Il Cantico

By Antonio Beltramelli

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Title: Il Cantico

Author: Antonio Beltramelli

Release date: August 19, 2025 [eBook #76704]

Language: Italian

Original publication: Milano: Treves, 1906

Credits: Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (This file was produced from images made available by the HathiTrust Digital Library)


*** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK IL CANTICO ***


                               IL CANTICO


                                ROMANZO


                                   DI
                          ANTONIO BELTRAMELLI



                                 MILANO
                        FRATELLI TREVES, EDITORI
                                  1906
                                   —
                          =Secondo Migliaio.=




                          PROPRIETÀ LETTERARIA

       _I diritti di riproduzione e di traduzione sono riservati
    per tutti i paesi, compresi la Svezia, la Norvegia e l’Olanda._

            Published in Milan, May 10th, 1906. Privilege of
           copyright in the United States reserved under the
           Act approved March 3rd, 1905, by Fratelli Treves.

                         Tip. Fratelli Treves.




PARTE PRIMA.

VERSO LA LIBERTÀ.




I.

Aeternum vale.


Nessuno pianse con me nè io volli che la finzione degli uomini fosse al
letto di mia madre. Ella era bastata a sè stessa per condurmi all’età
del volere; aveva sentito l’orgoglio della sua creatura senza umiliarsi
innanzi all’ambiguo volto della pietà; la forza che l’aveva retta, dopo
il peccato, nella vita amara, dovea bastarmi ad esserle unico compagno
nell’ora terribile.

Qualcuno picchiò a più riprese all’uscio sconnesso, qualche sussurro
di tremula voce mi giunse, voce improntata quasi a sincerità; ma io
ricordai la solitudine di mia madre, allora; ricordai le lacrime lente
che avevo veduto discendere per le sue gote quando le male femmine
avevan detto di lei ogni vituperio, di lei ch’era buona ed aveva le
mani prodighe e le parole gentili, e non volli.

Di fronte al mio viso strano, alle mie parole rudi vidi atteggiarsi
a stupore, a insolvibile maraviglia più di un volto. Come mai, se
tutte quelle creature avevano l’ipocrita convinzione di recare la
tradizionale parola di conforto ad un figlio che stava per rimanere
povero e solo nel mondo, come mai venivano accolte sì malamente quasi
andassero per mendicare? Non era impazzito forse Duccio della Bella?
O non aveva cuore di figlio per la sua povera madre che si moriva? Io
vidi negli occhi delle creature che venivano a picchiare sommessamente
all’uscio della nostra stanza, vidi questo nuovo stupore di domande.
Non si chiude la porta in faccia a chi giunge per curiosare, per
godere dell’altrui sofferenza, se reca sul volto l’atteggiamento della
pietà e, su le labbra, la parola del conforto; è socievolmente utile
ingannarci a vicenda; dire: — Povero figlio! — e pensare che la propria
miseria non ha avuto ancora prova sì aspra e consolarsi nel male altrui
e fingere di parteciparvi.

Non volli. Di fronte al mistero potevo essere solo. Ella mi sarebbe
stata grata, nell’ultima ora sua, della mia forza d’amore.

Anche Omero sostò qualche secondo su la soglia, ma senza levare gli
occhi, senza dir parola. Si era tolto il cappello lacero; stava come
su la porta di un tempio. Sentii che l’anima di lui mi era vicina. Poi
come si era presentato scomparve, in silenzio.

La notte volgeva al suo colmo; la città era muta sotto le tenebre.
Nella triste casa dove avevamo preso dimora da tanti anni, tutte le
voci note si erano spente ad una ad una, o a gruppi, trascorrendo per
gli anditi bui, risonando vicine e lontane nei meandri del caseggiato.

Voci di bimbi, da prima, quando il crepuscolo aveva acceso le
stelle nei cieli; pispiglio di piccole voci superate dal sonno;
poi incoramenti materni, sussurrio di parole gravi, accenti d’ira,
d’augurio, di preghiera come tutte le sere finchè non passasse la
campana del coprifoco, il consiglio del sonno che scendeva dall’antica
torre lontana. Allora (abitavamo un pianterreno oscuro ed umido) si
udiva uno scalpiccio lento sopra ai nostri capi, si udiva ancora la eco
di qualche suono ma debole, spento, remoto, poi null’altro.

Giunse, dalla finestra socchiusa, il canto di un ubbriaco; quando
si sperse in vicoli lontani, dalla vigile torre del tempo scivolò
nell’aria il battere dell’ora notturna. L’alba era prossima forse, non
so: queste cose tornano alla mia memoria come da un’altra vita. Mia
madre mi aveva chiamato già, per dirmi: — Duccio, guarda se c’è il sole
ancora — e come aveva veduto il mio capo accennare negativamente: — Chi
sa se lo potrò rivedere! — aveva soggiunto.

Poi non più. Le sue mani abbandonate su le coltri erano immobili e così
il viso e tutta la persona come se l’anima di lei fosse esulata già
incontro al suo sole d’oro.

Mia madre aveva l’anima di una capinera: amava le cose gaie e fiorenti,
ciò che è di tutti, i tesori che l’egoismo umano non può limitare
a pochi. Il dolore che l’aveva costretta a prove amare, era stato
impossente a turbare la serenità dell’anima di lei. Ella aveva pianto,
sì, e tutte le sofferenze trascorse si risvegliavano ora a spegnere la
fiamma della sua vita; ma era donna anzitutto e della sua natura non
sapeva vincere a quando a quando i pieni abbandoni. Era l’esule di un
regno grande, mia madre, del regno della felicità per il quale era nata
sì fine e gentile e così buona. Ma se il destino le aveva volto tutto
il mondo in guerra, se l’aveva condannata a tutte le angoscie, non
aveva potuto turbare l’anima di lei ch’era serena ed era, come il sogno
di un fanciullo, luminosa di mattutine luci.

Le nostre gioie, nei giorni di libertà, quando gli uomini ci
concedevano di seguire per qualche ora la volontà nostra, erano
semplici; era ciò che per altri sarebbe poco.

Prendevamo la via dei colli. C’era una selva remota che conoscevamo,
una selva di roveri antiche, piena di rovi, di rosalbe e di eriche;
non distava molto dalla città; copriva un colle che si vedeva dal piano
come un gran velo azzurro su i cieli.

Allorquando, desto di soprassalto per le prime voci del giorno, mi
levavo sul letticciolo a guardare per l’aperta finestra e gridavo: —
Mamma c’è il sole! — ella si levava sorridendo, si abbigliava in un
battibaleno (di poche cose aveva occorrenza la sua fiera bellezza per
trionfare) e, raccolte in una pezzuola le poche provviste necessarie
alla nostra fame, si partiva.

Eravamo in aperta campagna che ancora cantavano i galli usciti appena
su le aie o appollaiati su qualche fico elevantesi con le rame bistorte
oltre le siepi; il sole era grande e vermiglio nè aveva preso forza
ancora per il suo lungo cammino. Fiorivano gli orti; nei campi era la
mollezza dei grani, delle biade e delle canape folte. Ella diceva: —
Respira, Duccio; l’aria del mattino è vita! — e levava la faccia contro
ai cieli quasi a comprendere tutta nel suo piccolo cuore la soavità
dell’ora. Incontravamo qualche bifolco che scendeva al mercato; qualche
barroccio che giungeva dalla Toscana (andavano le mule travagando col
muso a terra, fra il fioco tinnire dei campanacci e l’uomo, abbandonato
su l’alto del carico, dormiva con le braccia pendule) e qualche
bimbo che usciva da una redola o da un’aia a sogguardare. Poca gente:
sceglievamo le strade solitarie.

Mia madre aveva l’anima bambina. L’aperta purezza dei campi le dava
l’aspetto ed il parlar giocondo. Io l’ho veduta ridere di nulla, così
per quel commovimento che l’improvvisa freschezza dei campi pone in
cuore a chi ha l’abito di una schiavitù giornaliera; l’ho veduta
animarsi innanzi alla gioia del rifiorire ed aveva allora le sue
parole belle ch’io ricordo come una musica lontana. Per quel giorno di
felicità dimenticava tutto; non una volta ho raccolta dalle sue labbra
una sola frase amara; voleva dimenticare. Forse le era rimasto in core
qualcuno che non poteva porre in oblio qualcuno ch’era stato nella
giovinezza di lei come un compimento; ma non seppi mai dalla voce di
mia madre questa sua interna pena; era troppo fiera per parlarne a me,
per confessarlo a sè stessa ella che sapeva l’amore e non la servitù
dell’amore.

Quando il sole toccava già le cime degli olmi, quando lo stridere delle
rondini, il canto delle allodole saliva più in alto, più in alto con
tutta la luce d’oro, eravamo già su le coste dei colli. E, nella selva
remota, ci fermavamo ad una macera. Poco più sotto, fra le querce, era
una casa dalla soglia erbita. Non ricordo aver veduto mai affacciarsi
persona su la piccola soglia.

Fra i varchi delle rame (erano come occhi azzurri aperti su
l’orizzonte) apparivano le bianche navi del piano: le città e, come un
sorriso d’infinite gemme, le case disperse fino ai limiti del mare.

La nostra vita era, in quel tempo, simile a quella di due fanciulli che
di tutto si appagano perchè l’anima loro ha la freschezza di un’acqua
che rivena di continuo dalla profondità delle rocce. Poco bastava alla
nostra gioia. La terra, nelle sue libere forze, c’era dimora regale.

Nulla di più si chiedeva ed anche di questo gli uomini ci furono avari.

Comunque fosse, il poco ci parve assai e la serenità ci fu compagna
assidua.

Mia madre era una santa; non da altri trassi quel poco che è in me di
luce; quel poco ch’è in me di buono. La parte più oscura dell’anima mia
ereditai dall’uomo che non conobbi e dalla società che mi accolse.

Per quanto tempo la guardassi spegnersi a poco a poco nel suo sopore,
non ricordo. Non ricordo, sentivo dentro me il vuoto di una solitudine
immensa; un martirio che non ha parole perchè non ha limite di
sensazione, perchè è come il mistero.

Ella era lontana, partiva; chi sa mai se, prima di varcare la
soglia oscura, avesse aperto gli occhi ancora per vedermi, per
recare l’immagine mia nell’ombra delle pupille; poteva essere anche
che l’anima sua non riapparisse neppure nell’attimo estremo; che
quell’atteggiamento soave del volto di lei, fosse già l’addio. Oh! la
morte della quale gli uomini temono l’orrore, non ebbe aspetti sinistri
nel nostro tugurio: venne con ali lievi; col fiato di un infante alitò
il suo soffio su la face semispenta e alla creatura che la terra si
tenne non tolse la soavità del sorriso.

Pareva dormisse. Era giovane ancora e bella, anche nell’agonia. La
nobiltà della sua fronte pallida ed ampia si accrebbe. La bocca esangue
scopriva, in un dolce atteggiamento, il candore dei denti ch’io avevo
veduto brillare tante volte al sole quand’ella rideva come una bambina.

Nonostante il grande silenzio io, ritto nell’ombra vicino al capo di
lei, non potevo udirne il fremito del respiro.

Due volte ebbi un brivido improvviso alla nuca e mi chinai e per due
volte sentii il battere lento del suo cuore.

C’era, a capo del letto, una rama d’olivo posata sopra una pila d’acqua
santa; c’era una piccola croce nera ed un nido di passeri che avevamo
trovato un giorno fra l’intrichio di un roveto: qualcosa di molto
vecchio, qualcosa di eterno. Un simbolo di fede ch’era per lei come una
memoria dolce della sua infanzia (null’altro perchè ella non pregava
che in cuor suo, mentalmente e tutto il suo Dio era in lei e nulla
all’esterno, se non la terra ed i cieli glielo significavano) e un
ricordo d’amore abbandonato fra i rovi, sotto la tormenta. Ella parlava
in quelle poche cose; era viva in quei segni dell’anima sua.

Così sentii, durante la terribile attesa, un mondo rivivere e
scomparire; ebbi coscienza improvvisa di cose lontane alle quali
mi parve tornare dopo un lungo sonno ed ebbi sensazioni oscure di
smarrimento durante le quali altro non vidi se non l’immobile fiamma
della lucerna, nè so che pensai. Fu un continuo vedere e svedere, un
disperdersi, un ritornare, un’onda alterna di luce sopra una vastità
muta di mare. Forse non soffersi allora. L’essere mio non era raccolto
in un unico pensiero di dolore, ma era disperso nella vertigine di un
turbine.

A volte, con una lucidezza che mi destava un brivido, vivevo
dell’attimo che mi toglieva l’unico mio bene su la terra: mia madre;
a volte, ricaduto nell’incubo, avevo l’incerto pensiero di non dover
tornare alla luce del sole mai più. Vi fu un punto in cui mi sentii il
singhiozzo alla gola, in cui sentii sciogliersi la rigidezza che teneva
l’anima mia, per un intenerimento derivato più dalla pietà che mi
destavo anzichè dal dolore dell’estremo abbandono e allora non volli,
ogni mia forza alerte risorse in impeto repentino, ricacciò le sciocche
lacrime che stavano per isgorgare, mi rese la mia piena coscienza. Rude
ma non imbelle. L’uomo che si compiange è vile.

In quell’istante udii il cigolio di un carro per la via. L’alba era
prossima, sopra i mari lontani; ai limiti delle selve e dei campi
dischiudeva le sue molli ciglia. Nel vicoletto angusto era ancor buio.
Tutte le case tacevano nel sonno; le case delle prolifiche gramigne.
Udii un breve pispiglio di voci infantili sopra il mio capo; udii
il remoto uggiolio di un cane in guerra con qualche vagabondo che
gli rubava i rifiuti delle vie; e lo scalpicciare del lampionaio che
andava, in quell’ora antelucana, a spegnere le rare fiammelle che
vegliavano all’angolo dei vicoli, pallidamente.

Io non sapevo se la notte fosse trascorsa o se cominciasse allora;
del tempo ch’era volto su la mia veglia, non avevo coscienza. M’era
presente il pensiero di lei, ora, di lei sola che giaceva innanzi a
me viva per gli ultimi istanti. Ogni istante trascorso mi era come una
lacerazione profonda.

Batteva il cuore del tempo inesorabilmente il ritmo della piccola
vita; qualcosa ch’era disceso dall’eternità, che aveva avuto una
sosta al raggio di un astro, ecco, l’eternità se lo riprendeva per la
sua legge ignota; batteva il cuore del tempo, ritmo della vertigine
nell’immensità, batteva il palpito angoscioso della moritura. Io lo
sentivo dentro: nelle tempie, nel tremito dei polsi, nel cuore; lo
sentivo in me ch’ero nato di lui come tutte le creature. L’Ombra si
era affacciata agli orizzonti; giungeva, di secondo in secondo, con
fulminea rapidità su la via del tempo, indicibilmente precipite dai
silenzi dell’alto sul piccolo cuore degli uomini che non sanno. Non
mai come in quella notte, come in quell’ora, in quell’attimo, mi fu
presente, visse ne’ miei sensi protesi l’indicibile angoscia che non
ha paragone; non mai questo lampo luminoso che diciamo vita io vidi più
chiaramente nel suo mistero e per l’impeto sovrastante, per il battere
fulmineo dell’ignoto cuore, per l’ansia, per la paura, per l’orrore che
n’ebbi, stetti con gli occhi sbarrati finchè ad un gesto di lei, della
mia santa, sorsi in un grido terribile.

Fu allora che udii un lieve cigolìo dell’uscio.

Non mi volsi; qualcosa di me intese, non io. Ella non era morta, anzi
socchiuse gli occhi che vidi sì bianchi e lontani; lontani, sì, per
l’anima esule ormai.

Fu quand’era chiaro, quando cantarono i primi galli. Qualcosa di
primaverile tornava. Il sole era sorto dai mari, veniva a chiamarla.

Cantarono i galli da tutti i cortili, dagli orti vicini. O voce fresca,
eterna tremula albata come ti intesi in quell’ora non più potrai
essermi discara! Mia madre pareva dormisse. Ad un tratto le sue labbra
ebbero un tremito; la bocca s’aperse un po’ più.

Non vidi, non seppi: chi sa per quanto tempo avrei spiato così quel
volto immobile e sereno, se una voce non fosse giunta simile ad un
singhiozzo trattenuto chè ha tema di riuscir grave:

— Duccio della Bella, preghiamo!

Quando mi volsi, inginocchiato su la terra, il capo scoperto e gli
occhi chini nel pianto, vidi Omero, il pezzente.




II.

Alba nuova.


— Ci vedremo questa sera? — chiese Omero.

— Sì, questa sera verrò. Aspettami.

— Non giuocare d’orgoglio, per il tuo bene lo dico — riprese Omero
mentre stavo per avviarmi.

— Non so che potrò fare — risposi.

— Cerca vincerti. Tutti abbiamo un padrone!

— A chi ubbidisci tu?

— Io sono un miserabile. Tu devi andare per le tue vie.

— Quali vie? Ci vorrebbero ali che non ho; poi, se anche le avessi, non
saprei difenderle!

— Abbi fede.

— In che cosa?

— Abbi fede nella tua volontà. A questa vita non resisteresti.

— E che ne sai tu?

— Taci, sei un bambino. Io sono vecchio ormai. Ti dico che non sapresti
resistere. In fondo in fondo non sei fatto d’acciaio. L’anima tua è più
forte del tuo corpo. Dopo qualche mese finiresti all’ospedale. Ciò è
più temibile che la morte.

— Saprei scegliere fra i due.

— Ora dici una sciocchezza! Scegli prima, fin che hai tempo. Quando
si è giunti a quel termine di via non si ha più facoltà di scelta. I
patimenti ti rendono come una rama recisa: è il vento che la conduce.

— E tu come hai fatto?

— Ti desto invidia?

— Sì, io ti invidio.

— E perchè?

— Perchè sei padrone di te stesso; perchè hai vinto!

— Che cosa ho vinto, di grazia?

— La società.

— Io?

— Sì, tu: riducendo i tuoi bisogni al niente; accontentandoti di
occuparti or qua, or là secondo i tuoi desideri, per la tua poca fame.
Io ti invidio per la libertà che ti è sorella!

Omero alzò per un attimo gli occhi azzurri, mi fissò intensamente quasi
a leggermi nel viso la sincerità, poi soccallò le palpebre scuotendo il
capo:

— Io sono un miserabile!

— Ma non sei contento del tuo stato? — gridai afferrandolo per un
braccio.

Omero ebbe un sorriso tristissimo:

— E puoi crederlo?

Dopo una pausa si sciolse lentamente dalla mia stretta e riprese a voce
spenta:

— Bada a te, Duccio della Bella!

Poi raccolse la bisaccia che gli era caduta e se ne andò per il vicolo
oscuro.

Ripresi la strada. Era tardi ormai; avrei dovuto trovarmi un’ora prima
al mio banco di scrivano perchè il principale mi aveva sovraccaricato
di lavoro la sera innanzi. Da una settimana non vedevo il sole chè,
dalla mattina alla notte, stavo rinchiuso nella piccola stanza di
passaggio la quale da un andito buio conduceva allo studio del mio
principale e avevo appena mezz’ora di intervallo per poter inghiottire
alla lesta il pane e il companatico che portavo con me. Qualche volta
ero costretto a lavorare, anche in pieno meriggio, con la lampada
accesa. La stanza era a un pianterreno e aveva una finestra che si
apriva in un cortiluccio angusto ed umido, simile in tutto ad un pozzo
abitato da uomini pallidi e macilenti. Un poco di sole non scendeva mai
nel pozzo oscuro che m’era di orribile tana.

Lavoravo a quel tavolo da molti anni. Qualcuno aveva creduto compiere
un grande atto di beneficenza verso mia madre imprigionandomi così,
avvelenando giorno per giorno la miglior parte della mia giovinezza,
del mio sangue. Nel tempo trascorso non mi ero lamentato mai; troppe mi
parevano le trenta lire che con gioia trionfale recavo ogni mese alla
mia santa; a ben altra pena mi sarei sottoposto senza mormorare, pur
di scorgere sul viso di lei un rapido balenio di felicità; ma ora non
avevo più un cuore che mi attendesse, non avevo più una scusa a quel
quotidiano consumamento. La mia vita era spezzata. Dall’istante in cui
ebbi la piena coscienza di essere solo, terribilmente solo nel mondo
degli uomini che si acceffano e si azzannano, si scoprì in me un essere
nuovo per lo innanzi assopito; un essere fiero e ribelle che non voleva
scomparire supinamente nel turbine di miseria che la società muove
di continuo. Io non avevo più alcuna ragione di starmene sottoposto,
perchè nulla temevo, perchè ero solo di fronte all’indifferente cinismo
di tutti, e odiavo la pietà, la sciocca pietà lacrimante.

Che avevo fatto perchè mi si togliesse il sole? Non ero nato di donna?
Non avevo gli occhi e una voce per esaltare la mia gioia? E a quanto si
valutava il mio sacrificio? A niente, a qualcosa che rasentava la fame.
Inoltre che cos’ero io per il mio principale? Una macchina che vive,
con la quale si può scambiare qualche parola e nulla più.

Io l’ho provato l’odio che gli apostoli biasimano. Ora, forse, dal
punto così diverso dal quale considero il mio stato d’allora, sento il
dovere di affermare: Non è buona cosa! — ma l’essere mio non consente.
Pur ridendomi della giustizia sociale che è stata il manichino di
tante vesti ed ha fatto bella mostra di sè sotto varî panneggiamenti
nelle vetrine dei filosofi, degli apostoli e dei parolai, sento che,
in certi casi, l’odio è una necessità di vita, una imprescindibile
necessità alla quale non si può trasgredire senza pericolo di rimanere
inesorabilmente travolti. Da questa forza gagliarda molto si attinge di
energia; in essa si rinsalda ogni virile possanza. Di fronte a certi
stati inumani, l’uomo non ha che tre vie di scelta: la rassegnazione,
l’indifferenza e l’odio, solo quest’ultimo, terribile assillo del
pensiero, può condurre a qualche compimento.

Allora, quantunque sentissi quanta dolcezza mi sarebbe derivata
dall’amore che improvvisamente mi era mancato in mia madre e che
credevo non dover incontrare mai più, non poteva soverchiare in me il
sentimento.

S’io avessi pianto sarei giunto forse al suicidio o all’incoscienza.
Inoltre ogni cosa si trasfigura nel pianto. Io volevo veder chiaro
innanzi a me, distinguere con nitidezza, con sicurezza, senza
ingannarmi e senza temere. Ora non mi so biasimare. Ogni uomo che abbia
battuto vie aspre sarà del mio avviso.

Camminai a buon passo. L’abitudine che aggioga l’uomo al suo carro sì
ch’egli più non veda e più non senta e agisca come un automa, mi traeva
ancora. Oltrepassai le vie principali urtando i passanti tanto andavo
a fretta; quando fui su la soglia dello studio mi soffermai un istante
per riprender fiato. Dalla porta a vetri vidi, nella semioscurità
del mio tugurio, due donne vestite miserabilmente. Stavano col capo
reclino, non potei distinguerle in viso. Sul tavolo era accesa la
lampada. La finestra che si apriva sul cortile era chiusa.

Mi volsi a sogguardare una striscia di sole che illuminava il principio
dell’andito, spinsi la porta ed entrai. L’aspro tocco del campanello a
scatto mi destò una commozione violenta, guardai istintivamente l’uscio
di contro, pronto già a rispondere agli insulti che mi attendevo
dal principale, con parole audaci. Nessuno comparve. Le due donne si
levarono in piedi. Le guardai sorridendo; s’avvidero subito di essersi
ingannate tanto che mi ricambiarono il sorriso e risedettero.

Gettai una rapida occhiata sul tavolo: il lavoro era aumentato forse
del doppio. Ripresi la sciocca fatica di amanuense attendendo. La
certezza dell’attacco da parte del mio signore, pur dandomi un poco
d’ansia, mi lasciava tranquillo circa l’ultima risoluzione che avrei
presa.

Ciò che avevo pensato doveva accadere per fatalità di cose. Il tempo
trascorse. Ad ogni minimo scotimento della porta dello studio alzavo
il capo e rimanevo qualche secondo in attesa. Gli occhi miei dovettero
illuminarsi di luci sinistre se le donne che mi sedevano incontro
mormorarono:

— Che avete?

— Nulla — risposi e, senza badar oltre alla loro curiosità, chinai il
capo su le carte.

Dopo un lungo silenzio durante il quale si udì unicamente lo stridere
della mia penna e il respiro asmatico della più vecchia fra le due
donne, chiesi loro:

— Vi hanno annunziate all’avvocato?

— Sì.

— E che vi ha detto?

— Di aspettare.

— Siete qui da molto tempo?

— Da due ore forse.

— Non avete fretta?

— Ne avremmo molta — rispose la giovane, levando gli occhi — molta,
perchè dobbiamo partire. Non si potrebbe chiedere all’avvocato di
sollecitare?

Guardai l’orologio: erano le undici. Fra non molto il principale mi
avrebbe chiamato per domandarmi conto del lavoro fatto.

— Abbiate pazienza qualche minuto — risposi — e sarete ricevute.

Le donne chinarono il capo, mute e rassegnate. Parevano, all’aspetto,
due contadine benchè la giovane avesse il viso pallido e gentile. La
loro imperturbabile pazienza nell’attesa, la tranquilla gravità che
è tutta propria della gente dei campi, rendeva palese agli occhi miei
la loro origine. La vecchia, in tutto il tempo che era rimasta seduta
incontro a me, non aveva neppure una volta levata una mano dal grembo;
nulla era sul viso di lei che tradisse la noia, l’impazienza o la
stanchezza. Su la sua faccia rugosa era un’espressione indecifrabile
che molto teneva dell’indifferenza. Non un muscolo di quel viso ebbe
una contrazione, nè gli occhi espressero un qualsiasi risentimento per
la soverchia attesa: la vecchia donna sarebbe rimasta nell’identica
posa, tutto un giorno, senza lagnarsene.

La giovane di tratto in tratto traeva un sospiro lungo, tremante come
per rattenuti singhiozzi; teneva le mani incrociate, in abbandono sul
grembo: aveva il capo reclino verso una spalla, dolorosamente. Una
pezzuola nera, annodata alla gola, le copriva in parte i capelli.

Erano in abito di lutto. La loro presenza in quel luogo mi muoveva a
curiosità. Tanti tipi strani e diversi mi erano passati innanzi durante
il mio lungo soggiorno in quel tugurio; tutta la delinquenza umana
dalla più raffinata alla più volgare, a quella dei trivii e delle
suburre, aveva sostato al mio tavolo o m’era apparsa nella gabbia,
al palazzo della giustizia. Avevo l’occhio esercitato ai tratti, alle
caratteristiche di innumerevoli ceffi umani, sì che non destavano ormai
più la mia attenzione.

Ora quelle due creature mi avevano incuriosito e le guardavo con vivo
interesse. Non conoscendo la ragione della loro comparsa in quel luogo,
mi pareva che un grande dolore e una grande speranza ve le avessero
condotte.

Come un’altra mezz’ora trascorse, levai risolutamente il capo:

— Siete qui per cose gravi? — chiesi loro. Le donne si guardarono un
attimo consultandosi, poi la giovane si levò e disse:

— Possiamo parlare con lei?

— Io sono nulla — risposi.

— Non aiuta l’avvocato vossignoria? — riprese la vecchia levandosi a
sua volta.

— Vi ripeto ch’io sono nulla qui e fuori di qui e che non avrei potere
di muovere neppure una piuma per voi. Però...

— Però?... — fece la giovane chinando un poco il viso ansioso verso me.

— Però potrò sollecitare l’avvocato perchè vi riceva.

— Ve ne ringrazio. La via del ritorno è lunga, vorremmo giungere a casa
prima di notte.

— Vorrà ascoltarci l’avvocato? — riprese la vecchia sorridendo. Era
nella domanda di lei e nel viso tutta l’ingenua rassegnazione di chi,
per lunga consuetudine, ha l’abito del tacere e dell’ubbidire.

— Ma certamente! — risposi.

— Perchè vede — riprese la giovane atteggiando il volto a dolce atto
di dolore — lassù, nei nostri monti, ci hanno detto che l’avvocato può
tutto e noi speriamo nel suo potere. Siamo povere...

Ad un mio gesto involontario la giovane donna si interruppe:

— Non vorrà ascoltarci se non abbiamo danaro? — chiese.

— Secondo. A causa vinta ne avrete?

— No.

— Allora...

Vidi tale abbattimento improvviso dipingersi sul volto delle due
creature che non ebbi core di proseguire.

— Ma di che si tratta? — ripresi dopo breve silenzio.

La giovane mi alzò in viso gli occhi suoi belli. Vidi come una fiamma
tremare in fondo a quelle pupille oscure. La bocca un poco pallida
discoperse, nell’atteggiarsi alla parola, due file di denti che erano
come marmo lucente.

— Mio padre è in prigione — rispose. — Siamo rimaste sole.

— Da quanto tempo è rinchiuso?

— Da un anno. Compì cinque giorni fa l’anno. Eravamo di marzo. Mio
padre conduceva un podere, un poderetto accasato che poco ci dava ma
tanto che l’inverno s’avesse di che sfamarci. Era a solato; tutto il
nostro bene era. E si campava, Iddio lo sa, si campava benedicendo. Ma
un vicino nostro nutriva rancore per noi. Io non so perchè. Molte volte
erano nate parole fra mio padre e il vicino, senza conseguenza però,
perchè mio padre badava a sè e pensava che c’erano due donne su la sua
via e che la vita di lui era un poco anche delle donne sue. Così viveva
appartato. Allora Simonetto del Monte, ch’era il nemico nostro, disse:
— Bardella è un vigliacco!...

— Disse così — interruppe la vecchia — lo udiron le donne dei Masi e
chi lo volle udire l’udì, perchè lo disse ad alta voce, lo gridò ai
venti...

— Allora mio padre fece un giuramento: giurò che Simonetto avrebbe
avuto di che pentirsi...

— Giurò anche, su l’immagine di Dio, che non l’avrebbe provocato...
rimise l’anima sua nelle mani del Signore...

— Sì, era buono mio padre....

— In venticinque anni di matrimonio non c’è stata parola fra noi —
aggiunse la vecchia.

— ... ci teneva come le sue pupille. Che vuole? si viveva in tre,
s’era come una piccola nidiata fra le roccie aspre. Una sera la mamma
dormiva. Dormivate è vero? — chiese la giovanetta volgendosi a sua
madre.

— Sonnecchiavo — rispose la vecchia e con la cocca della pezzuola si
rasciugò una lacrima.

— Dormiva, era quasi buio, io raccoglievo un po’ d’erba su per uno
sgaruglio e cantavo. È la nostra gioia cantare, non abbiamo altro.
Subitamente odo un grido dalla valle e mi pongo in orecchio ed ho
un gran tremo al core. Vedo qualcuno che corre giù a precipizio.
— Bardella!... — gridavano dall’altra costa del monte: — Bardella
abbi core!... — Io non so come non venissi meno; giungi al basso
dirocciando. Fu il Signore che mi resse. Su la porta di casa trovai la
mamma. Ci guardammo senza parlarci. Stavamo per prendere la viottola
dell’aia quando il babbo ci si presentò innanzi. Era trafelato, aveva
tutta una mano insanguinata. — Che hai fatto? — domandò la mamma
che si premeva il core: — Che hai fatto? — Mio padre ci guardò, lo
ricorderò fin che viva, aveva gli occhi lucenti, terribili e disse: —
Ho ammazzato Simonetto! — Noi sbiancammo inorridendo.

Aveva parlato a voce bassa frettolosamente; negli occhi suoi era
dipinto il terrore della scena che veniva rievocando. Il pallido volto
di lei si era animato un poco a sommo delle gote, la pezzuola le era
ricaduta su le spalle lasciando libero tutto il tesoro de’ suoi capelli
neri e ricciuti.

— Vorrà ascoltarci l’avvocato? — riprese la vecchia e la voce
corrispose al ritmo del pensiero che le batteva nel cervello una diana
uguale ed assidua.

— Siamo sole — continuò la giovanetta — siamo povere e sole; si andrà
tutti in consumamento se qualcuno non ci aiuta!

Mi levai. La mia condizione mi parve ancora superba di fronte alla
miseria delle creature che mi stavano innanzi.

— Andrò ad annunziarvi — dissi. — È l’unica cosa che posso fare per voi.

Non avevo appena dischiusa la porta dello studio che la voce aspra
dell’avvocato mi accolse con un:

— Chi vi ha chiamato, ignorante?

— Due povere donne chiedono di parlarle — risposi contenendo lo sdegno.

— Aspettino; ora non posso riceverle; ritornino domani alle due. In
quanto a voi, debbo dirvi che sono stanco....

— Anch’io!... — risposi seccamente.

Dovette essere nella voce mia un acerbo rancore e una sfida se l’uomo
abituato alla mia continua, pecorile sottomissione levò il capo a
guardarmi con aria stupefatta.

Passò una pausa durante la quale sostenni lo sguardo di lui senza
scompormi. Ciò finì per inasprire la sciocca vanità del mio padrone.
Dopo avere arrossito e impallidito scattò in piedi d’improvviso e
gridò:

— Mascalzone!

— Perdonate — risposi facendo gran forza su me stesso per contenermi —
perdonate, ma dal momento ch’io torno uomo libero, voi non avete alcun
diritto di insultarmi. Fino a poco fa ero ancora il vostro servitore,
voi mi davate di che non morire, avevate padronanza su me; ora,
rifiutando il vostro danaro, irrisorio compenso alla mia dura fatica,
ridivento uomo. Posso guardarvi in faccia.

Il tono mutato, la fermezza delle parole, la calma con la quale
avevo risposto ad una fra le tante ingiurie di cui mi gratificava, lo
stesso pronome usato, più che dispetto per l’inatteso avvenimento, gli
destarono stupore tantochè con voce meno aspra soggiunse, ma ebbero un
tremito le parole:

— Potrò rimproverarvi, mi pare!

— L’avreste potuto, ma i vostri non erano rimproveri. Io per voi
non sono stato mai qualcosa di diverso da un cane; un cane che può
essere utile e che si tiene incatenato in una tana. Avete avvelenato
lentamente la mia prima giovinezza; debbo dirvelo: io sono debole e
malato per la vita alla quale mi avete costretto...

— Chi vi ha costretto?

— Il bisogno e voi. Il bisogno inumano, voi più crudele del bisogno.

— Basta — gridò scattando — vi ho ascoltato fin troppo!

— Vi brucia la verità!

— Andatevene!

— Non cerco di meglio! Fuori di qui, potremo incontrarci talvolta a
viso a viso, allora vedremo fra i due chi cederà il passo.

Quando uscii dallo studio una felicità nuova m’irradiava. Ero libero,
potevo andarmene ove meglio mi piacesse.

Le due donne che mi attendevano, mi accolsero con un sorriso di
speranza e mi fu cosa amara il disilluderle.

— Ha detto di tornare domani?

— È inutile, non accetterebbe la vostra difesa. Io vi indicherò persona
che potrà giovarvi. Venite.

Uscimmo. Non mai come in quel giorno, in quell’ora vidi più bello il
sole. La gioia di vivere faceva vibrare i miei sensi; negli occhi miei
doveva essere una di quelle luminosità giovanili che danno l’ebbrezza.
Mi sentivo libero. Per la prima volta tale coscienza era piena in
me, soverchiava il mio desiderio. Avevo sognato per tanto tempo l’ora
deliziosa della libertà assoluta! Venisse pure ogni sofferenza, era
pronto a tutto; il passato mi era stato maestro; che potevo rimpiangere
nella vita se il poco e qualche volta il niente era stata mia legge? A
che poteva condannarmi la società per la mia ribellione se non a quella
miseria ch’io conoscevo già da lunga data?

Tanto valeva, allora. Servire per soffrire era da bruti, tanto valeva
andarsene con le proprie bisacce su le spalle, andarsene pel mondo;
essere il viatore che non ha meta perchè una meta è già un segno di
prigionia, il viatore che sorge col sole e col sole riposa ove si
trovi; che non teme la morte, che nulla teme se non gli uomini e la
loro civiltà.

A questo aspiravo; questo potevo fare il giorno stesso se avessi
voluto. La terra ed il mare sono grandi: gli uomini sono come un
mucchietto d’arena fra le due vastità. Per la prima volta mi trovavo di
fronte al mio volere. Che potevo temere mai? Vedevo la morte sopra un
trono di porpore coronato di stelle. La mia giovinezza l’avrebbe avuta
come un’amante superba e si sarebbe abbandonata a lei delirando. Io non
conoscevo l’amore.

Le vie erano luminose di sole, gaie di festosità primaverili. Le due
donne mi seguivano o mi precedevano fra la gente affaccendata che
andava per i portici. Guardavo di tanto in tanto la superba persona
della giovane; era flessuosa e fine, era come un viburno. Notai che
molti si soffermavano o si rivolgevano per vederla passare.

Ottenni poi, da un giovane avvocato che conoscevo, il patrocinio della
causa delle sconosciute. La loro gratitudine fu grande.

— Come vi chiamate? Dove potremo venire a ringraziarvi? — chiese la
vecchia tenendomi fortemente serrata una mano fra le sue.

— Io non ho casa — risposi.

— Siete solo?

— Sì.

— Allora se passate dai nostri monti venite a salutarci. Noi stiamo a
San Benedetto dall’Alpe. Chiedete delle donne di Bardella.

— Sì venite — sussurrò la giovinetta alzandomi in volto quegli occhi
suoi ch’erano come velluto ed avevano una indicibile dolcezza di
preghiera.

— Quando andrò in Toscana, verrò.

— Il Signore vi ha posto su la nostra via — disse ancora la bella
creatura; poi arrossì come vide ch’io la guardavo troppo fissamente.

Quando fummo per lasciarci le chiesi:

— Come ti chiami?

Si tirò la pezzuola su gli occhi e sorridendo rispose:

— Io mi chiamo Pavona.

Poi si mise a fianco della madre e disparve fra la folla.




III.

L’ignoto.


Qualche cosa era in me ch’io non sapevo vincere; qualcosa ch’era
disceso nell’anima mia per inavvertite vie. Nell’attimo in cui stavo
per troncare ogni legame col passato mi inteneriva con tale dolcezza di
rimpianto che temetti esserne vinto. Ed era un niente per sè stesso;
un amore di povere, di umili cose: del poco ch’era mio, ch’era stato
di mia madre. Dovevo disfarmene chè, per la vita del domani, non m’era
possibile serbare gli oggetti che erano stati compagni miei nel periodo
più quieto della mia esistenza; disfarmene per sempre; ed era la
certezza di questa eternità ch’io ponevo volontariamente fra il passato
e l’avvenire, la certezza che non avrei potuto mai più ricuperare la
benchè minima parte del piccolo tesoro di dolcezza dispersa, che mi
riempiva di amara perplessità.

Passò qualche giorno senza che una decisione definitiva mi si
presentasse. Omero rispettò il mio dolore nè una sola volta mi chiese
che pensassi fare: socchiudeva la porta, mi guardava qualche secondo
e ripartiva senza nulla dire. Rimanevo accasciato nel più assoluto
abbandono. La crisi fu quale non mi sarei aspettata; fu improvvisa,
passò come un vento di bufera; non ne fui travolto e non so perchè.
Mille voci sorsero in me, e mi consigliarono la schiavitù; mille
dubbi si affacciarono e riaffacciarono alla mente mia; pareva ch’io
albergassi una intera tribù di persone previdenti e sagge, di persone
che temono il domani, che si preparano un niduccio a modo per non
soffrire il domani, che tollerano con rassegnazione, che mangiano,
dormono, generano in vista di una quieta morte, di un tranquillo
riposo. E perchè mai dovevo soggiacere a tale incubo, a tale spavento?
Che c’era in me di così vecchio, di tanto debole ch’io non avessi
conosciuto ancora?

Rividi la mia tana, il mio principale; ripensai le interminabili ore
di prigionia; mi tornarono alla mente le ingiurie, i patimenti, le
terribili angoscie della mia giovinezza costretta a macerarsi in una
inattività bruta, eppure qualcosa fu in me che cercò scusare, smussare,
attenuare ogni asprezza; qualcosa fu che mi tenne dubbioso tuttavia.
Una forza ch’io temevo e alla quale non potevo ribellarmi ad un tratto.
Era l’ombra dell’anima stanca della mia stirpe; della secolare condanna
che per lunga consuetudine, da padre in figlio, si era connaturata
nella famiglia nostra, nella grande famiglia dei servi; una debolezza
innanzi alla quale mi trovavo d’improvviso e che mi lasciava stordito.

Nasceva dall’amore che avevo per le poche cose ereditate da mia madre,
poneva radici profonde in un sentimento più che umano, dilagava nel
misoneismo, giungeva all’aggiogazione bruta.

Quando fui per disfarmi di tutto, quando giunse il rigattiere che
avevo chiamato e cominciò a sbirciare, a porre le sue mani sozze su
gli oggetti che mi erano sacri perchè erano stati della mia santa,
perchè serbavano ancora nel loro colore, nella loro forma, e nella
disposizione un atteggiamento del pensiero di lei, del suo volere;
quando con l’indifferenza del mestierante che ha l’abito di simili
faccende, levando le coltri del letticciuolo ov’ella era morta disse:

— Vi compro questo per otto lire! — sentii sì violenta la profanazione,
tale impeto di sdegno mi invase che balzai in piedi e gridai su la
faccia al malcapitato:

— Vattene, vattene via, vattene!

— E perchè? — chiese egli maravigliando.

— Non voglio vender nulla, vattene!

Allorchè ebbe richiuso l’uscio, mi sentii un groppo di singhiozzi alla
gola. Poi mi si presentò il dilemma che mi arse nel cervello come una
febbre: o rinunziare al passato, lasciar cadere come il coperchio di
un’arca su tutto ciò ch’era stato dolcezza di un tempo — o riprendere,
chi sa fino a quando, per sempre forse, la mia vita del giorno prima.

Non m’era possibile una qualsiasi decisione allora; nel pensiero
travagliato, combattuto da mille correnti, non poteva presentarsi una
limpida linea risolutiva. La libertà è un sogno di assoluto egoismo;
finchè il minimo sentimento permane, nessuno può raggiungerla e non v’è
uomo che sia tanto vicino a Iddio o ai bruti da esser libero da ogni
sentimentalità.

Io fui umile e schiavo, in quei giorni; più che nell’anima mia, sentii
mia madre nelle cose; era una idolatria; un feticismo che aveva ragioni
di abitudine e di dolcezza. Ogni uomo che voglia disciogliere qualcuno
dei molteplici nodi che lo avvincono alla società, deve portare il
suo tesoro con sè, tutto nel suo cuore. Questo intendevo, questo avrei
voluto, ma la forza veniva a mancarmi; finchè un giorno chiamai Omero e
gli dissi:

— Io non ho coraggio che mi basti a disfarmi di queste povere cose. Ti
consegno tutto, vendi tutto. Ti aspetterò questa sera al fiume.

Omero mi guardò fissamente e mi chiese:

— Hai proprio deciso?

— Aiutami — risposi — aiutami tu che mi vuoi bene!

— Bada Duccio della Bella, ti poni sopra una via che ti farà sanguinare.

— Ho deciso: non tornerò più. Perchè vuoi accrescere la mia tristezza?

— Vorrei consigliarti se fosse possibile.

— Non eravamo dello stesso avviso qualche giorno fa quando ti narrai
ciò che avevo detto al mio principale?

— Io tacqui. Ti approvavo in cuor mio forse, ma tacqui.

— Ebbene taci ancora, non aumentare il mio dubbio. Ma perchè tu, che mi
sei amico fraterno, non mi aiuti a seguire la via che ho eletto?

— Perchè non ci vedo chiaro, perchè non so dove riesca.

— E che t’importa?

— Poco m’importerebbe se si trattasse di me. Tu non potrai essere
mai un niente come sono io; tu non potrai mai dimenticarti come io
mi dimentico. Tu hai una ragione forte, hai studiato, sai ciò che è
scritto nei libri. A proposito: vorresti vendere anche quelli?

— Anche quelli!

— Vuoi serbare nulla?

— Nulla.

— Io ti dico che piangerai! — esclamò Omero.

Per qualche istante rimanemmo di fronte muti; quando gli chiesi, e la
mia voce ebbe un tremito:

— Vuoi aiutarmi? — non rispose ma scosse il capo affermativamente.

— Allora a questa notte?

— Sì.

— Al ponte del fiume?

— Sì.

Me ne andai lentamente. Volgevano le ore pomeridiane, i quartieri
popolari nei quali si trovava la mia dimora erano deserti. Su qualche
porta ruzzavano gruppi di bambini sudici: erano seminudi, avevano
i capelli lunghi, aggrovigliati, e i visucci a volte terrei a volte
diafani e gialli, non mai animati da un’onda sana di sangue; ruzzavano
fra la polvere e le immondizie. Una vecchia sedeva su l’uscio di una
lurida casa agucchiando intorno ad un cencio abbandonato sul grembo;
vicino al rigagnolo d’acqua nerastra che scorreva in mezzo alla via
alcune galline pasturavano gracilando. La giornata era tepida chè
aprile era alla soglia dei cieli.

Mentre attraversavo un vicoletto buio nel quale le alte case si
aduggiavano sentii chiamarmi:

— Duccio? O Duccio?

Mi volsi. La vecchia Simona, da un uscio dischiuso, mi faceva cenno
perchè mi avvicinassi:

— Dove vai? — mi chiese.

— Perchè vuoi saperlo?

— Per nulla... così! Non ti ricordi più della tua vecchia Simona? Da
quanto tempo mai non ci eravamo veduti?

— Da molto tempo infatti.

— Non vieni più da queste parti! Quando c’era la tua povera mamma
le cose andavano diversamente; ora sei rimasto solo, ora la fai da
padrone. Dove andavi?

— Ti preme saperlo?

— No; ma non si può chiedere?

— Non saprei risponderti — dissi freddamente.

Dopo una sosta, la vecchia Simona riprese:

— Ora penserai ad accasarti, non è vero?

— Ad accasarmi? E perchè?

— Perchè? Ma chi ti può reggere la casa, chi può conservarti quel poco
che hai? La vita è difficile, una compagna ci vuole: io avrei la donna
adatta al tuo caso.

— Proprio per me l’hai serbata?

— Sì. Ho pensato: Duccio è solo, Duccio è un buon figliuolo, guadagna
abbastanza per reggere una famiglia: procuriamogli una famiglia. Avrai
così, almeno, chi curerà i tuoi panni, chi ti preparerà il mangiare
quando tornerai dal lavoro, chi ti farà compagnia...

— Guarda quante belle cose!

— Sì. Poi, detta fra noi, la gente cominciava a mormorare perchè non
andavi più all’ufficio, perchè ti eri dato alla vita scapestrata. Mi
hanno detto anche che ti ubbriachi, io non ci ho creduto ma l’hanno
detto. L’altra notte han dovuto portarti a casa perchè non ti reggevi
più! Un brutto vizio, figlio mio, guardatene. Il marito di Susanna è
morto l’altr’ieri all’ospedale in causa al vino!

— Si occupano tanto di me?

— Sì, ti vogliono bene, la gente fa per tuo bene. Ti biasimano perchè
dispiace a tutti che tu faccia così!

— E s’io ti dicessi che in tutto ciò non c’è una parola di vero, cosa
ne penseresti della gente?

— Naturalmente si esagera; tutti esagerano ma ciò avviene senza che
uno se ne avveda. Nel raccontare può sfuggire una parola di più. Però
ascolta: tutto ciò che è passato si dimentica, ora devi seguire il mio
consiglio. Vuoi conoscere la ragazza che ti ho destinato?

— No.

— E perchè?

— Perchè no! Non ti pare che basti?

— Ma vuoi dunque rimaner solo?

— Più che solo, solissimo!

— Vuoi continuare questa tua vita?

— Fino alla consumazione di tutte le mie forze voglio rimanere così.

— Fa come credi. Però, se fosse al mondo la tua povera mamma...

— Non parlare di lei!

— S’ella ti vedesse — continuò la vecchia — non potrebbe che soffrire
per questa tua decisione. Ella che sognava per te un pane, una famiglia
e dei figli...

— Non è vero! — gridai — Non continuare!

— Ma sei pazzo? — domandò Simona stupefacendo.

— Sono pazzo perchè non sono un servo come tutti voi.

— Ma che vuoi dire? Non ti capisco!

— Non importa, nonna Simona. S’io ti parlassi tre ore, tre lunghe ore,
non capiresti ugualmente una sola parola di ciò che ti direi.

— Quanto soffrirebbe povera donna! — esclamò la vecchia scuotendo il
capo. Vidi sul viso ipocrita della femmina maligna ed insensibile una
smorfia che avrebbe voluto essere di dolore e che mi destò ripugnanza
per la troppo vile finzione.

Simona non aveva amata mai mia madre della quale era parente prossima;
in molte occasioni ch’io ricordavo con chiarezza, aveva cercato esserle
dannosa, le aveva procurato continui dolori, amarezze continue. Ella
era stata prima ad abbandonarla quando, per la sua dolce colpa, le ero
nato, frutto di un non egoistico amore; era stata prima a denigrarla,
aveva detto di lei cose infami, l’aveva indicata alle compagne come
meretrice, poi, nel seguito degli anni, per necessità sopravvenute,
composto il viso a dolcezza, era ricomparsa nella nostra casa,
chiedendo, benedicendo, esaltando. Mia madre conosceva il perdono
e perdonò; dette ciò che poteva, fu buona come sempre, come sapeva
esserlo lei che regalava e pareva togliesse. Ora io sapevo perchè
Simona m’era apparsa innanzi; due volte era giunta fino al mio tugurio
a cercarmi. Ella aveva una nipote, una brutta figlia infingarda, una
sozza ignorante che moveva a schifo per la sua volgarità — erano sole e
poverissime, incapaci di qualsiasi lavoro; necessitava loro un uomo che
si sobbarcasse la spesa del loro vagabondaggio e andavano cercandolo.
Simona aveva pensato a me; mi credeva docile, umile, maneggiabile;
aveva scambiato il profondo amore che portavo a mia madre con la
debole sommissione degli impossenti e aveva creduto potermi facilmente
aggiogare. Di fronte all’ira che le sue parole avevano destato in me,
s’era trovata sì d’improvviso sbalzata nell’inatteso che una meraviglia
infantile aveva sconvolto il pensiero di lei.

Per parte mia, quell’incontro bastò perchè la decisione dei giorni
innanzi mi tornasse al pensiero chiara e precisa, vincesse gli ultimi
dubbi, le ultime sentimentalità; mi parve anzi che mia madre stessa
mi avrebbe consigliato partire, mia madre che aveva a sdegno ogni cosa
vile e volgare.

L’ambiente nel quale mi trovavo mi riusciva intollerabile, era un
legame che dovevo infrangere assolutamente; mi sentivo troppo lontano
da tutta quella gente cieca; troppa noia mi destava la confidenza con
la quale ero trattato e lo spionaggio e i consigli e i pettegolezzi;
non volevo essere e non ero uno dei loro, una bestia da soma per tutti,
dalla donna in su; non volevo rimanere nel cielo breve al quale pareva
avermi condannato la sorte. Il mio spirito alerte riprese le sue vie
ribelli; ritrovai me stesso con grande gioia.

Solo col mio tesoro: un niente per gli uomini, l’infinito per me!

— Sono le ultime tue parole quelle che hai detto? — riprese Simona
levandomi in viso gli occhi biancastri.

— Sono le ultime; almeno così spero perchè parto.

— Parti? E dove vai?

— Non lo so. Dove vorrà il mio capriccio.

— Ma per quanto tempo rimarrai assente?

— Per sempre, spero.

— Vai in America?

— No.

— Ma che vorresti fare?

— Nulla.

— Il vagabondo?

— Sì.

— Finirai male.

— Ti dispiacerebbe?

— Sì, perchè ti voglio bene, perchè penso a quella santa donna di tua
madre...

— Ti ho detto che non devi parlarne!

— Perchè?

— Perchè non voglio, perchè sei un’ipocrita e t’infingi e non l’hai
amata mai!

— Io?

— Tu! Ricordo tutto, non meravigliare, ricordo quanto l’hai fatta
piangere, quanto l’hai amareggiata con ogni tua viltà.

— Io? — riprese Simona sbiancando. Le sue vecchie mani tremavano; era
brutta, ributtante, odiosa; ne ebbi ribrezzo e non volli continuare;
d’altra parte il desiderio di andarmene, di fuggir lontano, di
togliermi dagli occhi la visione di quella miseria era sì violento che
non badai a ciò che la vecchia rispose; le volsi le spalle e fuggii.

Per tutto quel giorno errai senza meta. La felicità era tornata con la
perfetta coscienza del mio stato; la felicità dell’uomo che sente tutta
la sua giovinezza tesa violentemente verso le vie dell’ignoto, che si
sente libero da ogni vincolo umano e sa di poter vivere e morire senza
che l’egoismo altrui glie lo vieti o cerchi vietarglielo. La vita è
una continua lotta di egoismi che l’amore tenta nascondere. Poca è la
bontà: esiguo lago di fronte al grande deserto.

Allora credevo che l’uomo potesse trovare unicamente in sè ogni fonte
di energia e credevo che la solitudine, l’isolamento e l’ampia libertà
fossero per la creatura come lo spazio per le stelle, sola ragione
d’esistenza; ebbi a vedere poi come i ribelli cadano a volte in più
facili inganni e come l’illusione si compiaccia aprire campi subito
preclusi dalla realtà. Comunque sia, l’amarezza che venne incontro a
me come un fiume straripante nell’impeto di una piena, nulla mi lasciò
d’amaro. Vano è sospirare e dolersi se ogni creatura ha le sue vie
tracciate; pessima cosa è ottenebrare il pensiero degli uomini e render
loro più oscuro l’orizzonte. Chi può destare un sorriso o una speranza
e illuminare un’anima così faccia che è bene: poca è la gioia e grande
è il desiderio!

Quando fu notte uscii dalle porte della città, mi diressi verso il
ponte che sorgeva in solitaria campagna e attesi. L’aria era fredda;
nel cielo era uno stellato fisso. Passarono due plaustri e si persero
lungo il doppio filare di tigli che fiancheggiava la strada per
lungo tratto. Nella semioscurità si vedevano le acque trascorrere;
scintillavano a pena piccole gore qua e là, fra le sabbie abbandonate
dal fiume.

