò il capo e la faccia grifagna, angusta e forte, fra gli irsuti capelli e le mascelle quadrate e fra zigomo e zigomo. I denti suoi stridettero, un respiro grande gli sollevò il petto e le costole rade sotto la pelle livida. I compagni lo guardavano. Girò intorno la faccia, aggrottata, nella suprema angustia, come chi fiuta l’agguato, e gli occhi, di sotto l’osso frontale, incupiti d’ombra e di ardore e di fosca furia, frugarono ovunque. Non si udiva che il rombo della battaglia lontana. Allora il corpo di lui si contrasse, si divincolò, si distese, si ripiegò scattando. Il giuoco dei muscoli tentò e ritentò invano le solide ritorte; nè gli strappi, nè le tensioni violente ottennero risultato. L’arabo cane aveva ben saputa l’arte dei nodi. Più forzava e più si macerava le carni ignude; ma non era egli di natura sgomenta e la sua pervicacia si rinsaldava nella furia. Disperare è morire. Così come più si incanì dibattendosi, s’addiede ad un punto che il nodo che gli serrava le braccia, gli era salito su per il petto fin presso il collo. Allora di repente abbattè il capo su la corda, l’addentò, la forzò, la scrollò squassando, contratto nello spasimo sovrumano. Il collo s’inturgidì, la faccia s’invermigliò fino agli occhi, tutta di fiamma, di sangue e di furore, in un aspetto terribile, disumanata. Apparve stravolta, irriconoscibile, come quella della follia e dell’agonia. La vita vi ruggiva spasimando e affannando in tutta l’impetuosa sua violenza. Poi, di un subito quella faccia si levò con stretto fra i solidi denti l’un capo della corda e non è più chiarore nel volto del meriggio di quello che non ne passasse in quegli occhi. I compagni tremavano nell’attesa. Ecco le braccia eran libere, ecco era libero il torso, ecco il breve grido di spasimo rinforzava, si spegneva, riprendeva; ecco ecco i legami cedevano, si scioglievano, si afflosciano abbandonati. L’uomo balzò libero nel “patio„ e fece per lanciarsi all’uscita; ma allora udì egli l’urlo straziante dei sette compagni avvinti: — Giannettasio!... Giannettasio!... Udì e ne tremò per tutto il corpo. — Giannettasio!... Giannettasio!... E l’anima sua non gli concesse la viltà della fuga. Si gettò sul più prossimo, e già, dato mano ai nodi, due ne aveva disciolti, quando riudì la moltitudine vicina, sempre più vicina d’attimo in attimo, nella rapidità della morte. — Giannettasio!... — _Zittete per Cristo!_ — Vengono!... — _Mo’ ci accidono!..._ — Giannettasio! Giannettasio!... Balzò presso la porta, si acquattò, strisciò, vide. Allora stravolto e smarrito si volse intorno senza più capire, schiavo del suo sangue. Nulla più udì se non la cupa voce del suo sangue e, superato di un balzo un muro, scomparve. Lo seguì una gran voce di pianto. Poi i tormentatori tornarono all’opera loro e l’uomo fuggiva ed udiva, fuggiva ed udiva, rabbrividendo, l’urlo orribile degli straziati. Ad un tratto sostò. Il figlio di Roma sentì la sua buona razza e quando i bianchi morituri erano per finire, un uomo ignudo apparve su l’alto del muro di cinta, contro il cielo. Brandiva un fucile. E la vigliacca ciurmaglia, una volta ancora, tremò per uno solo che aveva il cuore di una razza titanica. Tremò e sette ne cadder supini innanzi che l’apparso, trapassato più volte, non ripiombasse nell’ombra dalla quale era sorto. Ora questo ho narrato, che è la verità, perchè qualcuno ricordi. Pietro Aresu. “Sacra al candido cuore degli Europei i quali, per avere attraversata la terra nostra, ci giudicarono benevolmente come i piccoli giullari del mondo.„ _Non si era udita che la voce degli ultimogeniti._ _Si era lavorato negli anni a rompere ogni confine. Una volgare gazzarra aveva riempito le scialbe giornate. Tutto non era che interesse: anche la patria._ _Ogni più alta vita, per non esser compresa, soffriva la beffa dei meschini. Si voleva un’unica misura, un solo livello, una sola volgarità. Il guadagno regnava oltre ogni opera. Le idealità o vivevano nel silenzio dei cuori, o si erano imbastardite, o erano irriconoscibili fra i pantani. La spiritualità di cui si era animato il primo moto operaio era caduta nella bassezza plebea. Ogni aristocrazia era muta. Le passioni tramutate in vizi. Gli istinti della moltitudine imperavano._ _Il nuovo brivido solare attraversò quest’ombra._ _Nacque il prodigio. Ogni fatto sconfinò da’ suoi termini, assunse un significato d’eccezione, s’illuminò di giovine luce, fu pervaso di ardore, non bastò all’ansia comune. Era la resurrezione. La gente umiliata levava la fronte e il cuore e l’anima; i taciturni trovarono una voce; le virtù assopite si rivelarono d’impeto; la vita ebbe una ragione più alta; la bellezza delle cose e degli uomini rivisse nelle moltitudini._ _E in questo prodigio, i_ dimenticati, _coloro che non erano stati intesi nella loro vecchiaia, che avevan sentito deridere la loro età, i loro ideali, i loro sacrifici respirarono; i superstiti delle cento battaglie, che avevan vissuto nel pensiero e nell’azione dei nostri due uomini maggiori: Mazzini e Garibaldi, si sentirono ringiovanire. La morta gora era superata!_ _Così il fato gettò un ponte di luce fra le due età lontane. Il vespero sorrise alla subita aurora._ Tutto chiuso nella sua fiera amarezza, da anni ed anni non aveva partecipato alle cose del mondo, esule volontario da una vita che era caduta in troppa miseria perchè potesse intenderla o tollerarla. E come la sua voce sarebbe stata vana, e gli atti suoi sarebbero stati derisi dalla bruta incoscienza e dal cinismo, e dalla scettica bestialità di una gente senz’anima e senza grandezza, aveva scelto la solitudine che non s’adombra e si avvicina alla morte nel suo tranquillo silenzio. Come una vetta aspra ed una torre per deserti si era isolato nell’anima sua sola, chiuso in sè a guisa del monte nell’ombra notturna e della terra nel mistero. Era sorto da natura come l’albero ricco e la fonte che nulla vuole pur di traboccare in letizia. Il cielo si era rispecchiato in lui e la virtù del sole. Aveva amato per donarsi, aveva sofferto per la grandezza di un sogno. Era tuttavia di coloro che non sanno misurare la loro azione all’utile immediato; nè calcolano, nel tempo, personali vantaggi, ma sentono la vita come una gloria d’amore e di sacrificio. E gli anni e le nuove coscienze lo avevano fatto solitario. Viveva nella sua casa antica come il falconello su la rupe e non sapeva che l’avvicendarsi dei giorni e il trascorrere delle stagioni. Si era fatto come le cose impassibili sotto il sole che non si smuovono nei tempi se non per morire. Ma in quel suo silenzio la passione sua si affinava, sempre giovine oltre gli anni suoi ch’eran molti, sempre viva oltre l’apparente morte di ogni sua attività mentale. Si adora Iddio come si adora la patria, e l’uno e l’altra sentono la grandezza delle anime che li elessero. Nascono e si formano di amore. Sono la morte e la vita e l’oltre. La compagine del gregge sperduto. Conviene saper morire per il proprio sogno. Questa sola cosa è bella e profittevole sotto il sole. Ed egli amava e moriva. Amava e moriva come un cenobita austero, chiuso e sepolto nella propria visione. Si era appartato per non maledire. Lo chiamavano Pietro l’eremita, ma senza scherno. Certe figure, certi uomini s’impongono oltre ogni scetticismo per una loro forza morale che s’avverte a distanza, che è come il raggio e lo splendore. Di lui tacevano. Nessuno osava dirne cosa che non fosse a rispetto. La malignità si ammantava di fronte al nome suo ed ogni miseria illividiva impossente. Era stato diritto come l’antenna, sempre, e nulla poteva adombrarlo: nè l’alito della moltitudine, nè la mala arte dei roditori. E i roditori sentivano in Pietro Aresu un nemico imponderabile: troppo più grande di loro e troppo lontano. La gente amava il silenzio di quell’uomo e non avrebbe tollerato che altri lo turbasse. L’inconscia necessità della fede, negli anni in cui ogni fede dispariva, saliva a lui, senza parola. Tutti gli uomini col loro effimero nome, anche quelli che pareva non sapessero altro nel mondo se non la mensa ed il letto, sentivano ch’egli era più in alto, fra loro. Questo avveniva tacitamente. È legge che la quercia giganteggi fra gli alberi. Pietro Aresu aveva in sè e nel suo sdegno alcunchè di santo e di gigantesco. E la sua grandezza non umiliava. * Declinava il sole sull’orto. Quattro alberi, dietro un rosso muro, ne avevan d’oro le foglie. E il sereno era profondo. Il vecchio Aresu guardava la terra lavorata, appoggiato alla sua vanga. Suonava vespro. Scarse nubi crocee venavano il cielo; l’accendevano di ardore e di languore. Lontanamente, fra gli alberi forti, spuntava la rossa guglia di un campanile e su quello e su gli alberi e sui muri e su tutta la campagna discendeva l’ardore ed il languore delle nubi altissime. Una voce chiamò: — Pietro Aresu? Il gran vecchio si volse ed il suo volto apparve nella luce rossigna, inquadrato fra la barba bianca ed i capelli candidi. Corrugò le ciglia a guardare. Assunta Rosa giungeva per il mezzo dell’orto a gran passi. L’attese senza far parola. E quella ansava arrancando: — Pietro Aresu non mi senti? — Che vuoi? — Mastro Giachi ti cerca. Si è fermato sulla porta. Pietro Aresu riprese la vanga. — Ebbene? — domandò Assunta Rosa. — Non rispondi? — Che vuoi? — Mastro Giachi.... — Non ricordi ciò che devi fare? — Mi ha scongiurato perchè dice.... — Nulla!... — Non lo vuoi vedere? — No! Assunta Rosa torse il grembiule fra le rosse mani, arrossì per la rabbia repressa, ma non si dette per vinta. — Si fora la montagna ma non te! Il vecchio vangava e pareva non udisse. La faccia di lui era china sulla terra e così il gran torso muscoloso. — Nessuno ti parlerà mai, allora? La vanga picchiava sodo, ritmicamente, e il colpo risuonava secco nel primo silenzio dell’ombra. — Ma sai ciò che deve dirti?... — riprese la donna ostinata. — No! — Voleva parlarti di.... — Basta! E questa volta anche Assunta Rosa tacque. Guardò Pietro Aresu in tralice. Riprese il sentiero fra le aiuole. — Per me, potresti morir di silenzio! — brontolò. Due volte ancora si volse e ristette in forse se ritentare la prova, ma ambo le volte scrollò il capo, sfiduciata. Scomparve fra le macchie, vicino alla casa, e tutto fu quieto. Pietro Aresu continuava l’opera sua ritmica, in pace. Il sole radente discendeva dietro due grandi roveri e un muro di cinta. Lo aveva in faccia, come uno specchio. E il tramonto distendeva nell’aria il suo velo di ametista. C’era, alle soglie del cielo, una soavità accorante. Il vecchio non levò il volto. Voleva compiere l’opera che si era prefissa, curvo sul suo solco, oltre il morir del sole. E taceva, grande e nero contro l’irradiato cielo, in un campo di bagliore spoglio di rami e di mura, allorchè udì nell’orto di Giovanni Arbìa un sussurrare improvviso, poi una voce si levò chiara e chiamò: — Pietro Aresu? Si appoggiò sulla vanga e volse la faccia verso il muro di cinta. Chiese: — Chi sei? — Sono mastro Giachi e debbo dirti che Valerio è ritornato! — Chi? — Valerio tuo! Pietro Aresu ebbe un sussulto violento ma non parlò. — Che debbo dirgli? — riprese mastro Giachi. — Digli che viva in pace. — Non vuoi vederlo? Passò un silenzio e il vecchio rispose: — No! — E tuo nipote? Pietro Aresu levò gli occhi oltre il muro di cinta quasi che le parole di mastro Giachi avessero dovuto materiarsi d’improvviso nella forma del giovinetto. Chiese: — Dov’è? Si udì un mormorio e qualche parola monca, poi si vide il termine di una scala a piuoli appoggiata al muro di cinta. In quel punto il sole rotondo si spegneva nell’aria, più presso il suo termine estremo. Il vecchio non mutò aspetto nè luogo. Era diritto su la terra nera, appoggiato alla sua vanga. E qualcosa si agitò nell’aria. Si udì un fruscìo di rami smossi, come un frullo di voli da un albero; poi, nella zona pallida del cielo, apparve, oltre il muro di cinta, un capo ricciuto e un volto, chiaro di due grandi occhi commossi. Era una faccia pallida e fiera di giovinetto. Tutto il torso apparve e il sole era già su la terra. Si guardarono senza profferire parola, gli occhi negli occhi. Nè si udì suono che turbasse quel silenzio. Poi Pietro Aresu si avvicinò di qualche passo: — Quando sei arrivato? — Ieri sera, nonno! — E dove stai? — In casa di mastro Giachi. — Domani verrai da me? — Verrò! Assunta Rosa, che era ricomparsa nell’orto, si stringeva le mani e aveva il volto raggiante. Il vecchio chinò il capo. Riprese: — Di’ a tuo padre che la mia casa è tua! Addio! — Grazie, nonno! E come il giovinetto scomparve, Pietro Aresu ritornò alla sua fatica. Si aprivano le strade degli astri. * Lo accolse su la soglia. Gli tese le grandi mani nerborute. Gli disse: — Ti aspettavo! Poi lo condusse per la casa, e per l’orto; gli mostrò ogni cosa sua, tranquillamente, parlando piano. Assunta Rosa li seguiva passo passo senza fiatare. — È una casa vecchia, ti adatterai! E l’Assunta: — Siamo poveri! — Abbiamo quanto ci basta! — ribattè il vecchio e riprese: — Ma tu cosa conti di fare? — Compirò i miei studi in Italia. — E tuo padre? — Riparte domani. Pietro Aresu chinò la fronte aggrottata e non aggiunse parola. Compirono ben presto il giro della casa antica; passarono dalle soffitte al pianterreno fino alla stanza che avevano destinata al nuovo ospite. Era una cameretta luminosa che si apriva sul brolo. Un tavolo, un canterale, un letto e una sedia ne compivano l’arredamento. C’era una austerità monastica e una grande freschezza, proveniente forse dalle bianche pareti, dalla luce bionda, da un’anima ignota e presente. Non era nata là dentro qualche gaiezza improvvisa? Non v’era trascorsa una di quelle giovinezze irruente che lasciano una eco interminata nel mondo? Sul tavolo, in un vaso verde, deliziosamente goffo, erano strette in un gran mazzo pomposo tutte le violacciocche del giardino e odoravan soave. Giovannello le guardò e sorrise ed anche Assunta Rosa, che non gli distaccava mai gli occhi dal viso, sorrise e disse: ed eran le sue prime parole: — Mi scuserai.... sono brutte! La sua voce era così umile e dolce, tanto buona e sommessa che Giovannello non seppe rispondere. Altri fiori erano sul canterale e, in un angolo, innanzi a un’immagine stinta, ardeva un lumicino tanto esile e pallido che pareva cercasse tutta l’ombra della stanza per non morire. Quando gli occhi di Giovannello si volsero a quella parte, Assunta Rosa gli si accostò e piano piano, a voce tremante, che temeva non l’udisse il fratello, chiese a pena: — Ci credi alla Madonna? Il giovine non volle offendere quella trepida fede, quella timidezza d’amore e rispose: — Sì! Allora si sentì stringere forte una mano. Se ne andarono in silenzio. Si sentivano già vicini come se gli anni della lontananza non fossero stati mai e il loro cuore colmasse in un attimo tutta la vastità del tempo; ma un turbamento era fra loro, un disagio continuo e inespresso che li faceva chinar gli occhi a quando a quando e troncava a mezzo certe parole che avrebbero voluto andar oltre ed oltre. — Rimani a pranzo con noi? — Il babbo parte domani! Gli occhi di Assunta Rosa passarono rapidi dal pallido volto del giovine a quello del vecchio, ma la cosa che avrebbe voluto dire le si spense in gola. — Quando verrai? — Domani sera. — Sta bene. E nient’altro? si diceva Assunta Rosa; ma era tanto difficile adunque aprir le braccia ad una creatura? Tacevano in imbarazzo. Erano sul limite dell’orto. Giovannello si guardava intorno; aveva gli occhi smarriti; era pallido un poco. Assunta Rosa sentiva che si sarebbe inginocchiata innanzi a lui. Ma l’altro?... l’altro?... E lo guardava e avrebbe voluto mettergli nell’anima quella sua commozione perchè si destasse, perchè parlasse a un tratto tutte le parole represse in vent’anni. Pietro Aresu non mutava volto. Era chiuso in sè, serrato nella sua solitudine sdegnosa. Nell’equilibrio del suo giudicare tutto era valutato con freddezza. Era vano cedere a una subita commozione per rinnovare inutilmente uno stato penoso e intollerabile. Se Valerio era mutato da quello di un tempo, nulla gli vietava la soglia varcata. Chiamarlo per ritrovarsi all’antico contrasto amarissimo era voler inacerbire un inutile dolore. E la ragione gli stava innanzi impassibile, in quel punto periglioso. Giovannello disse: — Allora, nonno.... se tu non vuoi.... vado.... Pietro Aresu levò gli occhi in volto al nipote e chiese con voce dolce e ferma: — Che cosa non voglio? Il giovine taceva. — Parla, figliuolo! Ciò che si è detto vale la nostra fede e il nostro coraggio; ciò che si nasconde è sempre vile! Giovannello levò la fronte serena e disse: — Mi sarebbe piaciuto che oggi ci fossimo stati tutti, qui! — Ha ragione! — sussurrò Assunta Rosa. — Che ti ha detto tuo padre? — Nulla! — Sei tu solo che desideri questo? — E tu, no? — Rispondimi chiaro: sei tu solo? — Sì, sono io solo! — Tuo padre non ti ha parlato? — No! Pietro Aresu chinò gli occhi. Disse: — Nulla è mutato!... Va!... È giusto che tu stia con lui prima ch’egli parta! Ci vedremo domani! Assunta Rosa si portò il grembiale agli occhi, ma non fiatò. Nulla era mutato! Sarebber morti così come due estranei, l’uno lontano dall’altro, come se non fossero stati dello stesso sangue, sorti da un solo ceppo, nella stessa casa! E non capiva che volesse dir ragione, di fronte all’amore. Quanto avrebbero vissuto ancora lei e Pietro Aresu? Pochi anni forse. E quando c’è la morte alla soglia dell’anima e Iddio ci aspetta per giudicarci è bene gettar via tutte le cose gravose e dimenticare anche le offese più gravi! Dopo non si rimedia più! Giovannello si avviò muto verso l’uscita. Lo seguirono fin sulla porta. Assunta Rosa dischiuse l’uscio e si ritrasse, ma quando il giovine fu sulla soglia disse per un’estrema speranza ch’ella sapeva vana: — Avevo preparato il desinare per quattro.... — Saremmo stati tre! — disse Pietro Aresu. — Sì! — rispose Assunta Rosa e chinò la faccia. C’era intorno la tensione del pianto. Evitavano di guardarsi. Solo il vecchio sentiva l’intiero dominio di sè stesso. Tese le mani al nipote. — Allora vai!... Domani ti si aspetta! — Non mancare! — soggiunse Assunta Rosa. Giovannello non abbandonava la soglia, pareva non sapesse distaccarsi di là; che ancora volesse dire qualcosa. — E se il babbo mi domanda.... — Parla! — Se mi domanda che cos’hai detto?... — Devi rispondergli che il nonno, se invecchia, non muta cuore! Egli ti intenderà. — E.... se volesse ritornare? — A mio figlio la sua casa è aperta! Allora si udì un riso strano, un breve ingannevole riso, fondo, represso, duro, in brevi schianti sempre più rapidi e la faccia di Assunta Rosa impallidiva. Pietro Aresu disse ancora: — Ma non ritornerà!... Addio, Giovanni! — Addio, nonno! E la porta si richiuse lentamente, dolcemente sul giovine che si allontanava. * Valerio Aresu ripartì per le terre d’oltre mare senza aver riveduto suo padre. L’antico dissidio che li aveva divisi e li aveva condotti a tale estremo d’ira da rendere impossibile ogni convivenza, non era ancor morto. Poteva risorgere al minimo accenno e porli di fronte come un tempo, senza nessuna pace. Era, in loro, l’anima di due età vicine e lontane, non compatibili nè conciliabili. Meglio valeva lasciare nel sonno l’antico dolore. Chi dà alle proprie convinzioni tutta la propria passione non sa tollerare. Tollera chi non ama; concede chi non sa morire. Pietro Aresu vedeva questo. Il suo giudizio non poteva scardinarsi per una sentimentalità improvvisa. Egli portava con fierezza il proprio destino sul declinare degli anni e sapeva che il suo gran sogno era morto. Una gente meschina agitava fosche passioni per il mondo e le turbe ubbriache urlavano. Trascorreva una furia cieca. Il ventre era Dio. Ad ogni altare si appostava lo scherno dei distruttori. Nulla più era bello e grande, nulla si imponeva, convinceva e innalzava l’anima impetuosa a una insolita virtù di amore. Odiare, vivere, bestemmiare era la divisa dell’idolo fallico, ebbro della sua bruta potenza. Decaduto ogni valor morale, la gran bestia non vedeva che la sua mangiatoia. Per difender la vita la si impantanava. Tutto era tratto al giudizio dei retori, alle scuole di una scienza cieca, alla gazzarra dei trionfatori. Ogni mediocrità si paludava in manti imperatorî; ogni imparaticcio era speso per buona sapienza; ogni miseria gabellata per virtù fondamentale. La critica imperava e con lei la gioia del demolire. Le demenze più sciocche si scatenavano a furia e tutto era sepolto sotto le scorie dei roditori. Ora chi scendeva, esule, da un’età dolce di amore e di gloria, non poteva piegarsi alla realtà quotidiana. Le anime grandi non tramutano e non s’adattano. Di fronte a tale verità egli aveva scelto per la seconda volta la sua solitudine. E portava il suo dolore di padre come l’altro grande dolore inespresso, lo portava in silenzio aspettando la morte. Non aveva rimproveri per Valerio: lo giudicava travolto dalla corrente. Solo, nonostante gli anni trascorsi, sentiva l’amaro della cieca irriverenza di lui, della sua vana protervia, del suo giudizio meschino e reciso. Tutta l’anima di Pietro Aresu si era ribellata violentemente allora, e ne fremeva tuttavia. Così nulla mutò. I due monti lontani vegliarono la notte, muti e dissimili nel cuor dell’ombra dove sono le invisibili strade degli astri. * Entrava per la quinta volta sulla punta dei piedi, adagio adagio. Era il mattino fiorito. — Giovannello? E si fermava a mezzo la stanza trattenendo il fiato. Il giovine dormiva profondamente, il capo affondato sui guanciali bianchi, soffuso di un lieve rossore, la bocca chiusa. Lo guardava con le mani giunte, con gli occhi umidi. Com’era giovine! I capelli ricci gli adombravano la fronte bianca. Era forte e bello! E una pietà, un amore inesprimibile tenevano il cuore di lei sospeso in ardore. Le salivano alle labbra parole sorte da chissà dove, ch’ella non aveva dette mai, che non aveva mai ascoltato. Parole soavi come quelle di una preghiera, accorate un poco, fresche ed intatte. Si fece un po’ più innanzi e si sporse un poco verso il letto e chiamò appena: — Giovannello? Ma il giovine dormiva del più bel sonno profondo. Allora Assunta Rosa si accostò alla finestra e l’aprì. Entrò il sole e la voce di Pietro Aresu che era nell’orto. — Si è levato? — domandò il vecchio. — Ssst!... — fece Assunta Rosa. — Destalo che è tardi! Assunta Rosa si rivolse e ristette, la mano nel palmo della mano, sorridendo. Giovannello aveva appoggiato un gomito al guanciale e si passava una mano su gli occhi, abbagliato dalla troppa luce. — Che ore sono? — domandò. — Sono le nove, — rispose Assunta Rosa. — Le nove? — Sì! — Non dovevi chiamarmi alle sette? — Sono venuta cinque volte e dormivi sempre! — Perchè non m’hai destato? — Io ti ho destato ma continuavi a dormire! — Presto presto, zia, che è tardi! E saltò il letto e passò da un canto all’altro della stanza tempestando. Assunta Rosa gli apprestava i panni, gli versava l’acqua nel catino affaccendandosi in gaiezza. — Dov’è il nonno? — Nell’orto. — Di che umore è? — Di ottimo umore. Già, tu fai miracoli. — Io? — Sì, tu. — Via via, zietta!... Dammi l’asciugamano. — Eccolo. E si asciugava forte, arrubinando il volto. Poi cantava ed ella evitava di guardarlo per non interromperlo. Ma tutto finiva tanto presto! In un battibaleno era pronto. — Addio, zia! — Addio. — Guarda che tornerò con molta fame! — Bravo, bravo! — Tieni pronto per mezzo giorno preciso! — Sarà pronto. E spariva come una folata di vento: traversava la casa; era nell’orto; non c’era più! Benedetto! Ella si attardava nella stanza di lui a guardare i libri, le carte, le fotografie, ma senza curiosità investigatrice, solo per la gioia di sentirsi un poco più vicina a quella giovinezza irruenta. Ed era, nel suo vecchio cuore, un senso religioso e una tenerezza materna. Rideva, era contenta, le tornava alla memoria la sua giovinezza remota, simile a un mare attraversato una volta sola nel corso di un’alba e l’isola fiorita era lontana. E pensava che il Signore avesse voluto premiarla della sua lunga vigilia e tesseva tesseva un’incantevole trama per l’arca del sogno. Ma era contenta! Così, tutto, intorno a lei, pareva più disposto a godere. Quel monello era entrato per tramutare ogni cosa. Aveva detto: — Voglio che tutto sia sole! E tutto era diventato sole, miracolosamente. Le piccole cose e le grandi, tutto quanto il mondo delle cose e delle anime. La vita si era moltiplicata e Pietro Aresu lo sentiva. Sul suo volto grave era ritornato il sorriso. Già, il nipote pareva il ritratto del nonno! Lo stesso capo folto di capelli ricciuti, la stessa fronte severa e serena, gli stessi occhi vivacissimi. Un miracolo. C’era, nel salotto, un vecchio dagherrotipo che Pietro Aresu si era fatto a diciotto anni ed era tanta la somiglianza che Assunta Rosa, a volte, si fermava perplessa per domandarsi: — E se gli somigliasse anche.... E quando le nasceva tale dubbio si eclissava nella chiesa più prossima per un giorno intiero. In casa la cercavano invano. — Dov’è Assunta Rosa? — Dov’è la zia? Rispondeva in sua vece la domestica: — È uscita questa mattina. Ha dato gli ordini per tutta la giornata! — E quando ritornerà? — Dov’è? La domestica non sapeva che rispondere. Ritornava tutta avvolta nel suo scialle nero, verso sera. Giovannello l’udiva primo. Conosceva il passo di lei e le balzava incontro gridando: — Eccola, eccola la scioperata! Ah zia! Cominceremo a pensar male di voi! — Sta zitto, sciocco! — Dove sei stata? — Dove mi accomoda, — e rideva sotto lo scialle. — Dimmi dove sei stata! Allora la vecchia lo prendeva per mano, lo traeva in disparte, parlava sommessa: — Sono stata in chiesa a pregare per te!... Sssst!... Non dir nulla!... Bambino.... promettimi che non farai pazzie!... Assomigli troppo a tuo nonno! Giovannello rideva. — Me lo prometti? — Ma sì!... che pazzie vuoi ch’io faccia? — Eh! lo so io! E si avviava senza aggiunger parola, tutta curva nel suo scialle nero. Dopo ne parlavano, Giovannello e il nonno, ne parlavano sorridendo bonari, in fondo all’orto. E passavano i giorni e i mesi così. Passavano. Pietro Aresu li vedeva scendere uguali come i grani dell’arena nella clessidra. E nulla era mutato nell’animo di lui come nella vita sua. La solitudine non era stata interrotta. Solo a quando a quando un pensiero luminoso gli si accendeva innanzi d’improvviso e gli occhi suoi ne erano abbagliati. Ma lo scacciava. Non conveniva desiderare cosa che non dipendesse dalla propria volontà. Egli amava Giovannello, ma voleva saperlo libero di sè e del suo cuore. Così doveva vivere, scegliere e amare secondo il giudizio suo. Solo ciò che si elegge spontaneamente può accendere una luce. Ma per certe parole, per certi scatti, per certi silenzi improvvisi egli aveva intravveduto nell’anima del nipote. Anima fresca e innamorata di ogni cosa bella. E pensava a volte che la giovinezza fosse per congiungersi alla vecchiaia per uno stesso ponte ideale. Forse stava per risorgere il tempo di un ardore novello. Ma Pietro Aresu suggellava in sè la trepida speranza e