Ad un tratto vidi un’ombra salire il pendio del ponte.

— Omero? — chiamai.

— Sono io — rispose la voce buona.

Quando mi fu vicino e potei discernerlo con maggiore chiarezza vidi che
recava su le spalle due grandi bisacce. Andava un po’ curvo per il peso
di tale fardello.

— Hai fatto? — chiesi.

— Sì.

— Tutto bene?

— Benissimo.

— Di quanto disponiamo?

— Duecento lire.

— Hai detto?

— Duecento lire.

La somma mi parve enorme.

— Ma come mai hai racimolato tanto?

— Ti pare molto?

— Troppo.

— Eppure ti hanno rubato più della metà.

Trascorse una pausa. Omero sedette vicino a me su la spalletta del
ponte.

— Hai consegnato la chiave, hai compito ogni formalità?

— Tutto è fatto.

— Grazie — risposi.

— Ed ora.... — riprese Omero levandosi.

— Convien trovare un angolo per dormire.

— No, per questa notte cammineremo.

— Verso dove?

— Ti debbo essere guida?

— Sì.

— Allora vieni con me, lo saprai.

Lentamente, senza dir parola, l’uno a fianco dell’altro, ci perdemmo
sotto la notte. Così cominciava il mio cammino verso l’ignoto.




IV.

Solo l’amore è eterno.


Un tumulto di voci aspre ci ridestò di soprassalto. Omero balzò in
piedi primo.

— Dove siamo? — chiesi soffregandomi gli occhi.

— Su lo strame — rispose Omero. — Levati, la strada non è compita. Sei
stanco ancora?

— No. Ho dormito molto?

— Dieci ore buone. Il giorno è chiaro.

— Riprendiamo subito la strada?

— Sì.

— Sono con te — risposi e mi levai dall’aspro giaciglio che la
stanchezza mi aveva fatto di piume. Scendemmo dal fienile l’un dopo
l’altro per una scala a piuoli appoggiata all’alta finestra. Non appena
fummo all’aperto un alito di brezza marina ci avvolse; fu come una
diana ai nostri sensi intorpiditi ancora.

Da tre giorni continuava l’ininterrotto cammino; ci eravamo dilungati
di buon tratto dalla nostra piccola terra del piano. Ove si andasse non
sapevo; Omero voleva provare la mia resistenza e la mia volontà.

Giunti su l’aia della cascina nella quale avevamo trovato ospitalità
per quella notte, vedemmo aggruppati vicino ai pagliai, molti uomini
che discutevano ad alta voce anfanando. Passammo oltre senza esser
notati.

Il sole ascendeva fra le betulle lontane, nella vastità. Andavan gli
albastrelli e le canevaiole a lunghi sciami per l’aria.

— Mantieni il passo — mi disse Omero — Non affrettarti in principio per
rimanere a mezzo. Mantieni il passo.

— Ma tu sei un orologio!

— Bisogna saper far calcolo delle proprie forze! Sono il nostro
patrimonio. Parlo per esperienza.

— Hai viaggiato molto?

— Quanti anni credi tu ch’io abbia?

— Quaranta.... quarantacinque.... non saprei.

— Ho cinquant’anni, sono stato sempre solo. Quando la primavera era
ancora per me come una invincibile malìa abbandonai la città dove
qualcuno sapeva ch’io esistevo. Da quel tempo non ho avuto posa un
giorno.

— E come hai vissuto?

— Come vivono i pari nostri: con niente.

— E non hai cercato mai un lavoro fisso?

— Ho lavorato a tutto, su la terra e sul mare; tutto è stato buono per
me, pur che fosse di breve durata.

— La solitudine non ti ha fatto mai paura?

— La solitudine?... Che cos’è?... Tu parli di cose ch’io non ho
conosciuto mai, figlio mio.

Curvo un poco sotto le sue bisacce continuò la via lungo gli scrimoli
dei fossi. Vestiva un soprabito di antica foggia fatto per un dosso
molto diverso dal suo: ciò che doveva giungergli alla vita, si fermava
alle spalle; aveva un paio di calzonucci miseri che pareva facesser
somma fatica a coprirgli la caviglia, tanto erano aggrottati e
sdegnosi, poi le scarpe rotte e un berretto a visiera compivano il suo
abbigliamento. Era forte e muscoloso a dispetto dei patimenti sofferti.
La sua faccia serena e bonaria, raramente si offuscava; ogni più
occulto pensiero poteva leggersi su quel viso nobilmente aperto.

Anche quel giorno, per tutto quel giorno, camminammo. Verso sera la
stanchezza mi fu come un lento veleno onde le mie facoltà cerebrali si
ottenebrarono.

Andare per una via interminata, scalpicciando fra la polvere, dall’alba
al tramonto; sostare brevemente a qualche ombra e ripartire quando
il tepor solare insonnolisce un poco e dolce sarebbe l’abbandono;
proseguire sotto al sole mutando qualche rara parola, fino allo
smorire dei cieli, fino all’ora che langue in ogni aspetto soavemente;
scambiare sempre più rari i passi; aver gli occhi stanchi, la mente
ottenebrata, sperduta verso un tutto ed un nulla di cui più non afferra
i contorni: tutto ciò è simile a un sonno di morte nè triste nè amaro
che per inavvertite vie vi raggiunge, spegne la vigile coscienza e
all’improvviso vi abbatte lungo la via senza che vi avvediate di cadere
per non più risorgere forse. Questa è la stanchezza, simile alla morte,
che sanno i viatori raminghi; coloro che una legge oscura condanna ad
errare per insoddisfatta bramosia di libertà di giorno in giorno fino
alle soglie estreme.

Poco è il pane e grande è il bisogno, più si toglie che non si dia; v’è
giorno in cui gli occhi non corrono ai cieli ma, chini su l’aspra via,
si annebbiano; v’è giorno in cui il pensiero non indaga, nè crea, nè
gioisce, ma si arresta, intorpidendo, ai moti della persona e allora si
contano i passi con assidua cura finchè il grido solivo delle cicale
che scende in onda alterna come un ritmo di acque profonde, come un
mare di infiniti suoni, non tolga anche l’ultima facoltà numerica alla
mente vigile. Così la vita con lieve mano si dislaccia e ci abbandona.

Non ricordo ove fossimo — ricordo a pena un gran cielo rossigno innanzi
a me e il suono della voce di Omero:

— Che hai, ragazzo?

Poi mi sentii sorreggere, poi vidi ancora qualche ombra di rama e tutto
trascolorò.

Era notte quando riapersi gli occhi. Omero, seduto vicino a me, frugava
nelle sue bisacce; al termine della via, verso levante, era un bagliore
bianchiccio.

— Bevi — mi disse Omero porgendomi un gotto; poi soggiunse:

— Come ti senti?

— Bene; ma che ho avuto?

— Nulla. Sono le prime stanchezze. Ho voluto provare troppo duramente
la tua resistenza.

— Dove siamo?

— A tre chilometri da Comacchio. Puoi proseguire?

— Sì.

Mi rialzai. Omero mi offerse il braccio. La strada andava fra le
acque delle lagune verso una luce che pareva sorgesse dall’ombra di
un’immensa nave a pena intravveduta. Intorno a noi era il silenzio
della distesa infinita. Su qualche argine sperduto luceva una
fiammella, ardente forse innanzi a qualche icone sacra alla notte e al
palpito stellare.

La distanza sminuiva sensibilmente; si accennava già la grande nave in
linee più decise e cresceva su l’orizzonte, con la sua ampiezza, il suo
lume.

— Quanto ci rimane ancora? — chiesi ad Omero.

— Di che cosa? — rispose volgendosi il mio compagno.

— Di ciò che guadagnammo prima di partire.

— Quasi tutto.

— Abbiamo vissuto di niente allora.

— Di ciò che era necessario. Bisogna ricordare che dall’oggi al domani
si può venir meno. In questo caso se si possiede nulla, gli uomini non
ci accoglieranno. Siamo bestie inutili, Duccio della Bella! Ricordati
questo, sopra tutto.

— Ricorderò — risposi. Aggiunsi: — Ci fermeremo a Comacchio?

— Sì.

— Poi?

— L’avvenire è nelle mani del destino.

— E così sia.

Dopo non molto traversammo, sopra un ponticello arcuato, un canale
che si lanciava verso levante costeggiando i brevi giardini della
città delle acque. Una _burchiella_ avanzava lentamente sospinta da
un invisibile navarca. Fummo su la lunga via che traversa la città in
tutta la sua lunghezza; ne percorremmo buon tratto senza incontrare
persona, volgemmo poi a sinistra seguendo un canale e, fra basse dimore
ed alte canicciate, riuscimmo ad un _campiello_ che si apriva da un
lato su la laguna. Una sola fiammella diradava l’oscurità del luogo.
Le piccole case senza imposte alle porte si addossavano tutt’intomo
strette nel buio contro l’immensità; da qualche andito traluceva a pena
un bagliore. Non si udiva voce. Tutti i pescatori dormivano forse od
eran lontani alla pesca di frodo nella notte illune e profonda.

Omero si appressò ad un andito e gridò per due volte consecutive:

— Giovanni della Nave? O Giovanni, sei desto?

In breve l’andito buio si rischiarò. Udimmo un lento batter di zoccoli
su l’impiantito e vedemmo avanzare, illuminato da una lampada appesa ad
uno spago, un uomo su la quarantina, forte ed adusto.

L’ondulare della lampada ch’egli teneva sospesa innanzi a sè nella
mano sinistra, illuminava ed ombreggiava a vicenda il volto di lui sì
che, per il giuoco delle luci, pareva che gli occhi suoi, fissi nello
scrutare, vedessero e svedessero d’improvviso nella tenebra notturna.
Teneva stretta fra i denti una breve pipa chioggiotta; aveva due larghe
brache di bordatino a bande rosse e celesti e una camicia azzurra,
aperta sul petto. I piedi nudi avea infilati negli zoccoli e sul capo
portava la _galosa_: un berretto conico di feltro nero.

Quando fu sul limitare chiese:

— Chi sei?

— Sono io, Giovanni della Nave, io, il tuo vecchio amico Omero.

— Omero! — esclamò con voce forte l’anziano. — E da dove vieni?

— Da lontano.

— Vuoi dormire?

— Sì. Ho con me un compagno. Puoi darci ricovero?

— Entrate — rispose Giovanni e si volse per l’andito invitandoci a
seguirlo.

Entrammo in una stanza angusta, umida, nerastra. Giovanni della Nave
appese la lampada alla cappa del camino ch’era basso sì che il focolare
si trovava appena un palmo sopra l’impiantito.

In mezzo alla stanza era una lunga tavola con a torno alcune panche;
alle pareti erano appese stanghe, forcini, reti, fiocine ed altri
attrezzi da pesca; un esile battello giaceva rovesciato lungo una
parete, innanzi ad una porticina che si apriva sul canale. Su la cappa
del camino, in alto fra alcuni rami di palma, era una vecchia immagine
stinta di un santo ignoto.

Giovanni della Nave trasse una panca più presso la tavola e fece un
cenno perchè sedessimo, poi prese da una vecchia madia due bicchieri,
li risciacquò in un orciuolo e ce li pose innanzi tutti stillanti.

— Questo vi sarà come manna — disse mescendo da un ampio boccale un
vinello nero che arrubinava rapidamente il bicchiere. — È vin di Bosco
e del migliore.

— Buono — fece Omero — sa di ferrigno.

— È la nostra salute — riprese Giovanni della Nave — ci preserva dalle
febbri; ci dà un po’ di calore, l’inverno, quando la pesca è opera
aspra e c’è da morirne; ci aiuta a campare. È santo come l’occhio di
Dio.

Soggiunse poi:

— Bevetene chè non fa male.

Omero tese il suo bicchiere per la seconda volta e per la seconda
volta, socchiudendo gli occhi, assaporò il gusto asprigno del vino
salmastroso.

— Dunque — fece Giovanni della Nave riaccendendo la sua pipa di cotto —
che pensi fare col tuo compagno, Omero? Rimarrai fra noi?

— Qualche giorno, poi si vedrà. C’è lavoro?

— Niente; c’è da industriarsi. È abile il giovanotto? — disse
indicandomi con un cenno del capo.

— È nuovo ma si farà. E i figli tuoi?

— Sono fuori a _Campo_[1] Rillo; tentano la sorte. Serena tornerà fra
poco, è ancora al lavoro. Pietro è stato in prigione, a scontare la
condanna dell’inverno scorso. Gli hanno tolto tre volte il battello, la
fiocina e la preda. Comunque sia la pesca ha reso. Ora è più forte che
mai.

— Si è ribellato alle guardie?

— No, si è lasciato prendere sempre, da buon figliuolo; tanto,
ribellarsi vuol dire accrescere la pena.

Tacemmo. Si udiva presso la piccola porta il risciacquio dell’acqua
mossa dal palpito del non lontano mare; era un battere molle e
continuo, un assiduo lappeggiare saliente dal buio del piccolo canale
che scorreva fra le canicciate e i muri rozzi delle basse dimore.
Null’altro suono si udiva: pareva che la muta città fosse stata presa
dall’incantamento delle umili acque e che solo le stelle avessero pe’
suoi canali lampeggiamenti di vita.

— Serena tornerà fra poco e appronterà il mangiare — riprese Giovanni
della Nave. — Avrete fame.

— Un poco — rispose Omero.

— Siete digiuni?

— No, abbiamo provviste per due giorni ancora; ma si bezzica, non
si mangia. È utile far così per continuare la via, altrimenti ci
si intorpidisce e si cade nel sonno. Per viaggiare conviene essere
leggeri.

— Hai sempre le tue belle dottrine di un tempo! — esclamò Giovanni
sorridendo.

— Se così non fosse potresti tu vedermi qui, dopo tanti anni, sano e
forte?

Tacemmo di nuovo. Il conversare languiva chè nessuno fra noi era
loquace e nessuno coltivava la vanità della propria parola e parlava
per ascoltarsi; ciò ch’era necessario dire lo si diceva nella forma più
breve senza perdersi in commenti o ampliazioni; buono era l’intendere
e per l’intesa bastava il poco. Odiavamo l’inutile, tutto ciò che
è vanità, fiorettatura leziosa; tutto ciò che oscura la limpidezza
dell’idea traendola per vie diverse. La parola doveva essere al
pensiero come l’arco alla freccia: la rapida forza che trae alla meta;
nulla più. Ciò corrispondeva alla rude armonia di tutta la vita nostra.

Per tale sentimento ch’era una legge, in poche frasi si esauriva ogni
argomento di discorso. Il silenzio non ci turbava: ognuno era libero
di seguire le sue vie di ideazione senza preoccuparsi del compagno che
faceva altrettanto.

Con i cubiti appoggiati alla tavola e il capo chino fra le palme, Omero
e Giovanni stettero lungo tempo l’uno di fronte all’altro assorti;
pareva fossero stati così fin dalla nascita senza lasciarsi mai,
tant’era la dimestichezza del loro abbandono. Omero aveva chiesto
e Giovanni aveva dato, ciò era ben naturale sì da una parte come
dall’altra. Non avevano avuto maraviglie per l’improvviso incontro;
pareva si fossero lasciati la sera innanzi e non si vedevano da
quindici anni almeno.

Tale apparente indifferenza non derivava da insensibilità; era
la risultante di una consuetudine antica e di un sentimento: la
consuetudine dell’ospitalità e il sentimento di una dignità virile che
non ammette svenevolezze.

Omero e Giovanni della Nave, come vidi poi, erano amici sinceri e
pronti al reciproco sacrificio; pure non una volta udii l’uno rivolgere
all’altro una parola d’affetto. Più ai fatti che alle parole si
temprava il loro sentimento fiero.

Trascorse non so quanto tempo nella muta attesa. Il sonno mi
appesantiva gli occhi, scendeva lento, irresistibile come un delizioso
torpore. Ad un tratto un rapido battere di zoccoli e il cigolio di una
porta che si apriva mi ridestò. Levai il capo; Omero e Giovanni si eran
volti verso la soglia su la quale era apparsa una giovinetta.

— Hai tardato — disse Giovanni.

— Babbo, il lavoro era molto e forte — rispose la giovanetta.

— Prepara subito la cena e pensa agli ospiti.

— Sarà fatto.

Ci passò innanzi e ci salutò con un chiaro sorriso. Giunta presso
il focolare slacciò il lungo zendado turchino che portava piegato
su la fronte e su le guance in bande ieratiche e sciolto lungo la
persona magnificamente l’appese al muro; e apparsa così co’ suoi bei
capelli neri raccolti a crocchia su la nuca e tutti vivi in superbi
ondulamenti, apparsa come in un guizzo di tutta l’esile persona ch’era
simile al viburno e alla molle ninfea, nella grazia del suo viso
pallido, ci sorrise ancora prima di chinarsi sul focolare ad avvivar le
bragi.

— Bella figlia — mormorò Omero rivolto a Giovanni. — Ti si è fatta
grande e bella!

— Non canzonate! — rispose Serena volgendo leggermente il viso sopra la
spalla.

— Non canzono. Se non credi a me domandalo al compagno mio che legge i
libri e se ne intende. Duccio, non ti par bella?

Ella volse su me gli occhi neri che aveano l’estrema limpidezza dei
cieli, e una fuggevole onda di sangue le arrubinò le guance; poi
riabbassò il capo e riprese le umili faccende.

Quando Omero mi si distese a lato sul giaciglio dopo avermi riassettato
una coperta ai fianchi e disse:

— Ora sosteremo qualche tempo; questa terra è buona ed è bene tu la
conosca — non ebbi l’aspra sensazione che mi aveva procurato già ogni
altro pensiero di sosta; qualcosa era in me che cantava una nenia
avvolgente, qualcosa che era simile a una freschezza di acque, a una
mattinale dolcezza. Io mi assopivo sorridendo, dimentico in parte di
ogni pensiero diverso.

Ricordo che, prima di prender sonno, apparve e riapparve alla mia mente
come in un cerchio, in una corona tutta di fiori e di gemme il motto di
un antico saggio: — Solo l’amore è eterno!

E il mio senso ribelle sostò su le vie dell’incantesimo eterno.




V.

Serenella.


Le amiche la chiamavano Serenella perchè era esile ed aveva molta
soavità in ogni suo gesto; forse avevano ingentilito il nome, così,
senza pensare, per il senso di rapporto che mantiene, nelle anime
semplici, le armonie fra i suoni, le cose e le creature.

Serenella era un nome aggraziato; le stava bene come una pallida veste
alla persona, o un nimbo a’ bei capelli fluttuosi. Toltone il padre di
lei e i fratelli che continuavano a chiamarla Serena, gli altri avevano
adottato il dolce vezzeggiativo.

Serenella possedeva, come tipo, le peculiari caratteristiche della
sua razza mantenutasi intatta in quelle terre remote, circondate dalle
acque e dai boschi; ricordava certe esili figure regali che gli artisti
del musaico perpetuarono nelle silenti basiliche di Ravenna; figure
vive per gli occhi nostri che le videro lungo le vie dell’antica città
imperiale o le scorsero nella vastità dei piani o su lo sfondo luminoso
del mare. Era diritta e fine; la persona, dalle movenze squisitamente
eleganti, aveva nell’armonica mollezza, nella rapida agilità dei gesti,
nel languore degli improvvisi abbandoni un’estrema grazia di voluttà.
Era pieghevole, armonizzava in ogni sua posa, aveva tratto dalle
acque le inconscie accortezze dell’avvolgimento sì che pareva dovesse
darsi tutta alle carezze come l’esile viburno si dona al fremito delle
correnti che l’incurvano e lo fanno tremare in uno spasimo che non ha
tregua.

Così le compagne di lei, le figlie della città sperduta fra acque
e cieli, vivevano nel dominio del piacere che signoreggia la bassa
Romagna e sì la tiene che tutta ne viva fremendo.

Ma Serenella differiva dalle compagne; era come l’argentea betulla
fra i pioppi. Gli occhi di lei, degli infiniti campi lagunari che
continuamente riflettevano avevano serbato l’incantesimo, la mistica
grazia che si diffondeva sul pallido volto, su la fronte pensosa.
Ell’era in tutto simile alle figure ieratiche ferme in un dolce
segno, da artisti ignoti, nelle oscure cattedrali bisantine. E quando
racchiudeva l’ovale del volto nello zendado azzurro e, negli ampi
panneggiamenti si perdeva la bella persona come un giglio fra le nebbie
del vespero, allora gli occhi suoi, solo gli occhi a volta a volta
ingenui ed oscuri nei quali pareva affondasse il cielo con tutti i suoi
bagliori, l’animavano dell’anima stessa che gli antichi musaicisti
dettero alle loro vergini che una mistica sensualità transumana.
Ell’era, così, lontana sorella delle fanciulle che l’arte predilesse od
elevò a simbolo religioso. Fioriva dall’anima di lei e dalla persona
gentile il dolce sensualismo avvolgente e la soave grazia del sogno
indefinito che le solitudini acquatili e gli orizzonti che hanno tenui
confini di nebbie alimentano nelle creature sacre alle silenti case.

Non era loquace: amava atteggiare il volto in segno di consenso o
di denegazione anzichè parlare, eppure la voce sua era armoniosa e
insuperabile nei canti a distesa nei quali si compiaceva effondersi
certe volte, di prima sera, accompagnandosi col lento battere
degli zoccoli sui ponticelli arcuati o sul selciato delle anguste
_fondamenta_.

Partiva la mattina col cestello infilato in un braccio e tornava a sera
tarda quando tutti attendevano, attorno alla tavola, il ritorno di lei
per iniziare la cena.

Le compagne sue che giungevano dai quartieri di Santa Maria in Aula
Regia, dai quartieri di San Mauro, dalle casupole nascoste da ampie
canicciate o dormienti sui canali in un sonno di secoli, la chiamavano
quando il sole sorgeva:

— Serena?... Serenella?...

Si udiva il mormorio delle giovani voci chiare e squillanti. Ella
si gettava su le spalle lo zendado azzurro, salutava Omero che
ordinariamente a quell’ora era intento a rammendare i nostri panni
sdrusciti, e usciva senza rivolgersi, come una reginetta. Omero levava
gli occhi a seguirla, levava gli occhi sopra certi suoi occhiali
grotteschi ch’egli teneva cari più del pane e rimaneva con l’ago
sospeso in aria senza compire il punto finchè ella non fosse scomparsa.

Giungeva dall’esterno la festosità delle giovani creature non
intristite dal continuo lavoro; era una gaiezza mattutina, come un
frullo di passeri da pioppo a pioppo quando il cielo si inalba; poi,
alla comparsa di Serenella, fiorivan le voci a coro:

— Presto, signora!

— Serena, hai gli occhi del sonno ancora!

E si udiva il riso della bella figlia ch’era squillante e tremava in
rapido giro estinguendosi dolcemente.

Andavano pei verdi canali le lente _burchielle_; i rapidi battelli,
sottili come fusi; i _sandali_ e, più lontano, i bragozzi che
spiegavano le grandi vele gialle e crocee su le quali erano dipinti
soli vermigli e croci nere. Le forti prore erano sospinte più dai remi
che dal vento. Il primo sole lumeggiava il santo protettore dipinto, a
colori vivaci, sotto la polena. La rude figurazione significava sempre
un vecchio mitrato, la mano levata in atto di benedire il mare.

I piccoli cani della Pomerania scorrevan sul bordo delle pesanti
imbarcazioni e, a poppa, il più vecchio fra i navigatori, curvo sopra
un fornello di lamiera, attizzava il fuoco per apprestare il pasto
mattutino ai compagni.

Passavano le grandi vele lontano, nell’aperta laguna mentre nei canali,
fra le consuete grida di avviso, scorrevano guizzando le piccole
imbarcazioni che un uomo o un monello sospingevan rapidamente col
forcino; scomparivano, ricomparivano da ponte a ponte inoltrandosi in
canaletti trasversali, assiduo succedersi di forme su le acque verdi
e tranquille. A quando a quando da un canale dischiuso come una bocca
viva su l’immenso spazio lagunare si intravvedevano argini neri e
boschi azzurreggianti in lontananza.

Fra scìe bianche e d’oro, fra bagliori di gemme, fra il cupo tremolar
dell’ombra passava la vita della piccola città sperduta da secoli nelle
sue lagune, mentre nell’aria dalla chiesa di San Mauro, da Santa Maria
in Aula Regia, dalle chiese del Carmine e del Rosario andavano squilli
e suon di doppî e tocchi lenti di campane gravi. Il sole ascendeva
con le allodole negli estremi campi del cielo. La luce, il colore, il
suono, i tre signori di Comacchio, stendevan la loro ghirlanda.

E le giovanette partivano per le _fondamenta_ a gruppi di tre, di
quattro, dandosi di braccio e cicalavano, ridevano, fra ombra e sole
nel folgorio dei loro zendadi bianchi, turchini, gialli; nel ritmico
battere dei loro zoccoli.

Serenella andava prima come la più bella fra le belle; era un muto
riconoscimento delle compagne.

Salivano le scalinate dei ponti, gioconda teoria giovanile; ascendevano
lentamente quasi procedessero verso un’ara lanciata nella luce fra
cielo e acqua; si stagliavano, sottili ed aggraziate, nella piena
luminosità dell’aria, un attimo, per ridiscendere all’opposta riva e
scomparire.

A quell’ora Giovanni della Nave ed i figli erano seduti su le
rozze scalinate del ponte del Borgo, insieme ai compagni e fumavano
silenziosamente grogiolandosi al primo sole. L’opera loro era compiuta.
Verso l’alba tornavano dalle lagune dopo aver tentato la pesca vietata
e il giorno potevano trascorrerlo in pace sonnecchiando. Solo chi
aveva avuto la mala sorte, scivolava col suo battello nel _Campo dei
Poveri_[2] ed ivi, ritto su la prua, la fiocina levata nel braccio
destro e l’occhio fissamente intento ad ogni guizzo nel cuore delle
acque, attendeva la misera preda che tanto gli desse da non morir di
fame.

Omero si attardava in casa, seduto sul focolare, intento a qualche
faccenduola per la quale si credeva abilissimo; io, vicino a lui,
scorrevo quei pochi libri che egli aveva salvato dalla comune vendita
riponendoli nelle bisacce in attesa di tempi migliori. Secondo un suo
curioso senso di elezione, aveva serbato: la _Sacra Bibbia_; l’_Orlando
innamorato_ del Boiardo e la _Grammatica latina_ dello Schultz.

Un giorno in cui una strana malinconia non mi dava tregua, Omero mi si
avvicinò sorridendo e mi disse:

— Ho io la medicina per te.

Raccolse le bisacce da un canto, ne estrasse, dal fondo, dall’intimo
fondo, i tre libri che erano incartati accuratamente e me li porse:

— Ecco, sollevati. Io non potrei dirti niente di ciò che ti diranno
loro.

Poi si volse e non volle ch’io lo ringraziassi perchè, secondo la sua
logica, solo i servi dovevano essere ringraziati.

Già da cinque mesi eravamo ospiti di Giovanni della Nave nè pensavamo a
riprender la via. Era giunto l’autunno, Omero aveva detto:

— Prima di ripartire voglio compiere la stagione del sale.

Lavorava alle saline e portava gran parte del suo guadagno a Giovanni
della Nave per il vitto e l’alloggio. Io mi ero addestrato alla pesca
notturna. Pietro e Zalèbi, i figli di Giovanni, mi erano stati guida
e consiglio. Pietro aveva venti anni, Zalèbi ne aveva diciotto; erano
due giovani belli e fieri che la gagliarda vita di lotta continua
aveva reso anzitempo pensosi. Zalèbi aveva cercato accostarsi più
all’anima mia; nelle ore di sosta, più di frequente mi sedeva a lato
interrogandomi su varie cose che gli piaceva sapere o narrandomi le
sue avventure di pesca. Era molto fanciullo ancora benchè in apparenza
sembrasse uomo maturo per la sua gravità.

A sera, allorchè, prima di partire alla ventura notturna, ci si trovava
tutti seduti attorno al desco, Zalèbi m’era sempre vicino, come un
fratello buono.

Una notte eravamo a Campo Cona, soli nel lungo battello sottile; si
sostava al largo, chè, alla Casona[3] di Farinello pareva ci avessero
avvertiti.

— Hai udito il suono del corno? — mi chiese Zalèbi.

— No.

— Tieni d’occhio il lume e sappimi dire se si spegne e si riaccende.
Io guardo a Fosecchie, potrebbe darsi che gli occhi del falco fossero
laggiù.

Le pupille dilatate e intente ai piccoli bagliori lontani, tacemmo.
La notte era oscura. L’esile imbarcazione ondeggiava a pena. Se il
lume della _Casona_, ch’era ordinariamente appeso vicino alla porta a
piccola altezza dal suolo, non gettava di continuo la sua immobile luce
a traverso lo spazio ma, a vicende ineguali, compariva e scompariva,
era segno che le guardie si erano messe in moto avendo molto
probabilmente intravveduto un bagliore della nostra lanterna cieca.
Passò qualche tempo nell’attesa. La lampada di Farinello non si oscurò
neppure per un batter di palpebra, neppure per la rapida ombra di un
volo. Si udiva il lento lappeggiare dell’acqua sotto la chiglia della
nostra imbarcazione.

— Si muovono? — chiese Zalèbi.

— Dormono — risposi.

— Hai osservato bene?

— Non ho abbandonato un attimo la lanterna. E a Fosecchie?

— Fosecchie è troppo lontano. Solo Diavolo potrebbe vederci.

— È a Fosecchie, Diavolo?

— No. Questa notte credo sia a Farmello. Così fosse all’inferno come lo
desideriamo tutti! Hai chiuso bene la lanterna cieca?

— È tanto chiusa che credo sia spenta.

— Guardala; ma non alzarla.

Mi chinai sul fondo del battello il quale ebbe una forte ondulazione
e minacciò capovolgersi. L’imbarcazione era sì leggera che un soffio
poteva sospingerla e il minimo urto rovesciarla.

— Fai adagio! — sussurrò Zalèbi — sei ancora inesperto. Se andiamo in
acqua, per questa notte non si busca un soldo.

Mi risollevai con molta cautela, giocando di equilibrio. Quando ebbi
ripreso il mio posto, Zalèbi, sporgendosi un poco, chiese:

— Hai perduto il _paradello_?[4]

— No, è qui sul fondo.

— Riprendilo e preparati che è meglio allontanarci.

Ci sporgemmo un poco sui due lati del battelletto pronti a riprendere
l’avvio, allorquando si levò lungo e continuato nella notte un grave
suono di corno.

— Hai udito? — chiese Zalèbi.

— Questa volta sì; ma è lontano.

— Credo sia sugli argini di Ussarola, a Campo. Era mia intenzione
andare proprio da quella parte e si cadeva in bocca al lupo.

Un altro suono di corno, più lontano, si levò nella notte, simile ad un
lamento disperso nella buia immensità.

— Sei pronto? — chiese Zalèbi.

— Sì.

— Allora, via!

Si udì contemporaneamente il tuffo dei forcini poi il gorgoglio
dell’acqua tagliata con violenza dalla prua. Giunti agli argini di
Campo Cona, saltati a terra, facemmo superare destramente il breve
ostacolo al battello e riprendemmo la rotta. Così trascorse mezz’ora
senza che l’un dei due dicesse parola.

La notte era profonda, tenebrosa; non altro si vedeva attorno a noi
se non, a volta a volta, il lume lontano di qualche _casona_. La
lanterna cieca mandava sul fondo del battello un piccolo sprazzo di
luce. L’acqua si intravvedeva a pena per qualche bagliore destato dal
momentaneo riscintillìo delle lontane lampade; non reggeva vento; era
tutto intorno una muta profondità d’abisso.

— Fermati — gridò d’improvviso Zalèbi — qui siamo sicuri, riposeremo un
poco.

Levammo i forcini. Il battello continuò per buon tratto la sua corsa,
poi, onduleggiando fra un breve risciacquio, sostò.

— Anche questa notte Diavolo ha fatto la sua preda — continuò Zalèbi —
Dio gli perdoni se cadrà senza farsi il segno della croce.

— Che vuoi dire?

— Voglio dire che i _fiocinini_[5] sono gente buona ma guai a chi li
perseguita con odio. Diavolo ci odia, ci annegherebbe tutti se potesse.
Ne’ suoi rapporti dice il falso per aumentarci la pena. Una volta l’ha
scampata, una seconda volta non so se il colpo che gli toccherebbe
fosse deviato!

— C’è qualcuno che lo ami ancora, per salvarlo?

— No.

— O allora?

Zalèbi scosse il capo in silenzio. Intravvedevo l’ombra sua. Era seduto
a poppa, le gambe distese lungo le sponde del battello.

— Conosci Sita? — riprese.

— Non ricordo.

— Sita, la compagna di Serena; Sita, la figlia di Teodora. Viene
tutte le mattine fino alla nostra porta ad attendere mia sorella. La
rammenti?

— Sì — risposi dopo una pausa. Ricordavo infatti la figura agile ed
altera di Sita; una figura di dominatrice.

— Diavolo — continuò Zalèbi — è il padre suo. Ella sola ha potuto
salvarlo.

— E perchè?

— Perchè c’è chi l’ama. — Dopo breve silenzio riprese: — Dammi la
lanterna.

Glie la passai; l’aprì e l’infisse a prua sì che la luce si proiettò
su l’acqua; raccolta poi la fiocina si rizzò leggermente su gli estremi
bordi del battello.

Erto così, con tutta la persona, contro le tenebre dense; il capo
inchino verso il punto luminoso; alta sul capo la fiocina pronta a
saettare su la preda, stette immobile sorvegliando.

— C’è chi l’ama — riprese a voce spenta — e Sita è come una tanaglia:
guai a chi l’accosta per amore, non potrà più dimenticarla!

Era nella voce di lui un tono passionato e triste che mi commosse.

— Le vuoi bene? — domandai seguendo un improvviso impulso.

— Perchè vuoi saperlo? — chiese Zalèbi a sua volta.

Non risposi chè non avrei voluto aggiungere parole di scusa ad una
domanda che non aveva ragioni di sciocca curiosità. Zalèbi trasse la
fiocina due volte e per due volte la sollevò con infitta nei denti
la divincolante preda; udii ancora la voce di lui mormorare, quasi
parlando a qualcuno che gli fosse molto da presso, vicino alla bocca:

— Le voglio bene!

Sentii ch’era in quelle parole una passionalità aspra, dolorosa; sentii
che tutta la giovinezza altera di Zalèbi si piegava, come una fiamma
sotto il vento, verso la creatura bella dall’anima oscura e n’ebbi
rispetto; il rispetto religioso che destano le violenze d’amore. Egli
aveva detto poco ma io intuivo che l’adolescente avrebbe fatto nessun
conto di sè pur ch’ella avesse voluto; sentivo, per la voce di lui,
tremante nella semplice espressione; per il muto concentrarsi delle
sue energie intorno alla sperata dolcezza di tutta lei che si negava,
forse, ch’egli era pronto a qualsiasi eroismo, a qualsiasi prova; che
avrebbe ucciso o avrebbe cercato la morte con gioia, con la gioia della
giovinezza ebbra d’amore, purchè Sita, dalle chiome color rame, avesse,
sorridendo, offerta la sua tumida bocca al bacio; avesse piegato il
pallido viso all’offerta.

Zalèbi soffriva. Sentivo lo spasimo intenso di tutto l’essere di lui e
della sua carne.

— Spingi al largo — disse ancora con voce mutata e forte — Va adagio;
punta il _paradello_ senza battere l’acqua.

Ci allontanammo verso il cuore della laguna, fra le tenebre. A quando a
quando, sul fondo del battello, qualche anguilla catturata si dibatteva
disperatamente nell’agonia. La preda era buona. Io vegliavo, gli occhi
intenti nelle tenebre.

— Ferma! — gridò ad un tratto Zalèbi ponendosi in ascolto.

— Che c’è?

Udimmo il sibilo dell’acqua rotta violentemente da una imbarcazione in
corsa.

— Sono le guardie? — chiesi.

Zalèbi saltò sul fondo del battello, riafferrò il forcino sussurrando:

— A destra, senza troppa forza.

Nascose la lanterna cieca e prese il moto ritmico del vogare. Non
avevamo percorso trenta metri forse, allorchè una voce ci giunse dalla
notte:

— All’erta!

— Dove sono? — chiese Zalèbi.

— Su gli argini della Cona.

— Hanno preso nessuno?

— Nessuno.

— Chi ci insegue?

— Diavolo e i suoi.

La voce si perse, lontana già nella corsa pazza.

— Spegni la lanterna — disse Zalèbi. Com’ebbi compito il comando, con
voce rotta gridò:

— A sinistra, con tutta forza. Via!

Per quella notte ancora ci salvammo da _campo_ a _campo_, d’argine in
argine fra l’affannoso rompersi del respiro e l’estenuarsi delle nostre
forze esauste ormai.

Così trascorreva la mia vita, ed era così ch’io volevo si temprasse
il corpo e l’anima mia, era a queste dure lotte per la fame e per la
libertà. Ogni languore d’inerzia, ogni veleno di apatica inoperosità
mi aveva abbandonato; sentivo la mia giovinezza come un inestimabile
valore sul quale potevo far calcolo esatto. Alla prova non ero fallito.
Omero poteva sorridere di compiacenza. Quando ritornava alla sera
dalle saline, con le mani riarse, bianche e mi guardava negli occhi
scrutandomi, gli chiedevo:

— Ebbene, vecchio brontolone, che cosa ne dici del tuo allievo?

Rispondeva:

— C’è tempo, è nulla ancora tutto ciò, c’è tempo!

Ma era contento; ma gli occhi suoi brillavano di gioia perchè mi amava
più del suo pane e delle sue scarpe che serbava tutte avvolte, come
novissimi oracoli, entro le bisacce, e non calzava mai.

Contento sì, se qualcuna non fosse giunta alla soglia del mio
cuore, non fosse giunta a cantare su un ritmo stanco di onde, la
sua malinconia. Ed era la dolce malinconia delle anime femminili che
attendono e muoiono di speranza e si fanno udire sì belle che tutto
il cuore ne trema. Ognuno di noi avrà colto la eco di un simile canto
talvolta nella sua giovinezza, allorquando ogni senso intende con
maggiore intensità.

Io udivo, io mi chinavo ansiosamente verso la dolce voce che mi
giungeva da un silenzio; mi soffermavo così come ci si sofferma a
volte ai limiti della landa ad ascoltare, da un’aia, il canto di una
tessitrice ignota; — il cuore ne ragiona per dolcezza nuova e l’anima
ne gode, presa per incantamento. Serenella era entrata nella mia vita
come l’alba che reca, fra le nude braccia protese sul capo, una corona
di stelle.




VI.

La minaccia.


Forse non era ancora tramontata la stella diana; forse l’alba non
aveva ancora spento, col suo fiato di nebbie lucenti, le stelle che
si attardano a tremare su l’estremo lembo dei cieli quando la cassa
del telaio cominciò il suo battere ritmico, tranquillo fra lo stridere
delle calcole.

Omero si rivolse sul giaciglio, grugnì, si soffregò gli occhi e, dopo
un lungo respiro, volgendosi verso me chiese:

— Che ore sono, Duccio?

— È l’alba — risposi.

Aggrottò le ciglia, stette un attimo col capo fra le mani e riprese:

— Oggi è festa, mi pare.

— Non so.

— Che giorno è?

— Non ricordo.

— Tu non sai e non ricordi niente; ma in che mondo vivi?

— Nel tuo, se ho la tua stessa memoria!

— Hai ragione.

Dopo un altro breve pensare, conchiuse:

— Sì, è festa; dormo.

Si compose sul giaciglio, volse il capo verso la parete e non trascorse
un minuto che aveva ripreso il lento respiro del sonno. Io non dormii,
udivo il palpito del telaio. Serenella tesseva. La vedevo sotto la
lampada accesa, curva un poco, ordire la trama quasi segnasse con la
sua candida tela le bianche vie dell’alba.

Doveva serbare tuttavia nel viso, negli occhi grandi, la particolare
espressione che il sonno imprime sui volti giovanili; qualcosa che è
come la traccia di un ultimo sogno: un vago sorriso su le labbra, una
profondità maggiore nella pupilla dilatata. Le guance di lei dovevano
essere arrubinate dalla fatica del tessere.

Rimasi resupino guardando le travi ed ascoltando. Il palpito del telaio
era come il palpito di un cuore, di un cuore antico che amava le sue
vergini belle, perchè ne aveva cullato il primo sognare; perchè, giunta
l’ora, aveva battuto, battuto e battuto per farle bianche e molli
le lenzuola del corredo, le grandi lenzuola che dovevano avvolgere
due creature. Oltre questo suono, non udivo se non, ad intervalli
uguali, il richiamo che da cortile a cortile si mandavano i galli; gli
anziani avevano un grido acuto e squillante fermo in poche note decise
che si ripetevano esattamente uguali ad ogni ripresa; i giovani, i
galletti di primo canto, mandavano un suono incerto, dolce, tremante
che non significava un dominio, ma una timida volontà di vivere, di
partecipare, di godere. Era nell’aria un festoso incrociarsi di grida
per l’eterno saluto dei sacerdoti dell’alba. Ogni tanto volgevo gli
occhi verso la piccola finestra che si apriva nell’alto, sopra un
canale. Non appena le molli luci dell’aurora avessero acceso di nuove
lucentezze i vetri, sarei balzato in piedi per togliermi da quel penoso
attendere.

Non si era levata mai a tessere sì di buon’ora, Serenella; come mai
quel giorno aveva infranto la consuetudine? Quale necessità, quale pena
l’avevano tolta sì presto dal sonno?

Omero non si scuoteva più, dormiva del suo meglio, coricato sul
fianco destro, le braccia incrociate sul petto. Vedevo il suo volto
tranquillo, animato da un flusso di sangue, atteggiarsi di tanto in
tanto a un sorriso, chi sa mai per quali visioni lontane, chi sa mai
per quali sogni buoni; le labbra anche si agitavano talvolta quasi a
parlare ma ne usciva appena un fiato, un mormorio indistinto.

Ad un tratto tutta la casa si aprì all’aurora: una voce si era levata,
una sola voce che risuonò di vano in vano e si espanse al di fuori
nella sua dolcezza piana.

    — ... _e la figlia del re_
    _si fece alla finestra_
    — _oilà, lerì, lerà_ —
    _si fece alla finestra._

Serenella cantava. Doveva essere nato il sole s’ella cantava così senza
tema di rompere il sonno ai parenti.

Cominciai il mio abbigliamento sommario senza che Omero si turbasse. Il
battito del telaio scandeva a uguali riprese la voce di Serenella e la
tela cresceva simile alla trama che la luna distende sul mare.

    — ... _quando passò Artigù_
    _il principe d’amore_
    — _oilà, lerì, lerà_ —
    _il principe d’amore._

La bella leggenda fiorita per la voce di lei in quel primo espandersi
di luce, passava su le mute case a raccogliere i sogni degli
adolescenti.

Allorchè dischiusi l’uscio della stanza udii Omero che si rivolgeva
sul giaciglio. Mi volsi. Era appoggiato sui cubiti e sogguardava dagli
occhi sonnolenti:

— Che ore sono? — mi chiese.

— Dormi, è presto.

— Dove vai?

— All’aria.

— Tu non dormi, tu hai qualche pensiero.

— Neanche per sogno.

— Chi canta? — riprese, dopo avere ascoltato breve tempo.

— Giovanni della Nave — risposi sorridendo.

Era così pieno di sonno ancora che non discusse la risposta.

— E che fa?

— Tesse.

— Tesse?

— Sì. Mazapègul, il nano, gli ha chiesto una berretta. Ora lavora al
fiocco.

Mi guardò negli occhi, disorientato; poi diè nel ridere, si rivolse fra
le coltri e riprese sonno. Era tanto stanco che avrebbe dormito, senza
scomporsi, fra un fragore di ruina.

Quando giunsi nella stanza del telaio, Serenella si era levata per
ispegnere la lampada poichè dalla finestra aperta sul canale dilagava
la luce dell’aurora.

— Buon giorno a voi, Serenella.

Ella si volse sorridendo.

— Buon giorno, Duccio. Come mai vi siete levato sì di buon’ora?

— Dovrei chiederlo a voi che avete aspettato l’alba tessendo.

— Vi ho disturbato?

— No. Non dormivo quando avete incominciato il lavoro.

— Non siete andato alla pesca questa notte?

— No.

Serenella aveva ripreso la spola; china un poco su l’ordimento mosse
la pedana e lanciò la scorrevole navicella a traverso le fila per due
volte, con un bell’atto delle braccia nude. La persona di lei sottile
e il capo, il divino capo dai grandi occhi gemmanti, si inquadravano in
semplice armonia nel vano del telaio.

— Il babbo — riprese ella senza distogliere gli occhi dal lavoro
— è ancora da Simone, il lebbroso. Nessuno lo voleva vegliare ed è
moribondo. L’avete veduto?

— Sì. L’altro giorno andammo da lui con Zalèbi a portargli un pane.

— Dice che la carne gli cade a brandelli — riprese Serenella levandomi
in volto gli occhi vivi di una grande pietà.

— È terribile a vedersi, povero vecchio. Giace in una capanna, vicino
a Sant’Agostino; i figli non lo vogliono accostare; a sera non c’è
neppure chi gli accenda la lampada. Si lamenta e muore come una bestia
sul suo strame.

— Noi lo abbiamo aiutato come si è potuto.

— Lo so, anima buona. Egli vi benedice.

— Che il cielo lo accolga! — fece Serenella e trasse per due volte la
cassa a battere l’ordito.

Trascorse una pausa. Udimmo il frusciare dei _sandali_ che passavano
nel canale; udimmo il primo busso degli zoccoli sui ponti e le calli:

— Come mai lavorate anche oggi?

— Debbo finire queste lenzuola.

— Sono per voi?

— No. Me le ha ordinate Sita.

— Va sposa, forse?

Ella si guardò attorno, poi rispose impallidendo:

— Non so.

Notai il suo turbamento e tacqui. Riprese a voce più bassa senza
guardarmi:

— Rimarrete molto tempo fra noi?

— Fin che vorrete.

— Zalèbi vi vuol bene; difendetelo, Duccio, per carità!

— Ma che ha fatto?

— Sita è una strega; lo farà morire!

— Che ne sapete per parlarne così?

— Ah! Duccio. Non so nulla di certo ma è il cuore che mi avvisa! Zalèbi
è forte e fiero nel suo amore; io so che la morte è niente per lui,
ne parla come del pane e Sita — si guardò attorno ancora, prima di
proseguire — Sita non lo ama.

Come si era rotto un filo dell’ordito, si chinò per riannodarlo.

— Ne siete ben certa? — chiesi ancora, dubitando.

— Gli occhi di una donna non si ingannano, Duccio! Conosco Sita fin da
bambina. Ella ride e s’infinge e non conosce altro bene se non il suo.
Credete forse che Zalèbi sia il primo a piacerle?

— Non so.

— Zalèbi è un bambino. Ella sa il male che può fargli e non se ne cura.
L’amore di lui può piacerle per qualche giorno, e questo basta per la
sua coscienza.

Rimasi pensoso qualche attimo, poi chiesi:

— E lavorate per lei?

Serenella arrossì di bel nuovo.

— No, debbo dirvelo sinceramente — riprese a voce spenta — volevo
parlarvi e vi aspettavo. Io so che Zalèbi vi vuol bene come ad un
fratello, non potevo pensare che al vostro aiuto. Così vi ho destato
all’alba e speravo sareste venuto.

— Serenella, farò qualunque cosa per voi!

Mi guardò un attimo ma in quell’attimo vidi nelle pupille oscure di
lei un’improvvisa luminosità che valse più di mille parole. Il bel
viso ovale dal pallore delle ambre se ne animò rifulgendo. Qualcosa
mi era apparso che mi accese di grande gioia sì che sentii tutte
le mie energie giovanili salire impetuosamente come da un chiuso e
rinvigorirsi in una coscienza di felicità promessa; una parte di me,
ch’io ignorava quasi compiutamente, mi si appalesò; c’era dunque un
sentimento, un luogo, una creatura che potevano acquetare il mio
spirito? Qualcosa al di fuori, al di sopra della libertà? Io non
mi ero sentito ancora così forte, non avevo sentito mai una simile
dolcezza pervadermi e dal mio spirito dilagare a tutte le cose, a
tutto il mondo; mi pareva che l’infinito mi ascoltasse, che la bontà
dell’universo fosse racchiusa in quella dolcezza unica e grande, che la
morte e tutte le cose oscure ne fossero umiliate.

Non mai come allora avrei accettato senza pena ogni sacrificio, ogni
patimento. Il fiore della vita era sbocciato e l’anima mia ne era
ebbra.

Serenella si levò. Il sole aveva superato i tetti delle case sorgenti
all’altro lato del canale e, per oblique vie, era disceso ad irraggiare
il telaio e a stendere macchie d’oro sul nero impiantito. Il suo
passaggio era distinto dall’ombra con nitidezza in un fascio lucente.

— Guardate, Serenella, la vostra tela s’indora; pare abbiate tessuto
fila di sole per vestirvi alla reale.

Ella abbassò gli occhi al telaio poi li levò verso l’Astro, disse
piegando le mani:

— Così sia.

E rise come la sua giovinezza voleva.

— Se foste buono dovreste aiutarmi a preparare il mangiare — riprese
poi gaiamente uscendo dal telaio — ma siete un buono a nulla.

— Volete vi continui la tessitura?

— Per carità rovinereste tutto. Duccio, non fate, per carità!

Mi corse appresso e come stavo per sedermi al telaio mi prese per le
braccia ridendo. Sentivo tutta la persona di lei fremere contro la mia
— un impeto di gioia ci avvolse.

— Non fate, Duccio, è dall’alba che lavoro!

— Debbo ubbidire? — chiesi volgendomi. Ci trovammo a faccia a
faccia; ella non abbassò gli occhi; il suo viso, animato da una calda
festosità, era acceso dal sangue.

— Siate buono dunque!

La strinsi alla vita (ella non si disciolse, gli occhi suoi si
illanguidirono subitamente) e su la bella bocca di corallo e sangue
strinsi la mia bocca nella delizia del bacio. Qualcuno tossì presso la
porta. Serenella si disciolse rapidamente e, corsa ad accosciarsi sul
focolare, finse attizzar le bragi.

Omero entrò. Recava una camicia a brandelli.

Fermo su la soglia, la faccia un po’ inclina, disse:

— Serenella, avrei bisogno di un ago e di un po’ di filo.

La domanda e il tono col quale fu mossa rinfrancarono la giovanetta:

— Che ne dovete fare? — domandò ella senza rivolgersi.

— Debbo rimettere all’ordine il mio corredo.

— Ci penserò io; non ve ne occupate.

— No, figliuola, voi non sapreste da che parte rifarvi; per gli oggetti
miei ci vuole il consiglio di un vecchio.

Quand’ebbe avute le cose richieste, si sedette sul telaio sotto la
finestra e, in tutto silenzio, pensosamente, cominciò il lavoro.
Ritagliò, cucì, aggiunse, fece della sua vecchia camicia la veste
d’Arlecchino, chè non si peritò sostituire lembi di panno dove la tela
era consunta, nè badò al colore il quale, a suo avviso, non avrebbe
potuto preoccupare se non i gonzi, dato che la sostanza fosse la
stessa.

Serenella andava e veniva dal focolare alla madia. Aveva posto due
testi al fuoco sui quali sparse un rivoletto d’olio che sfriggolò
spandendo per la stanza un grato odore.

— Ci solleticate — disse Omero levando il naso all’aria — sento odor di
buono. Chiama la fame.

— Fra poco tutto sarà pronto — rispose Serenella. Omero trasse la lunga
gugliata, sì lunga che doveva levare il braccio in tutta l’estensione
per condurla a termine e conchiuse, con quel filosofare bizzarro che
destava il riso e l’ammirazione de’ suoi simili:

— La donna è il vino della giovinezza e la coltre della vecchiaia.
Quando il Signore la fece, disse all’uomo: Eccoti l’ombra, riposa.

Si tacque. Dal di fuori giungeva l’eterno risciacquio dei canali.
Una grande limpidezza adamantina era nei cieli. A voce spenta, non
interrompendo le sue faccende, Serenella aveva ripreso il canto:

    — ... _quando passò Artigù_
    _il principe d’amore_
    — _oilà lerì lerà_
    _il principe d’amore._

S’interruppe allorchè Giovanni della Nave si presentò su la soglia.

— È morto? — chiese levandosi dal focolare.

— No, riposa. Credo ne avrà ancora per molti giorni — rispose Giovanni.

— Di chi parlate? — fece Omero volgendosi.

— Di Simone, il lebbroso.

— L’hai vegliato?

— Sì.

— E non temi per la tua famiglia?

— Che debbo temere? Se deve toccarci la mala sorte non c’è precauzione
che valga.

— È rimasto solo, ora?

— Sì, è solo e dorme. Gli ho lasciato il pane.

Si sedette vicino alla tavola che Serenella aveva apparecchiata e, con
la testa fra le mani, attese in silenzio. Quantunque la pelle bronzea
e la lunga barba nera non lasciassero trasparire troppo l’abbattimento
sul volto di lui, si vedeva tuttavia che la stanchezza l’opprimeva.
Socchiuse gli occhi oscuri e parve addormentarsi.

Ad un tratto una porta laterale si aprì con fracasso e Zalèbi apparve:

— Si mangia? — gridò.

— Fai adagio — disse Serenella — babbo dorme.

— Non dormo — rispose Giovanni levandosi di soprassalto.

— Pensava — commentò Omero tirando la gugliata. Tutti dieron nel ridere.

— È pronto? — riprese Zalèbi.

— Ma sì — rispose Serenella. — Ti levi ora ed hai tanta fame?

— Mi levo ora? Vengo da _Campo_ Rillo. Guarda! E gettò sul pavimento
una retata d’anguille.

— Quando sei uscito? — chiese Giovanni.

— All’alba, quando Serenella si è levata.

— Ed hai potuto pescare a quell’ora?

— Sì. M’ero giurato di farla in barba a Diavolo ed ecco il frutto.

Dal canale una voce forte gridò all’improvviso:

— Oggi a me domani a te!

— Diavolo! — esclamò Giovanni scattando. — Ti ha inteso!

— Tanto meglio! — riprese con molta tranquillità Zalèbi.

Si udì lontanare e perdersi lungo il canale un riso beffardo.




VII.

Il ballo agli Argini.