viveva la sua vita uguale e taciturna nel declinare degli anni. * Assunta Rosa ascoltava in silenzio, seduta nell’angolo di un divano, tutto il viso smarrito. Giovannello parlava e parlava da un’ora. Si era acceso come la brace, le parole di lui passavan via fulminee e vibranti, erano il fuoco e l’ardore. Non l’aveva mai veduto così. Che diceva? Ella capiva e non capiva. Parlava di paesi, di mari e di diritti e di cose fantastiche ch’ella non sapeva, che non voleva sapere. E scivolavan via nomi di uomini leggendari e caotici arruffii di potenze, di navi, di eserciti, di battaglie. Forse la guerra? Le si gelava il cuore. Ma chi faceva la guerra e dove? E si tendeva ad ascoltare sempre più smarrita e sempre più si sentiva disperdere in quel fiume tempestoso e inverosimile. Pietro Aresu era seduto di traverso in una sedia e stava a capo basso, un braccio appoggiato su la tavola. Non parlava, non mostrava il volto; solo scrollava la testa di tanto in tanto come per dire: — Sì, hai ragione!... Sì, hai ragione!... Ma il suo volto era oscuro, contratto, impenetrabile. Lasciava parlare Giovannello senza interromperlo, lo ascoltava come sognasse. Che dicevano mai? E Assunta Rosa avrebbe voluto chiedere la semplice risoluzione di tutto quel dire, ma non si attentava. La sua era una povera voce umile, di creatura ignorante, che avrebbe stonato in quell’ora. Il discorso finì. Giovannello se ne andò distratto, senza salutare. Il vecchio era troppo oscuro e non avrebbe risposto alle domande di lei. Rimase sola, si guardò attorno, sentì d’improvviso la grande cappa del silenzio. E un timore indefinito spuntò in lei come una mala nebbia. Un giorno discese nell’orto per interrogare Pietro Aresu, ma ritornò in casa senza essere riuscita a chiedergli nulla. Perchè non le parlava, Giovannello? Ma se le avesse detto: — Zia.... c’è questo e questo.... io andrò.... io farò.... — Sapeva bene ch’ella avrebbe risposto sempre: — Sì. Una sera il vecchio le disse: — Assunta, il tuo Dio mi ha ascoltato e morirò contento! La cosa era tanto insolita ch’ella sbalordì. Pietro Aresu non si confidava mai. Che poteva avergli aperta l’anima a quel sorriso? E attendeva da Dio una soluzione. Ed ecco che un giorno Giovannello la chiamò, tutto festevole: — Zia? Zia? Accorse ansante. Vide sulla tavola un involto di stoffe dai colori vivaci. — Bisogna che tu lavori, zia! Subito subito! Prendi gli occhiali, l’anello, l’ago.... Ubbidì senza chiedere più. — Ed ora.... questa è la materia prima! Bianco, rosso e verde! Bisogna cucire tante coccarde! Bisogna farne mille! Prendi le forbici.... così! — Che ne vuoi fare? — Lo saprai! Si mise all’opera e le sue mani erano più rapide del baleno, quantunque tremassero. — Di’ un po’, bambino? — Di’, zia. — Che c’è di nuovo?... Giovannello la guardò e le scoccò un gran bacio sulle guance. Assunta Rosa tacque e lavorò più in fretta. E chiese ancora: — Ci sarà questa guerra? — Non la guerra, zia, non la guerra! La risurrezione! La vecchia scrollò il capo e ne capì meno di prima. Sopraggiunse Pietro Aresu, si fermò a guardare un poco e ripartì senza avere aperto bocca. La mattina dopo, Assunta Rosa lo udì cantarellare piano piano, nella sua stanza. La cosa non avveniva da quarant’anni forse, e forse da più tempo ancora. Ella era giovinetta e Pietro Aresu aveva allora i capelli folti e ricciuti come Giovannello. C’erano i tedeschi. Si facevano i nomi di Garibaldi e di Mazzini. Si cospirava, si moriva! Perchè Pietro Aresu cantasse come in quel tempo doveva essere avvenuto un prodigio. E il prodigio era avvenuto. C’era per l’aria come una subita effervescenza, un lievito di entusiasmo, una gioia e una forza inattese. Si udivano grida insolite e il nome d’Italia! Da quanto tempo non era morto, il bel nome, sulla bocca dei figli immemori? All’odio era subentrato l’amore; alla disgregazione la compagine; all’incertezza bieca, una luminosa coscienza. Ci si sentiva uniti! Uno squillo di fanfare chiamava tutto il popolo a raccolta e tutto il popolo era legione. La buona razza non si smentiva. Decisa l’azione, il cuore della patria accompagnava i figli suoi che andavano oltre mare. E in tale vincolo era la forza oltre ogni morte. Un giorno tutto il paese si tramutò in festa, si vestì di bandiere, si empì di suoni e di grida. Partivano. Pietro Aresu era uscito fin dal mattino, col viso simile a quello di un Dio. Aveva abbandonato l’orto, la vanga e il silenzio dopo più di vent’anni; era ritornato giovine; aveva parlato, aveva riso, si era vestito de’ suoi panni più belli. Tutte le finestre della casa erano aperte: vi sventolavano tre bandiere, e i davanzali erano ricolmi di fiori. Anche Assunta Rosa aveva indossato la sua veste di raso, un po’ goffa, ma antica, antica come il suo cuore! E rideva come gli altri. Era la primavera. La casa fu presa d’assalto da un’onda di giovinezza. Erano fanciulle, tutte sconosciute per lei, tutte belle agli occhi suoi. Irruppero ridendo in una folata magnifica. Ella non ne conosceva nessuna, ma rise a tutte, strinse la mano a tutte. — È questa la casa di Giovanni Aresu? — Sì! Sì! Avanti!... Avanti!... Ogni finestra fu un grappolo umano, una gaiezza ciarliera, impetuosa, solare! E Assunta Rosa rideva stringendosi le mani, perduta nella sua grande veste di raso marrone; e correva da un canto all’altro senza capir nulla, essendo contenta di non capir nulla. Si udiva un brusìo ininterrotto, un incrociarsi di richiami, di urla, un andare e venire, un correre, un tempestare di ardore. Nessuno badava a lei. Non le era stato serbato neppur l’angolo di una finestruccia per vedere, ma non le importava. Le importava di udire i discorsi e prestava orecchio qua e là, ma erano tutte frasi monche, sconnesse, incomprensibili. Passò Giovannello e tutte le fanciulle si sporsero a salutarlo gridando; passò Pietro Aresu e fu un grand’urlo. Ella si sentì la faccia rigata di lacrime e si stringeva le mani respirando forte e sorridendo a nessuno perchè nessuno si occupava di lei. Poi si udì come un bombito e una grande commozione la ghermì alla gola. — Eccoli, eccoli, eccoli! Scoppiò l’inno delle fanfare. Una fiumana tempestosa si riversava nella via. Vide le giovanette levarsi in piedi, gettare i fiori, sporgersi tutte quante in una passione che le travolgeva in delirio. E si sporse anche lei, si confuse nel grappolo, vide i soldati travolti nell’impeto della grande fiumana. Poi gli occhi le si velarono troppo e si ritirò in un angolo. Solo a notte ritornò Pietro Aresu e quando la vide le disse ridendo: — Vecchia.... si rinasce! Poi tornò Giovannello e parlò col nonno, a lungo, come l’altra volta. E quando furono intorno alla tavola, Giovannello era pensoso e non mangiava. Aveva gli occhi fissi in un punto e ardevano. Ad un tratto disse: — Nonno, parto anch’io! Pietro Aresu levò la faccia a guardarlo e sbiancò senza rispondere. * Ella scriveva malamente, sotto la dettatura del fratello: _A Giovanni Aresu_ _11.º reggimento bersaglieri...._ — Hai fatto il pacco? — le chiese Pietro Aresu. — Sì. — Vi hai messo tutto quanto ti ho detto? — Tutto! — La mantellina? — Sì! — Allora spedisci subito! — Chissà quando arriverà! — disse Assunta Rosa. Pietro Aresu uscì senza risponderle. Ella finì di scrivere l’indirizzo con la sua grande calligrafia stentata, incollò il cartiglio sul pacco e si avviò alla posta, da sola. Non passava giorno ch’ella non andasse alla posta. Era sempre lei che spediva qualcosa o domandava con la sua voce timida: — C’è nulla per Pietro Aresu? — Nulla! Ritornava, curva sotto il suo scialle nero. Poi leggeva i giornali, anzi li compitava lentamente, con infinita pazienza. E la sua vita si passava fra tale occupazione e la chiesa. Pietro Aresu non stava più nell’orto. Ora usciva la mattina e ritornava appena per le ore dei pasti. La casa era abbandonata. Giovannello aveva scritto una volta sola, era sempre entusiasta. Parlava della guerra come di un poema. Tutto era bello e grande. “.... Il colonnello Fara è l’anima nostra„ — scriveva. — “Non morremo!„ Ora ella ricordava quel nome dolce e lo aggiungeva alle sue preghiere. A Pietro Aresu parlava poco. Solo, quando giungevano notizie gravi, andava a lui col giornale. — Hai letto? — Sì! — E Giovannello? — Speriamo in Dio! E Assunta Rosa si meravigliava ch’egli parlasse di Dio mentre non ne aveva parlato mai. Però, per quanto si facesse forza, vedeva che Pietro Aresu era agitato. Mangiava appena, brontolava fra sè, usciva e rientrava venti volte al giorno quando i giornali annunziavano uno scontro. Poi giungeva un telegramma. Era un grande allarme, un gran battito di cuore, un arresto del respiro. Non si pensava a firmar la ricevuta; le mani si adoperavano a strappare l’involucro, tremavano inette e il foglio era lacerato, ma gli occhi correvano rapidi alle parole. Subentrava un gran sollievo, una pace profonda. Ed anche quei giorni di pena passavano come tutte le cose al mondo. Ora doveva giungere Valerio. Era già in viaggio. Aveva scritto prima d’imbarcarsi, ma Pietro Aresu non aveva fatto parola della lettera. Forse giungeva per Giovannello. E la vecchia moltiplicava i ceri innanzi alle immagini raccomandando a Dio: Giovannello, i compagni suoi e l’Africa tutta. In chiesa si trovavano in molte e parlavano sommesso, fra le buie arcate. Ognuna aveva un figlio, un nipote, un fratello alla guerra; ognuna leggeva l’ultima lettera ricevuta dal campo. E ascoltavano come se la parola di uno solo fosse per tutte. Poi qualcuna si appartò, vestì il bruno, pregò più a lungo. Le altre ne rispettavano il silenzio e si attardavano con lei. Erano come vecchie sorelle. Ormai Iddio disponeva. Fosse fatta la volontà del Signore. A volte piangevano per una lettera eroica, per una morte eroica, sperdute fra i neri intercolunnii di un tempio taciturno. E seguirono giorni di maggiore ansia. Sopraggiunse una notizia laconica ed oscura. C’era stata battaglia e molti morti. Quanti? Quali? Non c’erano nomi; non si sapeva nulla. Pareva che i bersaglieri si fossero votati a un grande, tragico olocausto. Per due giorni Pietro Aresu e Assunta Rosa non sedettero a tavola. Fu un’austera vigilia. Alla sera del secondo giorno, come stavano per salire alle loro stanze, udirono il tinnire del campanello. Pietro Aresu fu alla porta di un balzo. Era un telegramma. Lo aprì. Assunta Rosa gli stava vicino. — Che dice? — Nulla! — Sta bene? — No. — No?... Pietro Aresu richiuse la porta e si avviò lentamente trascinando i passi. Assunta Rosa lo seguì fino alla stanza a terreno. Quando furono di fronte, soli, gli chiese: — Che ha? — È morto! E non fu che un silenzio. * Il giorno dopo giunse Valerio. Fu Assunta Rosa che gli aprì. Quando se lo trovò di fronte, all’improvviso, non seppe trattenersi dal mandare un grido, ma quegli la scostò brutalmente ed entrò. Era torvo e disfatto. Domandò: — Dov’è il babbo? — È nell’orto, — rispose Assunta Rosa. Valerio si avviò verso l’orto. Assunta Rosa gli tenne dietro. Sentiva un gran freddo per l’ossa. Pietro Aresu era ritto vicino al pozzo: pareva sognasse. Quando levò la pallida faccia severa e vide suo figlio gli mosse incontro. Furono vicini. Allora il sopraggiunto levò gli occhi torvi e cominciò a parlare, a parlare, prima a bassa voce, lentamente, interrottamente, poi una gran furia passò per l’anima sua bieca: si scatenò, imperversò nemica, si perdette nell’ira scomposta, nella folle ignominia, nel vituperio. Pietro Aresu non battè palpebra. Ascoltò bianco e impassibile. Guardò il figlio negli occhi, sempre, e quando tutta la feccia di quell’anima miserrima fu riversata a ruina, quando più nulla rimase di forza, di energia, di nobiltà a quell’uomo senza nome, Pietro Aresu non approfittò del suo dominio e tacque ancora. Ormai nulla più poteva scuoterlo. Egli aveva raggiunto il suo segno. Era come l’astro e il cristallo e la conchiusa eternità. Rimase solo, non si mosse; sentiva intorno una luce fonda e senza tramonto, una parola bella e senza confine, una giovinezza senza mutamento. Il mondo si chiuse nel sonno. Egli non dormì. Il suo pensiero doveva essere grande come le scie astrali perchè non s’avvide del tempo. L’alba lo sorprese. E con l’alba giunse un nuovo squillo di fanfare. Altri ed altri partivano col cuore d’Italia. Tutta la giovinezza si scagliava alla conquista: di un grido. Nulla moriva, nulla scompariva in quell’ora suprema di eternità. Allora sentì il suo cuore scandere il ritmo della nuova epopea, dell’antica epopea che aveva vissuto; sentì che ogni compimento era raggiunto. E nella fede della patria nata e rinata, si chiuse nel silenzio del giovine scomparso e attese in serenità l’ora della morte. In morte di un eroe. “Per i profeti che negavano la nostra virtù militare.„ _Chiamaron dall’alto la morte — si elessero l’austero silenzio._ _Giovanilmente puri varcaron di un balzo l’istinto — senza pallore, sereni._ _E come i Navarchi la ciurma — come i Condottieri la masnada._ _Fermato un voto di fede — scacciata la pietà turbatrice — si allontanaron dal mondo._ _Dietro restava la turba — restava la dolce famiglia — il volto del segreto amore._ _E fu la notte — purissima — col suo pensiero gigantesco._ _La morte si ammantò di silenzio — austera come una Iddia eretta sul cassero — pura come l’anima della giovinezza — innanzi ai Navarchi._ _Gli occhi l’affissaron tranquilli — poi che su l’abisso dell’anima — non passò che il rombo di una volontà glaciale — il saettare di un candido cigno fra fosche lame di rupi — ai confini della terra._ _Disse il Navarca: — Forse non ritorneremo. Pensate a chi resta chè è l’ora!_ _E sui volti schierati brillò la tua luce — coraggio — semplice e nuda come l’antenna e la prora — come la corazza d’acciaio._ _Poi l’uno scrisse: — Non piangetemi! — E l’altro: — Avrò la mia fossa nel mare! — E qualcuno alla madre: — Non ti lascio che il mio buon nome. Questa notte vado a morir per la Patria!_ _E schietti e digiuni entraron nei chiusi navigli consacrati al gorgo._ _Andarono — calmi nell’esiguo spazio come nel cuor di una tenebra — ciascuno al suo còmpito estremo. — E la tomba rombante fu per ciascuno un altare. — Solo sul ponte, il navarca — gli altri nel chiuso, solleciti all’ubbidire — fino nel cuore del fuoco — nell’ambito delle macchine._ _Morire due volte era nulla agli aspri pionieri — morire, rimorire — pur di condurre la prora incontro alla pavida Armata — pur di gettare la pietra delle fondamenta — la base incrollabile — elevata al di là del transito._ _Andarono. — Dalle rive infernali s’avventò l’impeto di migliaia — ma la morte era a bordo con loro — ospite fra i suoi bravi. — Era seduta sul cassero l’Iddia de l’ardimento e derideva alle sponde, agli urli dello scompiglio, ai mille boati, alle fiamme, al tramugghiar dei cannoni, all’epica ruina precipite. — Andarono, ritornarono. — E scritta è la leggenda millenne._ _Ma se qualcuno — talvolta — se qualcuno domanderà — qual’anima avevano i morituri — dite che una sola era l’anima — e la speranza levata su loro nella tremenda notte — una sola e perenne: l’Italia!_ “Perciocchè tu non permetterai che il tuo Santo provi la corruzione della fossa.„ _Salmo_ XVI, vers. 10. La nave procedette a lumi spenti; senza forzare, tacendo il mare abbonacciato e oscuro come uno spazio fra gli astri e una solitudine immensurata. Non s’udì che il palpitar sordo delle macchine, chiuse coi loro fuochi rossi nel cuor della nave, nel fondo cuore congegnato a forza. Un uomo scivolò sul ponte; salì un sussurro come se una porta s’aprisse e si richiudesse su l’oscurità, e ancora fu il silenzio. Il giovine, diritto su la plancia, aguzzò ogni sua forza di intesa e di attesa, scrutò la notte uguale nell’estrema figurazione possibile al senso e all’intelletto che procede di cerchio in cerchio per quanto salga e dilaghi. Tanto era spessa l’ombra che il naviglio nemico poteva apparir di sorpresa e trascorrere non lungi, inavvertito. Epperò ad un minimo moto, a un guizzo quasi impercettibile, a una misteriosa vibrazione dell’aria, gli uomini, muti alla loro guardia, trasalivano, protesa la faccia nel buio. Ma la notte s’impietriva nel suo segno enigmatico e tutto era scomparso fra le stelle e il gorgo. Da una cabina, nell’alto, si udiva un intermesso crepitìo, misurato a un ritmo preciso pel quale aveva ugual valore il suono e la paura. Era una misura del silenzio costretto a esprimere, fra la catena dei suoni, il pensiero degli uomini. Qualcuno comunicava di lassù con altre navi lontane, con le città del continente, per un sempre nuovo prodigio. Le voci degli uomini traversavano i cieli con l’impeto della folgore, chiuse nel mistero di un’onda come in una divina forma invisibile, prese nel seno della rapidità, guizzanti sotto gli astri fra l’ignoto e la volontà dell’uomo. La nera nave, circondata tutto intorno da miglia e miglia di mare, divisa, dalle città delle turbe, da lunghe catene di monti e da foreste e da abissi, parlava con coloro che vegliavamo per lei e con lei; la sua voce giungeva ai grandi palazzi dagli attoniti occhi scialbi, aperti incontro alla notte e qualcuno, sotto una lampada elettrica, la fronte fra le palme, ascoltava. Poi si udì il palpito delle macchine farsi più fioco, rallentare. Un bianco baleno rettilineo attraversò la tenebra, la divise e la squarciò fulmineamente, si appuntò ad un’ombra fuggente, l’avvolse tutta quanta nel suo cuore, la disvelò. La nave, colta nel campo del riflettore allentò la rotta, attese. Si udirono voci ingrandite dal megafono e la luce si spense, e ciascuno proseguì per la sua via. Così trascorse la notte. Su l’alba apparve la lunga teoria dei trasporti. Il mare fu corso da un tumulto e il nome dell’Italia si levò per la prima volta a impero di contro a coloro che l’avevano umiliato e deriso e vituperato negli anni degli anni. Il giovane aveva vegliato tutta quanta la notte quantunque fosse caduto il suo turno ed egli avesse potuto riposare. Era giunta la volta attesa ed egli ne era ebbro come di un convegno passionatamente sperato negli anni e invocato con l’ardore e la candida fede dell’anima che s’apre al glorioso amore del mondo per gli occhi e la voce e il palpito di una creatura bella. Ne fremeva e ne avrebbe cantato perchè il suo cuore si chetasse e il suo sangue avesse un ritmo all’impeto fondo e l’anima una sua scia luminosa. Tale era lo spirito dei marinari d’Italia in quell’alba di battaglia. L’antichissima terra, insuperata nella gloria, nel dolore e nella tenacia di ferro, mandava il fior delle sue stirpi sul mare; tutti i suoi giovani figli più forti, consacrati al Dio della grandezza di lei, esuli ad una primavera sacra. L’alba saliva da una violacea foschia addentata ai confini dell’oriente come da una cintura caduta dai fianchi della notte nella sua fuga e il cielo opalescente si volgeva alla grazia novella in un giovine incantamento d’amore. Tutto era puro e forte come una risurrezione. Ora più erano eterni gli istanti che separavano il giovine dall’azione, anzichè i lunghi anni della sua cieca attesa quando nulla gli appariva nel poi che non fosse sconforto. Mutò qualche rara parola con un compagno; attese l’ordine perentorio al quale avrebbe ubbidito senza alcun moto interno che non fosse di assoluto acconsentimento, come ogni umana forza acconsentiva, in quell’alba, all’azione gioiosamente desiderata. Era l’esuberanza latina, stanca della grigia vita senza bellezza, senza entusiasmo, senza Dio che si scagliava innanzi a rifarsi una strada e un destino, a cercare un ardore altissimo, una bellezza nuova per la necessità di non morire soffocata entro i confini di una miseriola arcigna e sospettosa; era una formidabile volontà di vita non sospettata dai retori, disconosciuta dai fiacchi, dagli scettici, dagli ironici e da tutto il mal seme degli uomini degeneri che si trascinano da giorno a giorno pigramente, in una sbadigliata monotonia di parole e di sorrisi. E sul mare e nell’alba, il canto del montanaro del vecchio Piemonte e quello del pastore delle Madonnie, si levavano per lo stesso sentimento verso l’ignota terra apparsa dal gorgo della notte col primo palpitar della luce fra cielo e mare. L’uomo forte ed austero dell’Alpe e il fantasioso pastore dell’isola favoleggiata vibravan per lo stesso amore, ritti su la prora del nero naviglio, intenti all’apparire della fulva terra. E quale altro popolo scendeva cantando alla battaglia? Quale altra anima poteva essere tanto serena all’appressarsi di un dubbio destino? Dalle terre di Gallura alla marina di Metaponto, dai monti di Catanzaro alla pianura del Po e alle alte valli dell’Alpi era disceso il vario fiore della giovinezza italica a offrirsi e si era raccolto intorno alle stioccanti bandiere con a capo l’eromper degli inni che accendono il sangue. Dietro le poche migliaia era il numero enorme. Egli sentiva questo, nella trepida attesa, e la sua superba malinconia ne era irradiata dileguando ogni trascorsa amarezza. Non per altro aveva abbandonato, negli anni, i compagni ignari i quali si imbastardivano in bagordi di femine, paghi della loro scialba vita vanamente vissuta; e tutto aveva sacrificato alla sua virtù fattiva per la necessità di essere qualcuno. Era nato di famiglia patrizia, solo erede di una fortuna considerevole, signore di ogni sua volontà e di ogni piacer suo. Tutto ch’egli avesse desiderato poteva: godere in libertà, perdersi fra gli ignavi, dimenticare il mondo e i suoi dolori: non essere. Tanti e tanti non erano, larve meschine di genti degeneri che giustificavan l’odio del popolo; vanità pietose rannicchiate fra i ferrivecchi dell’araldica come in una fortezza sublime; pallidi fantasmi da fiaba e non più. Egli non aveva proceduto per la loro via, offeso da una altezzosità sgarbata e da una miseria morale troppo grandi; nè più gli era piaciuto il gesto di qualcuno che usciva ad uccellare con il volto coperto da una sua maschera giacobina; il suo gran cuore d’uomo era stato ferito dalla meschinità dei primi e dalla viltà dei secondi e si era chiuso nella malinconia di chi si sente esule fra i suoi e non vede strada che li avvicini nè ora che li tramuti nel mondo. E aveva abbandonato tutto. Che ne avrebbe fatto altrimenti della sua passionata giovinezza? Come vivere e come morire in una grigia uniformità di giorni deserti, pure ascoltando le voci innumerevoli della vita? Or col crescere della luce, la lunga teoria dei trasporti si delineava più chiara contro il cielo purpureo. I navigli da guerra fiancheggiavano il corteo precedendolo e chiudendolo. Procedettero lentissimamente fin che non furono immobili. Allora il giovine severo si sentì chiamare. * Il bel cipresso fra gli uomini stava per incontrarsi col proprio destino. Si rivolse, salì una scaletta, si trovò di fronte al condottiero della nave. L’ascoltò rigidamente. E quando si volse a ritornare gli occhi suoi erano lucenti. I compagni lo videro discendere nella lancia, raccogliere i suoi uomini, impartir ordini, disporre, agire con fredda e precisa rapidità. Una energia improvvisa nasceva in lui, una virtù di comando e d’azione non sospettata. Abilmente lo avevano prescelto e lo mandavano innanzi. Il suo viso si era trasfigurato. Su la consueta impassibilità severa passava un ardore novello. Le sue native virtù di dominio, trovando il giusto campo nel quale esplicarsi, si incuneavano ad un punto rinsaldando intorno a sè gli uomini come a farne una cosa sola e avveniva il prodigio di cento anime perdute in un’anima sola, di cento volontà riassunte spontaneamente ed entusiasticamente in una. Gli umili navigatori, i bei marinari forti e taciturni l’avevan conosciuto d’istinto accettandolo a capo senza dubitanze. Anche se il grado non lo avesse loro imposto si sarebbero stretti intorno a lui per seguirlo, per essere dove egli era, per compiere il prodigio ch’egli avesse pensato e voluto. Tutto era possibile con uomini di tal fatta, nè v’era furia, nè numero, nè violenza che avesse potuto interporsi perchè la volontà e la fede e la convinzione di balzar oltre ogni opposta energia compie i miracoli che stupiscono. Essi invero avrebbero mosso lo stupore degli uomini lontani. Lo scarso manipolo valeva più di centomila, più che eserciti schierati. Egli sentiva la sua giovinezza salire tant’oltre, vivere di tant’ala e di così grande ardore da invaderne il mattino e sentiva che il fascino del suo cuore era intorno a lui più che una parola detta, più che un comando od un gesto. Certe virtù si sentono, non s’esplicano altrimenti, hanno un oscuro e magnifico potere emotivo, sono un brivido da cuore a cuore, un patto senza parole dinanzi alla morte. Or ecco che la sua nobiltà si creava in lui, di lui ed egli era in realtà oltre le pallide larve del passato, il primo fra i suoi. E questo volevano gli umili, coloro che lo seguivano come un maggiore fratello al quale si affida tutto che di più grande si abbia: la vita. Questo volevano i fabbri dei cantieri, usi alle affocate fucine e ai mazzapicchi e alle ancudini squadrate e sonore come le anime loro; i mastri d’ascia, nocchieruti come i vecchi pini divelti a formar la chiglia delle navi; i calafati, i velai, i pescatori dal cuore di bronzo. Ed eran di Liguria e d’Oristano, di Versilia e dell’Abbruzzo; figliuoli di maremma e di laguna, nati sul mare e per il mare come la procellaria. Andaron sereni. Erano i primi che discendevano su la terra da conquistare al dominio dell’Italia, i primi che mutavano corso a un destino, che incominciavano un’ora storica. Li guardò. I bei volti giovani gli sorrisero serenamente devoti. E la lancia si avvicinava alla spiaggia sempre deserta, in apparenza. Altre lancie venivano dopo trainando grandi zattere. Giunsero. Egli discese primo, i compagni gli furono al fianco. Senza attendere il batter di un ciglio li ordinò e si spinse innanzi verso le dune. Nessun ostacolo si frappose. La distanza fu superata in breve. Ed egli sempre era primo, sempre il suo piede segnava l’orma sua innanzi alle altre. A lui doveva toccare il primo urto e la prima insidia come a quello che la fortuna aveva posto più in alto, come a colui che giustifica il suo grado con la forza dell’animo e l’energia conduttrice ed il saldo coraggio. Dispose gli uomini suoi a difesa, distesi su le dune contro il punto da cui sarebbe giunto il nemico ed attese diritto, disdegnando ogni riparo, offrendosi alla morte con l’impassibile calma di chi ha vinto in sè le forze dell’istinto. Le lance giungevano e ripartivano. Già si era messo mano ai pontili e la spiaggia era animata da un lavoro rapido e preciso. Altri reparti sbarcavan più lontani, si distendevano fra le dune, ma ancora la difesa sarebbe stata uno sforzo titanico di pochi se il nemico fosse apparso. E appena erano presso la spiaggia le zattere dense di armati che il giovine, diritto e solo su la duna più avanzata, come era diritto e solo il suo nome fra l’ignavia degli ottimati, vide e misurò il primo impeto. Da un palmeto lontano, nel quale aveva già scorto un denso rimuoversi d’ombre, sbucavano i beduini e si lanciavano innanzi addensandosi come un nugolo. Il