— Dunque non vuoi partire? — mi chiese Omero fissandomi con que’ suoi
occhi celesti pieni di bontà.

— Non dico di non voler partire, ma non capisco questa tua risoluzione
improvvisa.

— Anselmo d’Isola fa vela domani, te l’ho già detto; egli ci aveva
offerto ospitalità su la sua tartana; occasione migliore non potrà
capitarci.

— Ma dove vorresti andare?

— Col vento — rispose Omero sorridendo.

— Troppo lontano allora.

— Sì, troppo lontano, t’intendo. Sei tanto giovane! Metti nuove radici
ad ogni sosta.

Dopo un breve silenzio dissi risolutamente:

— Ebbene partiamo!

Omero scrollò il capo.

— La tua decisione mi piace ma non accetto.

— Perchè?

— Perchè io amo la mia strada che non ha fine mai e tutto il mio bene
è sempre più lontano, è sempre ad una tappa più remota dove potrò
arrivare giusto in tempo per trovar la mia fossa; ma tu no, tu non
cammini in compagnia dell’inverno che spoglia le rame, fa più grandi
i cieli ma agghiaccia il cuore, su’ tuoi passi c’è maggio che chiude i
giardini e i campi con tutte le sue foglie. Che servirebbe veder oltre
una siepe se a tal patto la tua gioia dovesse finire? Rimani, l’amore è
grande, Duccio della Bella!

— E tu che ne sai, se non hai amato una volta?

— Ho amato anch’io — rispose Omero a bassissima voce, chinando il capo.

Andavamo verso i quartieri di Sant’Agostino. La chiesa del santo
si elevava a levante in un prato deserto, su l’estremo bordo di
un’isoletta. Attorno alla chiesa, erano poche case miserevolissime
senza finestre e senza imposte alle porte. Un tramonto vermiglio
incendiava i cieli e le lagune.

— Sono ormai vecchio — riprese Omero — e non so dimenticare. C’è un
giorno in cui il tuo canto finisce: allora, se sei solo, una orribile
servitù ti aspetterebbe. Io non sono solo ancora, cammino, seguo la mia
memoria che è il mio sole. Vado di terra in terra sempre più lontano
finchè raggiungerò la morte.

La luce si faceva a mano a mano più intensa.

— Ecco Zalèbi — riprese indicandomi un uomo immobile presso una soglia.

— Non ci ha riconosciuti.

— No, siamo contro il tramonto, non può vederci in viso.

Vicino a Zalèbi distinguemmo, seduto su la porta di una capanna di
stipa, Simone. Quando gli fummo innanzi alzò gli occhi stanchi e levò
le mani a benedirci.

— Rimanete voi? — chiese Zalèbi ad Omero.

— Rimango — rispose il mio compagno.

Sdraiato sul fimo stava Simone nella sua miseria. Era scalzo, i pochi
cenci che lo rivestivano non erano bastanti a ricoprire la persona
di lui sì che sul petto e su le braccia si intravvedevano le carni
orribilmente piagate. Il suo viso era color del vino, di un rosso cupo
tendente al nero; le guance si screpolavano sotto gli zigomi nella
lenta dissoluzione del male. I pochi capelli grigi gli si distendevano
in lunghe teghe sul cranio. Aveva gli occhi, larghi e fissi, pieni di
un doloroso terrore.

L’incendio vesperale moriva specchiandosi su l’immensa distesa delle
acque immobili. Due cieli di uguale bagliore erano aperti su la piccola
terra sperduta: contro tale immensità vermiglia, stava la piccola
capanna di stipa, sola, tutta nera come stagliata in un metallo.

— Hai fame? — chiese Omero cercando qualcosa nelle sue tasche.

— No — rispose il lebbroso.

— Vuoi rientrare?

— Lasciami qui, respiro.

Omero entrò nella capanna e accese la piccola lampada appesa alle
travi sì che l’interno si illuminò per la pallida fiamma che parve una
lacrima ardente.

— I figli l’hanno isolato quaggiù — mi disse piano Zalèbi — e non gli
danno un pane e non vengono una volta a vederlo. Non si tratta peggio
un cane ed egli non ha core per maledirli!

— Potete andare — disse Omero ricomparendo su la soglia — rimango io
finchè verrà Giovanni.

— Il Signore non vi dimenticherà — mormorò Simone levando le braccia
piagate — il Signore della misericordia! Io, che sono un niente, lo
prego, se può ascoltarmi, perchè vi segua e vi salvi!

— Riposa — fece Omero sedendoglisi vicino.

— Ho fatto schifo a’ miei figli — riprese il lebbroso — a’ miei figli
ch’erano pure mia carne e a voi no che non mi dovete niente. Io non so
il tuo nome, io non so di quale terra tu sia, non so dove andrai; tu
non puoi conoscermi e non puoi amarmi, perchè dunque non hai paura del
mio male e mi siedi vicino?

— Tutti siamo nati di donna — rispose Omero.

Un tremore corse per il viso del lebbroso; gli occhi di lui si
impiccolirono nello spasimo dei singhiozzi; appoggiò il volto su le
palme aperte e pianse come un fanciullo abbandonandosi tutto alla sua
pena.

— Riposa Simone — riprese Omero posandogli una mano su la spalla.

Fra i singhiozzi la misera creatura continuava:

— Anima buona... Iddio te ne rimeriti!

Zalèbi stava a capo chino; io, vicino a lui, mi tacevo in preda ad
una commozione intensa. Ancora e sempre le due anella che conchiudono
il sogno della vita: l’amore ed il dolore, erano presenti e si
ricollegavano saldandosi per la voce di un’anima semplice la quale
aveva saputo del mondo la parte meno bella ma aveva avuto in dono da
sua madre una ragione ed un cuore per soffrire e per amare.

— Andate ragazzi — riprese Omero — vi aspetteranno laggiù; andate chè
il tempo non si riacquista.

Accese la breve pipa di gesso, si appoggiò allo stipite della porta e
cominciò ad aspirare il fumo lentamente.

Ci avviammo a fianco, muti. I singhiozzi di Simone ci accompagnavano
sempre più rari; si morivano nell’esaurimento. Il cielo e le acque
erano accesi da scialbe iridescenze opaline; due vele lontane
passavano sopra la linea di un argine sul quale si intravvedeva il
bagliore di una piccola lucerna accesa innanzi a un’icone. La stella
del pastore, l’anima lucente dei crepuscoli, era comparsa a raccorre
le greggi disperse per le lande, le vele migranti su le lagune e sul
mare; la stella del ritorno che appare a fior del sereno nell’ultima
corona solare! E guardava la sua remota sorella nel cuore delle acque
immobili.

— Il tempo si mantiene in filo — disse Zalèbi volgendo gli occhi per
l’aria, — fino alla nuova luna non si avranno gli _ordini_[6] e potremo
stare in riposo.

— Pochi giorni ancora.

— Pochi ma troppi per il nostro bisogno.

— Speriamo che il frutto compensi il ritardo!

— Speriamo. Però sarà aspra la lotta. Diavolo odora il vento!

— Bisogna spiarlo notte per notte!

— Oh! siamo in molti a far ciò; ma è volpe vecchia e ci conosce a nome.

Dopo una pausa mi chiese ancora:

— Ti sei fatta la _veste_[7]?

— Serenella ha pensato a tutto — risposi.

— L’avrai pronta per la settimana ventura?

— Certamente.

— Bada, tu sei nuovo; la _veste_ ti abbisogna perchè la furia di Borea
è terribile e sentirai che cosa sia, nella notte, il primo galoppo
dell’inverno!

Eravamo rientrati in Comacchio. Il crepuscolo s’era spento negli ultimi
cieli. Lungo la via lucevano già, a grandi distanze, le fiammelle dei
fanali. In fondo in fondo, sopra le ultime case, eran nell’aria gli
estremi lividori crepuscolari.

Ci mescolammo alla folla rumorosa di uomini, di fanciulli, di
giovanette e ci sentimmo invadere d’improvviso dallo stesso senso di
gaudio che moveva tutta quella gente ad incontrarsi, a sorridersi,
a scambiar motti e parole; tutta quella gente che si conosceva, che
formava un’unica, grande famiglia. Una dolce festosità prese ben tosto
il sopravvento e ogni pensiero grave dileguò per noi, perchè è giusto
che la giovinezza sia un po’ come il cielo primaverile ed abbia rapide
tristezze di nubi e serenità profonde.

Fra lo strepito degli zoccoli, le grida dei fanciulli, il vocerio degli
uomini e delle giovanette proseguimmo passando da gruppo a gruppo,
accompagnati dai saluti, dai sorrisi e dai motti dei compagni. Su
le porte delle case sedevan le vecchie in crocchio e attorno a loro
ruzzavano i bimbi minorelli, coloro che non potevano ancora affidarsi
alle loro gambe e andarsene in piena libertà. Qualche lucerna si
accendeva nelle oscure stanze a illuminare una chioma fluttuosa o
un pallido viso di donna intenta alla trama del filo sui bracci del
filarello. Giravano lente le ruote dei filarelli a raccorre l’esile
tiglia ritorta, infinita come una scia sul mare infinito, e un canto le
accompagnava quasi sempre, un canto ritmico che segnava il loro stanco
andare e ritornare simile alla vita degli umili, sempre così.

Erano visioni rapide, accese innanzi agli occhi per un attimo, nella
vicenda del cammino.

A mano a mano che ci si accostava all’unica piazza della città, la
folla cresceva. Avvolte nelle loro mantiglie bianche, negli zendadi
gialli e turchini piegati su la fronte fino alle ciglia, ripresi in
due larghe bande su le guance e chiusi sotto al mento, andavano le
giovanette a tre a tre, battendo gli zoccoletti neri sul selciato,
in una cadenza lenta che ricordava il languore dei loro grandi occhi
passionali. Gli zendadi, disposti ad arte, anzichè celare la grazia
delle loro persone, le ingentiliva in molli panneggiamenti disponentisi
secondo le armonie dei fianchi, le flessuosità del torso e la soave
dolcezza del seno. Passavano in una gaia festosità di colore con gli
occhi accesi e le labbra superbamente rosse sul diafano pallore del
volto; trascorrevano come un fremito, con nelle pupille oscure, il
tormentoso sogno della voluttà. Belle e forti come galee, agili come
serpi, flessuose come fasci di fiamme che guizzano allacciandosi e del
loro ardore luminoso accendono l’aria intorno che ne trema.

Dora, Violetta e Margarita ci passarono innanzi, le tre sorelle
che Comacchio vantava e l’una all’altra faceva specchio tanto si
assomigliavano.

— Andate agli Argini? — ci chiese Margarita, la maggiore.

— Sì — rispose Zalèbi. — Verrete?

— Non subito; prima di mezzanotte certamente.

— A rivederci.

— A rivederci.

Ci si mise per un intrichio di viuzze e di calli; ad un tratto, oltre
un ponticello, sbucammo su la laguna. In quel punto le case, sorgenti
quasi dalle acque, erano divise dal rude sentiero che si percorreva,
da alte canicciate; ai loro piedi giacevano capovolti i battelli
dei _fiocinini_; fermate a pali confitti alla riva stavano barche
e _sandali_ e _battane_ che cozzavan fra loro lentamente con lunghi
scricchiolii.

La laguna si perdeva interminata nelle tenebre; grande come un mare,
silenziosa come un deserto. Come fummo vicini alla meta, si udì un alto
bocio e un suono acuto di violini che vibrò e si perse nell’aria.

— Eccoci arrivati — disse Zalèbi. Mosse qualche passo ancora poi si
soffermò.

— Che hai? — gli chiesi.

— Potresti farmi un favore? — rispose, e il tono della voce mi turbò.

— Che c’è? Parla!

— Va innanzi — riprese — e guarda bene se, fra la gente adunata, vedi
Diavolo.

Compresi e partii senza attendere oltre. Il mio amico buono non aveva
bisogno di troppe parole per rendermi chiaro il suo pensiero; fra noi
non erano segreti; per rapide frasi ogni moto dell’animo poteva esser
palese.

Zalèbi non temeva nessuno, ma rifuggiva trovarsi a viso a viso con
Diavolo e ciò per amore di Sita ch’era figlia di lui. Zalèbi era un
giovinetto forte e taciturno dall’anima semplice e retta. Suo padre gli
aveva insegnato una cosa sola: il lavoro; fin dalla prima giovinezza
si era piegato a grandi fatiche senza pensare che non era necessario
consumarsi così e che il lavoro non deve essere un abbrutimento. E
non sapeva niente. L’anima sua buona, si piegava sotto l’impero di una
grande fatalità che intuiva come una legge oscura ed ineluttabile. Però
oltrechè nel lavoro, tutte le sue energie vitali, tutte le violenze,
tutte le impetuosità della sua stirpe si esplicavano nell’amore. Egli
amava con la terribile passione che conduce al delitto. Fin da bambino
era stato, solo, in oscurissime notti, di fronte alla morte, nelle
immensità lagunari; e non temeva la cupa sorella che aveva guatato
da vicino, e troppe volte aveva veduto seduta su la prora dell’esile
battello. Non faceva nessun calcolo di sè e non era uso ad infrenarsi.
Quando non si ama la vita per sè stessa ma solo per ciò che può dare,
si vive dell’amore come di una fiamma che arde e consuma.

Io sapevo che Zalèbi si sarebbe sacrificato a Sita sorridendo e sapevo
pure che l’avrebbe uccisa s’ella avesse voluto quel poco che potesse
bastare alla vanità di lei; solo quel poco! Tutto ciò sapevo senza
poter riparare.

Ora Zalèbi, pure odiandolo di tutto core, evitava trovarsi con Diavolo,
non voleva provocarlo o esserne provocato. L’amore suo era più forte
del suo ardimento, della sua audacia. Sita compiva il miracolo.

Quando uscii dal recinto come scorsi il mio compagno, fermo nell’ombra,
nello stesso atteggiamento in cui lo avevo lasciato, gli gridai da
lontano:

— Zalèbi? Vieni!

In pochi passi mi raggiunse e mi chiese ansiosamente:

— C’è Sita?

— Sì.

— Balla?

— No, è seduta vicino a Serenella. Parlano.

Vidi gli occhi di lui lampeggiare; fu una vera luce che si sprigionò
dalle sue pupille che le tenebre avevan fatto più grandi e più oscure.

— Grazie — rispose — io farò per te tutto ciò che vorrai; grazie.

Nel recinto, giovani e fanciulle avevano formato un grande circolo
intorno alle coppie che danzavano. Il cielo era sopra loro, la notte
stellata. In un angolo, non osservati, erano tre vecchi suonatori;
il capo reclino sui violini, gli occhi socchiusi nell’evocazione del
motivo triste che aveva un andamento cantabile. Conducevano l’arco
lentamente quasi in una carezza di voluttà e si accordavano all’unisono
con perfetta esattezza sì da formare un solo suono di uguale forza che
si elevava a volte come in un grido di tormento e smoriva in languide
cadenze per rifiorire più baldo. Erano tre vecchi mal vestiti, tre
rapsodi delle lagune che tutti conoscevano a nome perchè a tutti
avevano inconsciamente portato un attimo di gioia.

L’amore di ciascuno, nato o nutrito nelle festevoli adunanze, si
ricollegava al ricordo musicale che ne aveva cullato le dolcezze, che
ne aveva moltiplicate le sensazioni, che ne aveva esteso i confini
fino al sogno onde, per un attimo, ne era sorta la certezza di una
compiuta felicità. Così pareva alla gente che i tre vecchi conoscessero
qualche segreta malia prodiga di ineffabili ebbrezze al core e, per
tale credenza, erano tenuti in rispetto ed avevano tanto da vivere con
tranquillità. Essi cantavano l’anima dei luoghi. Nei loro viaggi lungo
gli argini per recarsi dalla Badia di Pomposa a Lago Santo, da Lago
Santo a Comacchio, guardavano ascoltando. Le luci, i suoni, le forme
avevano nel loro pensiero conseguenze musicali e l’anima loro vibrava
in dedizioni profonde espandendosi nei suoni. Il grido di un’alzavola
ferita, il lamento di un _tarabùs_[8], la sperduta vibrazione di una
sirena fra le nebbie, il tumulto squillante o il fioco singulto di
campane vicine o disperse; tutta la vita della vastità: le argentee vie
della luna nel cuore delle acque, le subite veemenze dei tramonti, le
tremolanti opalinità dell’alba, o le fiammee arditezze dell’aurora; le
cineree vastità degli autunni quando gli acquatili campi sembrano mari
di lava; le cupe ombre delle nubi, il trasvolare dei taciti navigli
entro il cerchio degli orizzonti, tutti gli aspetti, tutte le mute
maraviglie di quelle solitudini austere condiscendevano nell’anima loro
per accenderla e trarne le indimenticabili soavità per le quali i tre
vecchi esprimevano umilmente il loro cantico d’amore.

Erano tre umili fratelli, tre poveri viandanti che per la loro vita
avevan fatto l’abito del silenzio. Il maggiore si chiamava Leone, il
secondo Francesco e il minorello Matteo e davano a tutti ciò che non
avevano ottenuto perchè essi non avevano amato mai.

Ora sedevano in un angolo come sempre, per ridestare nel cuore dei
giovani la loro eterna malia.

Serenella non appena ci vide si levò e venne ad incontrarci. Indossava
una veste cinerea che accresceva la mistica grazia di tutta la sua
figura e del volto pallido in cui gli occhi grandi fiorivano simili
a due gemme nere, lucenti fra un sottil velo di acque. Sita rimase
seduta; vestiva di vermiglio; il suo volto che aveva alcunchè di
tragico e di imperioso si addolcì un poco nell’atto del sorriso
allorchè Zalèbi si accostò.

— Perchè avete tardato tanto? — mi chiese Serenella.

— Eravamo da Simone — risposi.

Ci volgemmo contemporaneamente a guardare Sita e Zalèbi. Nel nostro
cuore era un turbamento strano, quasi presago di qualche male.

— Gli hai parlato? — mi chiese Serenella.

— E come fare? — risposi — Tu lo conosci; mi volgerebbe le spalle senza
ascoltarmi. Attendo l’occasione per aiutarlo.

— Non tarderà troppo! — esclamò Serenella sospirando.

Frattanto Sita e Zalèbi si allontanavano ridendo. Molti si rivolsero a
guardarli perchè erano belli e possenti e la giovinezza li arricchiva
di tutti i suoi tesori. La lenta melopèa dei tre fratelli continuò
infaticabilmente cullando i sogni, affinando i desideri.

— Vuoi ballare? — chiesi a Serenella.

— No — rispose ella passando il suo braccio sotto al mio — giriamo un
poco.

Ci avviammo fra la gente che assisteva alle danze. Ad un tratto un urlo
di gioia ed un battere di mani ci fecero volgere il capo: Sita e Zalèbi
erano entrati in ballo; gli amici e le compagne accoglievano così il
loro apparire.

Proseguimmo per uscir dal recinto, per essere più soli e poter
assopire, per qualche tempo almeno, la continua pena latente. Fuori
era buio; c’erano solo le stelle a illuminare la notte e la laguna ne
ritesseva l’incanto ne’ suoi silenzi interminati.

Serenella si raccolse tutta vicino a me stringendosi un po’ fra le
spalle:

— Che buio! — esclamò a voce spenta — sai tu, tu che hai studiato
tanto, dove vada la luna in tutto questo tempo?

Sì come risi anch’ella assecondò il mio riso e riprese:

— Pensiamo a noi; il Signore è giusto e la farà ritornare! Ci sarai più
allora?

— Lo spero — risposi.

— Tutto finisce tanto presto! — esclamò ella chinando un poco il capo.

Non risposi; non so quale amarezza mi tenesse alla gola. L’amore ha
tristezze improvvise, recondite, che non hanno un perchè. È forse in
noi, allorchè l’anima si accende, un’ignota forza che presagisce il poi
e ciò che vede trasmuta in subita tristezza.

Andammo lungo la riva deserta. Fra il cumulo di piccole case che si
riparavano dietro le canicciate, solo una finestra era illuminata,
e più lontano luceva una fiammella bianca a sommo di un ponticello.
S’intravvedeva un’esile curva nera simile a l’ombra di un’alberella
piegata fra due rive ignote per l’incantesimo delle acque stellanti.

Sul nostro cammino erano rovesciati al suolo, lungo la riva, molti
battelli: alcuni, dai miseri proprietari, erano trasformati in giacigli
notturni. In una _burchiella_ fermata alla sponda con due catene,
vedemmo alla fiochissima luce di un lumicino, acceso a prua innanzi
all’immagine di un santo, due fanciulli dormire sopra una stuoia.
Avevano il capo vicino, stavano resupini con le braccia incrociate
sul petto; erano seminudi nè il freddo notturno li turbava. Le acque
mormoravano intorno cullandoli nel loro dolce sonno.

Poco più lontano sedemmo sopra un battello rovesciato vicino alla riva.
Attenuati un poco dalla distanza ci giungevano i languidi suoni dei
violini.

E Serenella non fu turbata da quella solitudine, da quella dolcezza
suadente; nè io sentii ch’ella temesse il mio amore. Seguiva le
placide vie del desiderio e della tenerezza; si sentiva profondamente,
semplicemente donna nel suo bene e si sarebbe concessa perchè mi amava
fra tutti e sapeva che l’amore è l’unica benedizione della terra.

Io la sentii fremere e tremare un poco sotto la mia carezza; le mani di
lei s’eran fatte fredde ma gli occhi mi fissavano con indefinita luce
di sorriso; ma nel suo viso splendeva tutto il suo pensiero amoroso e
grande, e maggiore di ogni soavità. E a me pareva, in quegli attimi,
di aver raggiunta una suprema lontananza di gioia: tutte le forze
del mondo, tutte le allegrezze, tutte le festosità della terra mi si
adunavano nel cuore. L’amica mia era bella e buona e avrebbe goduto e
sofferto con me e sarebbe morta con me. Solo l’amore che fiorisce dai
misteri dell’essere e, nella solitudine della vita, avvince le anime
vicine e lontane, e sì le tiene che il buio non debba disperderle,
conosce ciò che sia contentezza tranquilla e semplice felicità;
all’infuori di ciò, nel tormentoso dominio del pensiero, non è che una
sterile lotta nella quale ogni senso di bontà si disperde.

— Duccio! — esclamò Serenella socchiudendo le palpebre che le ciglia
ornavano come di un molle e lievissimo velluto; le nostre bocche
erano vicine; aveva pronunciato il mio nome carezzevolmente quasi
ad atteggiare le labbra ad invito e le palpebre scesero a velare le
pupille quando le nostre labbra si strinsero in un brivido sì forte che
tutta la persona ne tremò di uno spasimo.

Il risciacquio delle lagune fra i vecchi legni che cullavano qualche
dormiente solitario andava sotto il silenzio, nel buio, fino alle più
remote rive.

— Io non ti chiedo nulla — disse ancora — perchè ti voglio troppo bene!

Io vidi negli occhi dell’amica mia una luminosità stellare. Con
le braccia abbandonate su le mie spalle stava così, guardandomi
e sorridendo; poi tremò abbandonandosi come una canna alla lieve
correntia di un fiume. Il piccolo cuore di lei pulsò contro il mio
fortissimamente.

Scattammo ad un tratto chè un tumulto di voci corse per la notte.

— Duccio? Che cos’è, Duccio, hai inteso?

— Andiamo — dissi e ci avviammo a corsa lungo le rive.

Su l’ingresso del recinto la gente si stipava gridando e gestendo,
ossessionata. Come una via ci fu aperta vedemmo fra il circolo degli
astanti Sita a fianco di Diavolo; di fronte a loro era Zalèbi. Aveva il
viso terreo; pareva percosso dalla morte. Mi lanciai innanzi:

— Che hai fatto? Che hai fatto? — gridai.

Egli mi fe’ cenno di tacere.

Diavolo sghignazzava beffeggiando. L’ampia bocca di lui, dai denti
giallastri, si torceva in una smorfia irrisoria, gli occhi pareva
misurassero a scherno la forza di Zalèbi.

— Dunque non vuoi? — riprese Diavolo — non vuoi, piccolo cane?

Zalèbi rimase muto con gli occhi fissi in quelli di Sita. La ragazza si
volse ad un tratto verso suo padre e disse rapidamente:

— Vattene, vengo con te.

Diavolo rise ancora, poi scrollò le spalle, sputò e si volse per
partire. Sita si era soffermata vicino a Zalèbi, noi tutti la fissavamo
stupiti. Ella levò una mano, la posò su la spalla del giovane, poi a
voce lenta e forte disse:

— Sei un vigliacco!

Io vidi gli occhi dell’amico mio farsi di un subito sanguigni, vidi la
sua bocca tremare più volte nel grido lacerante:

— Sita? Sita? Sita?

Ma la femmina lupigna era scomparsa fra la folla. Tutti stavano muti
intorno quasi presi da un incubo. Quando Zalèbi si lanciò innanzi in un
impeto folle, trovò un varco subitamente aperto e fuggì per la notte.

Allorchè fummo soli, lontano, dove non si udiva più suono, dove non
c’era se non qualche casa muta nell’ombra, egli si soffermò. Ricordo il
tremito cupo della sua voce:

— Duccio — gridò — tu devi crederlo almeno, e lo vedrai: io non sono un
vigliacco!

Poi cadde con la faccia su la terra e singhiozzò dibattendosi quasi
morisse.




VIII.

I corsari della laguna.


Il _campiello_, chiuso su tre lati dalle piccole case dei _fiocinini_
e aperto a nord su la laguna, in quell’ultima ora serale cominciava a
divenir muto chè i monelli e le donne erano adunati inanzi ai focolari
ad attendere l’umile pasto. L’aria si faceva d’attimo in attimo più
oscura chè dalle immensità marine Borea si spingeva innanzi, nella sua
convulsa rabbia, cumuli di nubi nerastre. Un balenare incessante, senza
bubbolio di tuoni, copriva tutto l’oriente. La tempesta si rivelava
nel suo fuoco, accendendo le nubi di bagliori sinistri. Nei cieli del
tramonto persisteva un incerto lividore cinereo. Era freddo.

Nella semioscurità si intravvedevano i _fiocinini_ che giungevan al
tacito convegno. Si presentavano alla spicciolata, uno per volta come
andassero a diporto senza cura apparente; non salutavano i compagni
seduti sui loro battelletti; ma cercavano un luogo ove accosciarsi a
loro volta e attendere pazientemente il cenno. Quasi tutti tenevano,
stretta fra i denti, una breve pipa di gesso.

Erano giovani dal volto precocemente solcato da rughe profonde; erano i
figli della lotta e dello stento.

La tempesta, incalzata da Borea, era giunta ormai con la notte, e la
tacita accolta di uomini si perdeva nelle tenebre.

Quando feci per discendere il piccolo ponte che conduceva al
_campiello_ remoto nel quale ci eravamo dati convegno, sostai e dissi a
Serenella:

— Siamo giunti, ritorna.

— Voglio vederti partire — rispose ella non abbandonando il mio braccio.

— È impossibile; Giovanni ti attende e non puoi tardare.

— Mi raccomando — riprese con voce supplichevole — tutta notte pregherò
la Madonna del dolore per voi... mi raccomando!

— Fa di non tradirti o saremmo perduti!

— Ma avete dunque deciso?

— Non ancora. Sarà ciò che il destino vuole.

— Tu che puoi fare intendere la tua ragione fra tutti, tu cerca
persuaderli per il loro bene...

— Farò ciò che mi sarà possibile....

— Oh che tu sia benedetto, amore mio! Io darei cento volte la mia vita
pur di non vederti partire!

E il pianto che aveva trattenuto fino a quel punto, irruppe su dalla
dolce gola in un tremito tormentoso. Aveva appoggiato il capo alla mia
spalla e stava così stringendomi le braccia in un estremo tentativo di
trattenermi ancora.

— Duccio, promettimi una cosa — disse levandomi in volto
improvvisamente gli occhi lucenti.

— Parla.

— Domattina prima dell’alba ti aspetterò su gli argini, alla Madonna di
Pratobello; qualunque cosa avvenga promettimi di non mancare.

— Te lo prometto.

— E il Signore che mi vede, sa bene che, se non tornerai....

Era così affettuosamente addolorato il viso di lei e negli occhi suoi
c’era tanta passionalità d’amore che un improvviso impeto di tenerezza
mi spinse a dimenticare per un attimo la triste fatalità dell’ora.
Me la strinsi al cuore e le baciai i capelli, gli occhi, la bocca,
ripetutamente, perchè era mia e le avrei dato tutto il mio sangue.

Un breve sibilo che giunse dall’ombra ci disciolse dall’abbraccio.

— Mi chiamano — dissi — debbo raggiungere i compagni.

— Verrai agli argini?

— Verrò. Torna, torna a casa. È notte alta. Addio.

Quando ebbi disceso la scaletta del ponte udii ancora la voce di
Serenella ripetere debolmente:

— Addio!

Poi mi diressi nelle tenebre verso il punto fissato e non intesi se non
il rombo ululante di Borea che si scagliava nella vastità turbinando.
Quando giunsi in prossimità dell’acqua, una voce mi chiamò in disparte.

— Sei tu, Duccio?

— Sono io — risposi.

— Ti aspettavo — fece Zalèbi levandosi dal battelletto sul quale era
accosciato.

— Si parte?

— Non ancora.

— Chi manca?

— Marco e Luca; saranno per via.

— Li aspettiamo?

— Sì.

Dopo una pausa riprese a bassa voce:

— La notte è buona; Duccio, hai proprio deciso di seguirmi?

— Certamente.

— E vuoi venire sul mio battello?

— Voglio essere con te.

— Bada che si giuoca tutto!

— E che m’importa?

— Anche la vita si giuoca!

— Sarà ciò che il destino ha segnato.

— Sta bene — rispose Zalèbi e si accosciò sul battelletto che giaceva
su la riva a pochi passi dall’acqua. Io presi posto vicino a lui e
attesi.

I _fiocinini_ si erano dati convegno per compiere un’impresa singolare.
Diavolo vegliava i _lavorieri_[9] di Campo Rillo: si trattava di
catturargli, anche con la violenza, gran parte della pesca. Nella
notte, al ballo degli Argini, allorchè Diavolo aveva detto a sua figlia
che andava a fianco di Zalèbi:

— Vientene via, non voglio imparentarmi coi ladri! — non aveva offeso
unicamente il figlio di Giovanni della Nave, ma tutta la classe dei
_fiocinini_, di coloro che non potevano vivere, nell’aspra città delle
acque, se non di quella pesca che il Comune voleva riserbata per sè,
a frutto di qualcuno. Essi sapevano di non rubare perchè si trattava
della vita di intere famiglie le quali non avrebbero potuto campare in
modo diverso, mancando qualsiasi lavoro; e sapevano anche quale aspra
lotta costasse loro il poco alimento carpito, sufficiente appena a non
morir di fame. La loro coscienza era tranquilla. La vita ha diritti
superiori ai quali le leggi della ricchezza, difese dallo schermo della
morale, non possono porre argine.

Ora, all’astuto guardiano sarebbe toccata la mala sorte. I ladri delle
lagune gli avrebbero provato che troppa fede nutriva in sè stesso e
nel suo coraggio e che le vanterie da sgherro delle quali si compiaceva
potevano costargli care.

Zalèbi pensava da solo al suo onore; gli antichi insegnamenti delle
madri gli erano guida: — Non essere vigliacco, mai! Se un uomo ti dà
uno schiaffo, ammazzalo!

Nei due giorni trascorsi dalla notte in cui l’anima di Sita gli si
era appalesata nella sua malvagità lasciandolo d’improvviso in uno
stato di stordimento, egli aveva vissuto per tutta una vita di dolore;
ora, senza che nessuno fra noi conoscesse il preciso proposito che lo
guidava, era capo della spedizione notturna.

Una voce poco lontana pronunciò un nome ad un tratto, fra il bubbolio
del vento:

— Marco! — E, dopo qualche secondo, riprese:

— Luca!

— Ci siamo tutti? — chiese Zalèbi levandosi.

— Sì — rispose la stessa voce.

— Allora andiamo.

Spingemmo il lieve battello che scivolò rapidamente nell’acqua e vi
salimmo: Zalèbi a poppa, io verso prua. Afferrato il forcino, ad un
piccolo grido d’intesa, si prese il largo.

In breve ebbi la sensazione di un pauroso isolamento in una oscura
immensità di acque sconvolte dalla tempesta. Gli amici nostri erano
scomparsi. Non si udiva più il tuffo dei forcìni che per qualche tempo
ci aveva accompagnato. Per l’ansiosa furia del giovinetto eroe, il
nostro battello saettò su le onde con la rapidità del turbine.

La tenebra era densissima e il bubbolio, il rombo, l’ululato del vento
e delle acque si levavano a riempire l’ignoto abisso nel quale mi parve
precipitare.

Ad un tratto giunse dal largo un mugghio più forte che in rapida
vicenda si accrebbe avvicinandosi, simile al fragore delle improvvise
fiumane nei torrenti appenninici.

— Hai la _veste_? — gridò Zalèbi.

— Sì.

— Leva il cappuccio, il tempo è in filo per noi; viene il diluvio!

Non trascorse un secondo che l’impeto di Borea moltiplicò talmente da
non poter trarre il respiro; poi, sferzando, staffilando, infuriando,
spinta dalla folle violenza della tempesta, si riversò dall’alto una
pioggia torrenziale.

Fu tale l’imperversare degli elementi che un improvviso smarrimento
mi colse e rimasi inattivo senza avere coscienza nè del luogo, nè del
perchè mi trovassi sperduto in quella rovinosa tempesta. Il freddo
intensissimo che mi irrigidiva, l’assidua sferza della pioggia alla
quale la _veste_ che indossavo non poteva porre riparo, aveva vinta la
mia resistenza; stavo per abbandonarmi, affranto, allorchè mi giunse la
voce del compagno forte:

— Duccio, Duccio, non perderti d’animo, voga!

Fu come una fiamma che riaccese la vacillante volontà; ripresi il
forcino che avevo abbandonato e mi curvai su di esso con rinnovata
energia. Solcammo la tenebra velocissimamente.

Un urto improvviso ci arrestò.

— Salta a terra, siamo all’argine — gridò Zalèbi.

Ubbidii e presi lo slancio senza vedere ove sarei caduto. Zalèbi
si eresse vicino a me su l’argine melmoso che divideva un _campo_
dall’altro. Afferrato il battello, gli facemmo sorpassare l’ostacolo,
poi udimmo ad un tratto un sibilo acuto al quale altri sibili risposero
fiochi quasi salissero da una incommensurata profondità.

— Vengono — disse Zalèbi — fra poco saremo giunti.

La corsa pazza, faticosa, anelante, ricominciò. Curvi sui forcìni,
rattrappiti nella massima intensità dello sforzo, sbattuti dalla
pioggia e dalle onde spingemmo il battelletto affusolato che ci portò
fra la tempesta lagunare come una docile cosa doma dal nostro volere.

Ad un tratto si intravvide un lucore sanguigno.

— Ferma — gridò Zalèbi.

— È la _casona_?

— Sì.

— E i compagni?

— Verranno — Zalèbi stava ritto immobilmente su la poppa del battello.
Ora potevo intravvederlo al tenue lucore che ne stagliava appena la
figura. Intorno a lui biancheggiavano a tratti le spume delle onde,
pullulavano diffondendosi, apparivano come in un ribollimento convulso
e, su quell’indoma furia, egli si elevava e si inabissava fermo come
torre, in un suo invincibile dominio.

Qualche voce giunse sotto vento:

— Zalèbi? Zalèbi?

Rispose avvicinando le mani alla bocca:

— Vi aspettiamo.

Balzarono dall’oscurità ad uno ad uno gli altri battelli e si disposero
intorno a noi attendendo. La violenza della pioggia non accennava a
diminuire.

— Ora pescano al _lavoriero_ di sotto, verso mare — disse Zalèbi —
al primo _lavoriero_ la pesca è compita. Con questo tempo la guardia
è al riparo nella _casona_; ognuno di voi si impadronisca di una
_bolaga_[10]; io e Duccio veglieremo intorno.

— Sei certo che Diavolo sia a Campo Rillo? — chiese una voce dall’ombra.

— Certissimo!

Allora io vidi sorgere dalla semioscurità forse venti _fiocinini_;
avevano il capo nudo e, stretto in una mano, un lungo coltello a
serramanico.

Rimasero un attimo immobili, poi si levò una voce sola da tutti, fu
come un grido implorante:

— In nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo!

Strinsero il coltello fra i denti e con un balzo sparirono nella
tenebra.

— Voga! — gridò Zalèbi — dobbiamo seguirli.

Innanzi a noi, come la fioca luce delle lanterne che illuminavano la
_casona_ e i _lavorieri_ si diffondeva, scorgemmo a tratti i dorsi dei
compagni che si eran lanciati alla pericolosa avventura; emergevano
dalle acque a seconda delle onde, parevano legni portati alla deriva,
cieche cose nel cieco dominio della violenza. E la sferza del vento e
della pioggia si riversava dai gorghi abissali gemendo, ululando, con
mille suoni, con mille voci, con le mille grida del turbine che è il
martirio degli elementi.

Ad un tratto si delineò come una massa oscura nella notte, pareva un
breve argine; poco più lontano apparve nitidamente un angolo della
_casona_.

— Ferma, ci siamo — sussurrò Zalèbi. Poi, dopo una pausa:

— Stenditi sul battello e veglia.

Ci coricammo proni tenendo appena parte del capo levato sul fianco
della nostra imbarcazione. Un’ansia tormentosa aveva attutito ogni mia
sensazione onde non avvertivo più nè il freddo nè la pioggia; tutta
la mia vita era negli occhi miei che scrutavano; era sospesa in quegli
attimi che precorrevano un avvenimento oscuro e terribile.

Nessuno ci avvertì. Diavolo e i compagni suoi erano all’altro angolo
della _casona_, intenti alla pesca. La guardia dormiva.

Il vento ci aveva spinti più presso al _lavoriero_; ora ne distinguevo
nitidamente i fianchi contro ai quali si frangevano le onde.

Apparvero e disparvero nella luce le teste dei _fiocinini_; avanzavano
con ogni cautela, tuffandosi e risalendo per riprender respiro,
strisciando muti come bestie all’agguato; poi un torso si levò vicino
al _lavoriero_, poi due, poi tre; udii il secco colpo dei cordami
recisi dai coltelli. Le _bolaghe_ eran libere. La grande preda era
nostra!

— Via! Via! — gridò Zalèbi ai primi che passaron vicino a noi
spingendosi innanzi l’enorme canestro. Nessuno rispose. In breve
dileguarono nella notte. Ma avevamo appena afferrato il forcino che
un urlo disperato ci raggiunse: fu come una ferrea mano che piombasse
improvvisa su la mia nuca, ne ebbi l’identica sensazione.

— Diavolo, in nome di Dio, correte! Hanno rubato tutto!

Seguì un tumulto, poi ogni suono si perse nel fragore della tempesta.

— Sbandatevi! — comandò la guida poi che giungemmo ove erano adunati
i battellieri. In un battibaleno le imbarcazioni scomparvero per
diverse vie e allora a mano a mano rallentammo la corsa per attirare
l’attenzione di Diavolo e lasciar campo ai _fiocinini_ di porre in
salvo la preda.

I miei sensi erano tesi talmente all’aspro fascino della lotta che
sarei caduto senza avvedermene, stremato di forze, prima di avvertire
la stanchezza. La lotta dall’incantesimo ferrigno è forte come l’amore.

— Eccoli! — sussurrò Zalèbi — Duccio, il colpo è fatto!

Udimmo il tonfo rapido dei remi. Una voce gridò a più riprese:

— Ferma per l’anima tua, o sparo!

E un gran fascio di luce ci avvolse.

— Curvati e voga! — riprese il compagno mio. — Andiamo col vento, via!

Io non so quale rapidità ci portasse, non so quale vertigine ci
trascinasse con la pioggia a traverso l’immenso campo lagunare, certo
fu che il bagliore che ci seguiva si disperse; ma un altro apparve
remotamente e un altro ancora su gli argini, poi un suono grave, lungo,
lamentoso di corni si levò in lontananza, si ripetè vicino, fu ripreso
a distanze maggiori; un suono che corse tutto lo spazio come una voce
nuova della tempesta.

— Tentano circondarci — disse nel suo grave affanno il fratello mio —
da tutte le _casone_ rispondono. Aspettiamo.

— Che vuoi fare?

— Lo saprai.

Si riudì più distinto e più rapido il battere dei remi; Zalèbi si volse
ad un tratto e gridò:

— Diavolo?

Rispose a breve distanza un riso di scherno. Fuggimmo ancora, e non
so per quanto tempo, fra grida affannose, e il triste suono dei corni.
Attraversammo due argini, seguiti sempre dall’imbarcazione di Diavolo,
che non cedeva nel suo accanito inseguimento.

All’argine di Campo Cona, Zalèbi spinse il battello nell’acqua; ne
aveva tolto la _doppietta_. Mi disse:

— Allontanati.

— E tu? — chiesi meravigliato.

— Allontanati — riprese — io conosco la strada!

A malincuore mi diressi verso il largo, ma non avevo percorso venti
metri che una luce apparve dietro me.

Distinsi l’adolescente fermo su l’alto dell’argine, e udii il suo grido:

— Prendi la mira! Bada!

Sorse dal buio la figura atletica di Diavolo. L’uomo e il giovinetto
furono di fronte a un tiro d’arco.

Zalèbi spianò il fucile e gridò per la seconda volta:

— Prendi la mira!

— Che fai? — urlò la guardia.

— Prendi la mira, vecchia spia!

I due fucili si puntarono rapidamente l’un contro l’altro, poi due
scoppi improvvisi vinsero il mugghio del vento, il mugghio del mare, e
Diavolo piombò di traverso come una quercia divelta.




IX.

Aspri confini.


Accosciato in un angolo della stanza semibuia, Omero preparava le sue
bisacce. Non appena mi vide crollò il capo e mi chiese:

— Come sei fuggito?

— Non so — risposi.

— E Zalèbi?

— Non l’ho rivisto; ma tornerà.

— Sì, tornerà! A quest’ora chi lo piglia è bravo!

— Credi ch’egli tema la prigione?

— Se anche non la teme, non vorrà cercarla!

— Ed io ti dico che tornerà.

— Per Sita forse?

— Sopratutto per lei. Zalèbi non teme niente!

— È un coraggio insensato.

— Per il tuo onore, faresti peggio!

— E peggio e meglio perchè non vorrei lasciare agli uomini la
soddisfazione di punire un atto sacrosanto! Non sai dove sia?

— No. È fuggito per gli argini.

— La ragione lo aiuti!

Dopo una breve pausa, con voce mutata e calma riprese:

— Domani ci imbarcheremo sul bragozzo _San Giorgio_; ho già preso
l’impegno.

— Anche per me ti sei impegnato? — risposi scattando.

Omero mi levò lentamente gli occhi in volto, stette qualche attimo
senza dir parola poi chiese con voce stupita:

— E che vorresti fare?

— Rimango qui — risposi risolutamente.

— Qui? Ma dove?

— Qui, in casa di Giovanni. Ora la mia presenza è necessaria.

Una ruga increspò la fronte di Omero. Curvò il capo sospirando e
riprese in tono apparentemente tranquillo:

— Tu sei uomo, devi seguire la tua volontà. Rimani se così ti piace,
andrò solo perchè ho dato parola e debbo mantenere ciò che ho promesso;
pensa però che non potrai vivere sempre nascosto e che ti prenderanno.

— Chi può avermi riconosciuto?

— Le spie.

— Non potevano essere nella laguna! — risposi sorridendo.

— No, ma vi hanno veduto quando partivate. Si sa che Serenella è venuta
ad accompagnarti; si sa che gli ultimi giunti sono Marco e Luca. Vedi,
se vi sono occhi buoni a Comacchio? Forse domani, forse fra poche ore
la polizia sarà su le vostre tracce.

— E che potranno farmi?

— Niente! — gridò Omero. — Ma non sai dunque che per essere amici della
giustizia bisogna aver torto? Sei troppo giovane per saper certe cose!
Tu non hai rubato, non hai ucciso, sei più pericoloso perchè sul tuo
conto non ci si vede chiaro. Un vagabondo capitato qui chi sa da quale
parte, chi sa per quali fini misteriosi, è sempre temibile più di un
vecchio brigante. Va, se ti prendono, povero figlio, potrai sapere
con quali occhiali la giustizia guarda la gente che serve solo a far
numero!

La stanza che ci avevano data come rifugio in casa di Giovanna della
Nave, si illuminava a mano a mano col sorger del giorno chiaro. Omero
soffiò su la candela che aveva fermata a terra con poche gocce di cera,
legò l’ultima bisaccia, poi si levò riassettandosi e disse:

— Tutto è pronto. Io vado a congedarmi alle saline. Sarò qui fra poche
ore; prima di prendere qualsiasi decisione aspettami.

Si calcò sul capo il vecchio berretto e partì senza rivolgersi. Udii i
suoi passi risuonare nell’andito e disperdersi.

Ero affranto, disfatto; solo la persistente agitazione nervosa faceva
sì ch’io mi reggessi tuttavia.

Provavo, e ne ricordo con esattezza la strana sensazione, provavo a
quando a quando un ottenebramento compiuto, una sospensione improvvisa
della vita intellettiva durante la quale percepivo unicamente il
martellar delle tempie. Mi pareva che qualcosa all’infuori di me ne
udisse il suono secco e breve, qualcosa che si disperdeva in un vuoto
di cui serbavo appena coscienza. Poi ero colto da una subita vertigine
e sarei caduto se, con un atto straordinario della volontà, non mi
fossi riscosso di soprassalto. Ripreso il pieno potere dei sensi,
ricominciava l’interna, scomposta lotta dei pensieri che giungevano a
frotte incalzandosi, sovrapponendosi, serbando qualcosa della notturna
furia che mi aveva percosso per ore ed ore. Erano ricostruzioni degli
avvenimenti ai quali avevo assistito; nuovi rimorsi per non aver
seguito Zalèbi dopo il delitto; incertezze dubbiose per l’avvenire
mio, per il mio amore che avrebbe dovuto soffrirne; e, a mano a mano,
il turbamento che ne derivava diminuiva di intensità; le immagini,
le sensazioni si facevano più blande; era un lento dileguare simile
all’inconsistenza che acquistano le cose allorchè sorgono le nebbie
autunnali: la schietta linea del finito, del determinato si tramuta in
appariscenza incerta, è il fantasma della forma che sopravvive. Così
una sola idea guizzava ancora nella mente mia, lontanando poi fino a
lasciarmi nello strano ottenebramento che precede il sonno.

Ero seduto sul giaciglio; il capo fra le mani e gli occhi fissi al
suolo, innanzi a me, immobilmente. A volte una subita percezione di ciò
che vedevo mi occupava il pensiero: la forma, le macchie dei mattoni,
gli interstizii pieni di polvere rossastra servivano a richiamare la
mia coscienza al luogo nel quale mi trovavo; a volte, senza alcuna
conseguenza di associazione, rimaneva muta ed unica nella mente mia la
visione di quelle forme e di quei colori.

Così non udii dischiudersi l’uscio nè mi avvidi che qualcuno era
entrato nella stanza. Solo una voce mi riscosse:

— Duccio? Duccio?

Alzai gli occhi sorpreso e mi levai di scatto. Zalèbi mi stava innanzi
come fosse sorto dall’ombra.

— Ti sei salvato? — chiesi ansimando. Forse il mio viso era stravolto
s’egli rispose:

— Sta in pace!

Guardai con maggior calma l’amico mio. Era compiutamente trasfigurato,
era quasi irriconoscibile. Il volto, in una sola notte, aveva perduto
ogni aspetto giovanile: le guance si erano infossate sotto gli zigomi;
le labbra s’eran fatte livide; gli occhi profondi e lucenti. Aveva
alcunchè di spettrale.

— Perchè non hai seguito le vie del Bosco? — ripresi. — Verranno a
cercarti.

Rispose sorridendo:

— C’è tempo a tutto.

— Che vuoi dire?

— Sarò troppo lontano quando vorranno prendermi.

— Bada, non fidarti!

— Per me non temere — riprese dopo un silenzio, scrollando le spalle
— ho pensato a tutto. Conosco una strada lungo la quale non mi
raggiungeranno. Io son venuto ad avvertirti, perchè tu vada pel tuo
destino. Omero avrà pensato a ciò. Parti subito.

— Omero andrà solo — risposi — ho già rifiutato di seguirlo.

— E perchè? — chiese Zalèbi fissandomi intensamente.

— Perchè il mio posto è qui, ora più di prima. — Scrollò il capo
abbassando gli occhi e, per qualche istante rimase pensoso; quando
rialzò il volto, vidi che agli angoli delle palpebre un vivo lucore
tremava in due lacrime che scesero rapidamente su le guance contratte
in uno spasimo tanto più forte quanto più contenuto. Era il suo dolore
profondo, la sua giovinezza infranta dall’amore che aveva vinto la
virile fierezza la quale non concede facili espansioni. Forse aveva
veduto sì chiaramente lo specchio della sua povera vita; forse gli era
apparsa sì grande la sua disgrazia, sì terribile il suo destino che
dal fondo del core, là, dove ogni creatura porta qualcosa della materna
dolcezza per la quale ebbe vita, era salita, vincendo ogni resistenza,
la triste ombra del pianto.

— Io so perchè vuoi rimanere — riprese senza rasciugarsi le ciglia. —
Serenella è buona e merita il tuo amore; ma non potresti giovarle, la
faresti soffrire inutilmente. Le abbiamo fatto già troppo male, Duccio,
lasciamola in pace! È giovane, rifiorirà. Tu potrai rivederla fra
qualche anno, quando tutto sarà dimenticato. Allontanarsi non vuol dir
morire! Vi vorrete bene ugualmente. Da parte mia non avrete a dolervi
di nulla, di qui innanzi, perchè non tornerò più.

— E dove andrai?

Non rispose.

— Partiamo insieme? — ripresi.

— No — rispose risolutamente.

— Perchè?

— Mi saresti di impaccio! — La voce di lui s’era fatta sì aspra che non
aggiunsi parola.

— Io son venuto per te — disse ancora, rapidamente; — prima che pensino
a cercarmi in paese debbo esser lontano. Non ho tempo da perdere,
Duccio, e non voglio andarmene se non ho avuto da te una promessa che,
per la nostra amicizia, non devi negarmi.

— Quale promessa?

— Serenella sa tutto, le ho parlato prima di venir qui; ora giurami sul
tuo amore che lascierai Comacchio non appena io sia partito.

Mi levai di scatto e gridai accostandomi:

— Io me ne andrò ma tu che vuoi fare?

— Giura! — riprese Zalèbi.

— Dimmi che vuoi fare, prima.

— E che t’importa?

— M’importa per il sacrificio che mi imponi. Hai riveduto Sita?

Zalèbi impallidì indietreggiando; quel poco di rossore che l’animazione
avea posto a sommo delle guance di lui dileguò, fu vinto dal color
terreo che si sparse d’improvviso per tutta la sua faccia. Fu un velo
di morte. Gli occhi suoi si infoscarono ancor più; dalle sue labbra
strette spasmodicamente usciron lente e rotte le parole:

— No... non l’ho riveduta!

Non ebbi animo di prendermi la rivincita che m’ero ripromesso; una
commozione profonda mi vinse. Le nostre vie erano troppo lontane;
troppo diversi erano i nostri destini. Egli si levava nell’alba fosca
di un delitto; dall’ieri all’oggi era disteso un abisso per lui; una
creatura nuova si trovava al limite di un deserto nel quale era cosa
vana ricercare una via. Silenzii secolari, distanze infinite non
avrebbero potuto porlo in un isolamento maggiore. Non gli era possibile
riprendere un filo della trama lacerata; avrebbe dovuto lottare,
nascondersi, fuggire senza nulla sperare, abbandonando tutto, solo
e disperso con la maledizione del suo tragico amore. Tale era la sua
terribile condanna. Temevo non vi reggesse. Era troppo giovane ancora,
non avea oltrepassato i vent’anni. Vedeva l’amore con occhi limpidi nei
quali rideva l’ingenua festosità del fanciullo, e la sua natura chiusa
e il temperamento fiero gli avevano reso sacro l’amore del quale aveva
formato un’unica visione a tutta la vita. Così nulla lo avvertiva.
Andava come un falco verso un fuoco notturno, innamorato della fiamma
di cui non sa la violenza; andava fiducioso nella sua forza, nella sua
giovinezza irrompente come un’infinita fiumana di sole. Ad un tratto
la terribile cecità che ci guida s’era imbattuta in lui e l’aveva
travolto.

Per l’energia che gli restava nella rovina, capivo ch’egli aveva presa
la sua decisione; non era uomo da dubitanze; la sciocca paura e la
viltà non avevano tormentato mai l’anima sua.

Ora, come stava per andarsene senza rivolgermi parola gridai:

— Zalèbi perdonami, sono troppo stanco, non so ciò che mi dica!

Si rivolse per l’ultima volta.

— Per il bene che ci lega — disse — giurami ciò che ti ho chiesto!

Allora mi avvicinai, gli presi le mani, le strinsi fra le mie e,
fissandolo negli occhi, giurai su l’anima di mia madre.

Poi sentii le sue mani tremare.

— Dammi un bacio — sussurrò.

Ebbe una voce più triste che il pianto. Gli gettai le braccia al collo,
disperatamente. Udimmo allora, da un angolo della stanza, salire un
sommesso singhiozzo. Zalèbi si disciolse in fretta. Inginocchiata
innanzi ad una piccola icone, Serenella piangeva.

Nessuno lo trattenne, d’un balzo raggiunse l’uscio e disparve. Feci per
lanciarmi sul suo cammino ma una voce implorante mi soffermò:

— Duccio, Duccio, dove vai?

Serenella si era levata e veniva ad incontrarmi con le mani tese. Aveva
i capelli scomposti; racchiusa così nello zendado azzurro pareva una
piccola madonna del dolore.

— Zalèbi — gridai — Zalèbi si perde!

Ricorderò fin che viva il tono della voce dolorosa:

— Non potrai salvarlo! Da tanti giorni prego e piango e mi consumo per
niente! Per il mio amore, Duccio, non ti muovere!

— Ha parlato con te?

— Sì.

— Tu sai tutto?

Mi levò in volto gli occhi suoi grandi, cerchiati di nero e lentamente,
trascolorando, riprese:

— Sì.