giovine si volse a guardare la spiaggia e le dune laterali. Erano pochi ancora e forse, agitandosi il mare sotto un vento repentino, i rinforzi non sarebbero giunti a tempo. Ma che importava? Bastava il manipolo esiguo a fronteggiare la rabida furia. Egli non si rimosse, non si inchinò. Pareva avesse superato cento volte simili ore di spasimo. Attese. Mormorò qualche parola agli uomini suoi. Li predispose all’ultima resistenza. E d’un subito incominciò la battaglia. Ora non ho palesato il nome di lui. Egli ne sarebbe impallidito come impallidisce ogni grandezza imprigionata nel fiacco cuore dei più. Sia come l’anima migliore fra la moltitudine, o rimanga nel regno de’ miei fantasmi. Io avrò dette vanità. Ma la sua memoria avrà il nome di una stirpe e di tutta una famiglia umana; ma la sua leggenda correrà il mare e i cantieri, narrata dai nipoti del suo manipolo; si rinnoverà come il vento, come la vela e il remo e come il cuore d’Italia. Il tempo non fu più misurato se non sul procedere del barbaro nembo. Era una fiumana che avanzava contro una scarsa diga di uomini; ma ciascuno si era votato al Dio della morte ed era incrollabile. L’impeto fallì; il numero si infranse; la sicurezza dei barbari vacillò. Non erano dunque i figli di ogni viltà coloro che eran discesi alla spiaggia?... I favoleggiati italiani, miserevole gramigna di campi riarsi? E le bande dei bruti, lanciati alla preda, giungevano correndo, si scomponevano, si riformavano, incitandosi alla ferocia con lo strepito dell’urla. Ma una corona di dune era insuperabile; ma dietro quella e su quella era la virtù garibaldina della gente del mare. E un uomo solo appariva ai sopraggiunti, oltre il ciglio di una duna, diritto; un uomo, il primo, l’invulnerabile. Ognuno gli diresse il suo colpo, egli non crollò. Si aggirava sul fronte della sua difesa; pareva avesse l’inconsistenza di un’ombra. A quando a quando si soffermava a rivolger la faccia. E dietro di lui era una barriera di fuoco. Erano caduti a diecine su la barriera vietata da quel solo. E la sua fine era inevitabile s’egli si chiamava uomo, se era schiavo della rossa vita del sangue. Ma il suo prodigio doveva valer la vittoria. Egli, di sè, aveva ingigantita la sua gente, egli si era moltiplicato in ciascuno, aveva tenuto sul suo solo destino, per un attimo, l’enorme destino di tutto un popolo. Se ripiegava, innanzi che altri giungesse, era il disastro; se cedeva un palmo, se il suo coraggio l’abbandonava, tutto era perduto, per sempre. Doveva morire ma innanzi a tutti, solo e diritto su tutti gli altri, con nella fronte pallida, fra gli occhi fermi, la smisurata volontà di un popolo. E il còmpito titanico gli piacque, la sua superba malinconia ne fu profondamente irraggiata ed egli si sentì sacro nella sua morte che gli era bella come un altare. Non si rivolse al passato, andò verso il suo certo termine come chi si è liberato da ogni legame umano e ha colto il supremo rapporto fra il suo essere transitorio e l’eterno: fu uno, compiutamente, dall’abisso dell’anima all’aspetto esteriore. E la sua gente l’idolatrò. Poi quando sentì, alle spalle, l’italico grido dell’attacco e vide procedere in corsa le turbe discese dalle navi e si sentì soccorrere, non volle perdere il primato. Ebbe un grido ed i suoi pochi balzarono in piedi vicino a lui e corsero all’attacco. Ma in quel punto il giovine si inarcò, disciogliendosi il suo legame umano. Cadde, volse la faccia contro l’Italia lontana e il bianco orrore lo tenne. Era giunto. Su la sua traccia trascorse l’impetuosa vittoria. Fu tutto. La spoglia di lui ritornò sola ed esangue fra i tristi compagni. Ora, sarà giorno in cui riposerà fra suo padre e sua madre, nei mausolei fastosi, fra i roggi cipressi e riposerà come ogni uomo nei campi della moltitudine; ma l’anima sua sarà sempre divinamente levata innanzi al destino della Patria, come una volontà malinconicamente superba che prima si elesse la morte per la grandezza di una stirpe anzichè tralignare. L’insidia. “A tutti gli umanissimi cuori di Europa che ci armarono pirati, che ci vestiron di ferocia, che fecer sentimentale scempio di noi e ci augurarono la disfatta; agli ipocriti di ogni terra e di ogni razza per l’amor che ci unisce.„ _La storia, quando segna i suoi periodi classici, non vede che le razze e il loro destino e raro è che raccolga un umile nome e lo incida oltre il confine mortale, nelle sue rupi._ _L’ombra da cui sorse, per un attimo, l’uomo gagliardo, ritorna uguale con la morte di lui; quello ch’egli fece scompare nella gesta comune._ _Ma chi visse l’ora storica, chi ricorda i singoli volti degli uomini non può astrarre nè dimenticare._ _Il frutto val bene il suo ceppo._ _Così su la trama dei giorni, sul contessersi degli avvenimenti fra le grida e i tragici silenzi, fra i rulli dei tamburi, sorgenti dall’ombra antelucana, i chiari squilli ripercossi da campo a campo, il grido delle scolte, il vociferio dei ridesti, il canto dei nostalgici, il riso dei sereni, l’impeto delle battaglie, il giolito delle avanzate, il trepestar dei cavalli, l’avventurarsi delle masse enormi, il rombo degli scoppi, i cortei della morte, tra tutto questo e più ancora nella vita dal ritmo sempre diverso e sempre possente, grandeggiano certe figure di umili che nessuno sapeva e che nessuno saprà forse mai._ _Ma l’uomo che passa fra i compagni suoi ammirati, l’uomo ignaro che agisce e muore per una sua luce infinita, trova una eco, nel suo popolo, è, come il cuore dei cuori, il mutamente eletto fra i diecimila._ _E il nome suo, emigra storpiato, trasformato, nei canti delle montagne e delle marine; trascorre per gli anni, batte alla soglia dei secoli, perde il suo suono preciso, significa l’eroe, l’entusiasmo, la patria e la sua gloria, il paese e la sua grandezza, è l’ingenua potenza d’amore e la forza di ascesa di un popolo._ _Così il solco profondo aduna maggiore sementa e per l’emula volontà di ogni franca giovinezza si formano gli eroi._ _È per l’ignota forza di pochi ignoti che si formano le compagini formidabili._ Si spegnevano i fuochi dei bivacco. La notte scendeva sul deserto. Diecimila uomini cercavano il sonno fra le tende e le sabbie, distesi sotto le stelle, con accanto il fucile. Si udivano appena voci sommesse e il trepestar dei muli e dei cavalli raccolti in cerchio intorno a una palma, o a un palo, o a un carro nero. Era una notte africana, tersissima, senza fiato di nebbie, sì che gli astri parevano più grandi e più vicini e più profonda l’oscurità interposta. E, sotto l’immensità, diecimila giovinezze tacevano nell’immemore sonno. Qualche rado lume brillava tuttavia, qualche bagliore di fuochi semispenti; ma dalle tende, ma dalle basse baracche non si udiva che il pispiglio di qualche parola sussurrata nel sonno o il respiro uguale del riposo dopo il travagliato giorno. Fra le scarse palme, su le dune più alte, in tutta la vastità del campo trincerato era trascorsa la pace. Solo, su le trincee ciclopiche, passavano e ripassavano le ombre delle sentinelle. Un cerchio di uomini vigili era intorno intorno. Si muovevano essi su le sabbie, inavvertiti, contro la volta notturna. Qualche stella che brillava più basso, fin su l’ombra di una duna, poteva trarli in inganno e irrigidirli nell’attesa e così il tinnire dei reticolati percossi dall’incauto che v’incappava; ma il primo dubbio era tosto risolto dalla persistenza dello scintillio rossigno ed il secondo anche, chè un subito mugolio indicava il trascorrere di un cane affamato. Le ore si trascinavano a stento quasi che il sonno le cogliesse per via e il loro andare fosse interrotto da pause. La città della guerra giaceva nel suo vigile riposo avendo intorno l’avida brama e l’urlo della barbarie. Ma pure qualcuno non s’era inchino tuttavia su lo sparto o su la sabbia a cercarsi il consueto giaciglio e, alla poca luce di un cero, o di una lanterna, curvo su di una cassa vuota o su due zaini sovrapposti, scriveva ai lontani, al di là del mare. Altre ombre si aggiravano intorno alle tende del Comando e ad un fonducco, nel quale giacevano promiscuamente i prigionieri. Un giovinetto berbero, appoggiato allo stipite della porta, guardava la notte, impassibile come se non fosse in prigionia, ma sull’entrata della sua tenda al limitare delle Hammade. Era in quel suo giovine volto come una volontà assidua che ne impietriva il segno, sì che nè sorriso, nè dolore, nè altro sentimento aggallava dall’anima a tale specchio muto ed arcigno. Aveva l’occhio freddo ed acuto dello sparviero e di indoma fierezza. Immobile da lung’ora parea attendesse dal cuor della notte un suo misterioso messaggio, attraverso allo spazio taciturno. Due soldati l’osservavano in disparte, e quegli che doveva guardare la preda umana gli passava dinnanzi nel suo breve giro squadrandolo come chi poco si fida poi che poco intende. Poi qualcuno sopravvenne correndo. I tre soldati di guardia al fonducco si volsero contemporaneamente dalla parte da cui giungeva il busso dei piedi. Una voce chiamò: — Cartesi?... Amendoli?... — Presente! — risposero due voci forti. — Venite subito!... Vi si vuole al Comando. — Pronti. Colui che rimase di guardia riprese l’assiduo giro: gli altri seguirono il sopraggiunto. Come furono a una grande tenda illuminata ristettero per ripartire poco dopo, essendosi spontaneamente offerti a un arduo còmpito notturno. S’incamminarono per la notte senza parlare. Attraversarono l’accampamento fra il sonno comune, fra il ritmo della pace infinita. Da una baracca udirono una voce sommessa, una voce trasfigurata dal sonno, invocare un nome; da una tenda, più oltre, qualcuno rideva di un suo riso breve ed improvviso, interrotto da strane pause in cui nulla si udiva; e la causa di tale gioia sognata era segreta come ogni altra vita notturna. I muli dormivano in cerchio; diritti i più, il muso atterrato e le froge pendule. Al loro passare qualcuno volse lentamente la testa e sogguardò puntando le acute orecchie. Furono al fonducco. Il giovine berbero era fermo tuttavia nell’atto dell’ignota attesa. Non li guardò, nè si mosse, nè battè gli occhi fermi. Il soldato di guardia chiese loro: — Dove andate? — A Tripoli. — A quest’ora? — Sì. Proseguirono calmi, col loro passo uguale, salendo e discendendo le dune, lungo la pista carovaniera. Le profonde carreggiate su la sabbia segnavan la via sicura. Non potevano smarrirsi. Anche il fonducco si allontanò e non si udì che il gran palpito notturno intessuto di suoni erranti, di soffii improvvisi, di brividi d’ombra, di una vita che è simile al guizzare degli astri nell’altro cammino. Su tale trama si levavano prossime e remote le strida degli sciacalli. Andarono senza cambiar parola, il fucile su la spalla; e il cuore aveva il ritmo del passo sicuro. Nè s’eran desti con la sera, nè avevan rinfrancata la forza loro nel sonno. Fin dall’aurora eran stati nel sole, nel vento, a fianco dei compagni, alla dura fatica, tenaci come il picchio sul saldo tronco, allegri come l’allodola che canta e si veste d’aurora. I loro vent’anni erano come una forza infinita che sempre soprastà ad ogni cura e sempre è pronta oltre il sonno e il riposo. E fra il popolo aspro e torpido delle terre africane, fra le genti imbestialite che s’inebetiscono nel niente e rientrano, vive, nel cerchio delle cose morte, essi passavano come una freschezza di pioggia improvvisa, come un lavacro di purezza e un tumultuar di acque vive su la millenne aridità. Risposero al richiamo delle ultime sentinelle, scavalcarono i reticolati e le fosse di lupo, furon soli e la città della guerra svaniva nella tenebra. Non brillò intorno alcun altro chiarore che non fosse quello degli astri. Appena avevano lasciato Ain-Zara che questa parve profondasse in una lontananza incommensurabile. La notte ed il deserto mutavan valore ad ogni distanza, ad ogni sensazione. Come le prime dune furon dietro le loro spalle la solitudine divenne compiuta. Dovevan percorrere sei chilometri prima di giungere alle trincee di Bu-Meliana, dove sapevano del loro arrivo, eppure era come se partissero per il cammino mortale delle Hammade o degli Edeien. La loro vita dipendeva da un destino più che fallace. Ogni passo poteva condurli all’agguato; ogni ombra poteva essere l’ombra mortale. Andavano per un fantastico paese ignoto su cui ogni cosa viva non potea più che trascorrere. Ma l’anima loro vegliava per gli occhi intenti che già avevano penetrata la tenebra. Or pareva che una luce siderale, immobile e fredda, diffusa come l’alito, scaturisse intorno dalla terra spettrale. E sempre più dilagava senza muover ombre, trasfigurando le cose che in lei sorgevano con profili di sogno. Era come una fosforescenza di luna sonnolenta, presso a morir fra le nebbie occidue. Gli aspetti diventavan fuggevoli, impalpabili, giuoco di un inganno diverso ad ogni attimo, inafferrabili in un segno preciso. I due giovani proseguivano calmi, or salendo verso la sommità delle dune come per una via senza compimento che non fosse il punto suo estremo pel cielo; or discendendo nell’interposto solco come in un sepolcro nel cuor della terra. Apparivano, disparivano, senza muover l’eco di un suono, diritti al loro segno. Solo a volte, là dove la furia del _ghibli_ aveva maggiormente sconvolta la mobile terra, i loro passi risuonavano su la roccia con tonfi cupi, alternati da pause. Non si apriva sotto i loro piedi una cavernosa immensità che dava il rimbombo? L’identico pensiero attraversò il chiuso dell’anima loro senza appalesarsi e con questo