Poi era troppo forte la sua pena, povero amore; troppo avea sofferto
per la sua debolezza di donna; mi si avvinghiò al collo in una crisi di
pianto:

— Duccio ho paura di rimaner sola, Duccio ho perduto tutto tutto
tutto!... Prendimi con te, io verrò con te, sarò un niente, sarò come
la palma benedetta, un niente!... Non mi lasciar sola; fa di me quello
che vuoi; non ti sarò di peso, mai, e il tuo volere sarà il mio volere.
Duccio, per il bene che ti voglio portami via, io voglio morire a’ tuoi
piedi... ma con te, con te... per sempre!...

Tremava nel convulso del pianto e si stringeva forte al mio petto,
forte come per non distaccarsi mai più.

Ad un tratto si levò irrigidendo e chiese a pena:

— Hai udito?

Avevo udito infatti lo scoppio di una fucilata, poi un rumore di voci
che cresceva d’attimo in attimo quasi a divenire tumulto.

— Che cos’è? — riprese.

Stette perplessa qualche attimo ancora; poi ebbe un grido acutissimo:

— Ah! È morto! È morto! È morto!

Facemmo per lanciarci verso l’uscio. Omero apparve nel vano.

— È vero? — gridò Serenella.

Omero si tacque. Il viso della piccola bella si trasfigurò, le mani di
lei si protesero e non feci in tempo a sorreggerla che vacillò e cadde
svenuta.

Quando l’avemmo adagiata sul giaciglio, Omero aprì la porta segreta che
dalla nostra stanza metteva sul canale.

— Vieni — mi disse.

— No.

— Vieni, insensato, le guardie ti cercano dappertutto, fra un quarto
d’ora saresti al buio!

Poi mi sentii afferrare dalle sue braccia poderose e come un niente fui
gettato nella barca che attendeva nel piccolo canale silenzioso.




X.

Solitudini amare.


Sedevano a poppa, ai piedi del timoniere, gli uomini dell’equipaggio
del _San Giorgio_. Io m’ero accosciato vicino all’albero di artimone,
sotto la gran vela. Omero era disceso nella stiva con Rùstigh,
il capitano della piccola nave. La spiaggia di Magnavacca andava
lontanando nel mattino lucente; ora si scopriva tutta: dalle lande
di Marcabò, dalle solitarie bocche del Po di Primaro fino agli esili
filari di betulle del Po di Volano e alla selva di Mesola, sperduta
nelle azzurrità mattinali. E come la linea di demarcazione fra la
spiaggia ed il mare diminuiva con l’accrescersi della lontananza,
apparivano, simili a nubi salienti dall’altro mare, le estreme montagne
d’Appennino. Si disperdevano verso nord su la gran pianura padana e
verso levante scendevano su l’Adriatico fino al promontorio di Ancona
che i vecchi navigatori delle nostre spiagge chiamano ancora l’Alpe del
sole.

Gli uomini dell’equipaggio sedevano tranquilli: non si poteva andare
a miglior vento. Vicino alla sua barra il timoniere fumava in pace. In
disparte, sopra un mucchio di cordami, era uno sconosciuto che di tanto
in tanto levava gli occhi a guardarmi e riabbassava poi il capo fra le
palme.

Qualcuno fra i navigatori intonò una canzone a cui gli altri fecer coro
ma sommessamente per non rompere la dolcezza del gran silenzio. La nave
aveva un movimento placido; qualche fremito, qualche scricchiolio delle
vecchie assi si univa a volte alla canzone dei marinai; null’altro.
Mi ero disteso supino: vedevo sopra me le grandi ali che ci portavano
a volo verso l’alto mare; poi il cielo, pallido nel suo sereno quasi
iemale. Il tepore era dolce, blandiva lasciando la mente in un torpido
vaneggiamento. A poco a poco la gran pace serena fu ne’ miei sensi e mi
addormentai.

Eravamo molto lontani quando riapersi gli occhi. Il sole si spegneva
nei cieli estremi e la costa era scomparsa dall’orizzonte.

Volsi gli occhi intorno a ricercare Omero. Lo vidi in disparte e non
lo disturbai; mi era unicamente necessaria la sua presenza. Non appena
la mente mia, riposata dal sonno, riprese le sue piene facoltà, il mio
dolore balzò dal silenzio con rinnovata lena.

Zalèbi era morto sotto alle finestre di Sita mentre le guardie si
lanciavano per imprigionarlo; Serenella, nell’ombra e nel lutto
della sua casa, risvegliandosi, mi avrebbe cercato con occhi grandi e
smarriti, per rinnovarmi la disperata preghiera. L’uno aveva raggiunto
il suo sogno; l’altra per il suo sogno piangeva.

La tristezza lacerante delle cose perdute mi opprimeva; per la seconda
volta la morte ed il dolore mi avevano lanciato alla ventura verso un
avvenire che mi appariva deserto e dolente. Ma non languivo. L’asprezza
del dolore rinvigoriva a quando a quando il mio assiduo desiderio
di lotta. A quando a quando perchè la tristezza, la figlia della
pensosità, questa maga dal pallido volto affilato in cui gli occhi sono
come un abisso, si era insinuata in me perdutamente.

Tu vai fra tanti, vai solo fra mille, fra diecimila; hai perduto
molto, hai perduto un cuore, una dolcezza, la maggiore fra tutte:
tua madre; e vai e nel cammino ti accompagna il pensiero di lei
sempre, perchè tu solo, tu solo puoi portare con te qualcosa di
quella creatura benedetta, qualcosa ch’ella ti ha dato nel suo amore,
nello spasimo santo della sua doglia. Cammini. Iddio, l’Infinito, il
Mistero, qualcosa di imponderabile se l’è ripresa. Chi sa? in qualche
angolo della terra ci sarà un’ombra anche per te. La terra è grande e
la fortuna è cieca. Passano mesi, la tua giovinezza riprende il suo
cantico perchè tua madre vuole così, avrebbe voluto così tua madre
che ti segue, che è in te, in tutto ciò che di più gaio dall’anima tua
fiorisca; riprendi il tuo cantico perchè la vita è bella e si può e si
deve amare. Un giorno, ecco, un bel giorno ti accorgi che c’è qualche
novità: ti batte il sangue ai polsi, tutta la tua vita è più alerte,
tante idee nuove, come stormi di allodole, passano per la tua mente. È
una dolcissima primavera che ti invita a sostare; e sosti.

Sosti; chi può andar sempre se non il sole? L’amore è giunto e ben
rimanga nel suo regno cortese. _Ella_ è inanzi al tuo core, si è
fermata vicino a te; il destino l’ha condotta su la tua via come dal
primo giorno della vita. Sorga pure dallo squallore, dalla miseria,
nulla può recarle offesa.

È tal cosa la giovinezza, che l’arte umana non può superarla. Non
hai osservato mai come una bella figlia abbia in sè, per ignota virtù
trionfale, quasi una lucentezza solare per cui nessuna cosa al mondo
può avvilirla? Ella è ricca e il suo misero giaciglio è pari a coltri
di damasco e d’oro; la virtù di lei si comunica alle cose che le stanno
intorno; dove ella vive la primavera non finisce mai.

Ecco, solitario viandante, il sogno degli innamorati che, nella tua
vita, vorresti eterno come l’illusione, ti ha raggiunto: godilo per
il poco che puoi. Ogni giorno ha il suo tramonto e ogni stagione ha
i suoi giorni: non uno è uguale all’altro. Domani forse ti troverai
per altre vie. Ciò che oggi risplende alto nel tuo cielo, avrà domani
un’apparenza crepuscolare.

Vedere e svedere; creder d’essere giunti e trovarsi lontani le mille
miglia; è la vicenda eterna e in ciò è il germe della eterna tristezza.

Io soffrivo nel mio silenzio e m’era dolce la vicinanza di Omero. Delle
cose perdute vedevo in lui come una continuazione. A volte lo cercavo
con gli occhi; ma l’amico buono non mi rivolgeva parola chè intendeva
la mia sofferenza nè voleva turbarmi.

Il mare onduleggiava ingemmandosi e le terre erano tramontate sotto
alle nebbie dileguando quasi che il vento le avesse soffiate nella
concavità dei cieli là dove il sole si moriva; e laggiù si levava sul
mare un diadema sanguigno che accendeva le acque di tremule lingue di
fuoco.

Gli occhi miei non abbandonarono un attimo l’estremo baglior moribondo.
In quella latitudine sorgeva la città rossigna, la solitaria corolla
delle lagune. Ne vedevo le torri, nere, immobili verso l’abisso, simili
a l’umana volontà che scruta; ne vedevo tutto il profilo sorgere su
dall’ombra, e stagliarsi graniticamente su l’ondeggiante varietà del
crepuscolo. Stava a simiglianza di uno spettro su l’immensità marina.

Il mio cuore ne tremò, sì chiara fu la visione in quell’attimo. Taceva
nel suo lutto, la città dell’amore, simile ad un’oscura prigione chiusa
per l’eterno su la fredda superbia di Sita. Tutto si era ammutolito in
una gelida crudezza; ogni casa era deserta, ogni canale, ogni ponte;
non una voce umana si legava, non un grido. Su le vie fatte oscure
dalla luce di un eterno crepuscolo, cinta dalla sua veste vermiglia,
gli occhi larghi e pieni di terrore, la bocca contratta in un lamento
di assidua chiamata errava un’ombra, sola, che si soffermava ad
origliare a tutte le porte; sola nella città deserta, nel silenzio del
mondo. Ella non udiva che il busso degli zoccoli suoi da ponte a ponte;
non udiva che il suo respiro roco e la sua voce che le faceva paura.
Aveva paura della vita sua, in quel luogo sacro al regno della morte,
Sita, la maledetta!

Ella aveva riso profanando l’amore e l’amore se ne vendicava così.

I marinai ripresero l’antica cantilena misurata sul ritmo del mare:

    «... _e i tre pastori videro levarsi_
    _San Giorgio con la sua spada lucente_....»

Allo smorire del cielo s’era diffuso il color delle viole.

    «... _veniva dai paesi dell’oriente._
    _Avea passato e le foreste e il mare_
    _sul suo cavallo, senza mai sostare;_
    _senza sostare, senza prender posa_
    _fino alla triste terra paurosa_....»

C’era un più tenero sogno allo smorire dei cieli e l’anima mia se ne
addolciva.

    «... _stava diritto ed alto su gli arcioni._
    _E i tre pastori cadder ginocchioni,_
    _cadder su le ginocchia ad implorare_
    _colui che aveva oltrepassato il mare,_
    _che veniva col sole da l’oriente_
    _a difender la sua povera gente!_....»

Tutto era smorto col dileguar del sole; e l’aria e il mare e l’infinito.

Gli occhi miei non si erano distolti un attimo dal cielo. Le voci che
cantavano intorno pareva salissero dal niente, da un fiato di nebbie
disperdentisi. Le ultime viole impallidivano come occhi socchiusi dal
sonno. Oh l’immensa dolcezza! Sembrava il mare, in quell’ora, il campo
infinito del silenzio solcato da una sola nave che faceva vela per
l’ignoto.

Ma il mio pensiero era laggiù alla soglia della piccola casa dove
l’amica mia piangeva; era laggiù come un povero viatore che non può
farsi avvertire.

Io non sapevo di poterla rivedere l’amica mia: dove sarei andato? che
ne sarebbe stato di me?

Col capo appoggiato all’albero di artimone guardavo disperdersi le
ultime luci. Apparve la stella del pastore: la prima che annuncia il
grande stuolo, il gregge che vien dietro lei nella notte. Verso poppa
un vecchio preparava il mangiare, curvo su le bragi di un piccolo
fornello. Innanzi a lui un cane della Pomerania scodinzolava mugolando.

Lo sconosciuto andava e veniva da poppa a prua. Come l’aria s’era fatta
frigida aveva rialzato il bavero della giacchetta e si era ficcato fin
su le orecchie il berretto a visiera. Sentivo una ripugnanza assoluta
al conversare; avrei voluto esser solo e indisturbato; solo con la mia
tristezza.

Quante volte ricomincia la vita! Questa esistenza nostra che non si
svolge mai tutt’intera secondo un corso segnato; ma procede ad impeti
e si arresta e riprende fino alla sua consumazione! Per me si chiudeva
allora un’età; il tempo se la spingeva innanzi verso il suo nulla,
rapidissimamente. Ciò che era stato non sarebbe riapparso _mai più_.
Nelle pause del dolore, queste parole risuonano come il grido che si
allontana, come la voce che si perde nel vuoto; per un attimo tutto
l’essere ne sente la tristezza lacerante e dubitando si accascia; ma
poi la vita riprende i suoi diritti e ricomincia la trama paziente fra
i rovi finchè una nuova bufera non la disperda. È sempre così ma che
importa? Non chiedere la sua ragione al sereno; non chiedere all’amica
tua perchè ti voglia bene. La gioia è fatta di piccoli nulla e la
scienza accresce il dolore.

Ad un tratto si udì giungere per l’aria, e non so per quale fenomeno
strano perchè le terre erano lontanissime, un lento martellare di
campana ma affiochito, incerto, dolcissimo. C’erano già le stelle,
ricordo, e all’albero maestro e a prua lucevan le grandi lanterne
che segnavano il nostro volo sul mare. Vidi vicino a me Rùstigh,
il capitano. Si tolse il berretto e si fece il segno della croce.
I marinai si inginocchiarono in disparte. Quando il suono alitante
si disperse, simile al dileguare di un fumo argenteo nei mattini
invernali, udii Omero chiedere a Rùstigh:

— È l’_or di notte_ forse?

— No — rispose Rùstigh — è la campana di una città scomparsa sotto il
mare. Il Signore la maledisse e le acque la inghiottirono.

Un riso acuto ed aspro sorse dall’ombra. Lo sconosciuto si era
avvicinato a Rùstigh l’uomo semplice e rozzo. Disse:

— E voi credete ancora a queste cose?

— Sì, ci credo.

— La vostra fortuna è lontana, allora. Morrete schiavi di chi vi
comanda.

— Sul mare c’è un solo padrone — rispose Rùstigh.

— E chi è di grazia? — chiese ridendo lo sconosciuto. Dopo una breve
pausa una voce alta e solenne gridò da poppa:

— Iddio.

Lo sconosciuto infilò le mani nelle tasche della giacchetta e si
allontanò borbottando.

— Siete più ciechi dei bambini!

Non gli dettero ascolto; avevano ripreso il lento cantilenare:

    «... _i tre pastori videro levarsi_
    _San Giorgio con la sua spada lucente!_...»

La notte palpitava nell’infinito. Ah Serenella, non fu tanto ardore
nel cielo quanto dolore fu nell’anima mia per averti perduta! Una
disperazione tragica si chiuse nel mio cuore ed io l’ebbi sacra. Ebbi
sacro il martirio che provavo per te.

Un singulto mi scosse, poi un altro e un altro con crescente rapidità
come in un riso irrefrenabile che ti prende, ti deforma e ti angoscia.
Senza un grido, Serenella, per te tutta l’anima mia si prostrava
tremando.

Caddi prono su le assi del ponte e piansi, piansi a morirne.

Omero non disse parola; stava col capo reclino fra le palme dischiuse e
pareva dormisse.




PARTE SECONDA.

AMOR FONS VITAE.




XI.

A Roma.


Matteo Adeva mi guardò di traverso con un gesto fra il compassionevole
e lo sdegnoso:

— Tu sei un uomo che sogni — mi disse. — Non bisogna avere certe
preoccupazioni se non vuoi morir di fame!

— Ho ancora la debolezza di essere onesto — risposi sorridendo.

Omero assentì col capo.

— Arrangiati allora — riprese Matteo levando le spalle. — Credevo
trovare un uomo di buona volontà e trovo un testardo che non mi serberà
neppure gratitudine per la proposta disinteressata. Arrangiati. Io
posso compiere l’_operazione_ per conto mio.

Compì due giri per la stanza, poi mi si piantò innanzi fissandomi negli
occhi.

— E domani che cosa mangerai? — chiese levando il capo quasi ad
affrettare la mia risposta.

— Ciò che capiterà — risposi.

— E se non capita nulla?

— Per un giorno si può digiunare senza fastidio. Il corpo non ne soffre
— disse Omero.

— Quando sia così — riprese Matteo Adeva — vi lascio col vostro
digiuno e buon pro’ vi faccia! Si capisce che giungete dalla provincia
e non avete idea di ciò che sia la vita a Roma. Vi faccio un lieto
pronostico, figli miei: o morirete di fame o finirete in galera perchè
non avete neppure la tempra necessaria per compiere un _bel colpo_ a
tempo debito. Quando sarete costretti a tentare, vi coglieranno come
pulcini nella stoppa.

— E chi ti dice che tenteremo? — disse Omero.

— L’esperienza me lo dice! Credi ancora di poter trovare lavoro qui, tu
che non sai far nulla?

— E credi tu che Roma sia tutto il mondo? — rispose Omero.

— Che cosa vuoi dire?

— Voglio dire che le strade sono grandi e sterminate e che, se non qui,
in un altro luogo il nostro lavoro potrà essere compensato come merita.

— Allora buon viaggio! — soggiunse Matteo Adeva inchinandosi
burlescamente; poi riprese la passeggiata da un canto all’altro
della lurida stanzaccia. Ad un tratto sostò e, volto ad Omero, chiese
bruscamente:

— A proposito, chi paga la stanza?

— È pagata già per tutta la settimana — rispose Omero.

— E chi l’ha fatto?

— Io.

— Avevi i soldi?

— Pare!

Dopo una pausa riprese:

— Posso chiederti ospitalità per questa notte?

— No!

— Tante grazie. Hai paura di comprometterti?

— Non è per questo; ma vedo che non potremmo andar d’accordo.

— Già... incompatibilità di carattere! — esclamò Matteo Adeva in tono
sardonico.

Volgeva il vespero. I quartieri di San Lorenzo si animavano di un vocio
alto e confuso di monelli e di ciance che da un uscio all’altro, da una
finestra all’altra o in mezzo alla strada alimentavano a voce altissima
il loro pettegolezzo. Giungevano dalla prossima stazione lunghi
sibili di vaporiere. Una sirena lontana mandava il suo lamento fioco
e continuo che ha alcunchè di grave e pare gridi alle stelle, sui due
limiti del giorno, l’eterna pena del travaglio umano. Qualche campana
si levò dalle prossime chiese ad invocare Iddio per il sonno di tante
creature stanche. Io non vedevo il sole morire fra le nubi vermiglie;
ne sentivo in quei suoni la malinconica dolcezza.

Dietro la nostra porta una voce aspra di donna chiamò a più riprese:

— Cajèla? Cajèla?

— Che volete? — si sentì rispondere dall’alto.

— Vieni ad aprire che c’è un signore.

Si udì un: — Vengo — stanco e strascicato, poi un rumore lento di passi
sui nostri capi.

Udimmo ancora la voce della vecchia, dire sommessamente:

— Salga, vedrà che bella figlia! È ancora minorenne! — Poi, dalla via,
il suono di un organetto mandò per l’aria le note di una canzone in
voga.

Matteo Adeva guardò l’orologio (da qualche giorno possedeva un orologio
d’oro) alzò il bavero della giacchetta e disse:

— Che freddo! Questa notte gelerete, amici belli; con quelle coperte
cenciose non c’è da ripararsi. La tramontana s’è levata. Per conto mio
troverò un giaciglio da signore. Voi volete rimanere nobili straccioni
e restate tali che io non vi disturberò più. Non c’è gusto a far la
saponata agli asini. In tutti i casi poi — fece fermandosi innanzi a
Omero — voi non mi avete veduto e non mi conoscete...

— Ragazzo — rispose Omero levando il capo — al nostro paese le spie si
accoltellano!

Matteo Adeva girò sui tacchi, scosse le spalle come abbrividendo e
soggiunse:

— Allora... addio.

Nè io, nè Omero rispondemmo. Adeva non ne fece caso; giunto su l’uscio
si rivolse ancora per dire:

— Buon appetito! — poi scomparve nell’andito buio.

Eravamo a Roma da sette giorni; Matteo Adeva era sbarcato con noi ad
Ancona e ci aveva seguiti di città in città fino alla Capitale. Quando
si è poveri non si discute troppo su la compagnia che il caso vi pone
a lato. Nel branco, le pecore nere vanno accanto alle bianche, tanto
l’una deve pestare l’orma dell’altra. Durante il viaggio aveva detto di
appartenere a un circo equestre che avrebbe raggiunto a Roma e la cosa
ci era parsa più che naturale; poi aveva parlato e parlato di anarchia,
di associazioni segrete, di congiure internazionali e di tante altre
belle e piacevoli cose che lo davano a conoscere subito per quel
grande ipocrita malaccorto che era. Vedendoci quasi sempre ascoltare
silenziosamente le sue frottole, ci aveva scambiato per due placidi
babbei ai quali è lecito raccontar l’inverosimile e s’era sbizzarrito.
Solo una volta Omero gli aveva detto, e non so davvero per quale sua
logica particolare:

— Chi è bugiardo è ladro.

Oltre questa non avevamo avanzata nessun’altra protesta.

A Roma era comparso qualche volta nella stanza che avevamo preso in
affitto in una casaccia situata nei quartieri di San Lorenzo e ci aveva
spiegato, e questa volta con sincerità, il suo vero sistema di vita.
Ora si sperava non tornasse più ad importunarci.

Era uno spirito leggero, vacuo, di vagabondo amorale che non sarebbe
stato mai fieramente dannoso alla società per la vigliaccheria di lui.
Coltivava il piccolo furto ch’era più facile e meno pericoloso; non si
sarebbe dato mai al delitto, non perchè non se ne sentisse l’animo o ne
temesse il rimorso ma perchè ne abborriva le conseguenze.

Era un bel giovane su la trentina che piaceva alle povere donne della
strada dalle quali traeva la maggior parte della sua rendita e girava
il mondo. Quando aveva _sfruttato un ambiente_ partiva per un altro.
La polizia ne perdeva le tracce ed egli ricominciava il suo giuoco
piacevolmente, pensando che il domani è la preoccupazione degli
imbecilli.

— Duccio — disse Omero — esci questa sera?

— No; mi sento stanco. E tu?

— Ti tengo compagnia. Tanto sarebbe inutile andare in giro a quest’ora.

— Perfettamente inutile.

— Hai fame?

— Un poco.

— Ho pensato alla cena — riprese Omero traendo da una tasca un piccolo
involto.

— Di’ un po’; quanti giorni assicurati ci rimangono ancora?

— Dai dodici ai quindici; secondo.

— E che somma possediamo?

— Trenta lire.

— Non c’è male. Avremo tempo a trovar lavoro.

— Ti lascio cinque giorni ancora, per la tua Roma. Qui non voglio
morirci, sai?

— Abbi pazienza.

— Vedremo! — fece Omero scuotendo il capo e aprì il piccolo involto.

— Mangia — riprese. Cominciammo silenziosamente il pasto frugale.

Ad un tratto picchiarono sommessamente all’uscio.

— Avanti! — gridò Omero. Una giovanetta avanzò il capo fra i due
battenti.

— Entrate, entrate ragazza. Che cosa volete?

La giovanetta girò gli occhi per la stanza e chiese:

— Avreste un po’ di fuoco?

La sua voce roca, afona, mi impressionò sì che fissai la nuova venuta
con curiosità maggiore. Aveva i capelli scomposti, fermati malamente
a sommo della nuca con un nastro giallo e qualche forcina; si era
fasciata il collo con un nastro giallo e dello stesso colore era una
lunga vestaglia di ambigua eleganza che le lasciava nudo parte del seno
e le braccia. Siccome faceva molto freddo, si era gettata su le spalle
una mantella rossa e, con una mano, cercava tenerla raccolta intorno
alla persona.

Come vide che la guardavamo senza rispondere richiuse l’uscio dietro sè
e chiese di nuovo, avanzando:

— Avreste un po’ di fuoco, per piacere?

— Mi dispiace, ragazza — rispose Omero — ma da quando siamo a Roma non
abbiamo ancor visto la fiamma!

— E non avete freddo? Vi mancano quasi tutti i vetri alle finestre.

— Che volete farci? Siamo abituati a ben altro!

La ragazza girò il capo per la stanza quasi a scrutare, nelle poche
cose sparse, il segreto della nostra vita.

— Volete favorire con noi? — le chiese Omero facendole cenno di sedere
su la coperta che avevamo distesa in terra e che ci serviva da tavolo.

— Grazie, ho la mia cena che mi aspetta. Cercavo un po’ di fuoco per
riscaldarmi; sono tanto stanca!

— Tornate ora dal lavoro? — chiese Omero senza l’ombra dell’ironia.
Ella sorrise a pena e mi parve che su quel volto impassibile,
giovanissimo e impiastricciato di belletto passasse una fuggevole
tristezza; mi parve che quegli occhi atoni di giovinetta sorpresa
dalla brutalità quando cominciava a pensare nella vita un suo destino
lieto, fossero velati da un’ombra dolorosa; ma fu un attimo; l’infame
veste cinica nella quale la foja degli uomini l’aveva costretta come in
un’ineluttabile schiavitù, riprese il sopravvento.

— Torno ora dal lavoro sì, e non sarà finito ancora!

Come Omero maravigliando levò gli occhi a guardarla ella ruppe in un
riso sguaiato.

— Quanti anni hai? — le chiese Omero.

— Ho quindici anni.

— E chi ti ha messo a quel mestiere?

— Mia madre.

Si udì un’aspra chiamata dall’alto:

— Cajèla? Cajèla?

La giovanetta ci gridò:

— Buonanotte! — e scomparve in un battibaleno.

La luce era fioca. Omero trasse da una bisaccia una candela e l’accese.
Le nostre ombre si muovevano sui muri con gesti grotteschi.

Dalla via saliva un coro scomposto di voci avvinazzate:

    «_Quando me moro io, moro davvero;_
    _sul caro ce li vojo li mejo fiori_...»

Ad ogni verso, qualcuno si interrompeva per vociare, per bestemmiare
nella piena espansione della sua bestialità ebbra. Erano risate, lazzi,
turpi grida. Passava la bieca volgarità che si compiace della sua
ignominia, si distende nel suo brago e ride dalla larga bocca bavosa
fino a soffocarne; la volgarità che non ha unico regno nelle strade,
nei bordelli e nelle tane del popolo — ma nei caffè e nei salotti dove,
quando si trovino uomini soli, scoppia più violenta per essere stata
contenuta dalle finzioni sociali. Io ne sentivo un istintivo orrore e
pensavo alla mia povera vita d’altre volte, quando mia madre era con me
per farmi vivere nel suo sogno di dolcezza e d’amore.

Le voci dalla strada continuavano berciando:

    «...... _allegri borsaroli_
    _ch’hanno ammazzato er Macelaretto!_»

Poi si persero all’angolo della via fra fischi ed urla.

Levai gli occhi alla finestra. Si vedeva appena un lembo di cielo,
lassù, oltre i tetti della casa che ci stava contro ed era opalino,
come l’ultima luce lo accarezzava. Non so qual soffio di aperte
campagne mi passasse nell’anima, so ch’ebbi timore di esser soffocato
da tutte quelle case oscure che si addossavano, si assiepavano le une
su le altre quasi odiassero e l’aria e il sole e stessero tutte prone
in una massa scomposta per evitare la maledizione del giorno.

— Io vado a dormire — disse Omero levandosi.

— Dovrai percorrere poca strada — risposi.

— Ti confesso — riprese sedendosi vicino al giaciglio, formato da un
mucchio di cenci sui quali erano distese alcune lacere coperte — ti
confesso che sono un poco stanco. Caso raro... s’invecchia! — e gettò
una scarpa vicino alla porta. — La città mi ammazza forse, perchè venti
giorni di strada non mi hanno mai abbattuto così. Ma sogni?... — e la
seconda scarpa raggiunse la prima — Queste strade piene di polvere, di
carri, di gente che grida, di carrozze elettriche, di mille diavolerie
che sa il caso per quali vie siano entrate nella testa degli uomini;
queste strade con certe case alte quanto chiese, quanto torri che devi
torcere il collo per vederne la fine; con tanti specchi da uccellare
la gente che c’è da perderne la ragione, con tanto ben di Dio che ci
sarebbe da diventarne ricconi, ti danno le vertigini. Io... io — si
raccolse le coltri intorno al collo e continuò — io mi sono sempre
tenuto lontano dalle grandi città. Quando ne incontravo qualcuna
cambiavo strada; mi hanno sempre fatto l’effetto di una prigione
mostruosa. Avrò torto e chi te lo nega? Avrò mille volte torto... ma
che vuoi... l’asino ama la sua gramigna — si rivolse sul fianco destro
per volgere le spalle alla fiamma della candela. — L’asino ama la sua
gramigna — riprese dopo un sospirone — e per lui è manna!

Si tacque; dopo dieci secondi dormiva. Mi sentii solo e ne avevo
bisogno. Da qualche giorno, non so per quale asprezza nuova dell’anima
mia, per quale malinteso orgoglio, la compagnia di Omero non mi era
più sì cara come altre volte; non già che il mio amore per lui fosse
diminuito o che la lunga consuetudine di vita comune avesse finito per
annoiarmi: no, era ben diversa l’intima causa del mio malessere.

Omero non amava le città per le quali provava un’ostinata ripulsione.
Dal nostro sbarco ad Ancona egli avrebbe desiderato fermarsi in qualche
angolo remoto delle Marche o dell’Umbria; io non volli rinunziare al
viaggio progettato: Roma mi stava nella mente in fittizie immagini di
sogno.

Dal primo momento in cui l’Urbe ci apparve sotto il mattino, sorta
fra il dissolversi delle nebbie al solicello invernale, non ben
definita ancora ma grande e solenne nella grigia vastità del Lazio;
balzata dall’estrema vôlta dell’orizzonte come il segno dell’ultimo
confine raggiunto dagli uomini, da quel primo momento fu segnato
fra noi un lieve disaccordo chè mentre io godevo nell’ebbrezza di
quell’apparizione, Omero, scuotendo il capo, brontolava su l’inutilità
del viaggio.

Oltre ciò per quanto più difficile sentivo innanzi a me la via, tanto
maggior desiderio avevo di rimaner solo. Quella specie di amichevole
tutela alla quale mi ero sottoposto fin dai primi tempi, finiva
per riuscirmi grave. Ero io dunque sì debole e pauroso da temere le
conseguenze delle azioni che mi fosse piaciuto compiere? E perchè
avrei dovuto sottoporre all’amichevole controllo di Omero ogni mio
atto? Vi sono cose sì gelose del segreto che perdono tutto l’incanto
a comunicarle anche all’amico più intimo. Poi da quando avevo perduto
l’amore di Serenella era in me, assidua, un’aspra volontà di soffrire;
una volontà derivante dall’intima convinzione che il dolore è fonte
di sempre nuove energie. Che avrei fatto a Roma? Non sapevo. In quei
primi giorni non era e non poteva essere nella mente mia una idea ben
definita intorno a ciò; comunque fosse non avrei abbandonata ad ogni
costo la città che mi ardeva nel sangue: là dovevo rintracciare il mio
destino.

Andasse dunque per la sua via l’eterno viatore; io ero stanco del
viaggio; volevo sostare: ci saremmo ritrovati fra qualche anno a Roma o
altrove.

Decisi parlargli all’indomani e sentivo una dolorosa gravezza per
tale colloquio inevitabile. Che avrebbe detto il mio compagno buono?
Probabilmente nulla perchè nelle anime forti il dolore non è loquace;
si sarebbe accontentato di fissarmi intensamente e sarebbe partito
curvo sotto le sue bisacce, senza dirmi addio e senza rivolgersi.

Era discesa la notte e il freddo s’era fatto più intenso; non lo
sentivo se non a tratti, sul viso, quando, per le mal chiuse imposte,
entrava l’impeto della tramontana. Giù, per la via, ogni rumore s’era
quetato; non giungeva che un suono di passi rari e qualche voce a
richiamo. Nella grande casa tutto era tranquillo; anche Cajèla dormiva
chè non si udiva sopra ai nostri capi, il solito trepestio della sua
pena diuturna. Poichè il lucignolo della candela fu presso a spegnersi
mi distesi sul giaciglio a fianco di Omero e la tenebra non turbò con
pensieri tormentosi la mia placida giovinezza che non temeva.

Vi sono tesori di gioia che gli uomini inconsciamente disperdono;
gli uomini che temono il dolore e ne son nati; che si fanno schiavi
della paura e non vedono il piccolo dio, piccolo per noi, fra noi,
ombra immensa negli spazi; il dio che sotto mille forme ci aiuta e si
affatica da anni ed anni, da secoli e millenni per la nostra concordia:
l’amore.




XII.

Homo homini lupus.


Mi levai sul primo fiorire del giorno.

La sera innanzi Omero mi aveva lasciato; ero solo e possedevo ancora
dieciotto lire. Uscii per le vie cantando.

Qualcuno si rivolse a guardarmi, incuriosito dal mio abbigliamento che
non avevo potuto rinnovare stante la discreta povertà di cui godevo.

Portavo il berretto conico di feltro nero che usano a Comacchio, un
abito rattoppato con panno di varii colori e un fazzoletto rosso al
collo; un abbigliamento piuttosto strano. Le guardie mi fissavano con
poco benigna curiosità; comunque fosse poco mi importava di tutto. Il
giorno sereno mi era nel core a simiglianza di una canzone festosa e
accendeva la mia speranza.

Quella giornata d’inverno così bella, come solo ne gode Roma, faceva
allegra tutta la gente. Dai visetti rossi dei bimbi ai gravi volti
degli operai era una gamma di espressioni le quali dal più al meno
riflettevano la luminosità di tutto quel sole. Gli occhi eran lucenti
e da tutti i volti era bandito il fosco pallore sì frequente fra gli
uomini delle città.

Mi diressi verso i quartieri del Macao camminando a buon passo.
L’essere ignoto e solo nella grande città popolosa; il pensare che su
tutti quei volti, indifferenti per me, non avrei potuto riscontrare
un sorriso amico, non mi preoccupava affatto; mi sentivo cittadino del
mondo come i fratelli miei che andavano sotto gli astri e pensavo che,
a dispetto dell’umana pietà, tutti indistintamente giungiamo soli alle
soglie della morte. Tanto valeva, allora! Poi non ho compreso mai la
bestemmia contro il destino. È un’azione sciocca quanto quella, famosa
fra i pescatori nostri, del vecchio Rièl che prendeva le stelle con
le nasse o di quel _fiocinino_ di Comacchio che s’era fitto in capo di
catturare la luna allorchè galleggiava in mezzo alle sterminate lagune.

Camminando cominciai a pensare a quale partito attenermi per provvedere
alla mia vita avvenire. Potevo presentarmi a qualche fabbrica o a
qualche ufficio? Cercare un’occupazione provvisoria come operaio o
come scrivano? Era presto detto; ma chi avrebbe voluto saperne di me?
Da quale parte giungevo? Chi ero? Che avevo fatto fino a quel giorno?
Noi latini amiamo la gente catalogata la quale risponde al suo numero
di matricola. Io ero un disperso. Tutta la mia volontà, tutta la mia
energia e il poco ingegno di cui natura mi aveva fornito non sarebbero
valsi a pormi un grado più innanzi nella considerazione degli uomini.
Avrei odiato raccomandarmi; offrivo il mio lavoro, la mia forza e non
chiedevo l’elemosina. L’umiliazione è patrimonio dei vigliacchi. Con
tali qualità poco si ottiene; lo seppi poi per mia dura esperienza.
Nella maggior parte dei casi chi non possiede non è uomo per chi
possiede: è una cosa; chi non possiede non può tutelare con fermezza la
propria dignità a costo di vedersi abbandonato da tutti. L’orgoglio è
permesso a chi ha una base monetaria. E gli umili si piegano ancora a
codesta schiavitù!

Ordinariamente se non desti pietà o se non hai arti istrioniche ti
lascieranno morir di fame per dire, all’indomani della tua morte, che
eri un vagabondo pericoloso, ammonito varie volte dalla questura.

E allora non pensavo a ribellioni, allora avevo unicamente in capo
l’idea del lavoro.

Traversai Piazza dei Cinquecento sì grande e scomposta come l’incerto
palpito del nuovo cuore di Roma; fui all’Esedra che si apre come un
calice a sommo di via Nazionale e inizia il coro delle fontane in cui
l’Urbe canta il suo eterno rifiorire dal ceppo ferrigno; scesi per la
grande via luminosa che il barocchismo moderno non ha saputo rendere
troppo brutta.

Dunque che avrei potuto fare mai, io che odiavo la pietà e non ero
abbastanza umile per calpestare il mio orgoglio di fronte a coloro
che erano usi a considerare un povero qualcosa di più di un cane e
qualcosa meno di un uomo? Avrei tentato; e se fosse stato inutile ogni
tentativo?

Quantunque l’avvenire mi apparisse oscuro, continuai tranquillo la mia
strada.

Giunto a Piazza Venezia seguii Via del Corso, poi per Piazza Colonna e
Piazza Montecitorio entrai in quel dedalo di viuzze che si distendono
intorno al Pantheon e lo circuiscono come in una inestricabile rete.
Fu in una di queste vie che mi avvenne di imbattermi in una tipografia.
La porta della grande camera nella quale stavano gli operai era aperta
per lasciar entrare la luce. In una vetrina infitta nel muro vicino
alla porta erano esposte pubblicazioni di vario genere: mi fermai ad
osservarle. Un signore era ritto su la soglia della tipografia e di
tanto in tanto mi sbirciava.

Forse lo stupiva la mia lunga sosta innanzi a quei libri, o pensava
ch’io, facendo lo gnorri, mi preparassi a giuocare qualche brutto tiro.
Un uomo vestito male è sempre sospetto.

Comunque fosse, la mia insistenza lo mise evidentemente di malumore.
Entrò, compì un giro nella stanzaccia umida, riuscì, si dette a
camminare in lungo e in largo guardandomi, finchè si soffermò e mi
chiese:

— V’interessa tanto la copertina di quei libri?

— Moltissimo.

— Ma.... sapete leggere?

— So leggere.

— Allora compiterete perchè è da mezz’ora che siete lì.

— Guardo gli operai al lavoro.

Mi volse le spalle e riprese la breve passeggiata dall’interno della
camera alla porta.

In una sosta mi avvicinai e gli chiesi con troppo ingenua semplicità:

— Potrebbe accettarmi quale operaio apprendista?

Il proto che passava allora con un fascio di prove di stampa, udita la
domanda si soffermò a guardarmi: stette un attimo così come a misurare
il peso del nuovo venuto poi se ne andò sorridendo. Molti operai, ritti
innanzi alla loro _cassetta_, volsero il capo. In tutti quegli occhi
vidi chiaramente lo scherno.

Il principale non accennava a rispondermi, pareva non avesse inteso;
con le mani annodate dietro alle reni, sotto il pastrano, si dondolava
lentamente guardando per la via.

— Lavorerei di lena — ripresi avvicinandomi.

— Ma che vuoi? — gridò d’improvviso la brutta bestia.

— Lavorare!

— E credi ch’io abbia tempo da perdere con te?

— Mi pareva che le tue occupazioni del momento non fossero tanto gravi
da farti geloso del tuo tempo — gli risposi impallidendo — E non ti ho
chiesto danaro perchè tu mi risponda da villano!

Mi lanciò un’occhiata minacciosa ma non replicò. Quando ripresi il
cammino, il mal frenato riso degli operai si espanse in un’omerica
risata che mi fu peggiore di un colpo di staffile attraverso la faccia.
E, un tempo, avevo sentito favoleggiare di solidarietà umana!

Fra poveri ci si dilania, questo so per esperienza mia.

Quel primo rifiuto non fu sì amaro da lasciarmi un abbattimento
profondo; scrollai le spalle, tanto mi aspettavo un’accoglienza
simile; ma non volevo che il rimorso del non aver tentato mi turbasse.
Proseguii fino a sera.

Come ogni altro tentativo s’ebbe l’identico risultato ripresi la via
per ritornare alla lurida tana nella quale mi era sì penoso dormire.

Mi trovai in Piazza di Spagna. Giù per via Condotti, per via del
Babbuino le grandi vetrine degli innumerevoli negozi mettevano ogni
tanto nell’aria, leggermente brumosa, larghi sprazzi di luce, veri
torrenti d’oro nei quali le donne si soffermavano volontieri perchè
si sapevano più belle in quell’aureola calda. Più su, contro il cielo
ch’era rosso all’estremo occaso e veniva digradando fino ad assumere un
incerto tono di opale là dove la notte avanzava le sue mani stellari,
più su, le lampade elettriche spandevano il loro chiarore cinereo. La
lieve bruma si accoglieva intorno ad esse formando un alone digradante
nelle più diafane luci d’argento. Da lontano parevano piccoli astri,
gemme lucenti contro il languido smorire del vespero.

Piazza di Spagna era corsa da un fiotto di gente che si incrociava
disperdendosi in tutti i lati. Le vetture trascorrevano fra grida
e imprecazioni. Presi a salire lentamente la grande scalinata della
Trinità dei Monti. Ero stanco e l’attimo era sì dolce! Dai giardini che
accompagnano lateralmente l’ascendere della magnifica scala giungevano
voci e risa di creature in festa; si intravvedevano, tra il fogliame,
piccole stanze vive di luce e di colore, arredate come altari tanti
erano i fiori che le animavano. Mi soffermai appoggiandomi alla
balaustrata per riposarmi nella gioia altrui. Senza invidia, l’anima
mia si dimenticava nell’intima dolcezza di quelle visioni vicine e pur
tanto remote per me che non sarebbe bastato il mare a significarne la
lontananza.

Fra un gruppo di mirti e di palme si apriva una porta a vetri la quale
dava luce ad un salottino arredato in rosso cupo: in fondo, vicino al
pianoforte, era un gruppo di persone; su la porta, tre giovinette e un
vecchio signore conversavano.

Oltre via Condotti, sul termine di via della Fontanella presso
il Tevere, s’intravvedeva un lembo di cielo fatto ancor più vivo
dall’ultimo sole; per la scalinata scendevano o salivano rare persone
a quando a quando. Ebbi l’illusione di trovarmi su qualche ponte
solitario di Comacchio ad attendere l’amica mia che soleva giungere
dal lavoro e stringersi a me in quell’ora ch’è sì triste, e raccontarmi
sorridendo come non avesse pensato mai che l’amore fosse tanto grande.
Ma fu per un niente; il suono del pianoforte si tacque e udii il
cinguettare delle tre signorine. Una fra esse aveva una voce sonora la
quale ricordava, nel riso, una fuga di chiare note squillanti.

Quanto m’era stato grave quel giorno! Sentivo che mi era dolce riposare
così, innanzi a quella visione soavissima perchè non sempre ci si può
difendere dalla triste malia della solitudine.

Prima che il sonno ti colga, nell’ora della stanchezza, trascorse
l’attimo in cui la tua energia morale si assopisce, ti lascia indifeso,
e allora un’interna violenza distruggitrice si scatena, una violenza
beffarda della quale sei l’impossente zimbello. Tutto ti appare cupo;
ti senti mille volte più lontano dalla vita e dagli uomini; il male
che ti ha colpito si raddoppia agli occhi tuoi e così le tue sofferenze
morali; ti senti incapace di ricominciare; la via aspra e infinita ti
spaventa e non hai fiducia nelle tue forze e ridi delle tue speranze
o ne piangi o ti levi bestemmiando. Coloro che hanno cominciato dal
niente ben sanno che cosa siano certe ore di stanchezza. Esse conducono
molte volte al bivio terribile innanzi al quale si sosta con occhi di
follia. Due sono le strade: il suicidio o la prigione.

Non ricordo quanto tempo rimanessi assorto nella contemplazione che
mi riempiva l’anima di soavità. Gli occhi miei entravano furtivamente
nell’intimità della dolce casa ed il mio spirito con loro. A volte un
nulla basta al tuo amore.

Ad un tratto mi avvidi che una fra le tre giovinette mi aveva notato e
diceva alle altre, indicandomi:

— Guardate che brutto tipo!

— Babbo — fece un’altra — mandalo via; è da mezz’ora che è fermo lì, a
guardare!

Come il vecchio signore si mosse, ripresi lentamente a salire verso la
Trinità dei Monti, alta su Roma, a simiglianza di un magnifico altare
sacro al sole occiduo. Ero un intruso e gli intrusi si scacciano, era
giusto; per questo non attesi male parole per riprendere la strada.
Però mi avvidi a tempo che la mia pena tendeva a cambiarsi in femmineo
intenerimento, che dall’anima fiacca tentava sbocciare tutta una
fioritura di mughetterie sentimentali, onde mi dissi:

— Ti imbecillisci, Duccio? — e scrollai le spalle chè la reazione fu
pronta.

— Animo, Duccio della Bella! La terra, arida oggi, avrà le sue messi
domani; animo, il nuovo sole avrà il suo nuovo stormo di allodole che
salirà cantando fin sopra alle nubi. La vita è bella e t’invita e ti
sfugge perchè ti ama!

Dimenticai; è la forza dei poveri dimenticare. Quando ciò non sia non
v’è saldezza giovanile che resista. Non molto tempo dopo ero nella
mia stamberga e mangiavo la parsimoniosa cena che il mio poco bene mi
permetteva.

Per molti altri giorni le cose non mutarono aspetto. Frattanto per la
consuetudine di vita comune avevo conosciuto le donne e gli uomini che
la sorte mi aveva dato a compagni in quella miseria.

Vicino a me, in una stanza che non vedeva luce se non dal corridoio,
per mezzo di un pertugio praticato nell’uscio, abitava una donna su la
cinquantina: la chiamavano Terè. Le sofferenze l’avean resa decrepita
anzitempo. Era alta, magra, ossuta; aveva pochi capelli grigi sparsi a
teghe o ritti in aggrovigliamenti sul cranio sudicio; aveva gli occhi,
quasi bianchi, affondati nelle orbite; il naso adunco; le mascelle
ampie e forti. Parlava a monosillabi. Non l’ho veduta sorridere una
volta.

Passava per il corridoio, seminuda, nell’orrore del suo disfacimento
che dava un brivido di ripugnanza. Le prime volte la credetti pazza
perchè mi guardò fissamente, senza batter ciglio e senza dir parola.
Era una bestia cieca; una lupa immonda che rispondeva unicamente alle
oscure voci dell’istinto.

Nel suo covacciolo teneva rinchiuse due creature che non erano figlie
di lei; le aveva raccolte chi sa dove e chi sa perchè. Una volta,
passando, le vidi ferme su l’uscio. Si tenevano per mano. Erano due
bimbe, una di otto e l’altra di quattro anni. La più grandicella (un
piccolo scheletro rivestito di cenci) aveva tutto il visetto coperto
come da una gromma ed era gialla e le labbra erano simili ad una livida
ferita su quel viso macilento. I capelli biondastri e abbondanti le
scendevano sul volto e l’oscuravano ancor più quel povero volto senza
guance, nel quale si disegnava sporgendo la chiostra dei denti. Come
mi fermai, non si mosse, aveva negli occhi una cupa espressione di
spavento. Disse raggricchiandosi:

— Non mi picchiare! — e mi guardò. Solo gli occhi grandi mettevano un
po’ di luce su quella faccia di spasimo.

La minorella era un niente: un mucchietto di ossa e di pelle che si
reggeva a pena.

Terè teneva racchiuse tutto il giorno nel sudicio antro le due bambine;
non le nutriva se non con un po’ di pane secco, qualche volta, e la
notte usciva con loro. Andava per le vie principali finchè le misere
creature non cadessero stremate dalla stanchezza che le uccideva.
Allora c’era sempre, fra gli uomini, chi gettava il soldo per togliersi
dalla mente quell’orrore. Ma fra i coinquilini di Terè, non uno poneva
attenzione alla cosa. Nella miseria non c’è pietà.

Sopra a me, di fianco, di sotto, fin nelle cantine, erano
ammucchiati uomini, donne e fanciulli promiscuamente. Molti si davano
all’accattonaggio; altri vivevano su la prostituzione delle loro donne;
altri del furto, della rapina, del delitto.

C’era un uomo che viveva solo. Lo chiamavano Tomà. Veniva a dormire
nell’andito su le pietre nude, quando era più freddo, chè alla buona
stagione preferiva le strade. Tutti i giorni prendeva un pane che una
signora gli faceva trovare sopra una finestra di via Palestro e gli
bastava quello. Passava la giornata accosciato vicino alla spalletta
del fiume nel Lungotevere Tordinona e sonnecchiava. Viveva così da
quando gli era morto un figlio, dieci anni prima.

Innanzi agli occhi miei, in quel tempo oscuro della vita mia, il
destino aveva posto questo terribile specchio ed io mi trovavo a
fianco di quegli sciagurati, ero in fondo, nella bolgia comune, con
loro, eppure non mi sentivo vinto. Anche quando tutte le vie parvero
precluse, anche quando mi colse la febbre della fame, non mi dissi
perduto; solo la morte poteva togliermi l’ultima speranza.

Trascorsero giorni oscuri. Il cielo si rannuvolò e piovve senza
tregua. Le vie di Roma erano tramutate in veri pantani. Faceva freddo
e avevo un bello stringermi intorno al collo la sciarpa di lana
(unico indumento invernale che mi avessi), non riuscivo a riscaldarmi
ugualmente. Del mio avere non mi rimanevano che due lire. Ero alle
soglie della fame.

Di ciò che poteva essermi gioia anche in quello stato miserando,
nulla si avverava. Avevo scritto più volte a Serenella senza ottenerne
risposta. Quale nuova sciagura le era toccata perchè dovesse starsi
tanto muta? S’ella conosceva la mia lotta miseranda e vedeva che non
la dimenticavo perchè non aveva per me una parola buona? Era in quei
giorni la faccia del mio destino, come un sole oscurato. Scendevo verso
i muti ipogei della vita.

L’ultima volta che rientrai in casa con l’ultimo pane, era notte. Mi
ero attardato per le vie perchè un uomo ricco, direttore di un grande
stabilimento industriale, avendo saputo ch’io era suo conterraneo mi
aveva detto:

— Chi sa? Ritornate. — E per non so quante volte, facendomi attendere
ore ed ore in anticamera, mi aveva fatto ritornare per dirmi poi:

— Mi dispiace molto; per ora proprio non è possibile; ma nell’avvenire
non mi dimenticherò di voi.

— Ciò che in termini espliciti voleva dire: Ho altro per il capo;
lasciatemi in pace. Gli avevo volto le spalle senza salutarlo e con gli
ultimi due soldi (perchè mai i re e gli imperatori serberanno il gusto
di farsi maledire in effige, sugli sporchi dischetti di metallo che
segnano il limite dell’estrema miseria?) avevo comprato un pane.

Quando giunsi nell’andito oscuro della mia abitazione, trovai, come
al solito, sdraiato vicino al muro, sui mattoni umidicci, Tomà. Non
dormiva, era adagiato sopra un fianco e teneva gli occhi aperti e
fissi in un punto che non distinguevo bene. Gli augurai la buona sera.
Rispose:

— Spingi in qua quella cicca.

— Dov’è?

— Vicino a’ tuoi piedi; non pestarla.

Quando l’ebbe a portata di mano, la raccolse senza muoversi,
l’inghiottì e chiuse gli occhi soddisfatto. Per quella notte poteva
dormire senza curarsi del freddo e dell’umidità.

Più innanzi, ai piedi delle scale, trovai un gruppo d’uomini. Parlavano
sottovoce. L’uno d’essi reggeva una lanterna onde potei distinguere i
componenti l’oscura accolta. Molti erano miei coinquilini. C’era Marco,
un giovinastro di venticinque anni conosciuto in tutta la contrada,
e dalla polizia, col nomignolo di Sciupô. Era una pallida faccia di
delinquente, dagli zigomi forti, dagli occhi leggermente obliqui in
cui folgoreggiava a volte una fredda crudeltà felina; viveva sul turpe
mercato di una sua povera donna che lo amava con la fedeltà di una
bestia. C’era Ghetano, il ciabattino che abitava nelle cantine alle
quali si scendeva dal cortile; un uomo dalla faccia fosca, irta di
peli. Doveva provvedere a sette piccoli figli ed alla moglie che era
epilettica. E vidi Righetto, l’accattone; Nino, il fratello di Cajèla e
Matteo Adeva. Quest’ultimo reggeva la lanterna e pareva presiedesse il
colloquio.

Quando passai tutti tacquero e si trassero in disparte. Udii la voce di
Matteo sussurrare:

— Io lo conosco; non può esser dei nostri.

— Perchè? — chiese qualcuno.

— È onesto — rispose Matteo Adeva. Si levò un riso beffardo, subito
spento. Quando fui a sommo delle scale la piccola luce della lanterna
era scomparsa.

Con l’alba del nuovo giorno, uscii; pioveva sempre. Era freddo e
grigio. Roma era tutta uguale come il cielo e le vie fangose. Cominciai
il mio andare pensando a qualche espediente per vivere. Mi accorsi di
avere esaurite tutte le mie risorse. La mente era ottusa nè sapeva
suggerirmi una via d’uscita. Avevo tentato tutti i mezzi di cui
disponevo. Che poteva rimanermi? Allora un’ansia insensata, una folle
febbre mi spinse per le vie più popolose: qualcosa forse mi sarebbe
capitato ch’io non pensavo, chi sa? Girai sotto alla pioggia guardando
tutto e tutti, in un’attesa febbrile. Il mio viso doveva esser troppo
pallido e stravolto e gli occhi miei troppo fissi se due guardie
si fermarono a guardarmi più volte e mi seguirono per buon tratto.
Mi lasciarono in pace; videro forse che la fame mi conduceva così
braccando follemente, in cerca del caso.

Non era smarrimento il mio, era febbre d’agire chè temevo essere vinto
dall’inerzia del costretto vagabondaggio.

A mezzogiorno avevo percorso venti volte Via Nazionale e Via del
Corso. La gente rincasava chè ognuno aveva il suo desco pronto. Entrai
in una chiesa e mi sedetti nell’angolo più oscuro. Non c’era anima
viva. Appoggiai la fronte su la spalliera dell’inginocchiatoio che mi
stava innanzi e stetti così non so quanto tempo. Udivo il monotono
pianto dell’acqua che sgrondava; udivo il crepitio di un tarlo nel
confessionale che mi stava a lato e null’altro: la grande chiesa
era muta e buia come il suo dio macchinoso. La fame non mi tormentò,
mi lasciò tranquillo per allora; ma non così la febbre che mi aveva
sospinto per le vie di Roma.

Perchè sostavo? Ogni minuto d’inerzia mi allontanava sempre più dalla
possibilità del lavoro; ma dove sarei andato a quell’ora? Dove avrei
bussato? A chi mi sarei rivolto? Bisognava attendere, non era possibile
che nessuno, proprio nessuno avesse voluto accogliermi; c’è sempre chi
sa leggere negli occhi di un uomo la sincerità.

E se anche per quel giorno?... Se tutto fosse stato inutile?

Ecco, io sentivo le mie vene battere rapidamente alle tempie e ai
polsi; sentivo salire il mio affanno, crescere, salire come in una
soffocazione; il respiro mi si faceva difficile, un tremito nervoso
mi scuoteva tutto, e il silenzio, l’oscurità della chiesa aumentavano
quel tormento. Ah! chi conosce che sia la febbre dell’attesa, quando la
disperazione è alle soglie dell’anima vostra; chi conosce che sia il
timoroso martirio di non riuscire anche nelle prove estreme, sa bene
ch’io racconto il vero. I più forti fra gli uomini sono passati per
l’atroce minuto del dubbio: v’è un attimo in cui il timore vi aggioga
e guai a chi non ha spalle salde per digiogarsi e sorgere vittorioso in
un grido.

Come mi riusciva intollerabile la sosta, mi levai. Uscii dalla chiesa
che pioveva a dirotto e ripresi il cammino. Passarono le due, le tre,
cominciava a scurire e la mia pena non aveva tregua; fui cacciato da
due magazzini nei quali entrai per offrirmi.

— Non c’è posto! — mi gridarono.

— Esci che ci bagni, con tutta quell’acqua che porti a spasso!

— Vattene!

E uscivo scacciato, come un cane randagio, come una cosa inutile, che
deve marcire in mezzo alla strada. Stretti i denti per l’ira repressa,
andavo oltre, sempre più oltre verso la notte. La fame cominciava a
mordermi. Debbo pur trovare — dicevo tra me: — tutta questa gente
nutre le bestie e non ha un pane da dare a un cristiano! — Di via
in via, dove c’era più luce, dove c’era più gente mi affrettavo col
capo proteso alla ricerca affannosa. La pioggia mi aveva immollato
in sì malo modo che, a quando a quando, improvvisi brividi di freddo
mi scuotevano dandomi la sensazione di dover cadere dallo sfinimento.
Tre volte mi appoggiai al muro e ristetti qualche attimo, in via della
Propaganda, dove giunsi quando già qualche negozio si chiudeva.

Non so come mi trovai su la soglia di un grande magazzino, ricordo che
un omaccione mi venne incontro e mi chiese con voce rude:

— Che cerchi?

— Cerco lavoro — risposi. — Farò ciò che volete, anche il facchino.

— A quest’ora vieni, vagabondo?

— Non mi mandate via — ripresi, e gli avrei dato metà del mio sangue
per una parola buona — mi accontento di poco.... qualche lira... tanto
che mi basti per vivere!

— Ma da dove vieni? — chiese l’enorme microcefalo dagli occhi suini —
da dove vieni che sei così molle?

— Vengo dalla strada dove mi hanno ricacciato tutti. Non mi mandate
via, farò ciò che vorrete!

La gran bestia che d’umano aveva solo la stupida crudeltà, mi guardò
dall’alto al basso come a misurarmi, sorrise scrollando il capo e
disse:

— Vattene, vattene; non saprei che farmene di te.

La rivolta repressa si appalesò nel mio sguardo minaccioso. L’omaccione
si oscurò subito in viso e gridò:

— Ehi! Ti ho detto di andartene, non intendi?

— Ma debbo dunque morire di fame? — gridai a mia volta — Vuoi ch’io
adoperi il coltello per non morire?

Fui respinto nella strada dove caddi fra il fango. Mi rialzai folle
d’ira e feci per lanciarmi, ma quattro braccia forti mi trattennero,
mi strapparono via, mi spinsero innanzi a punzoni nei lombi sì da farmi
perdere il respiro. Era la società che interveniva. Udii i fischi e le
risa di coloro che avevano assistito alla scena.

Qualche ora dopo mi rannicchiavo tutto nel mio misero giaciglio di
cenci e battevo i denti per la febbre.

E il secondo giorno trascorse come il primo, fu terribile e muto,
m’arse nel sangue come un consumamento. Non parlai una volta. La fame
stringeva gli aspri suoi nodi, allungava le adunche mani a lacerare
le viscere insaziate; mi seguiva per instillarmi nel cervello i suoi
foschi suggerimenti: — C’è chi ha troppo... Togli! Togli! Togli! —
Mi sorpresi due volte con le mani tremanti dinanzi alla mostra di un
fornaio e per due volte inghiottii la saliva amara e continuai la mia
strada.

Quando annottò mi trovai alla stazione centrale. Il cielo s’era fatto
sereno e l’aria più mite. Attesi perchè molti altri attendevano; stetti
in disparte. Giunse un treno; una fiumana di gente si riversò sul
piazzale della stazione.

Vidi un signore venire verso me recando due valige; mi avvicinai come
facevano gli altri; chiesi:

— Vuole gliele porti?

— Non occorre — rispose.

Lo seguii per qualche passo ancora:

— Mi darà due soldi — ripresi e mi tolsi il berretto.

Il signore si soffermò a guardarmi.

— Prendi — mormorò porgendomi una valigia. Poi:

— Hai fame? — soggiunse.

— Ho fame.

— Quanti anni hai?

— Venticinque.

— E perchè non lavori?

— Signore, è più di un mese che cerco e tutti mi scacciano.

— Domani alle due, vieni in via della Mercede, numero venti.

— Grazie, signore, verrò.

Non avevo fatto cinque passi che udii una rapida corsa e alcune voci
che gridavano:

— Ladro, ci ruba il mestiere! Ladro, ci ruba il mestiere!

Fui preso in mezzo da molti forsennati che mi strapparono la valigia,
mi malmenarono, mi gettarono a terra e per la seconda volta, a tutta
difesa, fui condotto in questura.

Quando caddi, stremato di forze ormai, sul mio giaciglio, mi dissi:

— Duccio, è venuta l’ora; preparati nel nome di tua madre chè domani
avrai le quattro assi benedette e ti porteranno via!...

Poi mi strinsi la gola con la coltre perchè non volevo piangere, non
volevo aver paura; mi raccolsi in un muto addio al sole, alla vita,
agli uomini che amavo; in un muto addio all’amica lontana che non avrei
riveduto mai più! E strinsi gli occhi, strinsi le labbra perchè non
volevo piangere finchè mi potessi. Ad un tratto mi sentii venir meno ed
ogni pensiero illanguidendo svanì. Era il sonno dello sfinimento.

All’indomani, quando riapersi gli occhi, vicino al mio giaciglio trovai
un pane caldo e una ciotola di vino.




XIII.

L’inattesa.


Le avevo imposte le mani su le tempie e lentamente, sorridendo, le
ripiegavo il capo all’indietro sì che la bianca gola rimaneva tutta
scoperta e tremante nel palpito del riso. Veduto così di scorcio quel
visetto di bimba e di madonna acquistava una grazia tutta nuova. Le
lievi sinuosità della bocca dischiusa, il tremito delle piccole narici
rosee, la luminosità degli occhi leggermente arrovesciati, la bianca
purezza della fronte e l’ombra che il labbro inferiore poneva a sommo
del mento là dove è più dolce sostare nella carezza del bacio, me lo
rendevano sì nuovo e sì bello, ch’ebbi una improvvisa esclamazione
ammirativa.

— Ti piaccio? — chiese ella sorridendo nella gioia di sapersi tanto
amata.

— Più di tutto mi piaci! Io non so che farei per te, amore!

E come protendevo il capo a baciarla, ella si schermiva scherzando:

— No.... non ancora.... no!...

Eravamo in un giardino, a Ravenna, e mi pareva fosse tempo di
primavera. Serenella aveva una veste vermiglia; reggeva un ramo di
mirto e la chioma le ombrava le spalle. Il sole aveva superato a
pena le siepi dell’orto e si attardava fra le rame in fiore delle
alberelle. Udivamo un’allodola cantare in alto in alto, forse da un
cirro d’argento, da una ghirlandella d’argento nell’azzurrità e tutto,
in quel puro lacero di luce mattinale, in quel santo rinnovare della
primavera, era ineffabilmente soave. E ancora: Ravenna scompariva,
tramontava con tutte le sue torri nell’aurea nebbia del sole e il
piccolo orto era cinto di luce, era cinto di mare e seguiva la via
d’oro dell’oriente.

— Ora siam soli — diceva Serenella — ora sì!...

E mentre si abbandonava, reclinando su la mia spalla il bel viso
fiorito come una maraviglia alabastrina dalla veste vermiglia, udivo
sempre più forte, sempre più tenuto il canto dell’allodola mattulina;
non aveva più trilli, non aveva più gorgheggi nè soste, nè riprese, nè
salti, nè squilli; si faceva uniforme, cresceva d’intensità fondendosi
in un suono sonoro che parea scendesse da distanze incommensurate. E
mentre Serenella si stringeva contro al mio petto per richiamarmi a sè;
mentre negli occhi di lei vedevo il pensoso languore della tristezza,
non so per quale inesplicabile fascino, per quale misteriosa malìa
quel suono che giungeva dall’infinito, tenesse avvinta l’anima mia
ineluttabilmente. Ecco mi allontanavo. L’isola primaverile scompariva,
era dileguata come un bioccolo di nebbia sul mare e il suono era
vicino, continuo, sempre più forte.

Balzai sul giaciglio, stetti un attimo in ascolto per riprendere
coscienza e gettai le coltri da un lato. La sirena dello stabilimento
suonava la diana del lavoro, forse era tardi; le altre mattine ero già
in istrada a quell’ora. Il sonno mi aveva vinto.

— Se l’ho sognata — pensai — qualche notizia potrebbe essere vicina!

E mi compiacqui trarre dal sogno lieti presentimenti.

Ad un tratto qualcuno picchiò sommessamente all’uscio:

— Avanti! — gridai.

L’uscio si dischiuse e, nel vano, apparve Dora, la maggiore fra le due
bimbe che la mia vecchia vicina faceva lentamente morire.

Eravamo diventati buoni amici perchè ogni sera, di nascosto le portavo
un pane.

Sì come mi guardava silenziosamente, le chiesi:

— Che vuoi?

— Ieri sera una donna è venuta a cercarti — rispose.

— Una donna? E che voleva?

— Niente.

— Ha parlato con te?

— Sì.

— Che cosa ti ha detto?

— Ha chiesto se tu abitavi qui.

— E poi?

— E poi ha chiesto se stavi bene.

— Era giovane?

— Non lo so.

— Non l’hai guardata in faccia?

— No.

— E non ti ha detto chi fosse? Non sai il suo nome?

— No.

— Eri sola?

— C’era anche la mia sorella.

— E nel corridoio non c’era nessuno?

— Nessuno.

— È andata via subito?

— Sì. È venuta a guardare nella tua stanza poi è partita.

— Era aperta la porta della mia camera?

— Sì, non l’avevi chiusa, ma la guardavo io.

— E non sai dirmi neppure se era giovane?

— Era una donna — rispose Dora chinando gli occhi, evidentemente
umiliata dal non ritrovare una risposta che mi soddisfacesse. Le
accarezzai il povero visuccio sparuto ed ella, illuminandosi tutta di
un sorriso, mi alzò in volto gli occhi lucenti.

— Non sei inquieto con me?

— No; ma se ritorna, vieni a chiamarmi subito.

— E se non posso?

— Perchè non devi potere?

— Se la mamma mi chiude al buio?

— Allora non importa. Sta attenta però se qualcuno cerca di me.

— Sì — rispose Dora.

— Addio.

— Addio.

Rinchiuse l’uscio e scomparve.

Poco appresso mi dirigevo verso via Flaminia, al magazzino.

Ciò che m’aveva detto Dora mi s’era fitto in mente come un quesito
difficile, alla soluzione del quale mi affaticavo invano, chè non mi
veniva fatto supporre quale donna mai avesse potuto cercare di me a
Roma, dove non conoscevo nessuno.

Già m’era rimasto inesplicabile il fatto dell’aver trovato io, alla
terza mattina del triste digiuno, un pane caldo ed una ciotola di
vino accanto al mio giaciglio. Per quanto avessi interrogato i vicini,
nessuno aveva saputo dirmi la benchè minima parola atta a mettermi su
le tracce dell’ignoto benefattore. Che pensarne adunque? Qualcuno aveva
dovuto introdursi nella camera approfittando del mio sonno, e siccome
il pane da me raccolto era caldo ancora, non doveva essere trascorso
lungo tempo dalla visita dell’ignoto, al mio risvegliarmi; possibile
che non uno fra i tanti inquilini di quella casa avesse potuto
vederlo s’egli evidentemente era entrato ed uscito a giorno pieno?
Il fantasticare m’era inutile sì che avevo messo il cuore in pace per
il momento, attendendo occasione più propizia; ma ora, a incuriosirmi
vieppiù, si aggiungeva la comparsa di una donna la quale aveva voluto
sapere e della mia vita e della mia salute.

Qualche giorno prima Matteo Adeva, incontrandomi in Piazza dei
Cinquecento, mi aveva salutato con una frase ambigua:

— Sta attento ragazzo chè qualcuno è su le tue peste!

Ora questi avvenimenti, ricollegati, si presentavano alla mente mia
cercando invano una soluzione.

Proseguivo per la viuzza chiusa da un lato da Villa Borghese e
dall’altro dalle antiche Mura.

Il sole, passando fra i pini e gli abeti della Villa, giungeva a
chiazze sui grandi bastioni del Sangallo traendone una vivacità di
colori roggi che armonizzava dolcemente col verde cupo delle vecchie
conifere solenni. Andavo a fretta col capo chino allorchè udii dietro
me una voce che gridava:

— Aspetta, non correre!

Mi volsi e vidi Matteo Adeva il quale mi faceva cenno perchè mi
fermassi.

Il nuovo incontro non mi piacque affatto tantochè dimostrai con troppa
evidenza il mio malumore se, quando mi fu vicino, Adeva soggiunse:

— Non fare lo sdegnoso, vecchio principe, chè debbo parlarti di cose
che ti interesseranno.

Mi si pose a lato e scendemmo insieme verso Porta del Popolo.

Come vidi che continuava a sbirciarmi senza far parola, chiesi in tono
irritato:

— Perchè mi guardi? È tutto questo che dovevi dirmi?

— Ti guardo perchè mi piace vedere come è fatto uno straccione onesto!

Sostò un attimo, poi riprese strizzando un occhio:

— Ma sei ben sicuro di essere stato sempre onesto?

— Che vuoi dire? — chiesi soffermandomi.

— E non t’offendere! Quando si portano queste tue scarpe affamate non
si ha il diritto di essere tanto orgogliosi! Del resto io sono qui per
renderti un servizio.

— Davvero? E che vantaggio puoi averne?

— Nessuno. Io sono un grande ammiratore dell’onestà e voglio esserti
utile, ecco tutto. Il direttore del mio Circo diceva sempre che non
si vive di solo pane e, per dimostrarcelo, ci faceva tirare innanzi a
forza di legnate. Anche le bestie avevano imparato la sua massima. Era
un uomo di cuore. Si chiamava Yames Matulka ed era nato un po’ in tutti
i paesi. Dunque, siccome io ti ammiro, voglio che tu mi sia grato.

— Vediamo — risposi.

Matteo Adeva si fermò e abbassando la voce mi chiese:

— Conosci Anna Dia?

— No.

— Anna Dia, come vedrai dal nome, è una donna ed ha la vista lunga.

— E poi?

— E poi Anna Dia ti conosce.

— È il vino bevuto iersera che ti fa parlar così? — chiesi facendo
l’atto di andarmene.

— Aspetta — riprese Adeva trattenendomi per un braccio — non t’ho
detto tutto! Sei un convulsionario. Calmati. Il mio discorso dovrebbe
interessarti.

— Non ho tempo da perdere. Spicciati.

— Il principale può attenderti. Domani molto probabilmente lo
pianterai. Dunque Anna Dia ha saputo che ti chiami Duccio della Bella
ed ha saputo che sei giunto a Roma con un compagno il quale si è
eclissato.

— Sa anche dove sia?

— Sì, ma ciò non ti riguarda.

Infilò le mani nelle tasche della sottoveste, poi mi chiese con aria
sorniona, chinando il capo:

— Di’ un po’, prima di venire a Roma dov’eri?

— Non lo sai?

— No.

— Ero a Milano.

— Bravo, eri a Comacchio. E... non ti ricordi la ragione per la quale
sei fuggito?

— Se tu sei informato tanto bene, puoi parlar chiaro perchè la mia
coscienza è tranquilla.

— Anna Dia — riprese Matteo — è una povera vecchia che ha bisogno de’
suoi avventori. Ella mi manda da te per dirti che vuol fare un patto.

— E quale?

— Ascolta con calma e non interrompermi.

Riprendemmo il cammino soffermandoci a quando a quando.

— Tu sei un giovane di intelligenza più di tutti noi. Tu conosci
le lettere; so anche questo. Ora una mercanzia par tua può essere
utilissima, anzi in questo momento è indispensabile. Ascolta: servizio
per servizio. La questura è su le tue tracce; ti si incolpa di aver
partecipato a un assassinio....

— Io?... — gridai scattando.

— Calmati, che c’è mai di male? — riprese Matteo col suo cinismo che mi
agghiacciava. — Capirai, in certi momenti bisogna agire e si può passar
la misura. Nel tuo caso poi, se tu non eri più pronto, ci rimettevi
la pelle. Aspetta... lasciami finire... non sarà così, va bene; ma la
giustizia è persuasa di ciò che ti ho detto e tu potresti parlare sette
anni senza farle pensare il contrario. Dunque sei ricercato; potrebbe
darsi che questa sera stessa ti conducessero a _Domo Petri_ e allora
addio Duccio della Bella! La tua sorte è segnata. Non ti rimane che una
via d’uscita: ascoltare ciò che vorrà dirti Anna Dia.

— Ma chi è questa donna?

— Può tutto! Ti basti sapere questo. Ha molte amicizie in alto, dove è
il deposito delle manette. Ella conosce la tua vita e può far di te ciò
che vuole.

— Ma che può fare, in nome di Dio! — gridai rivoltato da tutto quel
luridume. — Diglielo dunque a questa tua vecchia spia, dille che mi
denunzi! Io non temo nè lei, nè la legge. Ed ora lasciami in pace.

— Non fare il cocciuto. Questa notte, alle dieci, ti aspetto al Vicolo
della Reginella. Mi vedrai fermo innanzi ad una porta. Bada che, se
rifiuti, ti perderai per sempre!

Ripresi il cammino senza rivolgermi, quasi a corsa, in preda ad un
turbamento che mi avvelenava la dolcezza del giorno sereno.

L’anima bieca aveva insinuato in me il martirio del dubbio. Sapevo
ormai quale povera cosa fosse per gli uomini un disperso par mio e
sapevo che la verità non mi sarebbe valsa a nulla contro la società
coalizzata la quale mi avrebbe giudicato con tutte le prevenzioni
che sono un suo sacro patrimonio di difesa contro i reietti. La mia
innocenza ed il mio sdegno sarebbero stati contro di me per aggravarmi
la pena.

Le nostre tracce non erano affatto cancellate se Matteo Adeva conosceva
il mio passato. Ciò ch’egli aveva detto poteva avverarsi.

Quando giunsi al grande magazzino di ferramenta in cui, per bontà
dell’ignoto signore al quale avevo tentato portar le valige alla
stazione, ero entrato in qualità di commesso, i compagni mi dissero che
il direttore mi attendeva al suo banco. Andai che l’emozione mi teneva
alla gola; possibile ch’io dovessi ricominciare la terribile strada
percorsa?

Giunsi alla scrivania su la quale stava reclina la testa calva del
nostro signor capo e attesi alquanti minuti senza che la burocratica
solennità degnasse fare attenzione alla mia presenza; levò poi
lentamente gli occhi e mi chiese:

— Che volete?

— Mi hanno detto ch’ella desiderava parlarmi.

— Come vi chiamate?

— Duccio della Bella.

— Ah Duccio della Bella!.... — Si passò una mano sul cranio calvo quasi
a ridestarvi l’incerta memoria e riprese — Già, voi siete Duccio della
Bella.... il signor Della Bella.... ho cattive nuove sul vostro conto!

— Da qual parte?

— Da un mio informatore privato.

— Non potranno essere che calunnie!

— Non vi ho chiamato per ascoltare le vostre difese; d’altra parte
non vi ho accusato ancora. Volevo dirvi solo di stare in guardia chè,
se tali informazioni si ripetessero, sarei costretto prendere seri
provvedimenti.

Riabbassò la grossa testa su le sudicie carte e riprese il lavoro.

— Posso andarmene? — chiesi dopo aver atteso qualche tempo.

— Andate — grugnì la testa calva.

Mi sentii un poco più tranquillo chè la tempesta pronosticata non mi
aveva travolto. Fu alla sera, nel silenzio della mia stamberga, che
l’ansia dell’ignoto mi riprese più che mai tormentosa.

Quando ebbi accesa la candela mi venne fatto vedere sul muro, sopra
al mio giaciglio, come un seguito di parole tracciate con incerta
scrittura.

Mi appressai e la frase che lessi mi fece dare un improvviso balzo al
cuore. Diceva:

_Serenella è qui._




XIV.

Nella suburra.


Il solo nome di lei fece sì ch’io dimenticassi la mia nuova disgrazia.
Una subita gioia, una forza, un ardire inusitati accelerarono il
palpito delle mie vene; mi sentii disposto a tutto purchè l’amica mia
fosse vicina a me. Chi poteva aver tracciato il nome di lei sul muro?
Chi era entrato nella mia camera? Uscii per interrogare Dora; la trovai
su la porta del suo stambugio.

Come stavo per parlarle, udii la sua voce lamentosa.

— La mamma sta male — disse Dora quasi a risposta della muta domanda
ch’era negli occhi miei.

— E da quando?

— Questa mattina è caduta e non si è alzata più.

Diceva tutto ciò con voce tranquilla e senza commovimento come se la
cosa non la riguardasse.

— Si rotola per la camera — soggiunse.

— È venuto il dottore a vederla?

— Non lo so.

— Ed ora è sola?

— No, c’è Cajèla e c’è anche Cirifischio.

— Chi è Cirifischio?

— È l’uomo che ci bastona.

Pronunziata l’ultima frase, abbassò il capo.

— È venuto qualcuno a cercarmi, oggi? — chiesi dopo una pausa.

— Sì.

— E chi è venuto?

— Un uomo.

— C’era stato mai?

— No.

— Gli hai parlato?

— Gli ho chiesto che cosa voleva, ma non mi ha risposto. È entrato in
camera tua.

— Lo hai seguito?

— Sì.

— E che ha fatto?

— Ha messo sul tavolo un involtino e poi si è seduto sul letto.

— È rimasto molto tempo in camera mia?

— Io non lo so perchè Cirifischio è venuto a prendermi e mi ha
picchiato.

Le detti il pane consueto e mi allontanai chè volevo accertarmi se ciò
che aveva detto era vero.

Trovai infatti, nella mia oscura tana, la lettera annunziata. Ne
strappai la busta e lessi:

— Vieni al vicolo della Reginella; al N. 25. Sarà per il tuo
meglio. —

Non c’era firma. La scrittura era incerta come quella tracciata sul
muro. Nessun dubbio adunque, la stessa persona che mi aveva annunciato
l’arrivo di Serenella mi consigliava di intervenire all’appuntamento
equivoco che m’era stato imposto. Un solo uomo era entrato in camera
mia, uno sconosciuto, forse Adeva stesso. Ma che poteva esservi di
comune fra Serenella e il malvivente che me ne annunciava l’arrivo?
Possibile mai ch’ella, per l’inesperienza sua fosse vittima dei figli
della suburra? O non era piuttosto un’abile finzione architettata ad
arte per gettare il turbamento nell’anima mia?

Stavo perplesso senza sapere a qual partito appigliarmi. Una terribile
dubbiosità mi agitava, ed impeti d’ira e angosciosi timori e ironiche
denegazioni si succedevano in me a volta a volta.

Poi il solo pensiero ch’ella potesse esser caduta nella suburra mi fece
risoluto ad un tratto onde quasi a corsa, scesi le scale e fui per la
via.

Era già notte. In Via Nazionale mi soffermai su la porta di un caffè
per saper l’ora; mancavano pochi minuti all’ora stabilita per il
convegno. Ripresi il cammino frettolosamente.

E pensai a Serenella, alla mia dolce capinera ch’io amavo quanto
il sole, e alla quale di tutta la mia giovinezza, di tutta la mia
intelligenza avevo fatto un altare perchè l’anima bella di lei vi
gioisse solitaria. Così l’erba stella copre le arene della landa per
animare il sogno del suo fiore vermiglio.

Il pensiero ch’ella fosse a pochi passi da me, che avesse compiuto e
chi sa come, il viaggio per la città della quale si parlava come di
cosa tanto remota, laggiù, a Comacchio, mi empiva di ebbrezza. L’amore
l’aveva guidata. Il compagno pensoso ed assiduo dagli occhi sereni le
aveva insegnato la via. Cammina, cammina, egli ti aspetta e soffre; tu
gli sarai come una rugiada, gli sarai come un’ombra. Nella vita triste
la sua forza si consuma; cammina, amica bella, quando questa tua età
sarà spenta non avrai altra gioia se perdi l’amico tuo, l’onda che
ti segue per morire con te su le arene. Sarete come due solchi che al
confine del campo si uniscono, come due stelle che scendono dall’ignoto
a convergere in un punto, prima che l’ignoto le riprenda. Altre ne
sono state, altre ne saranno nei profondi gurgiti dell’infinito; ma nel
miracolo di gioia vive l’Iddio che tu hai nel cuore, piccola bella vive
l’anima tua che non consuma ma passa fra le due ombre di questa vita
come la stella nelle notti estive. Cammina: se i tuoi piccoli piedi
sanguineranno egli te li bacierà piangendo; se arriverai esausta le sue
braccia forti ti sorreggeranno; se tremerai tutta per il freddo egli ti
riscalderà co’ suoi baci. Io ti guido, io ti comando, Serenella, io che
sono l’amore!

Ah! ben sentivo che l’avrei recata alta su le braccia in mezzo a mille;
sentivo che nessuno me l’avrebbe tolta fra gli uomini, sentivo che
l’avrei salvata dalla loro volgarità bruta, anche se avessi dovuto
coprirla, morta, del mio corpo morto.

E se tutto ciò non era? S’ella attendeva tuttavia nel suo piccolo nido
fra le acque il mio ritorno? S’io fossi stato zimbello di un inganno?
Eppure qualcuno doveva essere giunto di laggiù per parlare. Di Omero
non sospettai; a quell’ora Omero viaggiava per terre ignote.

Tutto l’inesplicabile nel quale da qualche settimana mi trovavo
perduto, mi dava una tormentosa ansietà dalla quale volevo liberarmi ad
ogni costo. Se il destino voleva respingermi nella tenebra era inutile
ribellarsi al destino. Fra poco avrei avuto il bandolo dell’intrico.

Trascorsi per le vie popolose lungo le quali le lampade elettriche
distendono la loro tenue alba perlacea; m’internai, passata piazza
Venezia, per un labirinto di piccole strade e di vicoli in cui la luce
diminuiva sempre più. C’erano case dagli altissimi muri, mute di ogni
suono. Da qualche porta socchiusa si intravvedevano lunghi anditi nei
quali una lucernetta poneva un fioco chiarore sanguigno; e il frastuono
delle vie che non conoscon sonno, si allontanava dileguando. Qualche
raro stropiccìo di passi, un’ombra che scivolava sotto l’aureola
luminosa di un fanale, il secco rinchiudersi di una porta, una voce
udita a traverso una finestra chiusa, la eco di un canto bacchico
svelavano a mano a mano un’altra anima della grande città: l’anima
triste che la miseria costringe nell’ombra. I vicoli si facevan sempre
più angusti, sempre più bui; c’era sentore di umidiccio; parevano antri
sotterranei.

Affrettai il passo. Faceva freddo. La tramontana si ingolfava ululando
per quei laberinti di piccole vene e agitava le scarse fiammelle dei
fanali sollevando un popolo di ombre che la notte travolgeva.

Dietro una porta, chiusa da un cancello di ferro, mi parve
intravvedere, al bagliore che usciva da una stanza vicina di cui
l’uscio era dischiuso, una forma umana; mi soffermai avvicinandomi.

— Che vuoi? — chiese una voce roca.

Intravvidi una vecchia tutt’avvolta in uno scialle nero. Si levò
biascicando:

— Vuoi entrare?

Mentre mi allontanavo udii giungere dall’interno della casa un tumulto
di imprecazioni, di risa e di minacce. Erano le voci del vizio,
affiochite, chioccie, singultanti, che hanno qualcosa del grugnito
e del ruggito; voci senza età e senza sesso per le quali si appalesa
l’estremo abbrutimento della miseria e della turpitudine. La vecchia
ascoltò alquanto, poi ricadde a sedere bestemmiando.

Provai all’improvviso un senso di rivolta per il cieco destino che
mi trascinava laggiù in quella bolgia umana dove si dimentica il
sole, dove fra digiuni e orgiastiche ebbrezze la vita inacerbisce e
rapidamente disfiora. Era la tana della grande città più che millenne,
l’immonda tana degli _humiliores_, dei miserabili che Roma imperiale
faceva ardere sui roghi, per rendere più viva ed intensa la catastrofe
di un’azione tragica.

Fanciulli e vecchi, giovinette e donne si addensavan laggiù in una
orribile promiscuità, senza legge nè freno alle loro bestiali voglie;
ciechi ed ignari di ogni umana gentilezza. Da quei giacigli in cui la
foja non spegne la fame, si leva la ferocia dagli occhi foschi e spia
il momento in cui la società barcolli per brandire la scure e lanciarsi
in un orribile grido alla miseranda rovina.

La civiltà non vede l’ombra bieca della barbarie che la guata dal buio
e non pensa che s’ella si scatena, il popolo tutto la seguirà per la
mala ebbrezza del sangue.

Proseguii guardando attentamente chè non sapevo in qual luogo preciso
Matteo Adeva mi attendesse. Nonostante il freddo intenso, seduta su
gli scalini di una porta vidi una donna. Stava col capo fra le mani e i
gomiti appoggiati su le ginocchia. Aveva uno scialletto di lana che le
avvolgeva le spalle; una vestaglia di raso giallo, tutta sdruscita, le
copriva la persona disfatta.

Quando passai levò un poco la fronte, mi fe’ cenno col capo perchè
la seguissi e, ad un mio diniego, ricadde nel suo abbrutimento senza
pensiero, senza dolore; tacque tutta chiusa ne’ suoi pochi istinti,
unica forza dell’anima semispenta.

Poco dopo due uomini ebbri le si avvicinarono berciando e la coprirono
di ogni contumelia e la percossero e le sputarono sul viso; ella rimase
accosciata su la lurida soglia, la testa china fra le palme; stette in
una taciturnità di vecchia brenna usa agli urli e alle percosse, senza
una ribellione contro coloro che la dileggiavano ora, dimentichi di
averla voluta così.

Nella vita dei secoli un uomo solo ebbe coscienza e pietà di simile
miseria e fu il nato di Myriam, il dolce poeta della Galilea.

Ad un tratto udii un trepestare rapido di gente in corsa, uno stioccare
di vesti sbattute, un succedersi di brevi voci, onde mi soffermai
sogguardando nell’incertezza di ciò che accadeva. Non trascorsero
quattro secondi che vidi alcune donne passarmi innanzi correndo. Una si
volse per darmi sommessamente l’avviso:

— Le guardie, le guardie!

In un’attimo si dispersero nell’intricata trama dei vicoli. Dietro
loro, ciondolon ciondoloni, seminascosto il viso sotto la visiera del
_kepì_ seguirono due guardie che percorsero lentamente il vicolo senza
cura apparente, a simiglianza di due filosofi intenti a risolvere gli
oscuri problemi dell’umana natura.

La mia ripugnanza cresceva quanto più mi appressavo alla meta; ma
non ebbi una sol volta la tentazione di ritornare perchè val meglio
affrontare il destino anzichè arroncigliarsi nell’ombra come una
sciocca bestia e chiuder gli occhi per credersi salvo. Poi che mi
sarebbe importato della mia salvezza se a Serenella poteva incogliere
male? S’ella era vittima di quella mala razza di vagabondi, di
lenoni, di ladri? Ciò non mi era che un vago dubbio, che una lontana
incertezza; purtuttavia non mi sentivo tranquillo.

Verso la fine del vicolo dove l’oscurità era maggiore, udii da una
porta socchiusa un subito pispiglio poi qualcuno pronunziò chiaramente
il mio nome:

— Duccio della Bella?

— Adeva! — risposi.

Il vagabondo si presentò sul limitare e rapidamente, a bassa voce,
sussurrò:

— Vieni. Sei in ritardo.

Entrai. L’andito era perfettamente buio.

— Rimani qui — disse Matteo Adeva a una persona che non vidi — non
chiudere l’uscio; Sprillo e Boccia debbono venire ancora.

— Non mi muovo — rispose qualcuno dall’ombra. Allora Adeva mi prese per
mano e mi condusse per l’andito fino ad una scala angusta e scivolosa
che cominciò a salire a rilento. Gli tenni dietro. Il mio cuore batteva
rapidamente.

Dall’alto giungeva un suono di voci discordanti. Ci fermammo innanzi
ad un uscio sconnesso il quale lasciava filtrare la luce dalle larghe
fessure. Matteo Adeva picchiò sommessamente tre colpi con le nocche;
nell’interno si fece silenzio.

— Chi è? — chiese una voce vicina.

— Aprite — rispose Adeva.

Fummo introdotti e l’uscio si richiuse dietro di noi. La stanza era
bassa, sudicia, illuminata da un lume a petrolio posto sopra una
tavola. Tutt’intorno correva un basso divano che perdeva la stoppa
tant’era lacero e consunto. Alle pareti erano appese grandi oleografie
pornografiche e alcune fotografie fra le quali risaltavano tristi
visucci di bimbi.

Su l’uscio di entrata notai che s’era fermo Adeva; ad un altr’uscio
laterale era seduta una donna su la cinquantina: grassa, oleosa come un
otre, da gli occhi scarabei seminascosti nel largo viso sebaceo.

Seduti di traverso o sdraiati sul divano vidi Righetto, l’accattone;
Nino, il fratello di Cajèla; Ghetano, il ciabattino che abitava nella
mia stessa casa ai quartieri San Lorenzo, poi molti altri che non
conobbi.

— Catuba — gridò Righetto a colui che mi parve il più valutato fra
tutti — Catuba non dormire che sta a te ora.

La persona interpellata era un giovinastro che poteva aver passata di
poco la ventina ma che il vizio aveva già impresso del suo suggello.
Aveva le guance smunte, la bocca sottile, gli occhi leggermente
sanguigni e il viso atteggiato ad un’espressione di cinismo ributtante.
Portava un fazzoletto annodato al collo e un berretto a visiera spinto
estremamente su l’orecchio destro, sì da lasciar libera una grande
ciocca di capelli che si elevava ribelle a compire l’aria spavalda di
parrucchiere armigero tutta propria ai giovani lenoni della suburra.

Stava sdraiato sul fianco, la testa appoggiata su la palma della
mano destra, in atteggiamento di persona che considera la vita una
sciocchezza e valuta gli uomini, fratelli suoi, quanto un mucchio di
fimo e nulla più. Si dava l’aria di sonnecchiare, di annoiarsi, e tale
apparente assenza dello spirito di lui gli fruttava la considerazione
dei compagni.

Quando udì la voce di Righetto che lo pregava di ricordarsi dell’attimo
fuggente, alzò le ciglia, sputò e chiese senza scomporsi:

— È questo il merlo?

— È questo — rispose Adeva.

Qualche sogghigno corse per la comitiva.

Rimasi immobile guardando. Ero ben certo di essere caduto in un inganno
ma ancora non ne comprendevo la ragione.

— A chi tocca il merito di averlo condotto qui? — chiese Catuba.

— A me — rispose Adeva.

Catuba si rialzò a sedere e disse alla donna che stava in disparte:

— Maddalè, porta del vino. Vogliamo bagnarci la bocca.

Come la donna uscì, per qualche tempo tutti rimasero in silenzio.

Mi volsi verso Adeva che s’era appoggiato con le spalle alla porta e
lo guardai fissamente negli occhi senza parlare. L’ipocrita ebbe un
sorriso di scherno e accennando Catuba disse:

— Guarda là; il capo è quello!

— Non aver fretta! — soggiunse il giovinastro. — Tanto non dovrai
godere!

Quantunque intendessi la minaccia nascosta nelle parole ambigue, tacqui
ancora rintuzzando ogni violenza d’impulso e meditando un atto pronto
ed audace che mi avesse liberato allorchè l’ansia di conoscere il
mistero fosse soddisfatta.

Bevvero a grandi sorsi passandosi il bicchiere di mano in mano; Maddalè
andò a torno col boccale mescendo.

Primo ed ultimo fu Catuba. Quand’ebbe vuotato fino all’ultimo sorso il
bicchiere, battè un pugno su la tavola e gridò:

— Ed ora a noi!

Tutti si levaron di scatto e mi si avvicinarono. Adeva mi afferrò
d’improvviso le braccia sì che, per l’impressione che n’ebbi, mi
svincolai di un grido impetuosamente.

— Adagio — fece Catuba — siate calmi; tanto non potrà fuggirci!

Provai un brivido come se l’aguzza punta di una lama mi tracciasse un
solco per le reni. Era dunque lo spettro della morte che volevano farmi
balenare innanzi agli occhi? Era lo spettro del delitto, della violenza
di forse venti uomini contro uno, solo ed inerme? Attesi a denti
serrati, pronto all’impari lotta frenetica.

— _Sbrigamoce!_ — gridò Righetto.

— _Zittete!_ — ribattè Adeva.

— _Cercamoje prima drent’a la giacchetta_ — aggiunse un altro.

— _Che vuoi cercà er cortello?_

— _Sì; ce trovi l’anima de mortacci sui!_

— _Dateje la bona e sia finita!_

— _Oh! Catuba, ce semo?_

Catuba picchiò violentemente la mano aperta su la tavola e gridò:

— _E zittateve, per Cristo!_

Tutti tacquero nicchiando. Sentii tutto il sangue scendermi al cuore ed
il mio viso sbiancò come per il soffio della morte.

— Noi siamo gente onesta — riprese Catuba guardandomi obliquamente
e sorridendo. — La giustizia ti tratterebbe peggio senza compir la
vendetta di nessuno. Tu hai ammazzato un uomo; è giusto che ti sia reso
lo stesso servizio!

Dopo una pausa soggiunse:

— Ne convieni?

Mi guardai intorno: era in tutti quegli occhi una ebrietà bruta di
male, un’ansia di soddisfare l’istinto cieco della violenza. L’odio
inconsulto contro tutti gli uomini, contro tutte le creature; la
selvaggia bramosia di colpire si scatenava da quelle anime taciturne in
cui era constretto il turbine di una vendetta secolare.

— Che c’è? — gridò ad un tratto Ghetano volgendosi verso la porta.

— Nulla — rispose Matteo Adeva. — È Lalla che si muove.

Dopo un altro silenzio, terribile silenzio d’abisso, Catuba si chinò
verso me e mi chiese:

— Sai chi c’è qui?

Allora nella mia voce fu l’inattesa asprezza dell’urlo che sconvolge:

— Chi, in nome de’ tuoi morti, chi?

— Maddalè! — disse Catuba alla donna che se ne stava in disparte —
Maddalè falla entrare.

Mi rivolsi con gli occhi accesi, sbarrati nel terrore di veder
comparire lei, la mia santa! Nei pochi secondi che trascorsero non ebbi
respiro, il mio cuore non pulsò; non vissi, non intesi, ero come morto.
Poi indietreggiai di un balzo. Non sognavo? Non era una allucinazione
la mia? Sita, la figlia di Diavolo, stava ritta nel vano della porta.

Tutti si volsero verso lei. Aveva il capo eretto, vestiva di nero, i
suoi capelli rossi fiammeggiavano.

— È questo? — le chiese Catuba indicandomi.

— Sì.

— Si deve far subito?

— Sì.

Mi raccolsi tutto, pronto alla lotta disperata; ma prima che uno solo
fra i tanti si muovesse, un urto possente sfondò l’uscio delle scale
e un uomo balzò, irruppe, precipitò nella camera gettando al suolo
Adeva. Fu alla tavola, la capovolse di un grido facendo il buio, poi
con la stessa rapidità mi sentii afferrare, mi sentii trascinar via a
precipizio.

Quando fummo lontani ed ebbi campo a riavermi alzai gli occhi in viso
all’ignoto compagno.

— Omero! Tu!... — gridai.

— Cammina, avrai tempo a parlare, qui non è aria buona!

Una volta ancora era balzata dall’ombra, per me la grande anima
fraterna.




XV.

Omero.


Quando ebbe tolto dalle bisacce tutto ciò che mi apparteneva, come
ebbe a dirmi poi, era già l’alba. La sera avanti mi aveva ascoltato
parlare senza interloquire una volta, troppo bene intendendo ciò che
desideravo; d’altra parte era giusto ch’io volessi provarmi da solo
nella vita ed egli non aveva alcun diritto di impedirmelo, nè poteva
impormi la sua tutela. Non gli restava che andarsene. Con simile
assillo nel pensiero non aveva dormito e innanzi l’alba era sorto in
piedi per compiere i preparativi necessari a riprendere il viaggio.
Voleva togliermi la tristezza dell’addio. Quando avessi riaperto gli
occhi egli sarebbe stato lontano. Tante dolci cose se ne vanno così,
come un alito, per non più ritornare. Aveva preparato le bisacce
guardandomi. Io dormivo col capo fra le braccia ed avevo il sonno
tranquillo del riposo e della pace. Meglio così; alla mattina avrei
pensato forse ch’egli avesse a ricomparire, poi, poco alla volta, mi
sarei abituato alla solitudine; solo, in fondo al core sarebbe stata
assidua la memoria dell’amico buono ch’era andato con il suo sogno
verso terre ignote.

Come fu pronto, si gettò le bisacce su le spalle, si tirò la visiera
del berretto su gli occhi e con somma cautela, volgendosi ad ogni
passo, si avviò verso l’uscio. L’aprì, stette un attimo a contemplare
il mio sonno, poi rinchiuse e si avviò.

Il suo vecchio cuore stoico non era compiutamente sereno. C’era laggiù
qualcosa che gli toglieva la tranquillità. E non volle convenirne con
sè stesso perchè la ragione non avesse a biasimare la dolce tristezza
che amava il silenzio e non avrebbe cercato una sola parola per
appalesarsi.

Quando scese per le vie incontrò i lampionai intenti a spegnere
le ultime fiamme argentee; si tenne rasente ai muri e si avviò
senza sapere quale strada avrebbe seguito. Andò innanzi. Gli era
perfettamente indifferente dirigersi al nord o al sud.

Il cielo sereno era di quella purezza cristallina che solo l’inverno
conosce; era come il ghiaccio, come il limpido ghiaccio delle fonti.

Omero non avvertì il freddo benchè indossasse lo stesso vestimento che
portava a Comacchio, composto da un soprabito di antica foggia e da un
paio di calzoni rattrappiti che gli giungevano alla caviglia; andava
a passo lesto; pareva lo spingesse l’ansia di giungere in tempo in un
determinato luogo.

Attraversò Roma, uscì da Porta San Giovanni, prese a sinistra il vicolo
delle Tre Madonne e si perse nella campagna.

Continò a camminare, il capo basso, le mani infilate nelle tasche dei
calzoni, guardando talvolta la sua piccola ombra che lo seguiva o lo
precedeva o gli stava a lato fedelmente; tal’altra cercando evitare le
profonde carreggiate o i grossi ciottoli che ingombravano il vicoletto.

Quando il sole ebbe oltrepassato il meriggio, si soffermò vicino ai
resti di un acquedotto e sedette.

— Non debbo essermi allontanato troppo — pensò. Infatti, come volse
gli occhi intorno, vide sotto l’oriente, biancheggiante al limite
dei cieli, la gran massa di Roma; nè si dolse di ciò, anzi sentì che
l’immensa città gli era quasi necessaria. Gli pareva splendesse più
sole laggiù, ridesse più primavera.

Tutte cose belle; pure doveva continuare il cammino. Era partito col
preciso proposito di allontanarsi, doveva dunque andar diritto innanzi
a sè fino al primo paese che avesse incontrato. Così aveva fatto sempre
prima che il figlio di Marta della Bella gli fosse compagno.

E rimase appoggiato al vecchio acquedotto, per molte ore; rimase così
forse perchè era stanco, anzi tale scusa gli valse per starsene più
tranquillo.

A quando a quando levava gli occhi verso Roma rifulgente come una gemma
incastonata nel grand’arco dei cieli ed era tanto assorto che s’avvide
di non aver risposto ad un pastore il quale gli aveva mosso una
domanda.

Il sole compiva il suo giorno e Omero era ancor là. A che pensava?
Sentiva un gran vuoto nel quale apparivano le ombre delle cose come
s’egli se ne fosse allontanato per miglia e miglia. A volte gli parve
essere in un luogo buio dal quale fissò la luce addensantesi sopra un
immenso cumulo di case, di cupule, di torri lontane.

Poi lo colse la dolce malinconia dei ricordi.

Si vide innanzi la sua Ravenna, ad un tratto (non ci pensava da tanto
tempo ormai!). Era illuminata da un sole invernale; pareva tutta di
marmo e d’adamante. Nel Candiano erano discese navi e navi, tante che
l’acqua verde luceva in rigagnoli fra le loro chiglie e, al vento del
mare, le vele stioccavano battendo sui cordami, su le sartie, sui
grandi alberi superbi, o, allentate, s’increspavano come le acque,
rapidissimamente, producendo un suono simile a quello delle prime
gocciole di pioggia su le strade battute. C’erano uomini di tutti i
paesi, scesi dal mare fino al piccolo porto che la Pineta lontana e
morente più non sorveglia; gridavano e cantavano trasportando il carico
dalle navi ai cantieri. Andavan seminudi, nonostante il freddo. Omero
era ancor giovane; aveva forse qualcosa più di sedici anni, un niente.
Tutti i giorni si trovava al Candiano. Qualche _paròn_ avrebbe potuto
arruolarlo fra i marinai del suo bragozzo. Voleva partire.

Tanto nessuno si sarebbe accorto della sua lontananza. Sua madre gli
era ignota perchè, per una vergogna insensata, frutto di una sciocca
morale, aveva rifiutato la creatura delle viscere sue, non sapendo
opporre al cinismo di una legge scritta nella supina incoscienza dei
più, la maternità che è santa, la maternità che è un sacro mistero
della terra. Era solo, e i soli hanno la nostalgia di qualcosa che li
attenda lontano, sempre più lontano fino al giorno della morte.

Viveva allora nel sobborgo di Porta Adriana con un padrone che gli
misurava le legnate e il pane egualmente; ma forse più di quelle che di
questo. Doveva rigovernare i cavalli dello stallatico, star levato gran
parte della notte e riposare sul fieno, accanto alle bestie.

Non aveva amici perchè era taciturno; soffriva in pace senza sentir
necessità di comunicare ad altri la sua pena; si abituava fin d’allora
allo stoicismo che doveva essere poi sua grande forza nel dolore.

Fra tutti coloro che gli vivevano intorno, una sola creatura gli aveva
dimostrato attenzione assidua: una bambina, Donetta. Aveva tredici
anni; era figlia di un domatore di cavalli e di una prostituta.

Cresciuta per le vie, usa, fin da quando aveva inteso, a tutte le
scurrilità del trivio serbava, chi sa per quale dolcezza ignota alla
sua stirpe, una sensibilità triste ch’era nel viso di lei come un segno
di elevazione e di bontà.

Era graziosa, aveva gli occhi azzurri e i capelli neri, corti e
ricciuti. C’erano degli angioli così, nei cieli d’oro delle grandi
chiese antiche.

Una volta stava per essere travolta da un cavallo in fuga e Omero la
salvò a rischio della vita di lui; da quel giorno Donetta rimaneva
lungo tempo innanzi alla porta dello stallatico a guardare il suo
grande amico in faccende.

Omero le aveva fatto qualche regalo, come poteva; qualcosa di adatto
alla loro miseria. Donetta lo aveva ringraziato sorridendo e se ne
era adorna. Vestiva sempre un grembialuccio turchino ch’egli le aveva
portato dalla fiera delle Alfonsine e il viso di lei fioriva come un
maggio sul colore soave del bordatino.

Ricordava che un giorno (era il pomeriggio di una domenica; il padrone
se ne era ito a Russi, alla festa, e allo stallatico non c’era da fare)
per evitar la gente che scendeva al sobborgo a bere e a ubriacarsi,
s’era internato pei campi verso la solitudine della Pineta. Forse
cantava l’aprile; le macchie di biancospino erano in fiore. Il sole
volgeva al tramonto; non un uomo appariva nei campi. La terra era
tutta delle anime solitarie. Vide due bimbi seduti su lo scrimolo
di un fosso: guardavano il cielo che si angelicava allo smorire del
giorno; vide un vecchio mendicante che tornava dalla questua in qualche
paese remoto, e nessun altro. Le poche case che incontrava erano mute.
Anche i queruli galli pareva sentissero l’imperare della grande anima
taciturna del vespero; razzolavano per le aie senza cantare, senza
gracidare, avvicinandosi al fico bigio che doveva dar loro asilo per la
notte.

Omero godeva di quella pace solenne, sì grande che gli uomini intendono
a pena, e non si sentiva solo perchè la Gran Madre era nel cuore di lui
e gli parlava.

Poi i campi coltivati si tramutarono in praterie immense; poi la Pineta
apparve.

Passò presso un gruppo d’alberi chini su l’arca di un pozzo. Erano
vecchie roveri dal tronco schietto; ascoltavano l’eterna voce
dell’acqua nelle viscere della terra. Una sola, in disparte, vegliava
nella sua cecità possente; vigile sacerdotessa del sole e dei tesori
oltresolari.

Quando Omero entrò nella Pineta il sole aveva la lucentezza del rame e
ingrandiva sempre più, spegnendosi nel bacio della terra. Trascorse una
torma di giumente bianche.

Era sì grande la dolcezza del luogo che il solitario pensò attendere la
notte laggiù. Tanto il padrone tornando da Russi ubbriaco, come altre
volte sarebbe caduto su le scale per non rialzarsi se non al mattino.

Errò lung’ora senza meta e quando fu notte se ne tornava in tutta
pace ascoltando gli strani suoni della selva, guardando le stelle che
spuntavano in grandi diademi fra le chiome arboree, allorchè intravvide
poco più innanzi, su lo stesso sentiero che percorreva, un’ombra appena
evanescente nel pallido bagliore stellare. Affrettò il passo e distinse
una figuretta di bimba.

Andava a rilento affaticandosi sotto un gran carico di legna. I piedi
di lei si affondavano nella sabbia; respirava a fatica soffermandosi di
tratto in tratto. Forse, nascosta com’era sotto al grande carico, non
aveva udito l’avvicinarsi di Omero.

Egli era molto forte e non pensò due volte al da farsi, disse:

— Aspetta, ti aiuterò.

Come la fanciulla ristette, le tolse il fascio di sterpi e se lo pose
su le spalle come fosse un niente. La piccola tacque. Omero si avviò
innanzi. La strada era lunga e nessuno dei due parlava. Ad un tratto la
compagna silenziosa lo prese per mano ed esclamò dolcemente:

— Come sei buono!

Egli si volse colpito dal suono della voce e riconobbe Donetta.

Non dissero altre parole; ma Omero avrebbe voluto portare quel carico
di legna fino ai limiti del mondo per sentire sempre la piccola mano
nella sua.

La strada fu breve come un sospiro.

E poi e poi era ancora il Candiano con tutte le sue navi; erano le
chiese grandi dove non si andava per pregare ma per vedere Iddio fra
le nubi d’oro; era tutta la sua giovinezza che gli appariva laggiù,
con l’immagine di Ravenna. E un giorno seppe che Donetta non sarebbe
ritornata mai più e n’ebbe una scossa tremenda. Il dolce fiore di
soavità era morto.

Da quel tempo si era gettato su le spalle le bisacce per non sostare
mai più.

Ad un tratto si scosse, era giunta sul vento una grande ondata di
suoni. Tutte le campane di Roma salutavano il vespero.

Si levò. La campagna era deserta, muta, senza un casolare; non aveva
veduto mai terra più triste. Riprese il sentiero senza por mente ove
conducesse. Gli pareva che il crepuscolo fosse cinereo; e la landa che
percorreva era cinerea e senza fine.

Quando fu notte alta, si trovò alle porte di Roma. Si convinse così,
che il destino non aveva voluto allontanarlo.

Tornò ai quartieri di San Lorenzo; mi seguì da lontano; vegliò, da
ombra, su la mia vita.

Frattanto, più esperto e più fortunato di me, aveva trovato lavoro
in un negozio di vino. Guadagnava a sufficienza per due, data la sua
parsimonia.

Tutte le notti saliva le sudice scale della casa ove dormivo e veniva a
origliare alla mia porta, poi ripartiva tranquillo s’io ero tranquillo.

Aveva saputo le mie sofferenze ad una ad una e il caso lo aiutò a
scoprire la trama che si ordiva a mio danno.

Una notte, come al solito, era entrato nell’andito oscuro e stava per
salire fino alla mia porta, allorchè si accorse che qualcuno scendeva
le scale.

Per non essere scoperto si nascose prontamente nell’angolo più buio
dell’andito e attese. Dopo non molto vide allo sprazzo di luce che
s’insinuava dalla via, Matteo Adeva. Con lui era una donna.

Notò subito una strana somiglianza di volto, di voce, di gesti, epperò
attese qualche minuto perchè si allontanassero un poco, poi, invece di
salir le scale, uscì e rasentando i muri, cercando l’ombra, si dette a
pedinare Matteo Adeva e la sconosciuta.

Si accostò tanto ch’essi andavano a pochi passi da lui. Finse essere
ubbriaco perchè non gli ponessero mente.

Allora udì e l’incerto dubbio divenne chiara realtà.