altri molti: precisi ed informi, vividi e scialbi, di ricordanza e di desiderio. Giunsero ad uno stagno. D’improvviso su la terra nera apparve una tenuissima fosforescenza animata da più vive luci. Eran le stelle rispecchiate dall’acqua immota. Scansarono una massa oscura, il cadavere di un cammello, riverso sul pendio di una duna. Il collo ed il muso eran contratti in tale arco di spasimo che pareva dovesser schiantare; le quattro gambe intelite non toccavan la terra. Da presso gli giaceva un mucchio di cenci, un basto capovolto, una stuoia e una rete di sparto; poco più oltre era una piccola trincea scavata a furia, con le mani, dal nemico in fuga, e una cosa informe: forse un morto. Non vi posero mente. Ricordavan la giornata della vittoria, la lunga attesa sotto la pioggia, sdraiati nel fango fra il rombare e il frullar dei proiettili, poi i balzi in avanti, l’impeto irresistibile, la fuga delle orde incomposte. Declinava il giorno, si accendevano i fuochi. Gli accampamenti abbandonati ardevano in scoppi improvvisi; si levavano alte, nella calma del vespero, le fiamme e le colonne di fumo. Ad un tratto Cartesi disse: — Dov’è la carreggiata? Amendoli guardò intorno senza rispondere. Si fermarono. Lo stagno s’incupiva sotto le dune e aveva perso di chiarore come si erano avvicinati. Pareva una nera lastra cosparsa di fuochi verdastri, un vuoto buiore intersecato da guizzi. Si udì un fruscìo e un tonfo. L’immobile specchio si agitò tremando, le stelle vi si deformarono. D’istinto i due giovani puntarono il fucile contro l’ombra ma altro non si udì. Le concentriche anella diradarono, morendo alle rive, lo stagno ritornò alla sua spettrale apparenza. — Per dove si va? — domandò Amendoli. Cartesi si volse intorno. Erano fra un angusto giro di dune in un àmbito ancor più fosco. — Vedi i fili del telefono? — No. L’ansia non fece tremare l’anima loro. — Eppure siamo passati per di qua. Non ricordi quest’acqua? — Sì. — Ebbene, andiamo diritto! Ripresero il cammino. Ancora non avevano salite le opposte dune che un nuovo tonfo si udì alle loro spalle e questa volta più forte. — Sta attento, — disse Cartesi. Amendoli aveva il fucile alla spalla. Domandò con voce inalterata: — Che sarà? Nulla si vedeva rimuovere intorno. Attesero scrutando l’ombra e quando parve loro che ogni maggiore sosta fosse vana ripreser la via. Cartesi disse: — Se sono gli spiriti, tanto meglio! Quelli non hanno lo schioppo! — Sarà qualche bestia, — disse Amendoli. Poi qualcosa gli balzò innanzi, con occhi di fuoco e dileguò mugolando. — Hai veduto? — Sì, un cane! — Era uno sciacallo. — Ciò che vuoi, ma non sparare! Le carreggiate non ricomparivano, nè i pali, nè i fili del telefono. Quando furono sull’alto di una duna si fermarono. — Sai orizzontarti? — domandò Cartesi. — Quando andavo giù pei tratturi con le greggi, verso Foggia, a svernare, conoscevo le stelle della mia strada. Qui le stelle non mi dicono nulla. — Non importa. Ci sbrigheremo ugualmente. Passò un silenzio. — Le trincee sono laggiù! — Dove? — Là!... Hai veduto? — Sì. Una luce debolissima punteggiava la tenebra più presso la terra, in fondo in fondo. — È un lume dei nostri. Andiamo. Appena avevan mosso tre passi che tutto scomparve. Ora le dune erano più frequenti ed essi faticavano nel cammino. La mobile arena appesantiva il passo, pareva vincolasse ognor più i piedi e li inceppasse a trattenerli nel suo molle seno. Quello scendere e salire disorientava i raminghi. Vagarono di duna in duna, il volto aggrottato, gli occhi lucenti. Di repente Cartesi si fermò e disse: — Ricorda che, nel peggior dei casi, non debbono prenderci vivi! Camminavano da tre ore. — Dovremmo essere arrivati, — disse Amendoli. — Arriveremo. — Bè. Sarà ciò che Iddio padre ha deciso. E ristettero. Sentivano una grande volontà di riposo. Amendoli si abbandonò prono sul pendio di una duna. — Guarda di non addormentarti! — No. — Levati. Innanzi a loro apparivano, abbandonate scompostamente, alcune cose oscure e indefinibili alle quali non avevan posto mente a tutta prima, intesi com’erano a cercar le pediche dello smarrito cammino; ora, nella sosta, le guardavano. Erano cadaveri insepolti, i caduti di quattro giorni innanzi abbandonati dal nemico, nella fuga. Si vedeva l’avviluppo dei cenciosi barracani e il gesto supremo dell’agonia. Uno si era irrigidito in quel che puntava il capo e i piedi nell’urlo spasmodico e giaceva, le braccia larghe, il viso orribilmente losco; un secondo sembrava schiacciato e crocifisso alla terra e la sua faccia affondava nella sabbia; un terzo era ruzzolato di fianco, le mani contratte sul cuore, la bocca torta. Non in un volto era la pace o un segno di divina grandezza. Intorno intorno, cosparsi per un vastissimo raggio, giacevano bossoli di cartucce, schegge di granate, avanzi di cuoi e di panni e di armi infrante. Era in tutto ciò una tragica solennità. I raminghi ripreser la strada. Ora sentivano la necessità dell’andare, per qualunque via, in qualunque punto pur di giungere a una risoluzione. Più temevano l’aggravarsi della solitudine anzichè la lotta e la morte. Più dell’uomo e della sua furia era grave il deserto senza vie nel suo immenso silenzio. Ancora tentarono dirigersi ma la morta terra non consentiva loro la diritta via; li ingannava in un giuoco assiduo di cento cammini. Più andavano e meno sapevan di giungere. Era una disperante lotta con l’imponderabile: con l’ombra e la terra, con ciò che non si misura e non si conquista, di cui, nelle ore più tragiche della nostra vita, si sente l’infinito impassibile potere. A certe incrociate non resta che affidarsi alla sorte. L’uomo e l’orgoglio dell’uomo rientrano nel mare delle cose mute ed impossenti, sono riassorbiti dal silenzio che ci attornia e ci sovrasta e verso il quale precipita ed annega ogni vita ad adeguarsi nell’uguale profondità. Su le sabbie non apparivano pediche di uomini o di cavalli. Forse le orme loro eran prime e uniche in quella zona desertica e non avrebbero avuto compagne. Si susseguivano appaiate e profonde in una fila senza fine. Da cinque ore erano in via. Amendoli disse: — Riposiamo qui. All’alba si vedrà la strada. — Bisogna giungere prima dell’alba! — rispose Cartesi e sentiva di dir cose vane. E quando il lucore dell’alba vinse la notte e coronò il levante della sua fresca tenuità, essi camminavano ancora, ma la loro vigoria era per cadere. Fu allora che Cartesi mormorò: — Sono stanco! Si guardarono in faccia. Ogni potenza ha un confine. La lotta col deserto è tremenda perchè è di una piccola volontà contro l’impassibile. Li tormentava la sete. La stanchezza oscurava ogni loro pensamento, li teneva in una torbida veglia piena di fantasmi. Erano ormai come una sola persona, come un’anima e due vite. Si guardarono in faccia. L’uno lesse negli occhi dell’altro la parola della disperazione ma tale parola non fu detta, brillò nel raggio degli occhi solamente. Reclini, la mano ferma alla bandoliera del fucile, continuaron la strada. Poi l’un d’essi gridò: — Guarda laggiù, guarda! — Dove? — Là.... là.... non vedi? — Son dei nostri! — Sì, sì!... Siamo salvi!... Amendoli lanciò la parola d’intesa: — Italia!... Italia!... Tacquero. — Dove sono? — Non li vedo più! — Andiamo ad incontrarli. — Aspetta, — disse Cartesi e attanagliò il braccio del compagno. — Che c’è? — Aspetta. Avevan veduto in verità la veste grigia di due bersaglieri e l’elmetto piumato; non si erano ingannati; la luce novella non consentiva l’illusione. I sopraggiunti erano scomparsi. Li avevano scorti ad una distanza non grande e non era possibile non avessero udita la chiamata; non avevano risposto. Dove andavano? Un arruffio di pensieri contrari attraversò la loro mente torbida tuttavia; ma d’improvviso i compagni riapparvero ad un trar d’arco, sopra una duna. Balzarono su come decisi ad un inseguimento, si fermaron di scatto. — Che fanno? — domandò Amendoli. — Non ci hanno riconosciuti? Non ci vedono? Cartesi tacque ed il viso di lui s’infoschì. Vide i sopraggiunti parlare fra loro, poi levar le braccia e rivolgersi intorno col gesto di chi spia e teme un agguato. — Che fanno? Chi aspettano? Cartesi non rispose, si chinava lentamente stringendo il fucile. Disse a voce spenta: — Non ti muovere! — Perchè? — Sta zitto! Si udì un urlo roco, e un altr’urlo più lontano. Apparve una fumata. I dispersi avvertirono un fruscio alle loro spalle mentre gli inesplicabili compagni non si muovevano più dall’alta duna. Anche Amendoli aveva spenta la voce e l’orgasmo improvviso. Ancora non si spiegava la ragione di tale sosta. Ma avvenne allora ciò che non si sarebbe atteso giammai. Vide, trasognando, i due bersaglieri prender la mira contro di loro e sparare e precipitar giù dalla duna, di schianto. Cartesi aveva preveduto tutto, e in quel che pareva impietrire nell’attesa, aveva risolta l’azione; anche gli era apparso un segno che, riaccesa tutta la sua vigoria, lo aveva fatto conscio di una possibilità inattesa. Gridò ad Amendoli: — Non sparare! E si gettò giù per la sottostante fossa a gran corsa. Gridò ancora: — Presto! Presto! Ma Amendoli gli era ai fianchi. Seguirono l’avvallamento, pratici del favore dei luoghi e riudirono il trepestìo alle loro spalle. Un urlìo si levò nell’alba. Tentavano accerchiarli. — Ci hanno presi! — No, — ruggì Cartesi. — No! Soggiunse: — Appena li vedi, spara!... Mira giusto, per il tuo Dio! Amendoli non intese. La corsa diveniva sempre più rapida. Percorsero un laberinto di fosse e il passar delle palle si moltiplicava. Non cercarono evitarle, non si arrestarono un attimo. Più non pensavano alla vita loro. Morire per morire! Che importava vivere?... Che cos’era la morte in quel punto se non un balzo improvviso nel sonno da quella divina possanza? Ora il trepestìo era più lontano e le voci più fioche nell’aria. Si udì sul vento un grand’urlo diverso. — Hai sentito?... Hai sentito?... — gridò Amendoli fattosi pallidissimo. — Sì!... Sono i nostri! — Attaccano! Cartesi sostò, si morse una mano a sangue: — Sacramento!... Ci sono sfuggiti!... — bestemmiò. Poi ebbe un guizzo, avvinghiò alle spalle il compagno, lo trascinò con sè contro la terra, in agguato. — Sono là!... Sono là!.... Amendoli appena ebbe tempo di volgere gli occhi, che il compagno suo, puntato lo schioppo, aveva disteso al suolo i misteriosi apparsi. Gridò inorridendo: — Che hai fatto mai?... Che hai fatto?... Cartesi non rispose. I due bersaglieri giacevano bocconi rantolando. Allora Amendoli si lanciò a corsa e già era presso ai caduti quando l’un d’essi, levatosi sul torso, lo prese di mira. Cartesi parò il colpo gridando: — Hai veduto, imbecille? Poi si chinò sui vinti, li disarmò, tolse loro le vesti rubate per l’ignobile insidia, e rideva e aveva gli occhi troppo lucidi per il suo grande riso. Ritto, fra il tempestar della morte, non sentì più che il canto del suo cuore forte. Trascorrevano su le prossime dune, i bersaglieri lanciati all’assalto. Il Rosso. “A tutti i soldati d’Italia che amarono e morirono.„ _Chi vi saprà mai, uomini dal cuore robusto?. Eravate nei silenzi dei vostri monti come le roveri e gli abeti, sperduti fra il pino e la nube, o per la campagna senza strade, o nell’officina, nella città che uguaglia, nella grigia monotona fiumana._ _A voi stessi ignoti come ad altrui. Rapsodi di una leggenda perenne; creature di fede fra la morte di ogni Iddio; saldi alle vostre radici; cuore della terra vostra._ _Uomini dal cuore robusto, chi vi guardò in faccia nell’ora scialba della vita, chi vi scontrò per la via, sul monte, fra i campi, nell’officina; chi visse con voi nella stessa nave non seppe la vostra bellezza interiore. E i prodigatori di miseria non vi seppero nè coloro che cercavano in ogni inferiorità plebea i gradi al loro dominio._ _Fermi oltre ogni moto effimero, taciturni fra il cicalare inverecondo, soli nell’impeto della moltitudine, serbavate intatta in voi l’anima della stirpe come un frutto sui rami più forti e più in cima, come un lago di cielo azzurrino fra torbide nubi, come una solida ancudine ed una falce fienaia._ _Uomini dal cuore robusto e vi siete ridesti nella terra sinistra, fra i palmeti, dietro le trincee, presso i giovani sepolcri, sotto le tende, agli avamposti._ _Un’anima istessa vi ha irradiato, figli di un’unica madre, più che congiunti._ _Sempre sono nella tenebra le forze maggiori o migliori._ Passò uno squillo ed un silenzio. La radura di Sidi Mesri fu d’un subito deserta. Come il Rosso si ridestò e si vide solo, raccolse l’elmetto, si levò stordito cercando orientarsi e si diresse verso una baracca che occhieggiava lontana fra le trincee e il fogliame. Nessun uomo più attraversava il campo; erano tutti ai loro ripari. Qualcosa doveva accadere nel deserto benchè non si udisse il rombo dei cannoni. Forse i nemici si avvicinavano, forse si preparava una sortita. Come tale pensiero gli attraversò la mente, si affrettò ancor più. Non voleva essere l’ultimo; non voleva che il padron suo andasse solo al fuoco. Erano stati vicini e di notte e di giorno quando il pericolo era più forte, quando la vita si misurava ad ogni respiro e poteva spengersi senza parola, di schianto. Così doveva essere fino alla fine. Ansava affondando nelle sabbie e cercava aguzzar gli occhi nella gran luce per sorprendere ciò che avveniva. Ma ancora non distingueva cosa che gli rivelasse la ragione dell’improvviso silenzio. Quando giunse alle baracche udì il primo rombo lontano. Passò un boato che gli spersi echi dell’immensità si rimbalzarono; che rotolò