Sita era a Roma da oltre una settimana; aveva seguito Serenella ch’era
stata rinchiusa in un convento. Voleva vendicare suo padre.

Canticchiando e ballonzolando da un muro all’altro udì le oscure
macchinazioni che i due venivano tessendo. Seppe che Sita, per fuggire
a Roma, aveva fatto mercato della sua persona a Bologna; seppe che una
vecchia bolognese le aveva indicato a chi avrebbe dovuto rivolgersi,
alla capitale, per aver facilitato il suo compito; seppe che Catuba
Sprillo, Adeva e tutti i lenoni della suburra, per la bellezza di lei
e per il suo amore avrebbero dato nonchè la vita di Duccio della Bella,
sangue di imperatori.

Allora Omero benedisse il suo destino e si pose all’agguato.

Spiò, vide ma non tanto che la trama non gli fosse sfuggita di mano.
Chi lo pose su le tracce fu la lettera che trovò su la mia tavola. Era
l’invito di Adeva. Allora riebbe l’agilità de’ suoi vent’anni e giunse
a salvarmi prima che una sola lama si fosse levata sul mio capo a
estrema minaccia.




XVI.

La casa del sogno.


— Non lasciarti fuggire la buona occasione — mi disse Omero — compì la
tua strada; tutto andrà come abbiamo desiderato. Fra qualche settimana
sarete insieme!

— Ha saputo?

— Niente ancora, non aver troppa fretta.

— Io mi rimetto a te.

— Allora cerca di essere guardingo. Addio.

— Quando ci vedremo?

— Ora non saprei dirtelo. Quando mi sarà possibile.

— Non tardare troppo!

— No. Addio, Duccio.

— Addio, Omero.

Si spinse innanzi la carretta carica di erbaggi e gettò all’aria il
lungo grido di offerta che si perse nella solitaria via San Teodoro.

Alla sua sinistra lucevano, alte nel sole declinante, le boscaglie
del Palatino emergenti in enormi ciuffi dagli avanzi delle ciclopiche
costruzioni imperiali; alla sua destra si elevava una lunga fila di
case silenziose e malinconiche nelle quali si apriva di tanto in tanto
una botteguccia meschina.

Siccome era domenica e in quella via non erano osterie, non ebbe
occasione di incontrare se non qualche straniero che se ne veniva
rigido e tranquillo ammirando la superba visione del Palatino. Grande
cosa fra povera gente; inutile memoria di forza fra una razza di
giullari, come pensano benevolmente i popoli nordici.

Il giorno era sereno e l’aria tepida; pareva che l’inverno fosse
esulato verso i cieli del nord e che il soffio della primavera
giungesse a dischiudere le gemme.

Omero non mandava più il suo grido, tanto a quell’ora e in quella
via non avrebbe avuto occasione di vendere un solo capo della sua
mercanzia.

All’Arco di Giano, presso San Giorgio in Velabro, una vecchietta lo
fermò. Riprese poi il cammino senza più sostare. Attraversò Piazza dei
Cerchi e, lentamente, si spinse innanzi la carretta per la via di Santa
Sabina.

Le ultime case si fermavano ai piedi dell’Aventino. Saliva ora per la
viottola tortuosa, fiancheggiata da basse mura alzate a riparo delle
misteriose ville che si innalzano sul colle silenzioso.

Il rumore della città nuova non giungeva fin lassù. L’onda alterna
di suoni, il mareggiare continuo della vita si frangeva contro l’arce
capitolina e una eco languida trascorreva sul Foro per spengersi nelle
ampie caverne del palazzo dei Cesari. Lassù, fra le basse mura della
viottola, era il magico stupore delle cose indisturbate. Esse vedono e
sanno una vita che a noi è ignota. Il mistero le fa solenni.

A quando a quando, essendo la salita piuttosto ripida, Omero sostava
a riprender fiato e allora, spentosi il cigolìo della carretta, non
udivasi che qualche fruscìo scorrente oltre le mura lungo gli ignoti
giardini, lungo le vigne che si distendevano intorno ad un casolare,
sacro all’ombra di qualche pino ferrigno.

Le antiche divinità oscure dei progenitori nostri; le indefinibili e
indefinite forze assunte all’adorazione in simboli vaghi; le voci che
parlarono all’anima dei fratelli Arvali nei densi boschi, nei floridi
campi, nelle desolate solitudini; tutto ciò ch’era paura, desiderio,
esaltazione, tutto ch’essi riassunsero nel culto della _Dea Dia_ vive
in quelle boscaglie compatte, sorgenti nel cuore di Roma e pur tanto
lontane dalla sua anima nuova; anima torpida ancora per l’apatico
languore che secolarmente la tenne.

Pareva che qualcuna fra le piccole porte che si aprivano contro il
sol levante, dovesse dischiudersi e pareva dovesse erigersi nel vano,
fermo su la pietra della soglia, il capo dei dodici fratelli Aratori,
dei gravi sacerdoti dell’immensa natura. Avvolto nella toga pretesta,
il capo cinto da una ghirlandella di spiche legata da una bianca
benda; diritta la fiera fronte adusta e gli occhi profondi fissi
su l’immobile taciturnità del bosco, lanciava levando le braccia,
l’antichissimo grido di tripudio, una fra le prime voci articolate
che l’anima collettiva di un popolo abbia sciolto all’aurora del suo
benefico Iddio: — _Triumpe triumpe triumpe!_ — E dietro lui, nel grande
dilagare del sole, rispondeva l’urlo della moltitudine prona ad adorare
lo spirito immenso; il cuore del mondo, l’anima del sole e delle spiche
bionde.

L’Urbe millenaria che fu altare a tutti gli Dei e tutti li distrusse
per Uno all’ombra del quale raccolse le sue vittorie e le lanciò ad
un nuovo trionfo, non sa dimenticare il primo suggello che le impresse
l’anima salda de’ suoi figli agricoltori: il culto della natura madre e
del suo mistero.

Come ad un punto, sotto le mura di un grande giardino, la viottola si
biforcava, Omero volse a sinistra per la via di Santa Prisca, verso il
convento perduto lassù fra i cipressi dalla chioma compatta, alta come
una pura fiamma nell’aria senza vento.

Il sole che non giungeva fin su la viottola, si attardava a illuminare
gli scarsi steli che crescevano a sommo delle mura; le rame sporgenti;
i viluppi d’edera che rivestiva, in certi punti, la cadente rovina dei
ripari; e si addolciva, sbiancando in bagliori d’oro pallido, sul nitor
della calce o si addensava in una tinta calda, quasi sanguigna, su la
fitta chioma degli oscuri cipressi.

Dall’ombra pareva a volte che le grandi piante, irradiate così
dall’invisibile sole, si accendessero di un loro proprio bagliore a
indicare una infinita via lanciata verso la soglia dei cieli.

Una vettura trascorse rapidamente sollevando un alto frastuono che si
ripercosse e si perse lontano simile a un cupo rimbombo. Un pulviscolo
d’oro impalpabile, si distendeva per il gran sereno, su gli alberi e
su gli steli per rivestirli di quel suo aureo sfolgorìo, anima del sole
morente.

Passò ancora il lento martellare di una campana; poi anche quel
suono si spense, si diffuse nell’aria, lontanò verso altri silenzi.
L’incantesimo della viottola tortuosa, ombreggiata a volte dalle grandi
rame soverchianti, a volte più chiara fra i muri fioriti a sommo dai
ranuncoli gialli, ebbe più intenso dominio. Dormiva lassù fra quella
muta corona di giardini chiusi, fra quell’assieparsi di fronde che
sanno la tacita ombra, dormiva fra i rigidi compagni del silenzio, Roma
e, dall’abisso, il vigile tempo dalla gran chioma solare vegliava su
quel sonno dal quale doveva balzare una volta ancora la dolce figlia
sua per l’eterna vicenda dell’andare.

Ad un usciolo grigio che si apriva sul muro di un orto, Omero sostò e,
con le nocche, picchiò tre colpi a distanze uguali, lentamente.

Non attese molto che l’uscio si dischiuse e un vecchietto apparve.

— Hai tardato questa sera — disse rivolto a Omero. — Come è andata la
vendita?

— Bene; cioè, abbastanza bene. Lo sapete Paolo, nel pomeriggio non si
busca troppo.

— Fa vedere — riprese il vecchietto avvicinandosi alla carretta. —
Peuh! Non t’è rimasta gran cosa. Domattina si smercierà tutto.

— Così ce ne fosse! — esclamò Omero volgendo la carretta verso il vano
della porta.

— Guardatevi Paolo — riprese: — Voi e la carretta non passate insieme.

Paolo si scansò e quando Omero fu entrato, rinchiuse la porta che
cigolò sui cardini.

Si avviarono per un’andana fiancheggiata da alberi nani.

— Avete parlato con la superiora? — chiese Omero ad un tratto.

— Sì — rispose Paolo.

— E che vi ha detto?

— Puoi rimanere.

— Fin che vorrò?

— Fin che vorrai.

— Ma come le avete presentato la cosa?

— Capirai, non ci voleva molto.... — Si fermò a togliere con le
mollette un po’ di seccume da una pianta:

— Non ci voleva molto — riprese rialzandosi e traendo un sospiro. — Io
sono vecchio e l’orto è grande; poi bisogna avere un occhio anche al
giardino. Venti anni fa ne avrei curato il doppio della terra; ma ora
le ossa sono logore e non ci resisto. Le ho detto che avevo bisogno di
un aiuto.

— E lei?

— Lei? È buona Suor Anna; quando potrai conoscerla vedrai di quale
bontà angelica sia quella donna! Non ha fiatato. Poteva anche
rispondere: Non voglio aumentare le spese! — Invece ha detto: — Hai già
in vista l’uomo che deve aiutarti? — E dopo qualche parola ha convenuto
su tutto ciò che le ho detto. Tu dormirai nella casa in fondo all’orto.
Sabato, verrai con me dal Sindaco del convento per intenderti con lui
circa la paga.

— E posso cominciare a dormir qui da questa sera?

— Sicuro! Che cosa vuoi aspettare? Mi terrai compagnia. Io sono vecchio
e solo; starò più tranquillo.

— Ma Suor Anna non vi ha chiesto chi ero, da quale parte venivo? Non ha
voluto avere informazioni sul mio conto?

— Certo: non potrebbe mica accettare qui il primo capitato. Io l’ho
rassicurata subito però, dicendole che ti conoscevo da molti anni e le
ho fatto il racconto di tutto ciò che mi ricordavo della tua vita.

— Poca cosa — fece Omero sorridendo.

— Non tanto poco! Due anni non sono corti e ci stemmo ben due anni
insieme, a lavorare nel Veneto. Non ricordi?

— Ricordo benissimo. Avevate allora la vostra figliuola con voi. È a
Roma ora?

— No, sta su, in un paesetto della Sabina. Si è maritata. Ha già tre
figli.

— Ne sarete contento.

— Figurati, non ci vedo che per loro. Alla nostra età se non ci fossero
i figli, i nipoti, chi ti farebbe campare? Li vedrai domenica che bei
figliuoli! Sembrano tre belle rame fronzute! Io li benedico sempre nel
nome di Dio.

Tacquero. Erano giunti ad una capanna nella qua le Paolo soleva riporre
gli strumenti da lavoro.

— La lasciamo qui la carretta? — chiese Omero.

— Sì — rispose il vecchio. — Ora spruzzo gli erbaggi perchè si
conservino meglio, poi andremo a mangiare un boccone.

— Avrai fame — soggiunse raccogliendo da terra una secchia ricolma
d’acqua.

— Un pochino — rispose Omero.

Riposero la carretta e chiusero l’apertura della capanna con un
battente contesto di paglia e di stipa. Il sole allungava sul suolo
ombre azzurrognole.

La casa dell’ortolano sorgeva al limite dell’orto, prossima al
muricciuolo che la divideva dal giardino. Presero per una redola lungo
un filare di viti. Paolo andava innanzi soffermandosi di tanto in tanto
a guardare un solco, una vite, una pianticella. Omero seguiva col capo
basso e le mani annodate dietro le reni.

S’intravvedeva a pena, in fondo, fra la fitta trama dei rami, il
rosseggiare del convento; solo la cima del campanile splendeva
libera nell’azzurro superando gli alberi. Stormi di passeri passavano
frullando e cinguettando per l’aria.

La casa dell’ortolano sorgente fra un gruppo di eucalitti dal tronco
roseo e grigio, era a due piani ed era tutta annerita dal gran tempo
che aveva.

— Ho preparato la tua camera — disse Paolo allorchè si soffermarono su
la soglia — guarda a levante, verso il convento; avrai il primo sole.
Hai il sonno leggero?

— No.

— Tanto meglio; altrimenti il suono della tempella non ti lascierebbe
passar la notte in pace. Le prime settimane che stetti al convento non
potei chiudere occhio.

— Per me non ve ne preoccupate. Oltre la tempella potrebbero suonare a
stormo che non mi desterei.

Omero si sedette innanzi alla tavola nella piccola stanza a terreno;
Paolo, curvo sul focolare, attizzò le bragi per apprestare il mangiare.

— E le monache vengono mai nell’orto? — chiese Omero ad un tratto.

— Mai — rispose Paolo senza volgersi — mai. Non lo potrebbero perchè
ci siamo noi. D’altra parte non oziano neppure un minuto; o pregano o
lavorano.

— Dunque, pure essendo qui col permesso della superiora possiamo
ugualmente spaventare le monache?

— Certo — fece Paolo tralasciando il soffiar su le bragi. — Non debbono
vedere uomini. E ormai — aggiunse ammiccando — di noi non dovrebbero
temere!

Dopo un breve riso concorde, Omero riprese:

— L’avete veduta oggi quella novizia di Comacchio?

— Sì, l’ho veduta in cortile; passava sotto il portico.

Tacquero; avevano esaurito ogni argomento di conversazione; a Omero non
importava saper altro e Paolo taceva volontieri più per consuetudine
che per natura.

Mangiarono una zuppa d’erbe e quando Paolo ebbe riposte le scodelle
era già notte. Allora accese due lucerne, ne porse una a Omero e gli
chiese:

— Vieni a dormire?

— Sì.

Presero a salire la breve scala. Si soffermarono ad un pianerottolo sul
quale si aprivano due porte, una contro l’altra.

— Questa a destra è la tua camera — disse Paolo — e questa è la mia.
Buonanotte.

— Buonanotte.

I due usci si rinchiusero contemporaneamente.

Appena entrato, Omero girò gli occhi per la stanza assegnatagli.
C’era una branda, una sedia, una cassa e, appeso al muro, un grande
crocifisso. Fu contento della sua fortuna; quel luogo era una vera
reggia per lui. Posò la lucerna su la seggiola e si avvicinò alla
finestra aperta dalla quale si intravvedevano rame e gruppi di stelle.
Stette qualche attimo in ascolto, appoggiato al davanzale. Nel silenzio
notturno si udiva giungere a traverso gli alberi un mormorio sommesso
e continuo; parevano voci litanianti; o non era piuttosto un pullulare
remoto di acque, un indefinibile lamento nell’oscurità? Forse giungeva
dalla piccola chiesa in fondo al giardino, nascosta fra gli alberi.
Come più si raccolse all’intesa, distinse qualche parola. Era la
preghiera notturna delle sorelle, delle povere sole che piangono la
vita e non sanno e cercano il loro Dio nel martirio, anzi un demone
che le torturi per l’amore che non hanno avuto o per la pena della loro
anima malata.

Cresceva e diminuiva in intensità; a una sola voce che intonava il
cantico se ne aggiungevano cento altre ad intervalli uguali sì che
pareva morisse e risorgesse di continuo come il mormorio del mare.

Nel silenzio del bosco, a traverso il quale trapelava a pena
qualche bagliore dalla chiesetta sperduta nel suo cuore, quella voce
dell’affanno umano aveva un sì doloroso incantesimo che Omero se
ne sentì tutto compenetrare e stette in ascolto con la tensione con
la quale si segue un grido implorante da una via silenziosa, da una
tragica immensità di campi sotto la notte nera.

Non avrebbero chiesto aiuto? Perchè soffrivano tanto? Chi le faceva
piangere, Iddio?

Egli non concepiva un martirio che si chiude inutilmente in sè stesso
per giungere alla follia ed alla morte. Questa misera carne di cui ci
vestiamo sotto al sole ha pure i suoi diritti! L’Ignoto che armonizzò
le stelle volle per noi, nel nostro piccolo mondo, una simile armonia
di amore e di pensiero, di passione e di elevazione.

Chi non sa vedere il Mistero dell’Universo in questa sua grande bontà,
adora un mostruoso carnefice, un implacabile figuro sculto nella
pomice, il quale si diletta di supplizi tantalici e la larga bocca
ghignante, chini gli occhi triangolari, sogguarda esultando la sua
bell’opera di miseria!

Iddio è troppo lungi nell’inconcepibile infinito. La vela del nostro
povero sogno, contesta di asfodeli, ci conduce a naufragare nei
tranquilli mari della morte, molto lontano dai cieli del Signore. La
grande soglia non si varca.

Il cozzo acerbo e continuo di mille civiltà, di milioni e milioni
di uomini non ha destato neppure un tremito nella compatta soglia di
basalto.

Chi ci dette un’armonia vive in noi; adoriamolo in noi e in tutte le
creature.

La morte nulla ci toglie; ognuno reca con sè il suo mondo sotto il sole
e nel poi.

L’amore, il semplice amore è la parola di Dio: adoriamolo in gaudio chè
le sue vie sono innumerevoli, eterne di primavera. A lui solo soggiace
il dolore ed il suo regno è l’eternità.

La prece lontana si spense ad un tratto senza che l’immobile
taciturnità della notte ne fosse turbata. Così passa una stilla di
rugiada fra i rami, così muore un mondo negli spazi oltresolari.

Omero ascoltava ancora. Vide spegnersi l’incerto bagliore che
traspariva fra gli alberi. Le sorelle si allontanavano per un sentiero
remoto nel bosco. Ascoltò più intensamente ancora ma non udì se non il
fruscio sommesso che trascorre fra le rame; la notte, come se nimbi
di invisibili ali si muovessero in un volo continuo; non udì che il
rimbombo lontano di una grande porta rinchiusa. E pensò che anche
Serenella avesse pianto laggiù fra le inconsolabili; pensò allo strazio
della piccola sensitiva che sapeva amare con tanto ardore.

Non riusciva a spiegarsi tuttavia per quali singolari eventi ella
fosse stata tratta a rinchiudersi in quel triste silenzio di chiostro;
non era per lei la vita contemplativa e se aveva intrapreso il lungo
viaggio da Comacchio a Roma non era stato certo per isolarsi dal mondo.
Il desiderio di consolar l’anima di lei in pena gli avrebbe fatto
tentare prove insensate; ma il consueto equilibrio che lo reggeva gli
consigliò l’attesa. Fra non molto avrebbe saputo e il provvedimento era
sicuro perchè il cuore di Serenella non poteva essere diverso da quello
che era lassù nella città adorna di vele e di antenne.

Volse gli occhi intorno, poi chiuse le imposte e si gettò su la
piccola branda, per dormire; ma in quella improvvisa pace pensò
ancora alle molte difficoltà che aveva superato per iscoprire il
rifugio di Serenella; pensò a tutte le astuzie alle quali era ricorso
per avvicinarsi ai conventi e parlare ai guardiani; pensò allo
scoramento che lo aveva invaso allorchè tutte le prove erano fallite
e all’improvvisa fortuna che lo aveva condotto lassù e gli aveva
facilitato la strada facendogli trovare a guardiano del convento nel
quale era rinchiusa Serenella, un vecchio amico.

Una soave tranquillità lo tenne e senza avvedersene passò da questo
stato di riposo al torpore del sonno.

Pochi momenti dopo non udì lo stridulo battolìo della tempella che
chiamava le religiose al coro.




XVII.

Surge et ambula.


Si udiva un tonfo monotono ed uguale sopra al mio capo; il tonfo di
una sedia altalenante in un dolce dondolio di cuna. E una voce modulava
una nenia di sonno mossa in un ordine di lunghi intervalli e di tristi
cadenze.

    _Vedo su dall’Orïente_
    _tre corone risplendenti:_
    _porteranno per ristoro_
    _mirra, incenso e un dono d’oro._

Come alzavo il capo per riposare un poco, la voce materna infaticata
e soave fino al suo consumamento mi giungeva più chiara. La seguivo
perchè mia madre mi era vicina, sorta dal suo silenzio per me, una
volta ancora.

La donna che cantava così tutte le notti per addormentare il suo bimbo,
non m’era ignota.

Da quando avevo lasciato la mia vecchia stanza, improvvisamente,
di notte, per esser più certo che nessuno potesse spiarmi e mi ero
stabilito in una cameretta ad un quarto piano in via di Porta Salara,
m’era apparsa tutte le sere, seduta su gli scalini della porta di
strada, una giovane donna. Aveva sempre, abbandonata sul grembo, una
creaturina di pochi mesi.

Le prime volte ero passato senza porre attenzione all’incontro; ma in
seguito, notando come la sconosciuta mi osservasse timidamente, mi ero
soffermato a guardarla ricevendone un senso di sorpresa. Quel viso non
mi era nuovo, l’avevo veduto altre volte; ma dove?

Siccome non avrei saputo su qual punto di riferimento fissarmi
per parlarle e siccome poteva darsi ch’io fossi giuoco di una
rassomiglianza, vinsi la tentazione che avevo di rivolgerle parola. Una
sera rincasando, trovai la giovane donna ritta su la soglia della porta
di strada; pareva fosse là ad attendermi.

Non appena mi vide sorrise, poi, quando le fui vicino arrossì e disse:

— Non si ricorda di me? Ella fu buono con noi e trovò l’avvocato che
difese mio padre. Mi chiamo Pavona.

Ora sì, mi tornava in mente; non eran trascorsi molti anni da
quel tempo ma la mia vita era stata sì avventurosa! Mi era parso
riconoscerla fin da principio, però non avrei saputo identificarla
con esattezza tanto che non le avevo parlato per primo. Ora sì ora
ricordavo tutto ed ero contento di ritrovarla tanto lontana dalla
nostra terra.

Ella mi ascoltava sorridendo e gli occhi le si eran fatti più luminosi.
Il bimbo le dormiva fra le braccia, la testa appoggiata su la spalla
ed era sì grande il contrasto fra il volto pallido e consunto di lei
e quello bianco e roseo del figlio che pareva si fosse dissanguata,
la misera madre, perchè la sua creatura fiorisse. E mi narrò — il
dolce accento toscano scese come una musica; ell’era di San Benedetto
dall’Alpe nell’alta Romagna — mi narrò con la concisione che è propria
di tutti coloro che hanno sofferto e non conoscono la vanità del loro
dolore, come, nonostante la difesa dell’avvocato al quale le avevo
raccomandate, il padre di lei fosse condannato a tanti anni di prigione
che ne avrebbe avuto per il resto della sua vita se pure resisteva a
quello schianto.

Era stata una pena, uno struggimento da non si dire.

Parlava a bassa voce, con gli occhi chini, pareva temesse infastidirmi.
Il suo respiro si era fatto più frequente, era come un anelito.

— Quando tornammo a casa, s’aveva il core in sospeso, si sarebbe
rimaste sempre sole! Passarono giorni che non finivano mai, pareva
cominciasse l’eternità! Poi alla mamma le si travolse il cervello
e cominciò a piangere e urlare che ne rintronavano le selve. Io non
aveva più sentimento di nulla; per tanti giorni è stata una passione
continua; la mamma non parlava più; bisognava imboccarle il cibo, come
ad una bambina. Qualche volta pareva pregasse; ecco che a un tratto si
fermava incrociando le mani e mettendo il capo in seno, abbandonata. Il
sonno non le tornò più se non per trasognare. I vivi le eran fuggiti di
mente. E passaron così più di quaranta giorni. Li ho conti a goccie di
sangue! Poi Iddio le fece la grazia e morì.

Si chinò a baciare lievemente, per non rompergli il sonno, il tondo
visetto del suo bambino poi ebbe una ripresa simile ad un singulto:

— A contare tutto quello che ho passato da allora, sarebbe una leggenda
da far rabbrividire!

E pianse mutamente, senza scosse, per la consueta pena.

Quant’era mutata dal mattino lucente in cui mi aveva dato allegrezza
il vederla! Aveva fatto come la stagione che declina allorchè i giorni
rilucono appena e c’è, nelle nubi, il sentore della neve e il vento
ingagliardisce a furia. La sorella primavera era trascorsa, la dolce
bocca di baci, e c’era rimasto di lei sì poco che un nulla è più
ancora. Quando le nebbie si affoltano pare ch’ella non sia stata mai.
Pavona, per il rapido intendimento dell’animo femminile, s’avvide del
mio triste ragionare, ma tacque; tacque ed arrossì.

Ah pozzo splendevole d’acque chiare, pozzo di limpida vena d’un subito
riarso dalle sabbie! L’arca tua nera non ha più riso, nè pianto, nè
guizzi di luce, nè stelle; aperta contro il cielo come una bocca
sitibonda, come un occhio spento, attende la vana promessa delle
scorrenti nubi! Attende la promessa dei sogni come la vita nostra
allorchè, spenta la giovinezza, amore sia dileguato con lei.

Altro mi disse Pavona della sua vita triste. Abbandonata a sè stessa
aveva pensato al poi. Le era parso camminare su gli orli di una
voragine perchè non aveva nessuno al mondo, nemmeno un parente che
potesse accoglierla. Allora l’uomo al quale si era rifiutata sempre,
per una sua selvaggia volontà di essere sola, di sentirsi sola chè
il mondo le pareva più grande dell’amore; l’uomo ch’ella credeva
offeso dalle sue repulse era andato a lei una volta ancora ed avean
sposato. Dopo, era stata la loro vita come quella di tutti i poveri
che poco hanno a sperare; erano passati di patimento in patimento; di
tribolazione in tribolazione. Giunti a Roma quando c’era lavoro, ora
stentavano a tirare innanzi e se Giammaria non fosse stato cagionevole
di salute la buona speranza di qualche giorno migliore poteva
rifiorire; ma così?

Incontravo tutte le sere il dolce viso pallente, la giovinezza sfiorita
e a notte udivo il suo canto materno nel quale l’anima pensosa si
schiudeva quasi a seguire le vie di un pensamento di sogno sempre vivo
e splendente simile a una vita interiore gettata oltre la morte.

Anche quella volta, come sempre, Pavona si tacque e si abbandonò al
sonno allorchè giunse il suono di una campana che batteva le ore. Erano
le dieci. La pace notturna si distendeva sempre più grande.

Dal mio tavolino, posto contro alla finestra, vedevo, levando gli
occhi, un gran lembo di cielo stellato; negli attimi di sosta la
fantasia mi rapiva in quegli abissi. Era la prodigiosa amica della
mia solitudine, la madre inesausta che trae incantesimi e terrori
dall’ignoto, e corre infaticata dalle viscere della terra ai gurgiti
dello spazio; la generosa maga che sa il paese d’oblio e piccoli e
grandi e vecchi trae con sè fra le sue magnificenze onde inebriarli
di sogno, nei castelli levati in cima dei monti più in cima fra magici
boschi azzurri.

La Signora dell’ideale giungeva a quando a quando a distogliermi dalla
mia fatica diuturna. C’erano d’innanzi a me le luci degli altissimi
astri, le parole del fuoco che è la voce dell’eternità e, perso nelle
remotissime signorie di soli vermigli, smeraldini, azzurri; fisso su
le effimere luci che avean brillato nei gurgiti nell’inaccessibile,
ai tempi in cui la marmorea mole di Roma era sacra al genio degli
imperatori; attratto da quelle vertigini, il mio pensiero, tremante
al limite del finito, ai confini del magico cerchio che natura ci
prescrisse per l’armonia del nostro intelletto, vedeva con occhi nuovi
la vita che ha dato a noi un niente de’ suoi tesori più numerosi delle
arene dei deserti e delle goccie che formano gli oceani.

Tutto che la notte fugacemente ci addimostra scendeva alla mia
solitudine, lassù, in quel nido isolato ed alto su le case ricurve,
simile ad un camino che azzurri nastri di fumo ornano ed un sommesso
pispiglio di passeri freddolosi allegra.

È dolce la sosta al pensiero costretto ad una lunga via.

Ero ritornato a’ miei studi che la morte di mia madre mi aveva fatto
interrompere d’improvviso, e con vera gioia venivo constatando come
nulla avessi perduto del poco che sapevo. La mia memoria si era
afforzata e l’intelligenza era più agile, più disposta alla rapida
comprensione, alla associazione e al dedurre. Ritrovavo il mio _Io_ che
tanto aveva amato, nei primi tempi della giovinezza, le lunghe veglie
sui libri, che aveva cercato avidamente la sapienza ad ogni sua fonte
e se ne era nutrito per soddisfare la continua bramosia di vedere un
punto più in la nella vita degli uomini e del mondo. Allora le grandi
biblioteche nelle quali le parole si accumulano in montagne, mi avevano
incusso un sacro terrore perchè sentivo infinita la mia ignoranza fra
quell’affoltarsi di sapere e credevo rinchiusa nel silenzio di quei
volumi antichi e recenti, la spiegazione di ogni perchè, la soluzione
di ogni dubbio, la pace dello spirito, la tranquillità armonica che
ricercavo anelando.

La Morte e Iddio, i due problemi terribili che facevano le mie notti
insonni e tormentose, i due limiti fra i quali l’anima mia pensosa ed
irrequieta si agitava senza posa scrutando, interrogando, avida di fede
ma repugnante da ogni dogma, da ogni scuola, da ogni cieco aggiogamento
ad un principio imprescindibile, mi stavano innanzi di continuo; e
fra i sistemi filosofici che erano stati di alcuna pace agli uomini,
cercavo il rivoletto tranquillo sul quale gettarmi prono per ispegnere
l’avida sete. Inutilmente. Le parole, i pensieri guizzavano nella mia
mente senza stabili bagliori; troppo lontano ricercavo la pace che
era sotto agli occhi miei nel grande libro della natura. Allora non
avevo imparato a leggervi, o meglio ne provavo l’estremo fascino senza
comprenderne il senso. L’anima era traviata, raminga; andava come una
vela dispersa, come una nube nel turbine: non aveva amato ancora.

Senza l’amore ogni astrazione è vana nè l’anima vi può riposare.

Ora avevo ripreso le diuturne fatiche di un tempo.

Un giorno me ne andavo lungo via Nomentana verso Sant’Agnese (erano
trascorse due settimane dall’attentato di Sita ed altro avvenimento non
era occorso) il caso, compagno degli uomini e della scienza, mi fece
imbattere in un amico di vecchia data. Si chiamava Leonello Robbia e
discendeva da una fra le famiglie più facoltose della città che aveva
dato i natali ad entrambi. Si trovava a Roma a trascorrervi l’inverno.
Conduceva vita elegante ed era annoiato perchè anche la noia è elegante
e denota una certa superiorità di spirito. Così, secondo la Bibbia dei
ricchi.

Eravamo stati compagni di scuola. Allora Leonello non pensava ad
annoiarsi; era un caro ragazzo che due istitutrici esotiche, due
rifiuti dell’estetica e dell’amore, non avevano tormentato tanto,
da fargli dimenticare compiutamente la lingua italiana e da fargli
perdere la sua bella franchezza di modi per ridurlo al tipo comune dei
manichini bene allevati. Non era, a dispetto della sua condizione, nè
un pappagallo, nè una bestiuola addomesticata secondo le rigide smorfie
dell’etichetta. Amava le corse, le risate, i giuochi, ed aveva un cuor
d’oro. Ci si voleva bene per il naturale accordo delle nostre anime. In
seguito la vita ci aveva disgiunti.

Nonostante la lontananza che si faceva sempre maggiore per l’enorme
divergere delle nostre condizioni sociali, ogni qualvolta ci si fosse
trovati era una festa; ma le occasioni si eran fatte sempre più rare.
Leonello viaggiava, spendeva le sue rendite; io consumavo inutilmente
la mia giovinezza quale scrivano e galoppino di un avvocato che
aveva il cuore di una talpa e l’intelligenza di una rana, ciò che gli
fruttava naturalmente la stima dei più.

Erano forse cinque anni che non ci incontravamo quando il caso ci pose
di fronte a Roma. Benchè ravvisassi subito nel giovanotto elegante che
mi veniva incontro per il largo viale, Leonello Robbia, non volli esser
primo a salutarlo per tema ch’egli potesse interpretar male il mio
gesto. Proseguivo indifferentemente, allorchè mi giunse la sua voce che
mi fu più cara di un tesoro, in quel momento e in quella condizione:

— Duccio?

Era ancora il buon amico di un tempo. Mi gettò le braccia al collo chè
non ebbe ripugnanza de’ miei cenci.

Poi mi si pose a fianco; volle sapere tutta la mia vita e mi ascoltò
con amore.

Mi parve rinascere. Qualcosa che era rimasto a lungo, troppo a lungo in
fondo all’anima mia; una piena di affetti, di pensieri, di amarezze che
non avevo potuto comunicare mai compiutamente ad alcuno, aveva trovato
una via, poteva manifestarsi e irruppe. Il dolore mi fece eloquente.
Vidi inumidirsi più volte gli occhi di Leonello.

La mia parola purificava tutta la volgarità alla quale ero stato
costretto; mi pareva ch’ella mi coprisse di una nuova veste. L’anima
usciva più pura da quella confessione; dal racconto in cui potevo
liberamente, con piena certezza di essere inteso, tutto dire,
manifestare libero il mio pensiero. Mi sentii più forte; l’entusiasmo
e le lontane speranze ritornarono a frotte poichè la mia giovinezza
risorse impetuosa e ringagliardita, pronta a nuove lotte per la sua
ultima finalità d’amore.

All’indomani Leonello Robbia mi trovò un lavoro particolare, non troppo
simpatico ma molto rimunerativo.

Una persona di sua conoscenza stava compilando uno studio su la vita e
le opere di Seneca e voleva far seguire a tale studio una traduzione
limpida ed esatta delle opere stesse; mancandogli tempo per condurre
a termine sì ampio lavoro, mi proponeva occuparmi di tutta la seconda
parte promettendomi un lautissimo compenso sul quale mi anticipava
cinquecento lire affinchè potessi a tutto agio pormi all’opera.

Era l’attimo della fortuna e non ebbi esitanze. Sì come si pagava
l’opera mia, avrei posto ogni forza intellettiva nel’curarne l’ottima
riuscita. Inoltre non si trattava di una forma larvata di elemosina;
il mio orgoglio rimase tranquillo. Accettai assumendo l’impegno formale
di presentare dopo due settimane, gran parte della traduzione compiuta
e quando ebbi, coi danari riscossi, adempito alle prime necessità,
come quella di cambiar casa, di rivestirmi, di comprarmi i libri
indispensabili mi posi alla particolare fatica con novissimo ardore
travagliando giorno e notte.

Le ore trascorrevano inavvertite. Ero contento. Serenella sarebbe
giunta fra non molto; l’attendevo di giorno in giorno; di giorno in
giorno aspettavo Omero che me ne annunciasse l’arrivo. Ella m’era
vicina: la dolce figlia delle acque, la piccola pensosa che amore aveva
guidato chi sa per quali vie di tormento. Come avevan mai resistito i
piccoli piedi a tanto cammino? Non aveva ella lasciato tracce di sangue
lungo il suo passare? Altre volte Roma chiamava le anime stanche così,
da lontanissimi paesi per il fascino di un Dio che era nel cuore delle
turbe; ora l’amore compiva il dolce miracolo.

Ferma nella sua fede la debole giovanetta era giunta fino a me per
portarmi il superbo dono della sua tenerezza, della sua gioventù. E
chiedeva un nulla: un poco di posto al mio lato, per riposare; una
parola buona che la facesse contenta, nè avrebbe voluto mai che la
legge giacesse fra noi inutile ombra avvincente.

— Quando l’amore è morto meglio è abbandonarsi.

Così aveva detto più di una volta lassù, nella terra sperduta; eppure
anche se il dubbio di un abbandono le era passato per la mente, non si
era lasciata turbare, e sola, fra i mille pericoli che la bellezza sua
poteva farle sorgere innanzi ad ogni passo, era partita.

Perchè non veniva ora? L’attendevo con tanta trepidazione! A volte un
sommesso picchiare all’uscio, un piccolo stridore della maniglia mi
facevano dare un sobbalzo improvviso. Mi volgevo trattenendo il respiro
per l’ansia di vederlo apparire avvolto nello zendado azzurro, quel suo
bel viso di madonna!

Sita, la maledetta, era riuscita a nulla, piacendo al destino. Ora poco
la temevo. L’ambiente nel quale era caduta non le serviva all’accusa
chè non poteva sorgere da quel brago per vendicare su me, innocente, la
morte di suo padre. Altra volta la giustizia, che vede troppo spesso
con occhi di talpa, sarebbe stata facile arma nelle mani di lei; ora
non più, Sita aveva intuito ciò nella sua perfidia cercando farmi
sopprimere nella suburra. Il terribile fascino de’ suoi grand’occhi
verdi ed ambigui sul viso bruno macchiato dalla violenza delle labbra
rosse e sensuali; tutto l’incantesimo della sua bellezza imperiosa
ch’era già stata fatale a Zalèbi, avevano facilmente inebbriato i figli
delle strade; senza concedersi era riuscita ad incatenarli e tenerli
schiavi del suo volere; ora non avrebbe potuto continuare il giuoco.

Così credevo e ciò mi era sorgente di tranquillità.

Anche per me sarebbe giunta l’ora soave della pace; la mia vita
tribolata vi aspirava ardentemente.

Il canto dei galli mi fece levar gli occhi dalle carte. L’alba era
sorta. Superato il sonno, nell’eccitamento del lavoro non sentivo più
stanchezza; come altre volte non pensai a coricarmi.

Ad un tratto la porta si aprì e udii il grave passo della padrona di
casa: una donna sesquipedale dal rotondo viso appoggiato su l’enorme
mensola del seno e dagli occhi chiari fra il burbero e il benevolente.
Veniva tutte le mattine a portarmi il caffè; si soffermava dietro la
mia sedia attendendo e come vedeva ch’io non le prestavo attenzione
aveva sempre la stessa frase:

— _Stra rusbugghiete mo’, num ddurmire!_[11]

Era abruzzese; donna di cuore e di silenzio. In molti mesi che vivemmo
insieme tali furono le uniche sue parole.

Ne ho serbato memoria dolcissima.




XVIII.

Artifex vivendi.


— E questo che sarebbe? — chiese Giusto Sorani indicando, appeso al
muro, una specie di calendario infarcito di incomprensibili segni.

— E che ne so? — risposi levando le spalle — siamo in pieno regno di
magia, non vedi?

Oddo Spiro, il giovane siciliano, conversava in disparte
animatissimamente con Sulpicio Alanna il quale, non sapevamo per quale
insolita disposizione d’animo, pareva prestasse somma attenzione alle
parole del bizzarro filosofo.

Lo Spiro parlava, come sempre, con somma rapidità accompagnando i
lunghi periodi con gesti da spiritato.

— Oddo — gridò Giusto Sorani — quando avrai finito il discorso vorrai
spiegarci, spero, che significhi questo affare.

— Quale affare? — chiese Oddo interrompendosi ad un tratto e volgendosi
verso noi.

— Questo — riprese Giusto Sorani indicando il calendario — Da un’ora
Della Bella ed io ci lambicchiamo il cervello senza riuscire a
decifrarne sillaba.

Oddo Spiro rimase un attimo in silenzio, sorrise e soggiunse:

— Due parole ancora e sono da voi.

Attendendo, esaminammo più particolarmente il curioso cimelio. V’eran
notati tutti i trecentosessantacinque giorni dell’anno ed ogni giorno
era suddiviso in cinque parti ed ogni parte aveva speciali annotazioni.

— Oggi è il venti gennaio ed è domenica — disse Giusto Sorani. —
Guardiamo un po’ che diavolo ci tocca!

Si avvicinò al cartellone e lesse:

  _D. 20 Janv._ —  Ciel — _Entrée du soleil dans le
                            verseau._
                  Terre — _Génie du Décan: Ptiau,
                            Oroasoer._
                  Homme — _Influence de_ Ieialel.
             Opérations — _Spécialisation de l’influence
                            de Mercure sur le plan
                            intellectuel (Uranus)_.
                Memento — _1556. Jean Dee adresse une
                            mémoire à la reine Marie._

— Sarà la cabala per estrarre i numeri del lotto — riprese come ebbe
compita la lettura. — Costui è capace di questo e d’altro.

— Non lo credo — soggiunsi. — Oddo Spiro è un entusiasta ed è sempre in
buona fede anche quando espone le maggiori strampalerie: anzi tanto più
se ne anima quanto maggiori sono.

— Converrebbe ammettere ch’egli avesse una inverosimile capacità di
fede; una specie di cecità involontaria e ciò non è possibile. Oddo
Spiro è un giovane d’ingegno.

— Ciò nulla toglie — risposi. — È un ingegno incline all’astrazione:
un’anima avida di mistero; dotata di una ipersensibilità che noi non
conosciamo.

— Allora è un allucinato! — soggiunse Sorani scrollando le spalle.

Tacemmo perchè Oddo Spiro e Sulpicio Alanna venivano verso noi.

— Quella — disse Oddo avvicinandosi —, è l’Agenda magica o calendario
che serve di guida agli iniziati. Ogni giorno comprende quattro
indicazioni essenziali: Nella prima sono segnate le posizioni degli
astri indispensabili a conoscersi per compire le operazioni magiche;
la seconda è riservata a certe festività particolari, ai genii di
Décan e alle note personali dell’operatore; nella terza si trovano
le operazioni magiche o ermetiche da eseguirsi in determinati giorni
dell’anno e nella quarta è riportato qualche avvenimento importante
come, ad esempio, la nascita di Santa Teresa al ventotto marzo; la
condanna di Cagliostro al sette aprile; la morte di Shakespeare al
ventitrè aprile e così via.

— Ah è un bel pandemonio! — conchiuse sorridendo Giusto Sorani.

— Ma niente affatto! — esclamò Oddo Spiro. — Questa necessariamente
è la parte esoterica della dottrina, quella riserbata agli iniziati.
Se vi deste la pena di voler sapere, vedreste che non si tratta poi
di quell’oscurantismo del quale andate cianciando. Noi ci avviciniamo
al mistero che vi impaurisce o vi lascia indifferenti e lo studiamo
secondo i principii della scienza.

— È una metafisica pazza — disse Sulpicio Alanna scrollando il capo.

— Vedo che non vi ho persuaso — constatò tristemente Oddo Spiro. —
Eppure mi era parso fin dal primo momento, per l’impressione che ho
provato vedendovi, che le nostre anime fossero avvinte dal _karma_.

— Ahi! — esclamò Giusto Sorani aggrottando lievemente le ciglia.

Tutti demmo nel ridere, solo Oddo Spiro rimase serio, evidentemente
contrariato dalla interruzione intempestiva.

— Ma sai che cosa sia il _karma_? — chiese rivolto a Sorani.

— Niente affatto — rispose quest’ultimo — ed è appunto per questo che
ne temo.

— E perchè ridi allora?

— Per principio. Il riso è la magnifica difesa dell’ignoranza.

— Compenso meschino.

— Ma bello. I miei vecchi che avevano imparato a conoscere unicamente
l’ombra e il sole, dicevano che il riso fa buon sangue. Io mi attengo
al loro principio perchè amo la mia salute.

— La tua anima è serva del tuo corpo; è soggiogata dagli istinti
bestiali che prediligi.

— Forse hai ragione. Io ho la tranquilla coscienza di essere un
grazioso animale venuto al mondo per goder quel poco o quel molto che
il mondo può dare, ne ho forse colpa?

— E non ti preoccupi della ricerca della verità?

— No. Guardo voi. Mi accontento del mio umile posto in platea.

Oddo Spiro sorrise crollando lentamente il capo dai lunghi capelli
castani, spartiti a mezzo alla fronte in due grandi ali che
condiscendevano in massa compatta ad ombreggiargli il collo, poi
tacque convinto dell’inutilità delle sue ragioni di fronte alla gaia
indifferenza di Giusto Sorani.

Sulpicio Alanna ruppe l’imbarazzante silenzio.

— Ma ditemi, Spiro, credete seriamente alla logica de’ vostri studi?

— In apparenza tutto ciò che avete visto e che vi ho detto potrà
sembrarvi illogico, eppure non è che la manifestazione naturale di
cause che sono ancora ignote a noi.

— Del resto — soggiunse e gli occhi suoi si riaccesero d’improvviso
per il grande entusiasmo che lo animava allorchè era tratto a discutere
delle sue dottrine — del resto si trova logica l’azione della macchina
elettrica che, isolata su piedi di vetro, trasforma in energia il
lavoro meccanico; ma, con procedimento aprioristico, si trova più che
assurda, addirittura pazza, l’azione del mago il quale, isolato al
centro del suo circolo tracciato col carbone, trasforma in energia
astrale il lungo e penoso lavoro di allenamento a cui ha sottoposto
il suo organismo, e condensa la forza prodotta, nella palla metallica
fissata al termine della sua verghetta di legno rivestita di vernice
isolante. Tutto ciò, che sostengono i nostri contradditori, vi sembra
coerente?

Si arrestò un attimo e continuò poi con maggior lena.

— E non si trova forse logica e razionale l’azione del parafulmine
che attira ed attenua l’energia elettrica di una nube? E non si trova
logica l’azione di una punta metallica che permette la dilatazione
dell’elettricità contenuta nella macchina di Ramsden, o la direzione
dell’ago calamitato che tende misteriosamente e costantemente verso un
determinato punto dell’orizzonte? Ma che un cultore di scienze magiche,
armato di una punta metallica chiamata spada magica, spilli l’energia
condensata in un agglomerato di forza astrale, no, non può esser logico
per nessuno: per gli scienziati sarà un folle, un allucinato; per il
gregge sarà un ciarlatano!

— Eppure — riprese fissando gli occhi al suolo — la follia dell’oggi
sarà la sapienza del domani. Le forze su le quali agisce un cultore
della magia sono dello stesso ordine al quale appartengono tutte le
altre forze che agiscono in natura, e ubbidiscono alle stesse leggi!
Noi non crediamo nel soprannaturale.

— Non è questione che di un lieve spostamento di termini — disse
Sulpicio Alanna. — Comunque sia la vostra difesa è buona.

— Ma non vi persuade!

— Non siate troppo precipitoso, non è da scienziato! Non vi ho detto
ancora che non possiate convincermi.

— Io non faccio il sacerdote delle mie idee — rispose Oddo Spiro — pur
tuttavia non sarei meravigliato se il vostro spirito venisse a noi.
In questi ultimi anni molti uomini di gran valore scientifico si sono
dati all’occultismo, attratti dalle grandi verità svelate da questa
antichissima scienza. Agli scettici i quali pensano essere i nostri
studi vani sogni, potremo chiedere se la legge dell’evoluzione non
debba applicarsi alle forze fisiche come si applica a tutta la natura
e se abbiamo diritto di fissare limiti all’energia, sotto qualsiasi
aspetto essa ci si presenti.

Trascorse una nuova pausa. Oddo Spiro si era animato di vivissimo
rossore e pareva scosso da un tremito nervoso. Era il pensiero, in
lui, come una occulta fiamma di cui tutto il corpo vibrava. Anche quel
giorno il giovane teosofo vestiva semplicemente di nero senza palese
cura; nessuno fra noi lo aveva visto una sola volta indossare abito
diverso.

Giusto Sorani lo accusava di portare il lutto delle sue malinconie
trascendentali, altri aggiungevano ch’egli voleva assumere una
cert’aria sacerdotale; comunque fosse, viveva la maggior parte del suo
tempo nell’isolamento mostrandosi di rado nella società de’ suoi simili
e anche quando compariva era di preferenza taciturno vinto forse dal
terribile scetticismo degli amici suoi.

— Quando ci conduci nei penetrali? — chiese Giusto Sorani.

— Anche subito — rispose lo Spiro — ma prima voglio una promessa.

— E quale?

— Ciò che vedrete non turberà certo la vostra immaginazione predisposta
allo scherno, nè la vostra coscienza muta, ch’io direi ripiegata su sè
stessa in una terribile oziosità. Rimarrete indifferenti e ciò non mi
preoccupa; vi prego però di non ridere: la cosa mi offenderebbe. Ogni
idealità, come tentativo di elevazione dell’anima nostra, è sacra.

— Vi prometto che Giusto Sorani non muoverà critiche di sorta — rispose
Sulpicio Alanna.

— E te lo prometto anch’io — soggiunse Giusto.

Allora si avviò innanzi, verso una porta celata da una pesante cortina
rossa.

La stanza da studio dello Spiro era molto semplice. Su le pareti
bianche, a calce, oltre l’agenda magica erano appesi i ritratti di
Eliphas Levi, di Camillo Flammarion, di Hoene Wronski, di Eugenio
Dus, di Charles Fauvetry, celebri cultori delle scienze occulte. In
disparte, sotto la piccola finestra celata da tendine color di cielo,
era un tavolo ripieno di teschi, di storte, di alambicchi, di antichi
volumi rilegati in pergamena e di altri oggetti, sacri già alla memoria
degli alchimisti medioevali. Nel lato più buio della stanza era situata
la scrivania su la quale giacevano carte e libri a catafascio; di
fronte alla scrivania pendeva dal muro una enorme croce nera.

Osservai ancora, posato su l’uscio della camera segreta, un gufo reale
che ci sogguardava fissamente dai grand’occhi gialli dall’espressione
ondeggiante fra il terribile e l’idiota.

— Possiamo entrare? — chiese Giusto Sorani.

— Non ancora — rispose dall’interno Oddo Spiro.

Dopo non molto le cortine si levarono come per incanto e ci trovammo
innanzi una piccola stanza tutta nera nella quale di primo acchito non
distinguemmo se non una livida fiammella oscillante e un fumo bluastro
e luminoso che si disperdeva sfioccandosi per l’aria. Si distinse
poi, al bagliore incerto di una lampada a spirito, una lunga tavola
ricoperta da un tappeto nero. Al centro della tavola era posta una
stella circondata da sette cubi e ai quattro lati sorgevano: un vaso di
vetro; una coppa; un fornello a spirito e una lanterna magica la quale
proiettò ad un tratto il suo fascio di luce sui vapori uscenti dal
fornello e ne trasse magnifiche iridescenze.

Dietro la tavola, su la parete tappezzata di panno nero, mi parve
scorgere il miraggio di uno specchio situato ad arte sì da rendere come
un incantesimo indefinito di tenui luci lontananti nello spazio.

— Questo è l’altare magico — disse Oddo Spiro dall’ombra.

Secondo la promessa data, nessuno fiatò. Ci aggruppammo su la porta,
vinti da una curiosità nuova per le cose che avremmo vedute ed udite.

— La magia — riprese Oddo Spiro — è l’applicazione della volontà umana
dinamizzata alla rapida evoluzione delle forze viventi della natura.
Qualsiasi operazione magica deve comprendere almeno il seguente
rituale: Dinamizzazione della volontà dell’operatore per mezzo del
desiderio; purificazione degli oggetti impiegati; evocazione delle
influenze benefiche dell’invisibile (angeli planetari e angeli delle
ore); congedo.

Sentii il braccio di Giusto Sorani premere fortemente il mio; se non
era per la promessa data non sarebbe stato improbabile che il gaio
incredulo avesse rotto l’incanto.

— Passo sulla prima e sulla seconda operazione — continuò il dolce
mago — e cioè sulla dinamizzazione della volontà e su gli oggetti
impiegati; tali argomenti meno potrebbero interessarvi e mi soffermerò
sulla invocazione degli spiriti benefici. Tutte le operazioni debbono
essere compiute durante il periodo della luna crescente. L’operatore,
ricoperto delle sue vesti sacre, tiene nella mano destra la verghetta
e nella sinistra la spada e si pone nel perfetto centro del circolo
magico tracciato sul suolo. Al suo fianco ha situato un braciere
contenente carboni ardenti sui quali viene proiettando incenso mentre
pronunzia la seguente formula sacra: _Nel nome di_ IOD, IAH, IAÔ, IEVE;
ADAII, ELOIM, AGLAON; _la cosa ch’io domando si compia per volontà mia
e per volontà degli spiriti invisibili dell’Astrale!_

La voce di Oddo Spiro giunse dall’ombra con tanta vigoria ed ebbe
una intonazione sì strana di orgasmo e di paura che Giusto Sorani si
strinse al nostro braccio e non si tenne dall’esclamare:

— Gesù mio, salvateci voi!

Gli tappammo la bocca. Oddo Spiro non intese e continuò:

— Pronunciata tale formula l’operatore potrà bruciare una carta sulla
quale avrà scritto il suo desiderio dinamizzato per mezzo dei caratteri
geroglifici del tetragramma posto ai quattro angoli della stessa carta.
In seguito conviene invocare il genio del giorno e il genio dell’ora.
A operazione compita si congedano gli spiriti ringraziandoli in nome di
Dio onnipotente.

Cadute le quali ultime parole, le cortine si riabbassarono e la camera
magica disparve agli occhi nostri.

Ognuno di noi sorprese sul viso del compagno un muto sorriso.

— È una forma di ciarlataneria — disse a bassa voce Giusto Sorani.

— Credo lo Spiro in buona fede — soggiunse Sulpicio Alanna. — D’altra
parte questa tendenza dello spirito non è nuova, riappare in tutte
le epoche di maggior scetticismo e di disgregazione morale. Roma ha
conosciuto i suoi maghi ben altre volte in tempi ben più grandi di
questi e la città di tutti i misteri e di tutti gli Iddii non può
essere sorpresa dalle cabale, dagli altari e dalle evocazioni del
nostro mago. Non ostante il grido di Orazio, Roma pagana credeva
nel meraviglioso; i sogni e i miracoli l’esaltavano. Il poema di
Manilio su l’astrologia ebbe a quei giorni numerosissimi lettori.
Tiberio proscrisse gli indovini, li fece battere, imprigionare, li
uccise ma nello stesso tempo non sapeva farne senza e segretamente
ne invitava qualcuno a’ suoi palazzi. La magia di allora come quella
d’oggi, affermava essere in possesso di segreti per mezzo dei quali
costringeva alla sua volontà le forze della natura e degli stessi Dei.
Essa pure faceva risuscitare i morti. I nostri lontani progenitori
attraversavano, ai tempi di Tiberio, una crisi dello spirito la quale
ha molti punti di contatto con quella che agita il nostro secolo.
Cadevano le antiche credenze, il cristianesimo era ancora un’alba
troppo pallida; allora come non mai, nella cieca furia della tempesta
imminente, le anime che per la scuola degli stoici avevano imparato
a sorridere degli antichi idoli, ricercavano qualcuno, qualcosa che
appagasse la loro sete di soprannaturale; tutto era buono, tutto veniva
accettato con cieca fede; chi più sapeva ingannare più era considerato.
Oggi avviene un po’ la stessa cosa. Si è insistito tanto e con tale
assurdità nella negazione, che si finirà per credere ciecamente
alle più strambe malinconie finchè un nuovo forte grido non sorga a
raccogliere il gregge disperso. Per ora io non vedo simile possibilità.
La Chiesa decrepita non risponde a’ suoi figli nuovi e d’altra parte
non potrebbe. Il campo è e rimarrà libero per molto tempo ancora; Oddo
Spiro potrà fare molti iniziati.

— Forse nei manicomi! — esclamò sorridendo Giusto Sorani.

— Anche fuori — aggiunse Sulpicio Alanna.

— Ma per studiare un qualsiasi fenomeno è forse necessario tutto
quell’apparato ciarlatanesco?

— Ti risponderanno che quelle sono le uniche condizioni in cui il
fenomeno possa manifestarsi. I procedimenti antichi non farebbero
breccia su la sensibile anima moderna. Ricorderai, nella _Farsalia_ di
Lucano, il racconto di quella maga la quale, invasa da sacro furore,
si gettava sui moribondi, sussurrava loro ciò che le piaceva ordinare
alle potenze infernali poi, fingendo baciarli, li uccideva. La stessa
maga, dissotterrava i morti obbligandoli a rispondere alle sue domande;
toglieva loro gli occhi e compiva impunemente orribili nefandezze. Oggi
le cose hanno cambiato aspetto. La parte essoterica dell’occultismo
moderno non è più popolare, rivolgendosi essenzialmente a spiriti
raffinati ha ricorso a forme più raffinate rimanendo identica la
sostanza.

Si interruppe; Oddo Spiro era ricomparso. Notammo l’estremo pallore di
cui era diffuso il suo bel volto di adolescente.

— Non vi sentite bene? — domandò Sulpicio Alanna.

— È nulla — rispose Oddo Spiro. — Tutte le volte che invoco i genii di
Décan, l’emozione troppo forte mi lascia un poco spossato; ma faccio
presto a riavermi; l’aria libera mi è un balsamo salutare. Usciamo?

— Certamente — rispose Sulpicio Alanna.

— A che ora abbiamo l’appuntamento con Leonello Robbia?

— Alle cinque, sul piazzale del Pincio — rispose Giusto Sorani — Non
c’è da indugiare, mancano pochi minuti all’ora fissata.

Poco dopo percorrevamo la luminosa strada che dalla Piazza
dell’Esquilino si lancia in linea retta fino a Santa Trinità dei Monti
e si avvalla e risorge in un superbo giuoco di prospettive superando
tre colli; chiusa ai termini da due steli granitici sacri alle vittorie
di Roma.

                                  ***

Giù, dietro la cupola di San Pietro, gigantesca nei cieli come
l’ardimento del genio che la volle, il sole, in una incomparabile
ricchezza di luci, salutava la nostra terra che si volgeva verso
i diademi stellari. L’ammaliamento del sommo fuoco non mai si era
disteso più vasto e superbo fra nuvole ed aria a coronare la città dei
magnifici.

Immensa su l’ondulare dei sette colli lanciava Roma l’arditezza de’
suoi fastigi contro la luce che li facea di basalto ed ora appariva in
una cima obliquamente, ora scuriva avvallandosi come sul turbine di un
mare percosso dai venti occidentali. Dietro la sua compagine, l’ultimo
fantasma solare era scomparso fra un alto intercolunnio di rigidi
cipressi.

Permase all’estremo cielo, nel punto sul quale le piccole cose del
mondo dileguano, una vasta raggiera che si innalzò in un diffuso
nimbo quasi a proiettare nell’aria, un’ultima volta ancora, la grande
ombra del sole. Dall’invisibile fuoco sorse l’armonica forma stellare
e le bianche nubi che spuntavano dall’oriente si orlaron di fiamma.
La luce si mantenne viva per qualche attimo in uno splendore che non
ebbe graduali morbidezze (chiuse l’orizzonte un lieve color ferrugigno
digradante in toni d’oro e di perle fino all’alto azzurro) poi
l’incantesimo vesperale si diffuse per la concava vastità.

Fu dapprima una gialla ammantatura di bellezza oltremirabile che ebbe
fulgori di topazio; ma per un niente: alle estreme radici illividì;
trascorse come un tremolìo d’ignee goccie, subentrò una banda più cupa
che per le gradazioni dell’ametista e del berillo salì all’intensità
del vermiglio; vinse le prime nubi che si sciolsero in corone di
granati; portò, sui monti orientali, nimbi di incognite aurore.

Allora fu che l’Urbe apparve agli occhi nostri indimenticabilmente.

Alta sui palazzi e le chiese, su gli obelischi e le torri, più agile
dei colli perchè più sola nel vuoto, la cupola di San Pietro vegliava.
Da Piazza del Popolo, ultima armonia in cui si muore il digradante
Colle delle Palme, prima ed oltre l’invisibile Tevere, pareva che gli
edifizi in graduale ascendere mirassero all’irraggiungibile sommità.
Sculta in un monte di bronzo, tratta divinamente dall’informe e
costretta in un segno, come un mondo dalle disperse energie, stava, a
simiglianza del ricurvo dorso di un ciclope, il fastigio della somma
basilica.

Monte Mario si erigeva in fondo coronato da suoi neri cipressi e
intorno: la mole di Castel Sant’Angelo, le cupole e le torri di San
Giacomo e di San Carlo, l’oscura massa del Pantheon e più lontano la
colonna di Marco Aurelio, la torre del palazzo Senatoriale, l’ardua
facciata di Santa Maria in Aracœli si levavano nere e rossigne dalle
valli o dai colli.

Altre chiese e palazzi e case si stringevano aduggiandosi,
affoltandosi, costrette in una oscura marea; solo le antenne fulgevano
nei cieli traendo dalla cupa vita dell’ombra tutta la loro forza di
impero.

E in fondo, ultima scolta sui deserti della campagna, i cipressi del
Palatino, i pini del Gianicolo stavano, enormi tede accese alla gloria
del morto Iddio.

In quell’attimo portentoso non si intese parola; ci eravamo soffermati
innanzi alla balaustra come su la prora di un antichissimo naviglio
colti dallo stupore nel quale annega ogni piccola vanità umana:
sperduti nella mirabile visione. Il tempo era spento per noi.
L’eternità vive dell’attimo.

L’anima nostra esulò in quel cielo d’intensissimo fuoco sul quale Roma
imperava.

Poi l’incanto decadde. Il cielo svariò, ammorbidì angelicandosi.
Un’infinita gamma di toni si svolse. Vi furon laghi di smeraldo
leggermente crocei ai bordi; nubi ch’ebbero il color delle opali, albe
di luna nel sereno splendore; nubi rosee a vene grige, altre di una
candida morbidezza di ermellino; archi di luce velati da vapori lattei
fino all’estremo occidente dove, su le cose evanescenti appena, si
distese una rosea dolcezza di paesaggio invernale.

E decadde ancora, sempre più: ogni tono si fuse nell’ultimo languore
violaceo sul quale gli aspetti apparvero tuttavia, lievi ombre
irradianti, per disperdersi poi come il sole sotto il soffio della
prima stella.

Poi, d’improvviso, balzò dalla nascosta città un torrente di luce
perlacea. L’anima notturna di Roma si levava dilagando.

Giungemmo in silenzio fino a piazza Santa Trinità dei Monti. Leonello
Robbia si era aggiunto a noi, camminava al fianco di Sulpicio Alanna.

Trascorrevano, frusciando appena, le ultime vetture signorili; si udiva
distinto il tonfo delle unghie dei cavalli e il lieve sobbalzare delle
gomme sul lastrico ineguale.

Da Piazza di Spagna salivano affrettandosi e volgevano per via Sistina,
gruppi di operaie; altra gente giungeva dal Pincio e si univa al fiotto
continuo, traboccante, per via Capo alle Case, ai quartieri alti o a
Piazza San Silvestro. Il rombo e il tintinnio dei tramway elettrici
lanciati per la rapida erta di Porta Pinciana giungeva frammisto al
rombo saliente della città in moto. Tutti si trovavan per le vie a
quell’ora: poveri e ricchi, ammiranti ed ammirati, domati e domatori a
fianco a fianco e pur tanto lontani gli uni dagli altri, più soli che
per deserti.

Oddo Spiro andava un poco innanzi, solo.

Si era già soffermato ad ammirare, come soleva ogni qualvolta passasse
innanzi a Villa Medici, la bella fontana che sorge a chioccolare nella
sua gran vasca rotonda sotto il folto domo che forman le rame dei
lecci su lei avvinchiandosi e aveva pronunziato qualche incomprensibile
parola mentre gli occhi di lui arridevano sfolgorando — ora procedeva
pensoso, astratto, le mani annodate dietro le reni, levando il capo
a quando a quando per guardare innanzi a sè ed evitare i possibili
ostacoli. Era il tipo più strano ch’io mi avessi conosciuto fra i tanti
che avvicinavo in quel tempo; strano sì per il complesso di esteriorità
bizzarre, come per il temperamento che aveva alcunchè di inafferrabile
e disorganico. Il nome stesso denotava ch’egli non era solo della sua
stirpe ad amar le stramberie.

Il viso un poco pallido era composto in una linea di virile bellezza;
gli occhi azzurro chiari non avevano mai quella luce di voluttuosa
letizia ch’è sì propria ai begli adolescenti i quali sanno precocemente
l’amore; ma riverberavano la continua pensosità di un’anima tormentata.
Sorrideva di rado; parlava a scatti e, a volte, troppo a lungo, come
era solito di rimanersene muto per qualche ora. Le stesse ineguaglianze
regolavano le sue apparizioni fra noi che per giorni e giorni era
assiduo ai nostri ritrovi e lasciava poi trascorrere lunghi periodi
senza farsi vedere. Allora Giusto Sorani lo diceva viaggiante nelle
regioni dell’Astrale.

Amava circondarsi di mistero; rispondeva alle domande nostre
con sorrisi ambigui e con parole evasive passando la bianca mano
gemmata sui lunghi capelli castani. Tale gesto gli era abituale sì
nell’intimità come su la cattedra da conferenziere. Era uno fra i
più accesi apostoli della Teosofia alla quale era stato conquistato
dalle prediche di un bramino. I maligni sussurravano ch’egli si fosse
lasciato sedurre più dalla strana veste che dalle parole del sacerdote
del Budda perchè in quel tempo Oddo Spiro non conosceva la lingua
inglese adottata dal gaio indiano per le sue prediche.

Comunque fosse, ben presto salì in grazia delle esotiche signore le
quali, nella loggia teosofica romana, occupavano i gradi più elevati
della gerarchia buddistica e la fortuna di lui fu fatta.

Associò poi alla pura morale del Budda le pratiche del magismo, chiamò
la scienza a far parte del connubio e si fece sacerdote della miscela.
Siccome era bello, le signore di tutti i continenti convenute a Roma
a formarvi la strana baraonda di cosmopolitismo femminile di cui
la capitale si allegra, gli prestarono fede. Da quanto più lontano
giungevano e quanto meno conoscevano la nostra lingua, tanto più erano
disposte a vedere in Oddo Spiro un nuovo messia. Egli si accontentava
temporaneamente di quel suo corteo di comete sperando in messe più
larga nell’avvenire. Sperava anche poter sovvolgere Roma, la moderna
Roma città dei pacifici. Così, senza alcuna fede, credo, ma con
l’intima speranza di insinuare qualche dubbio nell’anima nostra, ci
aveva fatto convenire alla particolar seduta dalla quale eravamo usciti
qualche tempo prima più tranquilli che mai.

— Povero Spiro — disse Giusto Sorani — pare sia sempre sotto il fico di
Bhodimanda a meditare come il suo maestro su la triplice scienza!

— Miss Twopower — soggiunse a bassa voce Leonello Robbia — ha parlato
di lui a Gino Spada con parole entusiastiche.

— Gran mercè, quella vecchiona in guarnellino e in sottano non avrebbe
a far la Monna Schifalpoco innanzi a tanta grazia di Dio!

La perenne allegria di Giusto Sorani trasse il discorso ad altri
argomenti ai quali partecipammo per la gaiezza che li informavano.

Si giunse così, a passo a passo, ai Prati di Castello, dinnanzi
al villino di Eduardo De Diensi. Quella sera eravamo convitati dal
raffinato edonista per conoscere una nuova etera apparsa da poco a
Roma.

Innanzi al cancello che separava il giardinetto dalla strada, Leonello
Robbia mi chiese:

— Ci sarà anche il tuo onorevole?

— Non credo — risposi.

— È da madonna Primavera — soggiunse Sulpicio Alanna. — Non parlate
dell’onorevole Miaggi?

— Sì.

— Dà un convito per madonna Primavera, su, al nuovo villino che le
ha fatto costruire ai quartieri Ludovisi. Ne parlava oggi, da Aragno,
Enrico Deral.

— Era invitato? — chiese ironicamente Giusto Sorani.

— Se ne parlava non poteva essere altrimenti. Si esalta la decorazione
per farsene cornice.

— Il dolce esteta! — esclamò Sorani — Chi sa quali asfodeliche
bambagerie avrà inventato per trar madonna Primavera a’ suoi sospiri.

— Non si attenta. L’onorevole Miaggi è di una gelosia furibonda e
se il pover’uomo ha l’intelligenza di un montone è, in compenso, uno
schermidore a tutta prova!

— Che bel conflitto! Lo immaginate? Il grande Miaggi, il grosso
Miaggi piantato su quelle sue gambe antiche da glorioso ponte romano;
così, in eroico atto di sorpassare una corrente vorticosa, il braccio
disteso, la mano dal nero vello ferma su la guardia della spada, la
faccia obliqua, corrugate le due atre pennellesse su gli occhiettucoli
rossigni, l’ampia bocca che il riso scataverna, serrata nella dura
linea della rabbia e, di fronte a lui, Enrico Deral, lo sterpo di
chiospa, l’azzurreggiante debolezza, pallido d’insueto pallore, il
viso oblungo, le braccia povere coserellucce, natanti nelle maniche
soverchie della camicia cospicua; la bianca mano, opera di angelical
perfezione, constretta nella costellata guardia del ferro ancipite;
fermo nell’atto sovrastante con grazia misurata e alquanto tremebonda.
Immaginate tale conflitto degli estremi posti di fronte da Monna
Primavera....

— A proposito — soggiunse interrompendosi — v’è fra noi chi sappia
il perchè il gentilissimo nome della donna del Cavalcanti sia stato
affibbiato ad una impudica _ètaira_?

— Chiedilo ad Oddo Spiro — disse Leonello Robbia.

— È opera tua? — soggiunse Giusto Sorani rivolto al taciturno.

— No — rispose Oddo Spiro.

— Eppure l’Ines non deve conoscere la letteratura del trecento!

— In ciò sta il meraviglioso! — esclamò d’improvviso Oddo levando il
capo e le braccia. — Ella si chiamò così una sera mentre era in uno
stato ipnotico, noi presenti. Lo _spirito_ le suggerì il nome gentile
che le fu poi conservato.

Oddo, Giusto e Sulpicio si avviarono su per le scale luminose. Leonello
era rimasto un poco indietro con me.

— Ed ora — mi chiese — non lavori più per l’onorevole Miaggi?

— Bisogna gli serbi riconoscenza — risposi —. Grazie alla tua cara
amicizia è stato il primo ad aiutarmi. Senza l’aiuto dell’onorevole
Miaggi chi sa quante altre amarezze mi sarebbero toccate! Del resto
paga cara la vanità di apporre il nome su cose non sue; ma non si
lamenta. A me non costa troppa fatica il lavoro che mi chiede, poi mi
rimane tempo da dedicare agli studi miei.

— Lavorerai molto?!

— Un poco, sì; ma, come vedi, non ne sono affranto se ho in mente le
distrazioni. Il tuo mondo mi seduce, è così nuovo per me, mi abbaglia.

— Te ne stancherai presto.

— Chi sa? Lo conosco troppo poco. C’è qualcosa che assopisce in tutta
questa mollezza, qualcosa che addormenta e mi pare temerne talvolta; ma
è troppo più forte la gioia che me ne proviene.

Eravamo giunti alla vasta anticamera che si apriva al sommo delle
scale, illuminata da una ricca lampada in ferro battuto. La luce
scendeva tenue e varia pei vetri colorati. Giungevano, da una stanza
vicina, accenni musicali destati come da una mano che, tutta lieve,
scorresse la tastiera di un pianoforte. L’aria era tepidamente
primaverile. Un senso di benessere, un’intima ebbrezza m’invase; avevo
la chiara sensazione di risorgere, di rinascere; il mio sangue era
sospinto da una nuova giovinezza aperta a un subito vento d’infiniti
desideri ignoti al mio spirito per l’innanzi. La via percorsa si
oscurava; le cose del passato dileguavano; la gioia mi aveva chiamato
alle sue ricche soglie e m’invitava nel suo regno di incantesimi.

Ero giunto come un ignaro che stupisce dapprima, si adombra, teme poi,
affinatosi un poco, anima di tutto il suo entusiasmo la nuova vita
che lo accoglie. C’era tant’ombra, tanto male appena un passo dietro
me (sì vicino che ne sentivo tuttavia la soverchiante minaccia); era
stata sì fiera la mia prova che me ne tornava l’incubo nel sogno.
Quante volte ho rabbrividito pensando ricadere! Quante volte un’onda
di pessimismo, ridotto a vana speranza qualsiasi affidamento sul mio
ingegno, mi dimostrava essere io zimbello di un’effimera fortuna che
poteva volgersi da un attimo all’altro per lasciarmi sul punto di prima
nell’aspra lotta per il solo pane! Eppure il contrasto mi rendeva più
bella la conquista.

Si era dischiuso innanzi agli occhi miei, all’anima mia, sitibonda di
sensazioni nuove, una via impensata che avrei voluto percorrere con
la vertigine del desiderio. Mi pareva allora che tutta una vita non
sarebbe stata sufficiente a comprendere in sè gli infiniti aspetti
della gioia. Volevo dissetarmi, essere ebbro; un’ansiosa concupiscenza
mi sospingeva per tutti i miei sogni che tornavano ad arridermi vicini,
nel campo del possibile. Avevo la fede dell’ignaro, la semplicità del
solitario.

Era trascorso qualche mese dal mio primo incontro con Leonello Robbia;
lavorando con assiduità da benedettino avevo condotto a termine in
poche settimane il breve studio esegetico su le opere di Seneca e,
incorato dai guadagni e dalla stima dei nuovi amici, avevo compito,
per conto mio, altre piccole cose, le quali, per la loro freschezza
nuova, avevano sollevato una certa curiosità intorno al mio nome. Ciò
mi valse quale titolo per entrare nella società che praticava Leonello
Robbia. Vinta la prima renitenza, il nuovo ambiente mi sedusse; ne vidi
unicamente l’orpello.

E vivevo dimentico a volte, a volte in aspra lotta con me stesso. Oh
anima mia tormentata; piccola nave sobbalzante sul fiotto della vita!

Per due volte Omero era salito al mio quarto piano per dirmi che
Serenella mi aspettava, che egli l’avrebbe fatta uscire dal convento
quando io lo desiderassi e per due volte l’avevo pregato attendere
scusandomi col presentare un poco lieto quadro delle mie finanze.

— Sta bene — disse Omero e vidi gli occhi suoi farsi d’un subito
freddi come l’acciaio. — Sta bene, verrai quando ti piacerà. Sai dove
trovarci.

Era partito senza aggiungere parola e da quella volta non era tornato
più.

Trascorse un mese senza ch’io salissi la solitaria via dell’Aventino;
il lavoro assorbente mi fu valida scusa, blandì il rimorso.

— Andrò — mi dicevo — non posso affrettarmi. Ella sa ch’io lavoro per
lei.

In vero un sentimento tutto nuovo sorgeva in me di giorno in giorno
più forte e mi costringeva al suo fascino. Un’egoistica freddezza
s’impossessava del mio pensiero, di tutto l’essere mio il quale, in
un nuovo ardore, aspirava all’intera sua libertà. Non volevo limitare
la mia vita al poco, precludermi le vie di gioia che si schiudevano;
starmene nell’ombra col tormento di non aver vissuto mai. Era troppo
arida la mia bocca ed avida, sitibonda si appressava alla ricca fonte
del piacere. Per gli occhi miei tutto era nuovo: gli aspetti, gli
uomini, le cose e, alla prima meraviglia, era subentrata nell’anima mia
una ferma volontà di partecipare alla squisita raffinatezza di vita che
avevo intravveduta.

La giovinezza è un volo, un rapido volo pei cieli: avessi potuto
compierlo almeno in un grido festoso e salire salire fin dove l’occhio
più spazia. Non mi sarebbe mancata forza a reggere al mio ardimento.

La turbolenza di un tempo che mi aveva sospinto ad emigrare dalla
mia terra per il sogno della fiera libertà, si ridestava, saliva
agitandomi, mi sospingeva verso l’ignoto nel quale era tutta la gioia,
l’unica gioia non trovata mai, pensata solo nell’ardore di qualche
desiderio superbo. Un nuovo orizzonte si dischiudeva per me ed io non
avrei saputo volgere gli occhi altrove, pensare al passato, ritornare
su’ miei passi per conchiudere volenterosamente la mia giovinezza
entro un fissato confine. Ma se avevo avuto sempre in orrore i limiti?
Se era, l’anima mia, come un’acqua che deve defluire perennemente per
serbarsi limpida? Quale sentimento, quale egoismo potevano costringermi
al giogo, all’inerzia, alla morte? Andare sempre, come diceva
l’insegnamento del mio rude maestro, di terra in terra, senza meta, e
soffermarsi appena per riposare, e riprendere la strada verso il punto
lontano nel quale la sorella buona ti attende al limite delle nebbie
per condurti alla grande soglia, questa la vita!

Così, non altrimenti volevo. Tutto l’essere mio consentiva in un impeto
gagliardo in tale volontà. Temevo la solitudine forse? Quand’anche
tutti mi avessero abbandonato e la miseria, ed ogni dolore, ed ogni
sofferenza fosse giunta con le sue più sottili torture a martirizzarmi,
non mi sarebbe rimasta l’anima mia che il male non lede, che è come il
puro fuoco eterno? Solo, con lei, avrei potuto morire sdegnosamente,
sotto l’ombra di qualche albero taciturno proteso su la mia via
solitaria.

Ma che cosa mi aveva chiesto Serenella? Niente. Taceva nella sua quiete
senza interporsi, senza avvertirmi della sua presenza; così sarebbe
morta tutta chiusa nel suo sogno d’amore come in una suprema virtù
dell’essere. E non era in tale silenzio della creatura debole e mite,
un vero eroismo?

Chi sa fra quali stenti aveva errato per raggiungere il suo bene che
ora le sfuggiva. Io dimenticavo. Innanzi a me era la vita, ma Serenella
era sola, nel silenzio di un chiostro ed altro non poteva sperare s’io
le fossi mancato. Non era piuttosto un freddo egoismo e una sciocca
ribellione che mi sospingevano a trascurarla?

Inoltre ella era un’anima ed una coscienza e una forza; taceva per il
suo giusto orgoglio ed io vedevo in lei il dolore disceso nel mondo a
dimostrare la superba divinità dell’amore.

A volte tale insistenza del pensiero di lei che definivo allora
sentimentalità morbosa, mi indispettiva; ma perchè non avrei dovuto
raggiungere il pieno sviluppo della mia personalità? E s’io cedevo
alla voce del cuore, non mi sarei perduto in una incessante penosità
di vita, non avrei dovuto rinunciare, per i nuovi obblighi dell’unione
mia con Serenella a tutto ciò che poteva promettermi l’avvenire? Non mi
sarei precluso mille vie, non avrei soffocato in me molteplici volontà
le quali avrebbero potuto nel poi, rivolgersi in odio contro lei che
nulla intuiva di tale mio grande tormento?

Mille tentazioni mi assediavano, mi erano d’attorno per assillarmi di
continuo; meglio era ceder loro per liberarmene.

E una sera volli esser sincero con me stesso e mi chiesi s’io l’amassi
ancora; se tutto il mio tergiversare non fosse l’ultimo risultato
dell’amore morto.

No, così non era, non l’avrei dimenticata. Ora più che mai sentivo di
amarla perchè un’avversa corrente mi trascinava lontano da lei. Erano
in me due anime: l’una sitibonda di vita, eternamente insoddisfatta,
chiusa ne’ suoi desideri per un’egoistica volontà irrefrenabile;
educata dalla violenza degli elementi ebbri di una libertà che non
trovano se non nelle tenebre del caos; l’altra rinchiusa nell’armonica
concezione dell’amore per cui tutto rifulge che è vita.

E si soverchiavano in una lotta che non aveva tregua onde seguiva la
mia eterna vicenda del giungere e del ripartire.

                                  ***

— Verrà? — chiese Leonello Robbia.

— Forse sul tardi — rispose De Diensi.

— E.... è molto bella questa tua Sara?

— Divina, semplicemente divina!

— È bionda?

— No.

— Bruna?

— Non voglio togliervi la verginità dell’impressione. La vedrete.

— Come mai rinunzi, una volta tanto, all’arte della tua parola?

— Me ne sarete grati. La bellezza di Sara non si descrive. È come un
impeto di sole: abbaglia.

— E.... particolari su la sua vita?

— Nessuno.

— Ma da quale parte viene?

— Non si sa.

— È italiana?

— Credo.

— E chi l’ha lanciata?

— Il marchese di Narva; ma per un caso strano che vi racconterò poi.
Certo ella è pari al mistero che l’avvolge. Io ne ho ancora accesa la
mente e il sangue. Sul conto di lei corrono le più strane leggende.

— Per esempio?

— Si dice ch’ella sia un’emissaria di una nazione estera. Sarebbe
venuta in Italia con importantissimi incarichi.

— Davvero?

— E ha fatto capo al marchese di Narva? — chiese Giusto Sorani,
incredulo.

— Vi ho detto che è una leggenda. D’altra parte tutto ciò le forma una
cornice simpatica. Sara, per conto suo, parla pochissimo, si direbbe
quasi muta e non fa male, conserva intatto il fascino della sua
bellezza.

— Che ne dici Oddo? — chiese Giusto Sorani volgendosi al giovane che
stava seduto in disparte senza interloquire.

— Egli è puro — rispose il De Diensi — non ha peccato ancora, ciò che
vuol dire ch’egli è un raffinato della concupiscenza.

Oddo Spiro non rispose, alzò gli occhi verso una riproduzione della
Vittoria di Samotracia ed ebbe un sorriso ambiguo. Si era abbandonato
sui ricchi cuscini di un divano situato nell’angolo più oscuro della
vasta stanza ottagonale rivestita di tappezzerie stile rinascenza;
dietro lui ricadevano le ricche pieghe di una tenda di seta olivastra a
disegni azzurri.

Eduardo De Diensi volse un poco il viso composto e gelido, bello nella
sua linea classica, ed animato stranamente dagli occhi, neri come
l’onice; fissò Oddo Spiro e riprese:

— Eppure potreste avere la vostra giovinezza ricca di tutti i tesori;
nulla vi si negherebbe perchè possedete il massimo fra i beni: la
bellezza.

— È cosa effimera — rispose Oddo Spiro.

— È tutto! — soggiunse De Diensi attardandosi su le parole quasi a
compiacersi del suono della sua voce, la quale aveva, come quella del
flauto, squisite morbidezze e cadenze dolcissime.

— Per voi edonisti è tutto, non per noi. Io vorrei già essere vecchio
per aver raggiunto quel termine di sapienza che vedo sì lontano
ancora. Può forse commuovermi un bene passeggero? Dovrei rinunziare
all’infinito bene della conoscenza per la semplice grazia di un’ombra?
Voi vivete di vanità, anzi vi siete fatti una veste della stessa
vanità. La vita vi accieca. Noi siamo reincarnati per redimere le
colpe della nostra passata esistenza. Solo coltivando l’ideale che
è in noi possiamo costituirci il futuro destino. Inoltre gli esseri
umani non sono che le cellule dell’umanità; ora un uomo non può
essere assolutamente felice finchè altri uomini soffrano. Per me ciò è
assiomatico.

E dopo una pausa soggiunse:

— Vorreste forse negare anche la nobiltà della mia fede?

Eduardo De Diensi sorrise. Era appoggiato al pianoforte e veniva
togliendo da un fascio di alburni che emergevano da un’anfora di
cristallo azzurro, qualche corolla. Rispose volgendo gli occhi verso i
fiori:

— È sempre nobile il motivo che vi spinge a compire una cosa sciocca.

— Ed è per raggiungere il tuo ideale — soggiunse Giusto Sorani — che
hai turbato il sonno secolare della piccola Creperèia Triphaena?

— Chi è questa tale? — chiese curiosamente, sporgendosi, Leonello
Robbia.

— Io vivo di quella memoria — rispose Oddo Spiro impallidendo. — Il
mio amore è nell’infinito con lei. Io so che innanzi a quell’arca
fredda in cui la sua giovinezza spenta posò tanti secoli or sono, un
acerbo dolore si risvegliò nell’anima mia. Non ero, come tutti voi,
di fronte ad una cosa muta, estranea che non ha altro valore se non
quello dell’antichità; io mi trovavo ricondotto alla sofferenza di una
vita molto anteriore. Voi non potete intendermi. Io la venero, sì, la
piccola Creperèia. I parenti la coprirono d’oro quando fu morta, io
le copro l’arca di fiori e le porto le mie parole più belle. Questa
purezza vi offende, lo so; voi impiegate la vostra forza nervosa
nel soddisfacimento di basse aspirazioni di passioni inferiori, io
spiritualizzo il mio ideale. La mia gioia vi è estranea come la breve
arca bianca nella quale posa il corpo di lei, la sua polvere. Ella ha
raggiunto le regioni dell’Astrale ed io l’ho eletta a mia guida nel
cammino difficile di questa vita e per ciò che le feci soffrire quando
visse, tanto più soffro ora. Non potrete intendermi, ma il mio amore
ha la purezza delle cose eterne, è come un fiore degli astri, vorrei
morirne!

Appoggiò i cubiti ai ginocchi; nascose il viso fra le palme. Le sue
dita, internandosi fra i capelli, li divisero in ciuffi salienti.

— Voi vivete in un inganno — riprese Eduardo De Diensi — ed io non
vorrei distogliervene. Vi siete composto un sogno meraviglioso e folle
sul mistero dell’irreale e irridete noi. Siete troppo giovane ancora
per dire: di qui non passerò. Certo è, e ne converrete forse, che il
profondo mistero della terra è nel visibile.

Dopo una breve pausa riprese:

— Voi esaltate e osservate la castità credendo seguire una superior
legge della natura e di qui ha principio l’inganno. La natura se ha
una voce e una legge l’esplica continuamente nel grido del piacere.
Tale è la sua volontà imprescindibile, imperiosa, sopraffacente. Se
vi prenderete la pena di considerarla un poco, potrete accorgervi
che è l’unica volontà che dobbiamo intendere con piena intelligenza.
Anzichè combattere il piacere e cercare un continuo martirio che non
vi condurrà mai ad alcun profitto e vi farà aspro e con voi e coi
simili vostri, cercate la compiuta soddisfazione dei desideri che
germogliano, che rampollano numerosi dall’anima vostra come i fiori
dal mandorlo allorchè giunge la primavera; concedete a voi stesso
ogni cosa che possa piacervi: solo quando sarete soddisfatto potrete
dire di esser buono ma con voi, non coi vostri simili. Che cosa può
significare per l’anima vostra codesta massa amorfa? Voi siete solo
nella vita e non potrete essere inteso mai dagli uomini che vi stanno
intorno, immersi nelle tenebre. Gli uomini sono, nella maggior parte,
spiriti meschini combattuti da antiche, sciocche paure. Iddio li
minaccia dal cielo; la società su la terra: fra lo spavento delle due
mani tese vivono compressi, sciocca nidiata implume. Vorrete esser
da tanto? Vorrete mutilarvi, rinnegare voi stesso? Aggiogarvi alla
ferrea catena secolare? Unirvi al nero gregge che va per il suo brago
dalla cuna alla tomba? Ah! ascoltate il grido della vostra giovinezza;
assecondate l’impeto del piacere; fate a qualunque costo di tutti i
vostri sogni una meravigliosa realtà. Non vi avvelenate nella rinunzia
cieca. Il martirio che vi imponete oggi potrebbe esservi amaro,
troppo amaro domani quando l’immonda vecchiaia verrà a deturparvi il
volto con le sue mani adunche e scioglierà la vigoria della vostra
persona, e vi farà una brutta, una orribile cosa dolorante alla quale
non vorrà togliere la triste eredità del pensiero. Voi credete nel
peccato; ebbene, se vorrete essere sincero, non potrete nascondermi di
aver peccato con l’intenzione. La cosa è brutta, rientra nel dominio
dell’ipocrisia. L’atto stesso che chiamate peccato, qualunque esso sia,
è, per me, un lavacro di purificazione. È un tormento che cade.

Si interruppe ancora; sedette sul divano disposto vicino al ricco
pianoforte; trasse da un astuccio dorato una sigaretta, l’accese e dopo
aver aspirato il fumo azzurro riprese:

— Non voglio persuadermi però; sarebbe immorale. Non voglio in
qualsiasi modo farmi di voi una eco dell’anima mia. Mi permetto
consigliarvi: d’altra parte so troppo bene che non intenderete.

— Ditemi — disse Oddo Spiro levando il capo — e con tutta franchezza:
la vostra coscienza non vi turba mai, non vi lascia perplesso talvolta?

— Volete dire la coscienza come movente morale? Non mi turba, no;
per me è cosa perfettamente trascurabile. Io so che se una volta sola
avrete il coraggio di vincere il Medioevo che vi opprime e commetterete
un grosso peccato per il quale potreste mettere in piena rivolta Iddio
e la Società, ritornerete allo stesso peccato più volte, con gioia
sempre nuova. Questa è la verità semplice. Noi viviamo in un eterno
inganno.

Sulpicio Alanna che era rimasto fino allora silenzioso, intento a
sfogliare, innanzi al pianoforte, lo spartito di un’opera di Wagner,
levò gli occhi dal ricco volume:

— Ognuno vive secondo l’inganno che più gli conviene — disse. — Tu
stesso non senti la sincerità delle dottrine che esponi.

— Io sento la loro bellezza e ciò mi basta. La sincerità può essere
talvolta degli apostoli, è sempre un dono dei poveri di spirito.
Bisogna rinchiudersi nell’angusto ambito di una qualsiasi morale
per essere sinceri e questa è già una povertà di spirito. Io non mi
preoccupo affatto delle vostre finzioni. Un uomo, se è una persona
di ingegno, comincia con l’ingannare sè stesso per raggiungere la
sincerità della sua finzione; rinunzia a una gran parte possibile di
godimento; si imprigiona. Bisogna provar tutto, foggiarsi a tutto con
uguale indifferenza. Una cosa sola è degna di esser presa sul serio ed
è il tuo _Io_. Ciò basta. Non sentite forse tutto il ridicolo di chi
assume seriamente un qualsiasi atteggiamento morale? Vi sono nemici dei
pregiudizi che non s’avvedono di esserne schiavi; spiriti liberi che la
morale incatena. Il controsenso è frequentissimo e passa inavvertito.
Pochi hanno il coraggio di vivere all’infuori di ogni legame;
unicamente per il loro piacere.

— E quando la giovinezza sarà trascorsa? Quando il piacere avrà
esaurito tutti i suoi fascini e la sua tentazione scuoterà invano
il tuo corpo disfatto allora la tua fredda logica non ti sarà
tormentosamente amara?

— No — riprese sorridendo Eduardo De Diensi — no perchè non avrò
rimpianti. Potrò guardare sorridendo al mio passato. Io svolgo il mio
sogno d’arte nella mia vita. La bellezza per me è una cosa tangibile,
vive al mio fianco, è mia. La visione di questa armonia ch’io compongo
per me stesso nel breve periodo che natura ci concede per la gioia, mi
accompagnerà fin ch’io viva. L’artista, normalmente, rinunzia a tutto
per gli altri e si appaga del contributo di ammirazione che il gregge
gli tributa; credi forse ne valga la pena? Perchè avvizzire l’anima
tua ponendola a contatto con quella de’ tuoi contemporanei che non la
potranno intendere? Che ne sa dell’amore e del piacere tutta questa
gente che è volgare anche quando si uccide? Ma tendi un poco l’orecchio
alle voci che ti giungono dal basso: sentirai, ovunque volga il capo, i
piagnistei della pietà, la quale, oltre essere un sentimento inferiore,
è la perpetua esaltazione di tutto ciò che è brutto, deforme, schifoso.
Viviamo in un secolo che si allontana dalla bellezza, che non ne
conosce il benchè minimo aspetto; in un secolo povero e ributtante;
meschino e vile in cui l’altruismo è levato a grido fra piangevoli
querele e grottesche minacce. Che cos’è mai un altruista se non una
piccola medusa che assimila i colori del gran mare e vi si perde?
Abbiamo perduto il senso della gioia e del riso; solo l’insuperabile
Grecia ne conobbe tutto il valore e lo esaltò. Ora l’uomo conosce ed
esalta il suo pianto; è quindi la più meschina fra le creature nate.
Che vale affannarsi e cercare la sua approvazione? A che ti servirebbe
la tua intelligenza in tal caso? Io ti ripeto che può dirsi unicamente
un organismo superiore quello che cerca moltiplicar la vita fin dove
lo assista la sua potenzialità; e ascolta la voce dell’unica madre; e
tutto accoglie in sè senza nulla concedere alla volgarità della folla.
Siate come la quercia millenne: ella estende intorno le radici per un
raggio immenso e nessun’altra pianta può crescerle vicina perchè tutti
i succhi della terra salgono alle sue cime. E si lancia sotto ai cieli
al di sopra di tutte le cose viventi e veggenti: è forte, è unica; il
regno dell’azzurro è suo. Se la morte si sofferma a’ suoi piedi ella
ride. L’anima di lei è in alto, sotto gli iridati archi del cielo. Per
l’altezza che ha attinto non può volgersi a sogguardare le cose che
gemono nell’ombra che getta su la terra. Il suo destino è il dominio,
la sua legge è la gioia di vivere. Ella adempie il suo diritto alla
vita possentemente e quando la folgore l’abbatta, precipiterà nel grido
della sua grand’anima solitaria e ancora le piccole cose intorno a lei
ne temeranno.

Dopo una brevissima sosta riprese:

— No, la vecchiaia e la morte non saranno per me tormentose se potrò
vivere così, come la quercia fatale.

Nessuno disse parola poich’egli tacque; ognuno di noi parve
acconsentire. Così non era. Il fascino ch’egli esercitava ci lasciava
stupiti come sotto l’azione di un narcotico. Dalle sue parole si
dipartiva un profumo strano. La voce languida e penetrante, accesa
da una musicalità voluttuosa, sapeva le vie per le quali si scuote
la mente e la si intorpidisce nel fascino, e gli occhi di lui
assecondavano lo squisito suono delle parole; pareva che tutta l’anima
sua, accesa e tranquilla, vibrasse nel breve arco di quelle pupille
nere in un profondo senso di gioia.

Mentre parlava, avevo osservato tutti i volti intenti al delicatissimo
suono delle sue parole; era una conquista lenta e sicura. L’anima
sua si espandeva in noi come un’onda di armonia, senza impeti
sopraffacenti, invisibile essenza propagantesi per virtù maliarda. A
volte mi sentivo scosso come se una voce mi avesse tolto dal sonno di
soprassalto; un profondo turbamento avveniva in tutto l’essere mio;
ogni pensiero era sovvolto da quella concezione edonistica della vita.
Una nuova ebbrezza mi stordiva.

— Alanna — disse Giusto Sorani — aspettiamo ancora il duetto del
Tristano.... siici cortese!

— Anima la superba strofe del senso, te ne sarò grato — soggiunse De
Diensi.

Nel silenzio i primi accordi si tolsero lievi, si espansero dolcemente
preludiando all’indicibile spasimo d’amore. Poco tenne il sospiro
chè crebbe incalzando, si perse nel magnifico canto in cui il Titano
raccolse la sua passione, la passione del mondo. Socchiusi gli occhi;
vidi gli oggetti lontani svanire pigramente nella penombra. Un’aureola
d’oro scendeva dalle lampade elettriche, foggiate in vivi grappoli
di strani fiori iridati, ad arricchire i contorni delle cose. Vidi
un antico paravento di cuoio di Cordova, un’anfora di agata nebulata
entro la quale cadevano sfogliandosi alcune rose gialle, un lembo degli
arazzi dai vivi colori di fiamma (gli oggetti che mi erano più vicini)
disperdersi in quella luce calda e diffusa.

Un sottil senso di piacere dilatava l’anima mia; ogni rigidezza
dileguò dinanzi dalla mia mente per il fascino del canto divino che
si innalzava accendendo una voluttuosa letizia. Dava tanta dolcezza
il soavissimo grido che ogni viso intorno ne smoriva. Come chiusi gli
occhi, Serenella mi riapparve.

                                  ***

La cena offertaci da Eduardo De Diensi volgeva al suo termine e
l’animazione era grande.

— Non giunge ancora la tua vaghissima incognita? — chiese Giusto
Sorani. — Io ne ardo già prima di conoscerla. Deve avere qualche pregio
singolare se può piacerti.

— L’unico pregio che possano avere le donne è quello di essere
decorative e Sara è meravigliosamente decorativa.

— È interessante?

— Interessantissima perchè sa assolutamente nulla.

— È troppo poco — disse Oddo Spiro.

— Ciò che basta perchè possa piacere. La sua insipienza le fa
nascondere la terribile superficialità del suo sesso. Ella tace.

— Una bella statua, allora! — esclamò Leonello Robbia.

— Ti pare poco? — soggiunse Giusto Sorani.

— Riducete a una miseria del senso anche l’essere più gentile che ci
abbia dato Iddio! — gridò Oddo Spiro scattando.

Un breve riso accolse le sue parole.

— Ma se affetti di essere misogine? — ribattè Giusto Sorani.

— Non potete intendervene — aggiunse Sulpicio Alanna — perchè, stando
alle vostre dichiarazioni, anche il vostro amore persegue l’irreale.
Suppongo non abbiate scambiato mai parola con Creperèia Triphaena!

— Non turbate la sua pura memoria — ribattè vivacemente Oddo Spiro. —
Non è questo il luogo nè l’ora più adatta a parlarne. Vi prego. Il mio
amore è un sogno e sta bene; ma ho accostate anch’io molte donne del
mio secolo e non ne ho riportato l’impressione disgustosa....

— Ma niente affatto disgustosa! — interruppe Giusto Sorani.

— È un ragazzo incorreggibile — soggiunse De Diensi sorridendo.

Oddo Spiro strinse il capo fra le spalle e tacque. Furon servite le
frutta e corse ancora per le scintillanti coppe cristalline la bionda
effervescenza dello _champagne_. L’animazione del conversare si faceva
più viva.

Sulpicio Alanna aveva composto coi tralci d’edera e coi fiori di cui
era cosparsa la tavola una ghirlandella bene contesta.

— Vuoi coronarne De Diensi? — chiese Giusto Sorani.

Alanna si levò dirigendosi verso una statua di Antinoo che sorgeva
nella penombra della sala, compose su la fronte dell’efèbo, che
la follia di un Augusto divinizzò, la sua ghirlandella e disse
rivolgendosi:

— Alla gloria di tutto ciò che è straordinariamente bello!

— E al prestigio della Bellezza quale fatto assoluto; divina e
tangibile espressione del Piacere! — rispose De Diensi.

— Fate che non vi senta Oddo Spiro! — esclamò Giusto Sorani.

— Per conto mio non v’intendo nè mi piacerebbe intendervi — rispose
Oddo — Noi ci troviamo agli opposti poli; non sarà mai possibile un
qualsiasi punto di contatto fra noi.

— Credo che Duccio della Bella, il taciturno — riprese guardandomi —
tenda piuttosto alla mia via anzichè alla vostra.

— Io vivo nella mia perfetta indifferenza — risposi —. Tutto mi
interessa perchè è nuovo per me. Mi guarderei dal prendere un qualsiasi
partito precipitosamente.

— Della Bella fa dell’arte ma non saprebbe viverla — aggiunse Giusto
Sorani.

— Come vedi, tento partecipare alla vostra vita!

— Quale curioso.

— Certamente. Sarebbe ingenuo pretendere che un uomo potesse spogliarsi
del suo passato come di un nulla.

— Sapete — disse Leonello Robbia — Albula, la ninfa delle maremme, ci
abbandona.

— E dove va? — chiesero in coro i compagni.

— Segue il suo pittore, il russo, che se n’è invaghito perdutamente e
la sposa.

— Glie lo avrà promesso — disse Giusto Sorani.

— E terrà fede — soggiunse Alanna. — Questi stranieri sono a volte
prodigiosamente ingenui e profondamente morali.

— Del resto la stessa sorte è toccata ad Annuccia ed a Bibiana —
riprese il Sorani.

— Bibiana? Quella che sposò il pittore malese? — fece Leonello Robbia.

— Lei. Era tanto bella! E quel ceffo obliquo l’uccise!

— Fine sentimentale che invaghirà chi sa quante altre! — commentò De
Diensi — Le donne ti amano tanto più quanto più le tratti crudelmente.
La loro intelligenza inferiore non concepisce che la schiavitù.
Ucciderle, nel loro concetto, significa adorarle.

— Bibiana non era affetta da romanticismi — disse Leonello Robbia.

— Come le venne in mente allora di abbandonare la gaia comitiva per
seguire quell’Otello mongolico? — chiese Sulpicio Alanna.

— Era ricchissimo.

— Poteva procurarsi bene altrimenti la ricchezza. C’è sempre qualche
unione molto più elegante del matrimonio — conchiuse a commento Eduardo
De Diensi.

— Si dice fosse innamoratissima del suo Malese.

— Che donna noiosa allora! — riprese De Diensi —. Una fra le tante
che hanno troppo spesso su le labbra la parola _sempre_ e mirano
all’eternità! Sono le più terribili nemiche dell’uomo; lo distruggono
semplicemente; gli tolgono ogni personalità. Qual’è mai quel sentimento
che non debba aver termine? Conviene sapere apprezzare il passato,
lasciargli un fascino. Solo una nullità può amare una volta sola e
la grande passione è il patrimonio dei meschini. La donna è un essere
grazioso appunto perchè dimentica facilmente, in massima. Questo è il
suo fascino maggiore. Dopo tutto anche l’amore parsimonioso, è cosa che
può divertirci.

A questo punto un servo si accostò a parlare sommessamente al De Diensi
il quale rispose:

— Falla entrare.

— È Sara? — chiese Giusto Sorani.

— Credo sia lei.

— Benvenuta, benvenuta!

— Brinderemo alla sua bellezza!

— Ed al suo silenzio!

— Me ne son creata una immagine strana; mi aspetto vedere una maga —
disse Sulpicio Alanna.

— Non ti inganni — rispose De Diensi.

— Di quale colore ha i capelli?

— E gli occhi?

— Saranno foschi, immagino, — disse il Sorani — foschi e profondi e
terribili nella voluttà!

— Immaginate una lucida malachite stupendamente venata di nero —
esclamò De Diensi. — Io non ho visto mai cosa più bella!

— Sono un poco obliqui?

— Hanno la grazia di una foglia di loto.

— Ricorderà Rodopis!

— No, una bellezza egiziaca!

— Venere Anadiomène!

— Eccola! — sussurrò De Diensi.

Tutti tacquero. Ci rivolgemmo protesi. Le portiere ondularono
lievemente, poi si scostarono levandosi in due bande e nell’armonico
vano apparve l’incantevole bellezza.

Ebbi l’improvvisa sensazione di perdere tutto il mio sangue; un
intensissimo gelo mi corse per la nuca, per le reni; mi levai scattando
e feci per gridare:

— Sita, Sita! — ma gli occhi suoi, ch’ebbero un inusitato lampo di
preghiera, mi trattennero, mi avvinsero.

Ricaddi a sedere. Ella avanzò fra le voci che l’acclamavano.

Aveva una veste del color verde tenero delle acque; sbocciava la
persona da quell’involucro lieve, in tutta la sua bellezza altera. La
gran fiamma rossa de’ capelli si spartiva a incorniciare la grazia del
pallido viso alabastrino, quasi immobile, fermo in un segno di dominio.
Gli occhi verdi, grandi, obliqui, mettevano subite luci ed ombre cupe
su la freddezza di quel viso, e così le labbra vermiglie, stranamente
accese. Era alta, magnifica; pareva discesa da una reggia. Negli occhi
di lei come in tutta la persona era la forza imperiosa che l’avea
condotta sempre a trionfare.

E l’udii parlare (anche la voce era grave e dolcissima) e vidi con
quale tatto sapeva reggersi tra quei raffinati.

Destò in breve una comune follia.

Sul tardi, mentre sfogliavo un volume, in un salottino attiguo alla
sala del pianoforte, sentii all’improvviso il soave contatto di un
braccio nudo che passava attorno al mio collo e una voce carezzevole
vicina al viso:

— Duccio?

Mi volsi. Sita era curva su me. Ah maravigliosa maschera d’amore!

— Mi perdoni? — mi chiese e vidi il sorriso de’ suoi denti bianchissimi
su le labbra vermiglie troppo vicine al mio volto. — Ho sofferto tanto;
mi perdoni?

Ella scendeva nel mio sangue, mi stordiva.

Si avvicinò ancor più.

— Non mi tradire! — sussurrò; poi la sua bocca come una morsa tenace
mi baciò, mi morse su la bocca; le sue braccia mi strinsero nella loro
carezza fremente; i suoi grand’occhi si arrovesciarono leggermente.

La fatale maliarda aveva gettato il terribile incanto. Vi caddi
abbrividendo come per il bacio della morte.




XIX.

Nel silenzio.


A quando a quando si volgeva a guardarla. Ella era seduta su la soglia
di una fra le piccole case che sorgono, circondate dai campi e dagli
orti, intorno a Sant’Agnese; volgeva la faccia al tramonto.

Si udiva dietro una incolta siepe il continuo scroscio dell’Aniene.

— Come ti senti?

— Così!

Ascoltava. Il tramonto desta sempre qualche eco nel cuore degli uomini;
vi sono anime che rispondono al muto invito del sole morente.

— Non vuoi andare alla chiesa?

— Sono stanca, Omero.

— Hai dormito questa notte?

— Un poco.

— La medicina non ti ha giovato?

— Non l’ho presa.

— Perchè?

— È inutile, Omero; mi farebbe peggio.

— Ma bisogna guarire!

— Mi basta il bene che mi volete: guarirò.

Egli si volse a battere ancora, col pennato, su le rame secche
dell’olmo. Il suono della rude arme villereccia parve più aspro. I
grossi rami precipitavano ai piedi dell’immobile tronco; parevano
braccia recise agitantisi nello spasimo della morte.

Ella lo guardava fermo nell’alto. Il capo irsuto e l’ampio torace e
le braccia si stagliavano contro il nitore del cielo mentre, dalla
cintola in giù, il resto del corpo si perdeva nell’ombra. Si era aperto
il duro cortice dell’olmo a nutrire lo strano germoglio. A sommo del
tronco scapitozzato si levava sul cielo il tronco umano; due cose fuse
mostruosamente in una. La secolare rigidezza della pianta martoriata,
costretta nella miserevole corona de’ suoi contorti bronchi, si era
ridesta a dar vita alla divincolante forma in cui trovava voce possente
il suo eterno dolore. La schiava della terra e delle creature maledette
da Dio, provata all’impeto degli elementi e al pennato e alla scure e
pur sempre pronta a dar la fresca letizia del verde ad ogni primavera,
aveva tolta agli uomini la rapida forza che scaglia, che abbatte, per
levarsi terribile vendicatrice fra le sorelle. Tropica e nuda contro il
cielo vegliava e, sopra lei, roteavano i falchi su le adeguate ali, nei
cieli altissimi.

Le campane di Sant’Agnese suonarono a vespro. Trascorse, si distese
per le campagne remote la squillante soavità dei suoni; raggiunse le
cose lontane, le ombre che dileguano con la luce, le ultime dimore
sperdute su l’agro deserto. Vi sono solitudini su la terra e sul
mare che non odono, per volger di anni e di anni, altro suono se non
quello affiochito, appena percettibile, di remotissime campane. Ogni
sera, se il vento nol tolga, allorchè il sole discende nell’estremo
nido, giungono per l’aria, non si sa da qual parte dell’orizzonte;
hanno attraversato e miglia e miglia, giungono a morire, pellegrine
dell’ignoto, nella silenziosa vastità. L’uomo che non ha tregua e
cammina e cammina per monti, per pianure, per deserti e nulla vede
innanzi a sè e, dietro le spalle, le sue sole orme vede; l’uomo che
non ha fratelli, le ode talvolta e si arresta levando gli occhi fieri
a scrutare se appaia con esse l’ombra del Dio favoleggiato. Leva gli
occhi e la faccia (il tuo tragico segno, dolore!) la faccia forte,
affocata, in cui le rughe si addentrano come solchi nei campi, l’occhio
s’infosca saettante, e la guancia lanosa si contrae su l’ampia mascella
lupigna, a ricercare un sogno che gli è rimasto nell’indomito cuore
dalla lontana infanzia: il tuo sogno, la tua dimora, il tuo profondo
mistero Iddio degli astri, sempiterna speranza! Poi riprende il suo
andare. Non più nei cieli chè su la terra ha sentito un fratello; il
mondo s’infosca nell’anima sua abissale con la singultante bestemmia
che scoppia dal suo gonfio cuore tribolato e cammina, cammina, cammina,
sempre più sperduto con l’ombra sua bistorta, verso i deserti polari il
più grande fra gli uomini ed il più solo: l’anarca.