rovinando come una massa precipite. L’aria ne fu accesa. Il cuore ebbe un sobbalzo. I soldati alle trincee erano intenti alle anguste feritoie. Parlavano sommessi. Si udiva a quando a quando qualche riso represso. Il Rosso si guardò attorno. Non seppe che fare, cercò qualcuno che gli dicesse ciò che accadeva. Un secondo boato squarciò l’immobilità meridiana, poi un terzo, un quarto, e il deserto fu corso da una colossale ruina. Si udirono i primi colpi di fucile, lontani. Passò in quel punto un plotone, a corsa. Il Rosso lo seguì e non ebbe tempo a chieder ciò che voleva sapere, che, presso l’uscita, sul deserto, vide appostata la sua compagnia. Non cercò più. Ora poteva accadere il finimondo, egli era presso all’uomo per il quale l’anima sua di giullare aveva trovato una gran luce. * Come i compagni lo videro si animarono in una subita gaiezza. Egli si acquattò con gli altri e non fece motto. Il viso di lui era tranquillo e l’ansito della corsa si spegneva. I suoi piccoli occhi, sotto le grandi ciglia inarcate, avevano una beata luce di contento. Ma ancora non era al punto ch’egli manteneva sempre ogniqualvolta uscisse per il deserto co’ suoi. Si spostò a piccoli balzi, raggiunse le prime file presso il suo capitano. Questi non lo vide o non gli pose mente. Conversava sommesso con altri del suo rango e scrutava la fulva distesa. Il Rosso lo guardò a lungo quasi ad accertarsi ch’egli fosse ben vivo, poi non pensò ad altro, nè dove sarebbero andati nè a ciò che stava per accadere. Se il capitano era innanzi, tutto poteva farsi. La voce di lui, il suo viso e l’anima sua trascinavan le genti. Uno si dimenticava di essere e dimenticava l’egoismo suo. Il coraggio nasceva da quell’uomo solo, che sapeva parlare ed agire e sapeva le cose dei libri e non temeva la morte. Gli uomini semplici si affidavano in lui, non avevano che il suo nome e la sua volontà. Egli li faceva più grandi e lo sentivano. Il bisogno di adorazione che è nell’anima popolare, la necessità di credere, di consacrarsi, di morire per la bellezza di un amore e di un entusiasmo, trovavano campo a fiorire per quell’uomo dalla figura maschia. I suoi silenzi erano interpretati a grandezza, le sue parole erano ricordate. Un giorno ch’egli s’era fermo, al ritorno da una battaglia, per lasciar passare un morto e, fatte presentar le armi, aveva detto poco, non più di ciò che dice un singulto in fondo alla gola, tutti, impietriti nell’atto solenne dell’estremo onore a chi aveva compiuto il transito, tutti avevano pianto. Egli aveva un modo di dire, quando l’anima gli parlava, un modo tale di significare il suo pensiero umano che era come se egli entrasse dentro ciascuno e si portasse il core con lui, nella sua luce. Per questo poteva chiedere agli uomini ogni ardimento ed ogni devozione, perchè era adorato, perchè era colui che, se comanda, ha con sè la sua forza e la sua luce e la convinzione di chi lo segue. Viveva sempre in mezzo alla gente sua, ma questa lo sentiva vicino e lontano, sentiva che sarebbe stato il primo a morire e che nessuno mai avrebbe potuto essere ciò ch’egli era. C’era in lui qualcosa che dilagava oltre la misura comune, oltre il comune concepimento: un nulla, un tutto, l’ombra di un’anima gagliarda che è ad un tempo nella vita ed oltre la vita e si proietta nel mistero. Per la sua gente egli sapeva tante cose che nessuno aveva sapute mai, tante cose che sono la fermezza di chi deve agire e morire. Era l’uomo che sa reggere e condurre e disciplinare il destino di cento vite e in sè le accentra sicuro, fermo al suo punto oltre la tenebra e con sè le conduce alla vittoria e alla morte. Egli aveva tratto sempre la volontà eroica, l’entusiasmo vibrante, l’amore delle purissime idee dall’amorfa massa degli uomini la quale ha un’anima bambina e molto non sa e tutto attende. Per questo era un eletto. Il Rosso non si spiegava tutto ciò come non se lo spiegavano i compagni suoi; egli non si era mai chiesto un perchè nella vita, aveva sempre seguito il suo impulso e il suo destino e nulla più; solo sentiva di esser diverso da quello di un tempo, di avere acquistato qualcosa che lo faceva migliore, e non sapeva che, e si era dato tutto quanto a colui ch’egli teneva come un suo Iddio su la terra. La sua buffa figura di uomo sbilenco, dalla faccia nella quale si era annidato durevolmente il riso, il riso che dissonna ed abbrevia le dure giornate, si raccoglieva ora nell’attenzione. Seguiva con gli occhi il gesto e il rimuoversi del capitano, innanzi a lui. I compagni lo guardavano motteggiandolo, non rispondeva. Avrebbero potuto parlare per l’eternità senza che egli rifiatasse. Gli piaceva di portar la gaiezza con sè, ma l’anima sua era altrove in quell’ora. Serena sì, e indifferente agli avvenimenti, ma tesa verso il signor suo, vigile intorno a lui come l’aria e l’ombra e la luce che irradia; distesa a’ suoi piedi, lanciata innanzi per lo spazio verso il nemico e la morte. Ma come ogni suo atto era ridevole, come la sua faccia non poteva esprimere sentimento che non si deformasse a gaiezza, sì come era egli il giullare, l’eterno giullare dalla costretta smorfia per quella sua maschera di cui non si poteva disfare, i compagni continuavano a motteggiarlo e nessuno sapeva ciò che era in lui, ciò che si rimuoveva nel suo profondo, nella sua ingenuità nativa, nella sua bontà grande. Gli usciva di sotto l’elmetto, ricco di iscrizioni, una tega di capelli rossi e gli scendeva per la fronte fin su le ciglia troppo arcuate come in uno stupore un po’ sciocco per le cose circostanti. E la sua stretta faccia dal lungo naso, aveva la bocca tonda, troppo tonda e piccina, compiuta in un cerchio ingrossato dalle labbra unite. E su le labbra eran tre peli grifagni, ed altri peli su le mascelle, ed altri presso la fronte. Gli occhi eran piccoli, rotondi, troppo vicini al naso, di un color di fumo, eternamente umidi, mobilissimi e seri ma di una comica serietà e si muovevan guizzando ai boati delle cannonate che rotolavano, come per iscoscese montagne, giù per l’aria serena. Poi si udì un rombo altissimo, dal mare, e un ululo di vaporiera lanciata a precipizio passò sul loro capo. Si vide il deserto lontano eruttar nell’aria una colonna di fumo e di terrame e di fiamme. — O Rosso, Rosso!... Ê passata una cincia!... — Acchiappala Rosso, acchiappala! — O Rosso!... Rosso!... Rosso!... E le risa sommesse si propagavano da gruppo a gruppo. Egli non udiva e non prestava mente alle voci che si incrociavano. Quando il suo capitano si volse e fece un cenno egli era in piedi vicino a lui. Non fu scambiata parola. Uscirono di corsa fra i reticolati; superaron le prime dune; scomparvero. * Nell’impeto della battaglia, quando più nulla si vede se non la barriera da infrangere, il punto da superare, nessuno più aveva badato a lui; l’avevano dimenticato come si erano dimenticati; ma ora che stavano per rivarcare le trincee lo cercarono inutilmente nel loro numero e inutilmente si interrogarono. Il Rosso non c’era più. Fra gli scomparsi eran due che lasciavan più vuoto: il capitano e la sua ordinanza. Del capitano sapevano di averlo veduto, nel momento più critico dell’assalto, lanciarsi innanzi con la rivoltella spianata e scomparire; ma del Rosso non sapevano nulla, non ricordavano nulla, nessuno l’aveva veduto se non quando uscivano dalle trincee per tentare l’aggiramento del nemico. Dov’era?... Era forse morto come il signor suo? O disperso? Nonostante l’estrema stanchezza, gli uomini si raccolsero in crocchio e avevano il volto oscuro e parlavan sommessi come quando il dolore non consente espansione nessuna. Era scomparso un uomo e l’ombra di un uomo; una volontà grande ed una devozione più grande ancora. Volgeva la sera; si consigliavano. Perchè non sarebbero usciti? Forse vivevan tuttavia, forse eran l’uno accanto all’altro, nella gran distesa, dispersi. Perchè non andare alla ricerca? A venti uomini risoluti tutto era possibile e meglio era non ritornare anzichè starsene con un rimorso nell’anima. Risolsero di partire ma non fu loro concesso chè sopravveniva la notte. Un piemontese gagliardo e testardo preferì gli arresti alla rassegnazione. Che importava agli altri della loro sorte se essi soli avevan deciso? Ma non partirono. Fermi presso le trincee, guardarono il deserto per le feritoie, e la luce moriva e l’aria era rossa come il sangue e la brage. Una scomposta nuvolaglia si addensava intorno all’astro che discendeva nei cieli ignoti sotto alla terra. Nessuno parlava più e ciascuno sentiva per la prima volta in cuor suo la vastità della morte, l’immenso valico che resta fra chi trapassa e chi attende al di qua della riva e figge inutilmente gli occhi suoi vani nel poi. Dov’era la voce, il gesto, il comando, il fascino, la grandezza del loro Condottiero? Chi aveva potuto annientare tanta energia e tanta parte di ogni loro virtù, in un baleno? Era egli morto?... Qualcuno sognò di vederlo ancora; qualche altro lo pensò diritto nella notte dell’interlunio, solo e padrone nel cuor del deserto e dietro lui era l’ombra ridevole, l’ombra tragica e sbilenca del Rosso. La leggenda sorgeva dal gregge taciturno. E giunse la notte e pochi preser sonno fra le palme e le norie, nei loro giacigli di sparto. * Ora v’era stato un punto nella battaglia, un punto di incertezza in cui conveniva risolvere un dubbio per decidere l’azione più valida e far volgere le sorti propizie. Un fonducco nel quale si eran riparati gli arabi a tutta prima, battuto poi dalle artiglierie, era apparso deserto con le sue enormi brecce sui muri pencolanti; ma conveniva esserne certi per tentare l’avvolgimento dell’ala nemica avendo sicure le spalle. Tale necessità aveva spinto il capitano, nell’attimo decisivo dell’attacco, a chiamare a sè tre uomini prodi e a dirigersi con loro verso il fonducco. Il Rosso non era stato del numero per elezione, ma non appena aveva veduto allontanarsi il Condottiero coi tre compagni, si era aggiunto a loro senza nulla domandare, solo per la necessità di essere dov’era l’uomo della sua vita. Ed erano andati guardinghi, scivolando fra le sabbie dietro Colui che li guidava sicuro, al punto della loro sosta. Avevano percorso quattrocento metri di strada, apparendo appena sul dorso di qualche duna, sol per l’attimo dell’orientamento e ripiombando distesi nell’interposto solco. L’aria era lacerata dalla terribile gragnuola dei _mauser_. I dorsi delle dune si coronavano di fiocchi di sabbia là dove battevano le palle. Giunti in vicinanza del fonducco, che sorgeva fra tisiche palme, avevan veduto sull’uscita, presso ad un pozzo, un gruppo di cadaveri ammassati, e, poco più lungi, un cavallo bardato era avvinto tuttavia ad una palma, per la capezza. Era quella la cavalcatura di un morto o indicava la presenza di qualche superstite? Ristettero un attimo nel nascondiglio, poi ne balzaron fuori tutti cinque e si diressero a corsa verso l’entrata del fonducco. Entrò primo il Capo, con la rivoltella spianata, poi il Rosso, curvo su la sua baionetta e gli altri. Il vasto cortile era deserto. Lungo i muri di cinta eran cumuli di macerie sotto le enormi brecce, poi un tritume di cose immonde e indefinibili e un barracano presso una pozza di sangue. Nulla più. Sul fondo, contro all’entrata, si aprivano i foschi rifugi, difesi da neri usciuoli, quali aperti e quali serrati. Senza indugio gli esploratori si diressero a quella volta. Furon nel primo rifugio, nel secondo, nel terzo; tutto era deserto, senza traccia di passaggio recente; ma quando entrarono nell’ultimo, una violenta detonazione li accolse. Uno dei loro piombò di traverso. Acquattato in un angolo, un nero del Sudan stava per riprender la mira ma non gli valse il tempo che, a sua volta, stramazzò stecchito. Ora si volgevano per togliersi dal fetore di quel canile e rifar la strada compiuta quando udirono un rapido ciabattare nel cortile. Il capitano impallidì; gli altri gli si strinsero intorno. Videro un attimo lo stiparsi dei ceffi cani su l’entrata del fonducco, poi la porta fu solidamente barricata. Da quel punto cominciò l’impari lotta. Sui muri grommosi e su la porta eran praticate esigue feritoie, ciascuno si inginocchiò presso la prescelta e lentamente, senza dir parola, lasciò partire il colpo a mira aggiustata. E le ore trascorsero, discesero verso la livida sera. S’infiammò l’aria del morire del sole che essi non eran più se non tre alle difese: il capitano, il Rosso e Giuagnu; gli altri eran morti. Poi anche Giuagnu cadde, gridando un nome di donna, e chiuse gli occhi per sempre sotto il raggio sanguigno che penetrava a sghimbescio dalla sua feritoia. Discese la notte e non furon che due: il capitano e l’ombra sua fedele, l’ombra ridevole dello sgorbio umano che credeva nel suo Dio. I nemici si eran diradati, eran corsi altrove per un subito richiamo, s’eran sbandati ciabattando e urlando fra le dune. Forse si apriva, come per le stelle, una via deserta ed immensa fra la morte, una strada segnata da un bagliore nell’immensità, verso le trincee lontane. Il Rosso si levò, non gli restavano che dieci cartucce, era ferito ad un braccio. Si levò dalla sua feritoia che tutto era silenzioso e profondato nella notte illune. Giacevan di traverso, per la stanza, i compagni suoi, senza più voce; il simulacro dell’uomo poi che l’anima era esulata. Il Capitano non fiatava, non si muoveva. Aveva il capo appoggiato al muro, guardava lontano nell’ombra remota, oltre l’ombra, nel suo mondo di impero. Che cosa pensava? A chi parlava? Che vedeva mai nell’invisibile? E il respiro di lui era lieve come il volo della falena e gli occhi eran fissi, sbarrati, grandi come la notte e il cerchio della notte fra terra e terra. Il Rosso attese, ricaricò il fucile per produrre un suono che distogliesse l’ultimo compagno suo dal profondo silenzio, ma quello non si mosse. Allora si inchinò a guardare per la feritoia e non vide che le stelle. Che c’era adunque oltre quei bagliori, nella vastità? Che scrutava mai in tanta tensione? Sentiva un mistero troppo grande gravargli su l’anima; gli parve che il Signor suo più non fosse presente e si allontanasse col pensiero taciturno per le grandi vie che gli ignari non sanno. Andava verso l’ombra, oltre l’ombra; forse penetrava in quel gran chiuso che solo valica la morte. E un senso religioso lo tenne diritto e muto innanzi a quel silenzio. L’ora trascorreva. Poi qualcosa si rimosse e il Rosso chiamò con voce di sonno, appena appena viva, chiamò: — Signor Capitano? Non rispose. Chiamò ancora ma l’altro era intento al cammino terribile degli astri là dove l’anima annega. Allora tese una mano, glie l’appoggiò su la spalla, ma lieve che non gli paresse irriverente l’atto, e si chinò a parlargli, ma adagio che non si dovesse volgere turbato. Non si volse, non mosse quegli occhi suoi troppo larghi e la bocca era chiusa. — Signor Capitano.... sono partiti.... la strada è sgombra.... gli altri son morti.... signor Capitano.... non si può ritornare? Ma in quel che si levava disilluso, l’altro si chinò un poco da banda ed egli lo vide scivolar giù e cader contratto e così giacere senza più moto. Allora si sentì scosso dalla cima dei capelli alle calcagna, si sentì smorire in un gran gelo. Anche il Signor suo era con gli altri, nel mondo degli altri distesi intorno, oltre la notte e lo spazio ed il mondo visibile. Ed il suo volto grottesco, per la prima volta, seppe la smorfia del pianto e pianse! Poi spalancò la porta barricata e, chino sotto l’umano fardello, scomparve nel deserto. Ed era l’alba quando il grido passò su le trincee: — Il Rosso, il Rosso, il Rosso!... Dopo una notte di somma stanchezza e d’incubo, la festosità giovanile, che sempre dimentica e risorge, si scagliava incontro all’idolo suo che ritornava solo, vivo e salvo dal tetro deserto. — Il Rosso! Il Rosso!.. — Viene e ci porta qualcosa!... — Ci porta l’arabo cane!... — Ci porta l’oro del Re pastore!... La sua figura sbilenca si delineava sempre più vicina e proseguiva ferma, rigida, muta sotto il suo fardello. — Che cos’ha su le spalle? — O Rosso che cosa ci regali?... Poi una voce gridò: — Silenzio!... Ed un’altra, più sommessa: — È un morto! — Un morto?... Tutti sbiancarono e s’adunarono. Ed ecco che il tragico giullare ritornava dal deserto ed aveva il suo Dio su le sue magre spalle. Lo videro avanzare, e non videro la sua faccia. Entrò a passo fermo e non videro la sua faccia ma quella dell’altro, rivolta al cielo. Nessuno più fiatò di fronte alla divina santità di quel ritorno. Un’ora dopo, i piccoli soldati grigi, stretti in quadrato, presentavano le armi a un morto e ad un moribondo. Commiato. Dionisio narra come gli Aborigeni, allorchè erano cresciuti in gran numero, usassero inviar fuori dalle loro terre la _gioventù sacra_. “I padri usavano veramente, che quando fosse accaduto, o che la turba e la moltitudine in tale modo fosse nelle città cresciuta, che quindi ciascuno non avesse abbastanza potuto nutrirsi; ovvero che la terra fosse divenuta per la gravezza del cielo più sterile, o che altro caso, o buono, o cattivo avesse loro imposto la necessità di sminuire la moltitudine da casa, dedicando tutti quelli che nascevano in quell’anno ad uno degli Dei, li mandavano a ordine d’armi fuori della propria terra. “.... E quelli partendosi, certi di essere per non avere più terra paterna, se non se ne acquistassero dell’altra ove fossero ricevuti, avevano in luogo della propria patria tutto ciò che si acquistavano con l’armi, o che loro per grazia era conceduto, essendo fermamente persuasi che quel Dio, cui si dedicavano, sopra le umane forze aiutasse coloro che la nuova Colonia formavano.„ Così, nella notte dei tempi favolosi, usavano i primi popoli della nostra terra. L’Iddio degli avi remotissimi ha vegliato la novella Primavera. Le millenarie virtù son riapparse. I favolosi Aborigeni del Lazio hanno lasciato, passando, la loro sementa. Nelle tradizioni dei nostri popoli è una luce del loro albore. Mutate le lingue, i costumi, le religioni non è mutata l’anima. Il pastore che cerca i presagi nelle stelle; l’agricoltore che accende i roghi al nuovo sole; il navarca che va solo nella selva dei pini, quasi ascoltasse un Dio, a trascegliere l’albero della sua nave, compiono, inconsci, il rito più che millenne delle stirpi primève. L’anima dei popoli non varia: tenace e pervicace, vive nel suo crepuscolo e solo appare, attraverso alle età, nei grandi fatti storici; si appalesa attraverso agli enormi sfaceli e dal buio delle età silenziose. Non traligna. È come la rovere, da cui la dolce favola la disse nata. Dall’arruffio dei popoli autoctoni che si fondono, si combattono, immigrano ed emigrano da regione a regione; dal caotico sovrapporsi delle turbe, erranti alle soglie della preistoria, si sprigiona talvolta una voce. Ascoltiamola. È il segno della tradizione; è la radice madre dell’albero antichissimo. Un bagliore ci illumina. La nostra ansiosa ricerca trova un varco per il roveto. La corrente sotterranea si appalesa per una fonte improvvisa; possiamo risalire dalla valle alla montagna; una unità ininterrotta ci appare raggiando. Il popolo più perseguitato e più sconvolto è forse il più intatto fra quanti ne sono per il mondo; è quello che oggi ancora ricorda le sue origini attraverso il suo carattere agricolo-pastorale. Gli Umbri, i Siculi, i Tirreni, gli Etruschi, i Liguri, i Latini, i Messapi, i Piceni, gli Eneti, tutta l’immensa fiumana di genti che appare e scompare fra la leggenda ed il mito, fra il noto e l’ignoto, attraverso civiltà prodigiose e primitivi costumi, ci ha lasciata un’eredità vetusta. Di lei si sono venute formando le nostre stirpi, quelle che Roma unificò nel suo nome e che si avvincono ora per legami più saldi. I Numi indigeni non sono morti mai. La decadenza non ha segnato che un sonno. Ma i costumi e i caratteri solenni, per le remotissime origini, non si riconoscono a occhiate fra le moltitudini turbinose, conviene ricercarli pei silenzii. Le nubi velano le montagne immutabili. Dio mi dia lena a salire per le cime là dove io voglio cogliere l’anima delle stirpi italiche. L’iddia Matuta, sacra al mattino ed al mare, della quale i Latini salvarono il tempio, quando dettero alle fiamme la città di Satrico, ancóra si è levata sorridendo innanzi all’impeto del nostro Destino. E benvenuta sia l’Iddia del mattino e del mare nel nome di tutti i nostri morti che la videro negli occhi arrovesciandosi; benvenuta sia per il nostro cuor rinnovato. La terra ostile ne ha saputo il fremito. Dalle _sebke_ dei confini alla profonda baia di Tubruk il suo grido è passato. La razza derisa si è rinnovata nel suo nome. Il sogno del Grande di Gibilrossa trova ora la sua alba lontana. Alba radiosa sopra le croci disperse fra le palme e le sabbie. Gli uomini del mare tenner le terre contese finchè non sopravvenisse la fiumana giovanile, i mille e i mille discesi dalle montagne, dalle alte valli, dai pianori; adunatisi pei borghi, le ville e le città; usciti dalle officine, dalle miniere, dalle aie, dal solco diritto, dalle scuole, dagli impieghi, dai palagi. Tutta la giovinezza migliore dalla Lombardia alla Sicilia, dal Piemonte alle Puglie, dal Veneto alla Sardegna si adunò. E le caserme e i treni e le città maggiori rigurgitarono di armati. E là dove apparvero, là dove squillaron le fanfare gridò l’anima ebbra della moltitudine latina. Si videro disertori, emigrati, genti sperdute rivalicare il confine pur di trovarsi nei luoghi della guerra; i volontari si moltiplicarono, i vecchi si fecero innanzi, il popolo, tutto il popolo sentì l’ora storica; la comprese, la volle. Le antiche violenze non ebbero campo; ogni reazione fu impossente: non si cozzava contro la volontà di un uomo, di un Governo, di un Re ma contro la formidabile volontà di un popolo. Nulla c’era e nulla si udiva oltre l’orgoglio di razza che ci toglieva dalla nostra vergogna. Troppo avevamo sofferto e sopportato, troppo si erano incurve le nostre spalle alle umiliazioni dei barbari e dei civili; il nome “_italiano_„ suonava troppo basso; l’ingiustizia era palese; si sentiva la forza di vendicarla e la si vendicò. E allora l’invida Europa divenne una pallida soavissima vergine, tutta immughettita nella sua castimonia, querula di ogni male, rispettosa di ogni diritto inesistente, redimita di pace e di ulivo. Non mai la storia l’aveva veduta tale, ma la prodigiosa metamorfosi si operò perchè la piccoletta umile Italia più non ubbidiva al guinzaglio, e, rotte le casalinghe consuetudini, era uscita dalla soglia erbita per il mondo. E uscendo, per la prima volta in sua vita, non aveva badato agli interessi altrui ma al proprio interesse e aveva levata la voce e la volontà e la spada. Il mirabile languido amore internazionale che aveva accompagnata la celebrazione del nostro cinquantenario si convertì in odio improvviso, in livore accanito e fu detta di noi ogni più turpe ignominia. Era bene ed era tempo! Un valore reale, nella bilancia dei popoli, non lo si accoglie mai con benigna ospitanza. Le ingiurie, le calunnie, le invettive erano il battesimo della nostra entrata nel novero delle Nazioni che possono avere una volontà ed una forza per imporla. Il popolo d’Italia aveva ricostruito nel silenzio il suo Tempio, era giunto ai fastigi, voleva coronarli di gloria. Ogni settimana ebbe il suo episodio; ogni episodio i suoi atti di eroismo. I Condottieri caddero a diecine, impassibili, diritti contro l’infuriare nemico come se ciascuno portasse su la sua fiera fronte la fierezza di tutta l’Italia. Dalle masse sorsero i semplici umili eroi, le divine abnegazioni, le prove magnifiche. La nostra è stata una volontà multanime, un impeto di milioni. A Venezia una moltitudine di fanciulli salutò, con l’inno del poeta eroe, il risorgere del bel campanile e la folla, assiepata intorno, ascoltò, nel silenzio che precede l’impeto irrefrenabile della commozione; a Siracusa, a Taranto, a Napoli, a Roma il canto fu ripetuto a clamor di popolo per le strade e per le piazze. Non si compì cosa che non si illuminasse del riverbero della novella fede robusta. Tripoli non fu per la turba una regione nè una città barbara conquistata all’Italia, fu il nome casuale che significò un risveglio. Si fosse pure trattato dì uno scoglio su l’abisso doveva conquistarsi, doveva essere nostro a costo di qualsiasi sacrificio per una di quelle imprescindibili necessità ideali a cui i popoli, a volte, si votano d’improvviso per la bellezza della vita. Era il necessario altare della nostra fede, era la reazione a tutte le buie pedestri dottrine che ci avevano oppresso. E i soldati, usciti dal popolo, per questa luce solamente si votarono alla morte. FINE. INDICE. _A mio padre_ Pag. 7 Per ricordare 11 La scuola degli uomini 25 Le nonne 105 La vela nera 127 L’agguato 151 I superstiti 165 Pietro Aresu 181 In morte di un eroe 217 L’insidia 235 Il Rosso 255 _Commiato_ 275 DELLO STESSO AUTORE: _Anna Perenna_, novelle L. 3 50 _I primogeniti_, novelle 3 50 _Il cantico_, romanzo 3 50 _Gli uomini rossi_, romanzo 2 — _L’alterna vicenda_, novelle 3 50 _Il diario di un viandante. Dal deserto al Mar Glaciale._ In-8 ill., con tav. a colori 8 — _Solicchio_, canto d’amore. In-8 4 — in preparazione: _Novelle Provinciali._ Nota del Trascrittore Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici. *** END OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK LE NOVELLE DELLA GUERRA *** Updated editions will replace the previous one—the old editions will be renamed. Creating the works from print editions not protected by U.S. copyright law means that no one owns a United States copyright in these works, so the Foundation (and you!) can copy and distribute it in the United States without permission and without paying copyright royalties. Special rules, set forth in the General Terms of Use part of this license, apply to copying and distributing Project Gutenberg™ electronic works to protect the PROJECT GUTENBERG™ concept and trademark. 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START: FULL LICENSE THE FULL PROJECT GUTENBERG LICENSE PLEASE READ THIS BEFORE YOU DISTRIBUTE OR USE THIS WORK To protect the Project Gutenberg™ mission of promoting the free distribution of electronic works, by using or distributing this work (or any other work associated in any way with the phrase “Project Gutenberg”), you agree to comply with all the terms of the Full Project Gutenberg™ License available with this file or online at www.gutenberg.org/license. Section 1. General Terms of Use and Redistributing Project Gutenberg™ electronic works 1.A. By reading or using any part of this Project Gutenberg™ electronic work, you indicate that you have read, understand, agree to and accept all the terms of this license and intellectual property (trademark/copyright) agreement. If you do not agree to abide by all the terms of this agreement, you must cease using and return or destroy all copies of Project Gutenberg™ electronic works in your possession. 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