Passò il sogno crepuscolare e Serenella lo intese nell’ondante
armoniosità del vespro; chinò il capo alla prece consueta. Ella credeva
in Dio con la sincerità di una bambina e pensava i suoi padiglioni
d’oro nell’immensità. Quella sera le salirono alle labbra parole
nuove e le mormorò perchè il Grande Spirito le intendesse; parole
che sapevano d’amaro, che ella non avrebbe confidate se non a Lui.
Si sentiva tanto male! Voleva nascondere ad Omero la verità per non
accorarlo; ma invero, da qualche tempo pensava che forse il cammino era
più poco ancora.

Una notte, fra Fano e Sinigallia, lungo la riva del mare, era stata
assalita da una fiera tempesta dalla quale non aveva potuto difendersi
in alcun modo ed era cominciato allora il consumamento. Forse sarebbe
guarita in seguito perchè non era tanto debole da lasciarsi sopraffare
dal male: ma che valeva curarsi?

Non aveva tristezze languenti, nè si doleva con sè stessa della sorte
sua, per compiangersi; abbandonata alla corrente fatale recava con sè
il suo amore più grande della vita.

Ad Omero non aveva chiesto nè dove io mi fossi nè che mi dicessi:
era giusto il mio silenzio, aveva preteso troppo da me; come avrei
potuto convivere con una piccola ignorante par sua? Non mi sarebbe
stata di continuo impaccio? La vita era troppo grande a Roma, non era
come laggiù, nella città delle vele, tutta racchiusa nella semplicità
dell’amore. Ella era partita solo per rivedermi e, chi sa? forse mi
avrebbe riveduto per dirmi addio; per dirmi la soave parola che non
pesa, che non avvince, che nulla chiede. Se l’amore era morto, era
inutile ritentare; non si riconduce l’acqua ai boschi delle sommità;
tutto ha un termine.

Un giorno aveva detto a suo padre, Giovanni della Nave:

— Babbo, i pellegrini vanno a sciogliere il loro voto all’Alpe lontana;
lasciatemi partire, babbo; anch’io ho un voto da compiere.

— Vuoi andar sola?

— Vado con le compagne.

— E chi rimane a casa per noi?

— Teodora penserà a tutto; me lo ha promesso.

Giovanni tacque.

— Mi lascierete andare, babbo?

— E quando tornerai? — le chiese Giovanni fissandola intensamente.

Ella reclinò il viso:

— Tornerò con le compagne, non so quando.

— Iddio sia con te — conchiuse il padre. Ella si inginocchiò a’ suoi
piedi.

Qualche giorno dopo si unì alla comitiva degli scalzi e, come
un’alzavola, prese la via degli orizzonti.

Fra le compagne c’era anche Sita. Sostarono una volta in una città del
piano, vicina a un grande fiume. Fino a quel giorno, Sita non le aveva
rivolta parola.

Ora Serenella doveva abbandonare la comitiva perchè altra era la strada
del suo sogno. Stava silenziosa in disparte allorchè udì una voce
improvvisa che la scosse:

— Dove vai?

Si volse e vide l’ambiguo volto della maledetta.

— Vado a Roma — rispose fissandola negli occhi senza timore.

— Ti aspetta laggiù?

— Mi aspetta.

— Lo saluterò per te; credo ch’io giungerò prima.

— Salutalo e digli che porto un caro dono per lui.

— Che cosa? — fece Sita sorridendo.

— Il coltello di Zalèbi! — Si frugò nelle vesti e ne trasse l’arma
lucente che fece scintillare all’altezza del viso pallidissimo.

— E digli anche — riprese — digli ch’io vado sola nel nome di Dio;
digli che non ho paura perchè questo amuleto è con me!

Sita si era fatta da parte; vedeva negli occhi di Serenella un lucore
sinistro; non si sarebbe attesa simile impeto dalla creatura mite.
L’odio e l’amore l’avevano trasfigurata.

— Quando parti? — le chiese ancora Serenella.

— Questa notte.

— Con la diligenza?

— Sì.

— E che vai a fare a Roma?

— Vado a pregare per l’anima di mio padre! — rispose cupamente la
maliarda.

Le due donne si trovarono di fronte un attimo, gli occhi negli occhi,
pallidissime e tremanti come nello spasimo di un assalto imminente. Le
due ferme volontà tentarono sopraffarsi; gli odii, radicati nel cuore
come tenaci gramigne, si misurarono reciprocamente guatandosi.

— Tu giungerai prima — sussurrò Serenella nell’affanno — ma bada che
verrà anche il mio giorno.

— E che m’importa?

— Io non ti perdonerò, ricordati!

— Credi ch’io abbia chiesto mai il perdono?

— Non ti mettere su la mia strada un’altra volta. Tu mi hai fatto più
male che non la morte, bada!... Zalèbi mi ha lasciato il suo pegno....
io non ho paura!...

Era immobile il piccolo volto bianchissimo, solo gli occhi minacciavano
sfavillando.

— Porti l’eredità della tua famiglia maledetta! — disse Sita.

— Porto il mio santo amore! — rispose Serenella levando la voce — E la
mia strada è mia e tu non vi passerai, vipera!

— Vedremo! — esclamò Sita, l’aspra bacca del selvaggio roveto.
Poi volse le spalle. Serenella la guardò dileguare fra la gente.
Quando scomparve alzò gli occhi al cielo. Era notte ormai; conveniva
attendere.

All’alba del giorno seguente, mentre le compagne dormivano ancora su la
paglia, il capo abbandonato sui loro fardelli, si levò e uscì.

Lungo la strada che seguiva la valle nel suo infoscarsi fra i monti,
udì il salmodiare di una compagnia che si era avviata alla grotta
del Santo. Vide, al pallido albore, in un luogo dove la strada faceva
gomito, una massa nera e compatta che saliva l’erta lentamente e aveva
tanti piccoli occhi luminosi per quante erano le fiammelle dei ceri e
delle torcie; e aveva una voce sola, lamentosa e continua. Un serpe a
scaglie d’oro, dall’umana favella.

In quel punto la giovinetta si fermò. Le avevano indicata la via:
doveva volgere verso il mare e seguirne la costa per miglia e miglia
fino a città delle quali non aveva udito parlare mai.

Si fermò. Il cielo era sereno e il freddo intenso. Si strinse tutta
nello zendado azzurro, volse gli occhi intorno dalla piccola altura
su la quale si trovava. Vide la città sottostante in cui veniva
spegnendosi a quando a quando qualche argenteo lucore; vide il cupo
verde della pianura e la linea chiara del lontano mare. L’alba fioriva
intorneata di gelsomini. Nel punto in cui si addensava la tenebra
settentrionale, giaceva nell’ombra il suo nido. Rivolse il viso a
quell’orizzonte e l’anima di lei esulò nella preghiera ai vivi ed ai
morti di sua gente: ai vivi nell’aspra fatica quotidiana, ai morti nel
nome dell’amore: quelli pronti all’opera continua, questi naviganti
nella grande nave stellare verso l’irraggiungibile sole. Forse la sorte
le serbava un angolo sul vascello d’argento dalle bianche vele ed ella
non avrebbe riveduto la terra romita e i parenti e il doloroso volto
del padre. Se la sorte voleva così, andasse l’anima sua all’umile casa
a portare, tanto piano da non rompere il dolce sonno ad alcuno, l’addio
dell’esule che non sarebbe ritornata mai più. E dicesse, ma piano,
senza ridestare il dolore vestito di rovi, dicesse ch’era fatale: il
mondo è un breve ritrovo; chi sa da dove si giunge? chi sa mai dove
si arrivi? Iddio ci manda e ci attende. Il mondo è una sosta per noi;
conviene pensare a lasciarci. Gli dicesse che l’amore è la volontà
di Dio Padre e ch’ella seguiva il suo destino d’amore. E null’altro.
Ristette qualche attimo a spiare nelle fluttuanti nebbie tutte le
forme emergenti, con l’ansia di intravvedere un aspetto noto, poi, come
l’alba crebbe, si volse e prese risolutamente il cammino.

Così andò per giorni e giorni fermandosi a dormire vicino alle città,
in qualche casolare. Come più si allontanò dalle sue terre, più aumentò
la curiosità delle persone nelle quali si imbatteva. Nulla le fu di
serio ostacolo. Si accostò al core la sua lama lucente, l’amuleto di
Zalèbi; avrebbe saputo difendersi fino al ruggito della morte.

Gli uomini che braccano, intesero e si tennero guardinghi. Ella aveva
subiti scatti di indomita fiera; lo spirito della sua gente ribelle era
nel suo cuore di giovinetta. E camminò, camminò come la bella della
fiaba, sostando appena, sorgendo che il sole non era alto ancora. I
pochi soldi che le aveva dato suo padre, prima di partire, le eran
più che sufficienti per il pane. Voleva giungere e sarebbe giunta; ma
la strada era interminata. Sempre nuove città, nuove soste e Roma si
allontanava nei cieli come il sole.

Le stava nel cuore il tormento di Sita. Che avrebbe fatto la maliarda
s’ella non giungeva a tempo? La vendetta guidava la figlia di Diavolo e
Duccio non avrebbe saputo difendersi.

Ma Sita, dopo aver fatto mercato di sè stessa a Bologna, dove aveva
trovato gente che si era incaricata di indirizzarla, a Roma, a persone
che potevano giovarle, raggiunse Serenella e inavvertitamente la seguì
spiandola.

La vide allungare sempre più le soste a mano a mano che la Città si
avvicinava; assistette al progressivo indebolirsi della tempra consunta
dall’estrema fatica.

Senza lasciarsi vincere, benchè la febbre le ardesse nel sangue,
Serenella continuò il cammino. In quegli ultimi giorni le parve vivere
in un sogno, in un incubo. A volte la coscienza l’abbandonò. Il viso le
si era fatto smunto e tutto il corpo era ridotto a un niente; ma c’era
il suo canto di innamorata in fondo al core, il canto che la traeva
al suo destino. Tutto ciò che amore reca le arrideva giovanil fuoco di
gioia! Per un attimo solo Duccio avrebbe voluto s’ella traeva da tanto
lontano! Non potea darsi ch’egli avesse dimenticato; non potea darsi
ch’ella giungesse inutilmente dopo tanta pena! E se la lunga strada
l’aveva resa brutta? Poteva rivederlo così?

Una mattina si guardò in uno specchietto; non era brutta, no; ma quanto
mutata! Un’ombra! Gli occhi erano più grandi; il mento affilato; le
guance come fiori di neve. Chiusa nello zendado pareva una piccola
morta! Si commosse, poi crollò il capo, gettò via lo specchietto,
sorrise e si levò. Quanto sole c’era in quelle terre! Così fosse stato
per lei. Allora le giunse dal tempo una voce ben nota ch’era sorta dal
silenzio per trarla alla luminosità della primavera. Ah che tremito di
pianto! Se non avesse potuto più adunque? se non fosse giunta?

Ma si levò, ma si trasse sotto al sole, arsa dalla febbre; si trascinò
per il suo sogno; volle giungere come l’alzavola ferita, ma giungere
per abbandonarsi sul mio petto vinta, stremata, disfatta.

Proseguì un giorno ancora senza aver più conoscimento, e giunta, alla
sera, in un paesello alle soglie di Roma, cadde delirando e non si
rialzò.

Fu raccolta. Una società femminile pensò a ricoverarla e a riabilitarla
chè la credette una meretrice. Ella seppe nulla; solo, allorchè
riacquistò perfetta conoscenza si trovò rinchiusa nel triste convento
su l’Aventino.

Sita vide e gioì nel suo cuore di lupa.

La convalescenza fu lunga e penosa. Quando si sentì migliorare stette
per ore ed ore seduta al sole, nel giardino dove crescevano tante
alberelle dalle foglie di un verde intenso. Erano melaranci. Ella non
aveva veduto mai simili piante; ne conosceva solo il frutto saporoso,
bello e lucente come uno scrigno d’oro.

Le rifiorivan ricordi di fiabe. Quanto aveva fantasticato e sognato
nel tempo in cui sostava sui ponti per ascoltare i vecchi novellatori
che si accontentavano di sì poca cosa per raccontare le meraviglie
dell’impossibile. Ora non aveva tregua un attimo. Una vecchia suora
le stava sempre attorno per parlarle del Signore misericordioso e dei
peccati ch’ella aveva commessi. Sentiva la minaccia, non l’avrebbero
lasciata uscir più. Frattanto che ne era mai di Duccio?

Come le forze le ritornavano la pena aumentava di giorno in giorno.
Ella era giunta per l’amore; avrebbe odiato Iddio in quel silenzio. Di
quali peccati le parlavano le vecchie femmine ossute? Che ne sapevano
della sua grande anima dolente? Come potevano conoscere il martirio che
la torturava?

Sita, frattanto, avrebbe potuto compiere la vendetta e Serenella
pensava che se ciò fosse avvenuto nè per lei nè per la rossa c’era via
di salvezza. L’aveva giurato sul nome del Signore e su la croce di lui.

Passarono molti giorni ancora; poi il caso l’aiutò: vide Omero. Il
miracolo di gioia le ridette vigoria in un attimo.

Una sera, col suo vecchio amico, uscì per la porticina dell’orto su
la via di Santa Prisca. Era salva. Andarono da quel giorno ad abitare
nella casetta che Paolo, l’ortolano del convento, aveva ceduta ad Omero
a patto coltivasse l’orticello che la circondava, e da quel giorno,
come dalle poche frasi di Omero intese ch’io tutto sapevo e me ne stavo
in disparte, ammutolì, sbiancò, non oppose alcuna resistenza al male
che la consumava tuttavia.

La sua vita passò penosamente nel silenzio della casetta sperduta ai
limiti dell’agro deserto. In principio uscì qualche volta con Omero,
andarono verso ponte Nomentano su l’Aniene tortuoso.

Omero le stava a fianco senza parlare. Ella si appoggiava al braccio di
lui; sedevano su la spalletta del ponte nè ritornavano finchè il sole
non fosse caduto.

La gente si rivolgeva a guardarli perchè la bellezza di Serenella era
come puro argento.

Racchiuso nello zendado il viso di lei fioriva simile a un giglio;
aveva una grazia stanca, una dolorosa soavità. Ed era ella sì umile e
gentile nell’aspetto che, se levava un poco gli occhi sorridendo, dava
una letizia d’incantesimo mattutino.

Per quanto i passanti fossero usi a vedere ogni sera, seduti su lo
strano ponte turrito, il vecchio e la fanciulla, si rivolgevano sempre
a guardarli.

Poi non comparvero più. Serenella sfioriva rapidamente come un effimero
diurno.

— Vuoi rientrare? — le chiese Omero quando ebbe compita l’opera
faticosa.

— Sì.

Egli la guardò. Era livida.

— Questa sera andiamo male, non vi siete curata: volete far passare un
nuovo dolore al vostro vecchio! — riprese Omero scuotendo il capo.

Ella levò gli occhi luminosi:

— Perdonami Omero, prenderò la medicina, farò ciò che vorrai!

— Andiamo, dammi il braccio — disse curvandosi; ma la sorresse per le
ascelle perchè non si reggeva, poi se la recò fra le braccia come una
bambina. Ella gli abbandonò il capo su la spalla.

Il sole era morto. Giungeva da qualche stagno remoto un tremulo
gracidare di rane.

— Vuoi rimanere sola? — le chiese quando l’ebbe adagiata sul
letticciuolo dalle bianche coltri.

— Sì, vorrei dormire — rispose Serenella.

Egli uscì su la punta dei piedi e socchiuse lentamente la porta.

Scese la notte e Serenella non trovò sonno. Omero vegliava nella stanza
attigua.

Si era distesa supina, aveva poi tentato rivolgersi ma l’estremo
sfinimento glielo aveva impedito. Ritentò ancora e il respiro le venne
quasi meno. Il cuore le batteva a pena; un freddo, un gelo intensissimo
le saliva per le gambe e per le braccia. Che cos’era mai? Tanto presto
adunque? In quel silenzio solenne la morte l’impaurì. Sbarrò gli occhi,
volle gridare ma non un gemito le uscì dalla bocca.

Allora l’assalì un terribile affanno. No, così no, almeno avesse potuto
stringere la sua bocca su la mia; almeno avesse potuto rivedermi;
dopo, era meglio forse ch’ella si fosse addormentata per sempre,
ma non prima, era troppo terribile! Rivolse la mente a Dio, pregò
nel crescente affanno, implorò straziata ed affranta. — Era giusto,
Signore, una sola volta, una sola!

Nella constretta forza di tutta la sua volontà ribelle mandò un lungo
grido.

La porta s’aperse d’impeto e Omero comparve su la soglia.

— Serenella?

Ella si levò un poco con uno sforzo supremo; aprì gli occhi stupiti già
dal sogno della grande sorella e trovò fiato per dire:

— Omero per l’ultima volta.... va... va... io voglio vederlo.... io
muoio!...

Egli si volse e di un balzo scomparve.

Udì ancora, la triste, un rapido trepestio perdersi lontanamente sotto
la notte profonda.




XX.

Il piacere.


In quale nuova invincibile illusione ero caduto? Dove mi aveva tratto
mai la flammivoma chimera, il meraviglioso mostro dell’infinito?
Sentivo esattamente l’inganno nel quale vivevo e una vaga ansietà
si dibatteva in fondo all’anima mia senza vincere il nuovo senso
d’insofferenza sorto in me per ogni dubbiosa voce, per ogni improvviso
richiamo della coscienza.

Un orgasmo fisico spinto alle sue estreme conseguenze, mi teneva di
continuo. La mia giovinezza casta si era ridestata avvolta in una
turbinosa fiamma; il senso della vertigine la stordiva inebriandola.

Non pensavo, non volevo pensare; vivevo in una terribile discontinuità
psichica, preso dall’impura violenza del senso; ogni mia visione era
torbida, affannosa, ritornava per mille vie agli stessi aspetti, agli
stessi atteggiamenti, agli stessi deliri della voluttà; una diabolica
follia mi traeva per l’ardente roveto nel quale fra aspre grida e
contorcimenti si consuma l’insaziata concupiscenza farneticando.

Era una crisi impetuosa e ottenebrante dalla quale non sapevo poter
sorgere ancora.

Ne ho l’immagine di una piovra orrenda dagli innumerevoli tentacoli che
si protende blanda, carezzosamente ti avvolge, ti stordisce e non ti
lascia un attimo, anzi moltiplica i suoi baci, ti stringe, s’avvinghia,
s’incanisce furiosa e fremebonda finchè non t’abbia distrutto. La
terribile contaminazione trae di continuo il suo fosco popolo disfatto
alla follia ed alla morte.

Ma allora ero ebbro; la stessa mia castità aveva affrettato il
fenomeno fisiologico; da un perfetto stato di calma ogni mia forza era
trascorsa nel delirio; si era levata in me, squassando le fiammanti
chiome, l’ombra obliqua e superba del piacere infrenato e faceva
vibrare spasmodicamente il mio giovane corpo come una tesa minugia; si
era levata simile a persona che superata a fortissimo stento un’erta
precipitosa e dirupante, raggiunge di un balzo la cima, ivi s’impianta
e dominando rimane.

Le mie avide labbra tese agli orli dell’aurea coppa indelibata
tremavano per la siziente bramosia e quanto più avevo tanto più
desideravo. Ricordo il breve trascorso come attraverso l’incubo di
un’altissima febbre.

Sconvolto dalle dottrine edonistiche, non trovavo freno che bastasse
al mio dirupare. La dispoglia nave correva perdutamente alla deriva nel
mare tempestoso ed oscuro.

Era quella dunque la finalità che mi ero imposta di continuo nella vita
avventurosa e tribolata? Quella la gioia, quella la tranquillità soave
d’amore?

Le domande che salivano timide nelle rare limpidezze del mio pensiero
erano ben tosto ricacciate quali sciocche paure, quali viltà di
un’anima schiava del pregiudizio. Non so quale cinica violenza
ottundesse ogni mio senso intellettivo; solo a volte avevo l’esatta
coscienza della mia pazza bestialità.

A Serenella non pensavo se non nei momenti di abbandono e mi appariva
allora, irraggiungibile, perduta in un silenzio interminato come la
stella dell’albore.

Sita compiva la sua vendetta.

Fin dalla prima sera, nel villino di Eduardo De Diensi, ella mi aveva
sì fortemente avvinto da farmi dimenticare l’ombra oscura del passato e
da sorgermi innanzi come persona nuova, tutt’affatto diversa da ciò che
era stata un tempo. E nelle apparenze, in vero, era alquanto diversa,
ma nell’anima no, la perversità dell’anima di lei si manteneva intatta.

Nei giorni che seguirono non la rividi e mi trattenni dal frequentare
il villino De Diensi per non incontrarla. Presagivo l’oscuro influsso
che avrebbe esercitato su me e volevo difendermene per quel senso
d’indipendenza che mi sarebbe piaciuto serbare in ogni atto della vita
e per la quiete della quale il mio lavoro necessitava.

Ma era acceso il mio sangue sì che non potevo ottenere il desiderato
riposo psichico. Invano mi costringevo per ore ed ore ad una forzata
veglia sui libri; l’attenzione mi sfuggiva. Leggevo intere pagine
senza intenderne il senso; vi ritornavo varie volte ottenendo lo
stesso risultato: dopo qualche riga, per un fenomeno di sdoppiamento
comunissimo, la parte più viva del mio intelletto non seguiva la
lettura; trasmutantesi in puro atto meccanico, ma si perdeva in una
varia e rapidissima figurazione di immagini impure, di lussuriose
lascivie, di aspre violazioni onde, dopo vane ore di lotta, mi levavo
con la fronte accesa, coi polsi, con tutte le vene tremanti e mi
appoggiavo al davanzale della finestra sperando qualche ristoro dalla
brezza notturna.

Da simili stati di massimo eccitamento, caduto in subite prostrazioni,
ne sorgevo avendo in gran dispetto me stesso per le sciocche paure che
mi tenevano tuttavia lontano da lei. Perchè dovevo soffrire tanto? Ero
io adunque qualche antico cenobita aspirante alla suprema grazia del
paradiso? Non era ridicola, puerile la continua lotta che mi toglieva
anche la possibilità del lavoro? Soddisfatto il desiderio, la calma
sarebbe ritornata e forse il disgusto.

Pure l’immagine di Zalèbi, del fratello morto, mi teneva ancora e
mi avrebbe tenuto sempre lontano da Sita; mi pareva che la maliarda
sorgesse tutta contaminata da quel giovane sangue, credevo che avrei
potuto averne improvviso ribrezzo se l’ombra dolente del povero amico
fosse sorta fra noi. Poi la piccola stella dell’albore appariva col
suo tranquillo e mesto riso fra le rosse nubi a quando a quando; viveva
radicata in fondo aìl’anima mia.

Sita mi aveva detto, nella funesta sera dell’incontro:

— Duccio, dimmi che hai dimenticato tutto; che niente più sorgerà dal
passato per te; che tu mi guardi ora come se mi vedessi per la prima
volta!

E quantunque avvertissi l’insidia delle sue parole, tratto dalla
vertigine della persona maravigliosamente protesa, avevo promesso ciò
ch’ella chiedeva.

— Io ti ho voluto bene sempre sempre — aveva ripreso — era la gelosia
che mi accecava; anche laggiù ho pensato a te dal primo giorno che ti
ho veduto. Ma ora mi perdoni, tu mi perdoni... io mi getterò a’ tuoi
piedi, io bacerò la terra dove passi, ti benedirò se mi batterai,
se vorrai battermi fino a farmi morire.... ti benedirò sempre sempre
perchè ti amo e ne soffro!

L’ironico stupore che ferveva entro l’anima mia era vinto dal diabolico
fascino di Sita. Quale altro male meditava? Quale via sceglieva per
trarmi all’inganno dal quale ero sfuggito una volta? Eppure la sua
bellissima maschera celava sì bene la menzogna, c’era nelle parole di
lei un impeto tale di sincerità, ch’io scrollai le spalle e mi dissi:
— Ebbene che m’importa di tutto s’io posso goderla? Se posso tenerla
vinta sotto le mie braccia? — E, la mente torbida ed annebbiata,
cedetti.

Fu anche un orgoglio virile che mi sospinse: quella donna che tanti
desideravano inutilmente e per la quale avrebbero speso tesori veniva
ad offrirsi a me e mi pregava; potevo io disdegnarla per un meschino
senso di vigliaccheria? Potevo mostrarmi agli occhi di lei pusillanime?
Non era mio costume la paura, molto meno poi quando la minaccia mi
sorgesse apertamente di fronte; non ebbi esitanze e tutto ciò ch’ella
volle promisi.

— Verrai a trovarmi?

— Sì.

— Quando?

— Prestissimo.

— Posso accoglierti degnamente. Conosci il mio villino ai quartieri
Ludovisi?

— Lo conosco.

— Vieni nel pomeriggio, alle cinque; sono sempre sola in quell’ora.

— Verrò.

— Promettimelo!

— Te lo prometto.

Poi con un lunghissimo bacio aveva voluto lasciarmi come il suggello
del desiderio.

Per quella notte e per tutto il giorno seguente non ebbi bene;
cominciava la crisi del piacere e della sofferenza.

Trascorsero tre giorni così; un’ombra sola valse a trattenermi: l’ombra
di Zalèbi. Si levava tragica e fosca bestemmiando il nome di lei e
la perfidia sua; sorgeva da un’immensa tenebra tinta leggermente di
sanguigno agli estremi limiti, apparizione cinerea che mi ossessionava;
l’avevo sempre innanzi agli occhi: li tenessi aperti e fermi su la
fiamma della lucerna, reclinati su le carte o chiusi per il sospirato
ristoro del sonno; non mi abbandonava un attimo, vegliando in quella
sua rigidità spettrale che m’incuteva spavento. Erano fisse entro
l’anima mia quelle pupille scrutanti e minacciose quasi a leggerne ogni
segreto, ogni più riposta voglia; fisse terribilmente dall’immobilità
del volto composto nel supremo segno della morte.

Ne avevo pietà e ribrezzo; commovimento ed orrore. E lo spettro
dell’incipiente rimorso non scompariva se non quando improvvisi turbini
di immaginazioni lussuriose irrompevano in una ridda di procaci nudità
a rinnovellare l’ansimante bramosia del possesso.

Alla sera del terzo giorno qualcuno bussò alla porta della mia stanza;
senza volgermi gridai l’invito ad entrare e mi attendevo qualche strana
domanda dalla mia vecchia abruzzese, allorchè un sottile fruscio, un
grato profumo, la sensazione di esser guardato fissamente mi fecero
volgere di scatto:

— Sita! Tu qui?

— Io — rispose sorridendo la maliarda.

— Come mai sei venuta?

— Volevo vederti; tu non sei stato uomo di parola.

— Avevo troppo lavoro — mormorai.

— Non ti chiedo scuse; non sono venuta per rimproverarti; avevo bisogno
di stare un poco con te e non ho resistito al desiderio.

Indossava una superba veste di velluto blu cupo. La persona alta e
sottile, la bianchezza del volto ed il grande volume dei capelli rossi
ne traevano splendore. Con un bel gesto delle braccia che si levarono
arcuandosi e dettero maggior risalto alla soave procacità del seno,
si tolse il ricco cappello dalla larga tesa ricadente sul dinanzi ad
ombreggiare il viso e apparve come in una nuova intimità sotto il casco
dei capelli spartiti a mezzo la nuca in due volute condiscendenti su
le piccole orecchie rosee; poi volse i grandi occhi verdi, leggermente
obliqui come due foglie di saggitària opposte a uno stelo, e disse
accostandosi al tavolo sul quale erano sparsi alla rinfusa libri e
carte:

— Ti ho disturbato?

— No davvero! — esclamai sedendo vicino a lei.

— Posso restare un poco?

— Fin che vorrai.

— E... verrai a restituirmi la visita?

— Verrò.

— Voglio un impegno formale.

— M’impegno formalmente!

— Ciò non vale. Vediamo: quando verrai?

— Posdomani.

— Benissimo. A che ora?

— Alle cinque. Ti par tardi?

— No, è troppo presto! — rispose scoprendo la bianchissima gola nel
riso. — È troppo presto; ho un _five o’ clock tea_ all’Hôtel de Russie
a quell’ora, posdomani.

— Come? Hai già fatto l’ingresso nel gran mondo cosmopolita?

— Ma certo! Ho approfittato del mistero che mi circondava. Desto una
curiosità enorme. Il marchese Di Narva ne è entusiasta; mi presenta
sempre come sua cugina e i più credono all’inganno. Gli altri
continuano a sostenere ch’io vengo chi sa da quale parte del mondo.
Alcuni si sono incaponiti a spacciarmi per una rivoluzionaria russa. Li
lascio dire; che mi importa? La mia condotta è irreprensibile e ciò mi
salva.

— Irreprensibile? — chiesi levando gli occhi a ironica interrogazione.

— Ma certo — rispose — non uno fra i tuoi amici può vantarsi di avermi
sfiorato una guancia con una mano. So tenerli alla debita distanza. Ti
ha meravigliato vedermi al villino De Diensi? Ci sono andata e ci vado
perchè.... indovina un po’ il perchè?

— Non saprei.

— Perchè mi avevano detto ci capitava un certo Duccio della Bella ch’io
voleva rivedere!

— Per ritentare...

— Basta!... — gridò ponendomi una mano su la bocca. Si era fatta ad un
tratto pallida.

— Non avevamo detto — riprese lentamente, a bassa voce, guardandomi
negli occhi quasi a tener l’anima mia tutta nel fascino della sua forte
volontà — non avevamo detto che del passato non se ne parlerebbe più?
Che sarebbe cancellato per sempre dalla tua, dalla mia memoria? Perchè
vi ritorni? Non puoi o non vuoi dimenticare?

Scrollai il capo senza rispondere.

— Credi tu ch’io non abbia sofferto? — riprese —. Che ne sai per
misurare la mia pena?

Dopo un istante vidi il volto di lei trasfigurarsi; si indurì nelle
linee, una subita rigidezza lo tenne e gli occhi divenner foschi. Disse
con voce che parve un soffio:

— Io so amare e odiare!

Sostò ancora.

— Se non ti amassi — riprese — credi tu ch’io non avrei trovata altra
via per vendicarmi? Tutto potevo; ma avrei fatto troppo male a me
stessa! Perchè devi credermi Duccio, altrimenti non sarei qui, sola,
senza temere una tua rivincita; devi credermi per tutto il male che ci
siamo fatti a vicenda: io ti amo da impazzirne!

— Non senti — riprese tendendomi le mani — non senti come ne tremo
tutta?

Non mi curai di studiarla, nè volli scoprire la sua finzione; mi era
vicina: ne vidi e ne sentii l’insuperata bellezza. Il profumo che si
spandeva lievissimo dalle sue vesti, da tutta la persona, mi stordiva.
Gli occhi suoi, la sua bocca, i capelli, il viso, il seno palpitante
rinnovarono la terribile ansia che mi stringeva a sommo della gola come
un soffocamento. Ogni cosa nel mondo si oscurò in quell’attimo; ogni
moto della coscienza che non convergesse all’esaltazione di lei, non
ebbe valore, trascorse inavvertito; si fece buio intorno a me; l’anima
mia annegava nel lume di quelle pupille fisse che si addolcivano in un
carezzoso invito, in una promessa di voluttà frementi. Ogni esitazione
cadde.

— Saprai dimenticare? — chiese ella, appena, chinandosi, conscia già
della sua vittoria.

— Saprò adorarti!

La sua bella bocca si dischiuse come in un atto di spasimo; le fini
alette del naso si contrassero un poco; un rossore diffuso le colorì
la sommità delle guance; negli occhi, che rifulsero più vivi dalle
palpebre soccallate, vibrò un’ansia nuova, una veemenza desiderosa, un
oscuro languore di aspra sensualità accesa.

— Mi prometti di non parlarne più, mai più? — riprese e sentii l’alito
suo sfiorarmi il viso.

— Sì.... sì!...

— Ch’io sarò per te non più Sita ma Sara, la tua Sara che ti vuol bene?

— Te lo prometto.

— Che per quante cose possano avvenire ancora, non mi dimenticherai?

— Tutto ciò che vuoi, tutto.... ma non farmi soffrire.

Allora si levò un poco, mi guardò sorridendo negli occhi poi si dette
al mio abbraccio con un breve grido:

— Ah! amore, amore, amore mio!

Il rivo ardente dei capelli le si sparse intorno al viso magnifico e
superbo; la candida nudità del seno e delle spalle apparve come una
maraviglia statuaria. Mi aveva condotto al colmo dell’esasperazione.
L’oscura tempesta incominciò.

Nei giorni che seguirono anzichè cader soddisfatta la mia febbre si
accese ancor più; ero giovane e forte, nuovo alla sapiente lussuria
della maledetta. Sita aveva saputo avvinghiarmi al carro del suo
piacere, trascinarmi via con gli altri; in seguito, per l’immancabile
spossamento, per l’esaurirsi di ogni mia forza fisica e intellettiva
sarei divenuto suo umile servo, suo ridicolo satellite: un’ombra livida
e distrutta che ella avrebbe condotto alla morte. A questo mirava la
misurata vendetta, il mostruoso giuoco. Ebbe il mio grido ribelle,
forza sufficiente a rompere poi il torbido sopore.

Ma allora, allora farneticavo di continuo in una diabolica accensione
del sangue e non avevo bene e non avevo posa quand’ella non mi fosse
vicina. Passavo la notte seduto come un pezzente su gli scalini della
sua villa intento ad ogni suono, ad ogni voce che mi potesse giungere
dall’interno; con, alle tempie, un continuo battere affannoso e il
pensiero pieno di voluttuose immagini, di ansimanti lotte, di voci e di
grida e di sussulti.

Ogni compagnia mi riusciva intollerabile e, d’altra parte, anche
frequentando gli amici non potevo seguire i loro discorsi; dopo qualche
parola ricadevo sotto l’infausto dominio della follia. Alle domande
che essi mi movevano circa quel mio nuovo stato di continua astrazione
non volevo rispondere. La loro curiosità mi turbava e mi inaspriva.
Preferivo starmene solo e, quando non ero con Sita, mi aggiravo senza
meta per i dintorni di Roma, il capo basso, il pensiero offuscato.

Anche il lavoro mi era divenuto uggioso. Le poche volte che tentai
riprenderlo e mi costrinsi al tavolo per qualche ora, mi levai
inebetito, nulla avendo concluso. In quale abisso di ignominia sarei
caduto proseguendo per quella via?

La domanda mi si presentò qualche volta ma la ricacciai subito con
folle rabbia. Che m’importava? C’era sul fosco orizzonte, erta la
fronte sotto le stelle lucenti, l’ombra di Zalèbi. Mi attendeva.
Saremmo stati fratelli anche nel destino.

L’amara violenza del senso travolgeva ogni mio saldo equilibrio
sospingendomi a furia verso la bestialità.

Sita moltiplicava le sue carezze chè le premeva liberarsi di me
quanto prima avesse potuto. Le tornavo importuno. Mi eccitò con ogni
disordinata libidine, mi accese con la più sfrenata lussuria; fece di
me una povera cosa cieca e brancolante.

Quanto tempo passasse così non ricordo con esattezza; forse fu molto;
allorchè mi ridestai ebbi la sensazione di sorgere da un secolare
silenzio.

Quella sera compivo il mio abbigliamento; ero convitato con gli
amici comuni al villino dell’onorevole Miaggi. Andavo perchè Sita mi
attendeva al convegno di gioia.

L’onorevole idiota dalla gran faccia vermiglia, simile a una mela
francesca irta di inopportuni peli, compiendo non so più quale
anniversario della sua brillante carriera politica ed anche per far
piacere a madonna Primavera che inciprigniva a star tutta sola e dava
in ismanie, aveva meditato e proposto il gaio festino al quale mi
accingevo a partecipare.

Il convegno era per le nove; non pensavo ad affrettarmi; da poco era
discesa la notte.

Come ebbi ultimato le vane faccende uscii, ma, giunto in fondo alle
scale, mi soffermai colpito dalla figura di una donna avvolta in uno
zendado nero. Stava ritta oltre la porta di strada, immobilmente.
Reggeva in una mano protesa un piccolo cero e pareva vegliasse qualcosa
che si perdeva nell’oscurità.

Mi avvicinai sogguardando. Giunto su la soglia vidi un piccolo carro
al quale era attaccata una brenna. Il cassino del carro era ricoperto
da un drappo nero che un uomo s’ingegnava a disporre in guisa da
nascondere ai passanti una cassa oblunga.

Intesi e il cuore mi battè più forte per un rapido commovimento
allorchè nel pallido volto reclino della donna distinsi i tratti di
Pavona. Era lei, la perseguitata dal fato, la debole creatura che
rimaneva per la seconda volta terribilmente sola. Reggeva col braccio
sinistro il suo povero bimbo sogguardante con occhi stupefatti e
spauriti, e nella mano destra recava il cero mortuario.

Non la vidi piangere; attese inconscia senza un sussulto.

Ad un tratto l’uomo si volse e con subita asprezza gridò:

— _Annamo? Er morto è pronto!_

Attese qualche istante, poi, come vide che la donna non intendeva,
frustò la brenna e le si pose a fianco.

Quando il piccolo carro si mosse, Pavona lo seguì come un automa, sola,
dietro quella lacerante miseria.

Per buon tratto andai anch’io, il capo scoperto e l’anima sconvolta
da quel tetro dolore, cieco come le terribili forze che ci assalgono
e ci distruggono; andai tratto da un’ardente volontà di soffrire, da
un bisogno di sentirmi migliore, di spiare in me il risorgere di un
sentimento che mi pareva sepolto da un’eternità. Io vidi entro l’anima
mia chiaramente per la prima volta e per la prima volta provai un
brivido di orrore e di sdegno per tutto ciò che avevo compiuto.

Pensai una simile scena; il pallido volto di mia madre mi arrise nella
lontananza del tempo. Ah! dove precipitavo mai? In quale brago mi
trascinava la mia incomposta volontà di vita?

All’angolo di una strada deserta ed oscura mi soffermai. Stridendo e
sobbalzando sui ciottoli, il carro continuò la triste via. Guardai
ancora Pavona, il bimbo taciturno, l’insieme di quel miserabile
convoglio. Un uomo dileguava per sempre sotto il silenzio e le tenebre
della notte. Ella sola gli era rimasta fedele, ella gli aveva serbato
amore, ella piangeva quando tutti l’abbandonavano, lo seguiva quando
era già nell’oblio del mondo, dimenticando sè stessa per lui che poco
l’aveva amata, che molto l’aveva fatta soffrire! In quella bontà non
era forse la divina scintilla dell’umana famiglia?

L’uomo passa vicino al tesoro con occhi vani e ricerca fra gli sterili
fantasmi del suo intelletto la felicità che lo sfugge.

Ne avevo alla gola i singhiozzi, chè mi sentivo perverso innanzi alla
bontà di quella creatura sola e sperduta su le vie della morte.

Guizzò qualche volta ancora rimpicciolendosi la fiammella del cero;
un ultimo cigolìo si udì, un ultimo bagliore apparve, poi anche quel
dolore annegò nell’immensa notte.

Quando mi tolsi da quel luogo e ripresi la via del convegno sentii che
un mutamento si era compiuto nell’anima mia; si effettuava un ritorno.
Riudii gli echi lontani del cantico della mia giovinezza ed al subito
rifiorire, la vana finzione che mi aveva abbagliato cadeva come uno
scenario che il chiaro giorno renda deforme.

Alle nove fui puntuale al convegno.

Il vecchio Sileno, l’onorevole Miaggi, mirabile espressione di umano
ebetismo elevato a rappresentanza di un sistema, aveva fatto le cose
a modo dimenticando una volta tanto la sozza avarizia, peculiar dote
della famiglia sua. Tale elettissima virtù lo aveva innalzato, per
il ben nutrito tesoro, nella considerazione degli uomini e del mondo
chiamandolo ad esprimere, nel consesso dei più eletti lumi del paese,
la volontà di un popolo di pitocchi infingardi.

L’onorevole Sileno (gli avevamo imposto il nome del vecchio compagno di
Bacco perchè come cavalcatura preferiva l’asino) era arcimilionario, la
qual cosa non impediva che madonna Primavera si dolesse della sua poca
generosità e della meschina valutazione ch’egli faceva dei vezzi di
lei. Comunque fosse, quella volta volle apparire generoso e vi riuscì.

Nell’ampia sala sfarzosa nella quale fui introdotto trovai già gli
amici nonchè varie donne di gioia note ed ignote, alcuni personaggi
del mondo politico ed un imberbe giovanetto di cui non seppi spiegarmi
a tutta prima la presenza in un luogo che non era certo adatto
all’edificazione della gioventù.

Madonna Primavera in una rosea veste composta alla foggia del 1830 e
tutta adorna di esili rami di edera; i capelli esageratamente ricadenti
su le guance tanto da ricordare due nere valve, da cui pareva spuntasse
il viso timidetto come l’animaluccio dalla conchiglia, riceveva gli
ospiti con squisita grazia di sorriso e di parole cercando atteggiarsi
a quella Cleo de Mérode ch’ella aveva scelto come supremo limite di
imitazione.

Era invero graziosa. Il visetto di bimba innocente, ed i grandi
occhi ingenui le davano tale apparenza di candore da scambiarla per
un’educanda. In compenso era sufficientemente sciocca.

Quando entrai conversava in disparte con Marta, formosa bellezza
romana, celebre per le illustri persone che avea potuto onorevolmente
ospitare. Data la somma intimità delle due etère, i mondani,
compiacendosene, sussurravano avere esse intessuto un meraviglioso
idillio saffico.

L’onorevole Sileno ritto in mezzo alla sala, sotto il lampadario, per
mettere in piena luce i brillanti del suo sparato, discuteva con tre
giovani appartenenti a ricche famiglie romane. Uno era fra costoro,
Sismondo dei Sismondi, il quale più degli altri si accalorava nel
dire e, tutto acceso in volto, lanciava i suoi aforismi all’onorevole
Miaggi che li accoglieva stralunando e sbuffando senza intenderne
probabilmente parola.

Lasciai l’onorevole Sileno alle sue prove oratorie nelle quali portava
la sua innata virtù parlamentare e mi appressai alla comitiva che
faceva capo a De Diensi. Udii Oddo Spiro, insolitamente animato,
raccontare sotto voce i turpi misteri di una messa nera. E mi
allontanai di nuovo. Forse era in me una soverchia insofferenza; forse
la rivolta latente mi faceva aspro. Fino a quel punto avevo creduto
Oddo Spiro in buona fede, non supponendo che egli potesse nascondere
sotto l’apparente velo di castità, le più oscene degenerazioni del
senso; quel suo brutale svelarsi, il compiacimento che poneva nel
raffinato racconto dei minimi particolari della scena mi avevano acceso
di sdegno e di commiserazione. Nella miseria avevo trovato gli stessi
aspetti del vizio: i poveri non escono dal loro brago, i ricchi vi
giungono per vie diverse, e gli uni e gli altri si fanno della vita
letame.

La sala veniva animandosi sempre più. Giungevano le belle in
abbigliamenti sfarzosi di ambigua eleganza e gli uomini impettiti nel
loro grottesco abito da società creato forse da qualche ridevole gnomo
implacato persecutore dell’uman genere.

Ed anche Sita apparve e con lei il marchese Di Narva ch’io vedevo per
la prima volta. Era uno scheletro, un lungo scheletro rivestito da una
pelle troppo bianca su la quale non appariva l’ombra del sangue.

Le spalle ricurve, le lunghe braccia pendule, il capo ricadente verso
la concavità del petto, seguiva Sita a passo a passo con cieca fedeltà
bestiale.

Quando levò un poco il viso n’ebbi ribrezzo. Gli occhi semispenti,
atoni, dall’iride quasi bianca si fissarono su me senza luce; le labbra
sottili s’incresparono ad un sorriso che infoscò ancor più le guance
ombreggiate da una rada barba; mi rivolse una parola che non intesi e
seguì Sita che si dirigeva altrove.

— Lo ha distrutto! — esclamò Giusto Sorani.

— Era già a mal passo prima di conoscerla — rispose Leonello Robbia.

— Ma non a questi estremi.

— Da un mese in qua precipita.

— Sarà la fortuna di lei — soggiunse Alanna. — Di Narva muore senza
eredi.

— Questo mi spiega tutto!

— Dicono abbia fatto testamento a favore dell’Ines.

— Quella scema non può averlo indotto a tanto; non ne aveva l’arte. Per
Sara la cosa è diversa e lo si vede dallo stesso atteggiamento ch’egli
ha assunto. Guardate come la segue.

— Ne è rimbecillito!

— Se Sara raggiunge il suo scopo mi saprete dire dove arriva!

— Dove vorrà. È troppo bella perchè le possa essere vietata una sola
soglia.

La guardai. Io pure, che da tanto tempo l’osservavo, non l’avevo veduta
mai tanto bella. La sua persona aveva raggiunto la suprema grazia; pur
mantenendosi fine ed elegante s’era addolcita ancor più. Era uscito
interamente dall’invoglio il rosso fiore velenoso, dalla fatale malìa.

Ancora ne tremai: mi parve dover ricadere nel tragico incantesimo.

Non le parlai, quantunque per due volte mi facesse cenno da lontano
perchè mi accostassi. Un’ansimante nervosità mi teneva, sul punto
di infrangere l’idolo mostruoso. Non avevo ancora piena padronanza
dell’anima mia.

Alla ricca tavola scelsi un posto remoto. Mi trovai fra Leonello Robbia
ed una sciocca creatura la quale rideva di tutto, sì di una briccica di
pane come di un elefante. Aveva l’idiosincrasìa del riso. Si sarebbe
divertita oltremodo a veder crollare la cupola di San Pietro e simile
gioia le avrebbe procurato il giuoco del capinascondere. Tutto era
egualmente ridevole nel concavo specchio della sua intelligenza. Gli
uomini l’amavano perchè era decisamente stupida. Si chiamava Giovanna.

La follia orgiastica incominciò come il simposio volse verso il suo
fine; gli ultimi freni si disciolsero, e la bestia umana si appalesò in
tutta la sua sozzura.

Il giovanissimo Batillo, che era alla destra di Eduardo De Diensi;
il fine fanciullo dalla lunga capellatura bionda, dalle labbra
soverchiamente rosse e dal perfetto viso fermo nel costante stupore
dell’anima sua oscurata, fu tosto, più che le femmine, termine fisso
del desiderio comune. Come ogni finzione era caduta, quell’accolta di
satiri dalla vista obliqua non ebbe più alcun ritegno e corsero frasi e
parole delle quali risento tuttora la nausea. Il nobile ritrovo avrebbe
fatto schifo in quel punto anche alle femmine de’ porci.

Dove finiva mai la schietta urbanità che mi era parso intravvedere?
dove s’impantanavano le brillanti dottrine edonistiche di cui il De
Diensi faceva sfoggio?

Io non mi sentivo buono; non ero un dei loro, un corrotto. Avrei voluto
vederli all’obelisco di Antinoo, al Pincio, trattati a scudiscio finchè
la mala foja, umiliata e vinta, fosse caduta col loro spirito superbo,
per sempre.

E si fosser levate le galle su quelle bianche membra da cortigiane! E
il dolore che non sapevano li avesse resi alfine uomini fra gli uomini
dolenti! Questo avrei voluto; questo grido si levava dall’anima mia
inasprita a tanta turpitudine.

Nè si tenner alle sole parole sì come l’eccitazione si accrebbe, e
il vino, le luci, i fiori, le grida, l’inconsueto sfarzo, il cibo
soverchio accesero la loro concupiscenza.

Si udì un grido:

— Giovanna denùdati!

Fu il segno del furore. Si rivolsero a lei perchè era la più sciocca
fra le presenti.

Ella parve dapprima renitente, protestò; ma poi il suo riso la
vinse e si lasciò strappare le vesti da venti mani furiose che se
la palleggiarono increspandosi e tanto più si attardarono quanto più
l’opera volgeva al compimento.

Ad un tratto cadde anche l’ultimo velo. Un urlo ansimante si levò; gli
occhi accesi di lussuria scintillarono cupi.

Fu fatta salire su la tavola: fra i fiori, i vasellami d’argento, le
innumerevoli lampade elettriche. I capelli le si disciolsero. Qualcuno
intonò sottovoce un canto itifallico, mentre l’oscena baccante, protese
in aria due coppe ricolme, se le riversava sul capo contorcendosi
nel suo folle riso. Le grosse mani, incise di verruche e di schianze,
dell’onorevole Sileno si avanzarono a raccorre in due calici il vino
che scendeva in rivoletti per il nudo corpo della femmina; altri lo
imitarono; da ogni parte si gridò:

— Alla fonte, alla fonte!

E un’incomposta furia travolse tutte quelle anime farneticanti.

Poi venne la volta del giovanissimo Batillo. Già mi ero levato per
andarmene allorchè un subito grido mi trattenne. Volsi il capo e
vidi, proteso tragicamente dall’altro lato della tavola, il marchese
Di Narva. Travolgeva rapidissimamente gli occhi stralunando, aveva le
braccia stecchite, il volto paonazzo, le labbra strette con violenza
come per un martirio orribile.

Rimase qualche secondo così, poi, prima che gli astanti si fossero
riavuti dallo stupore, si levò in tutta la sua lunghezza spettrale
con un rantolo, un urlo, per due volte annaspò per l’aria e stramazzò
riverso.

Quando Sulpicio Alanna si curvò sul corpo disteso, un altissimo
silenzio regnò intorno.

Accosciata su la tavola, a simiglianza di un’enorme rana, Giovanna
riguardava dai tondi occhi inebetiti.

La trepidante attesa fu rotta dalla voce di Sulpicio Alanna:

— È nulla; uno svenimento.

Un subito mormorio accompagnò la buona novella. Approfittai
dell’occasione per scivolare nell’ombra ed ecclissarmi.

L’aria notturna calmò un poco la mia eccitazione nervosa ma non tanto
che non permanesse in me un senso di pena e di sgomento. Mi affrettai,
corsi, quasi presago di una sventura imminente.

Fu quando stavo per entrare nell’andito di casa mia: un uomo balzò dal
buio, mi afferrò per le braccia e con voce rotta dall’affanno gridò:

— Vieni, corri, insensato!... Serenella muore!




XXI.

L’altare del dio ignoto.


— Dèstati dèstati amore; dèstati dèstati a cantare! Sono giunte le nubi
bianche, le piccole nubi altissime e la primavera è con loro, il viso
del maggio; il tuo viso Serenella!

Tutto era venuto meno qua dentro, tutto si era oscurato nella mia casa
e nell’anima mia quando sei sorto per me, mio piccolo cuore di sogno.

Levati, socchiudi gli occhi belli, piega le labbra al sorriso; da tanto
tempo veglio in ginocchio il tuo sonno.

L’arco del sole era breve quando ci lasciammo; gli alberi dormivano
e l’ombra loro si allungava su la terra; ora tutti gli orti sono
in fiore; si è compito il miracolo di gioia, anima, e la capinera è
ritornata, la tua piccola sorella.

Dèstati dèstati, il sole è fra le siepi degli orti dove sono i nidi
degli usignoli e le vesti delle rugiade, dove saltellano i ghiri dagli
occhi di onice tersa; è basso e si attarda ad illudere le umili cose
che gettano una grande ombra.

Amica, sorella mia, la terra è tutta un giardino.

Chi viene dai confini del cielo? Non senti il sussurro intorno ai rami
dei meli in fiore? La falcata luna, navicella d’opale, ascende in un
mare di rose, dilegua nell’infinito e dalla siepe di un orto sperduto
giunge il canto di un usignuolo dalla voce d’amore.

È l’amico nostro, Serenella; viene sul fior dell’erba, la fronte
coronata di biancospino; giunge con occhi lucenti e prende la tua, la
mia mano e bacia la tua, la mia bocca!

Vi è una porta sprangata, una porta ignota ai termini della tenebra ed
egli con lieve mano l’ha dischiusa.

Lo senti?... lo vedi?... apri gli occhi stellari, Serenella; l’amore,
il nostro amore è giunto! —

Sotto voce, lentamente io le cantavo così, sul ritmo di una nenia delle
nostre terre, il sommesso invito, ed ella sorrideva socchiudendo gli
occhi e le labbra.

La giovinezza di lei aveva superato il male; il miracolo si era compito
in breve. V’è giorno nella primavera in cui tutte le pratelline si
dischiudono come candide mani di bimbo dalle dita rosee.

Molto si vive di volontà. Ella era già su la pietra del muto confine,
quando si era rivolta per il ritorno e risorgeva innanzi agli occhi
miei ad ora ad ora per meraviglia d’amore.

Omero si aggirava intorno a noi muto e severo come sempre; ma io avevo
sorpreso troppe volte nelle sue pupille chiare ed azzurre un rapido
scintillìo fiammeggiante per non intendere tutta la sua contentezza.
Evitava parlarci forse per non turbare la risorta soavità: si attardava
nell’orto a dirompere le zolle levando il capo talvolta a sogguardare
la casa tranquilla. C’era in quel suo gesto consueto una paterna bontà
commovente.

Pensava che l’acqua, ripresa ormai la sua china, non avrebbe stagnato
più fino al mare dove tutto si fonde in un’anima sola; in una sola
luce. E se ne stava in disparte; pareva lo guidasse una timidezza
estranea. L’anima sua rude e sensibile voleva farsi dimenticare;
il solo pensiero d’interporsi l’avrebbe offesa. E talvolta lo
dimenticavamo per l’amore che è una dolce solitudine di due anime.

Trascorsero giorni e giorni; passarono ore tranquille e serene nel
gran tepore della stagione nuova e Serenella si levò dal suo sonno
triste; si trascinò dapprima al mio braccio lentamente per giungere
fino alla finestra, poi discese, si trattenne nell’orto, ogni giorno un
po’ più, ogni giorno più animata, più colorita, più forte. Le gengive,
le labbra, da pallide che erano, riebber il loro vermiglio; il viso
rifiorì, gli occhi si fecer più vivi e l’anima con essi che dilagò in
un nuovo sentimento d’amore a tutte le cose.

— Rinasco, Duccio; mi pare che solo da ieri io sia nella vita, da
quando sei venuto. Chi può dirmi s’io vivessi veramente prima di
adesso? C’era Serenella, ma l’anima di Serenella non c’era. Tu l’hai
richiamata dal buio e che tu sia benedetto.

L’ascoltavo parlare tremando. Come mai avevo potuto farla soffrire sì
brutalmente per una sciocca illusione?

La sosta all’aperto fu sempre più lunga, poi venne giorno in cui la
bella, nata dalle acque turchine dei Sette Mari, riebbe la sua piena
vita.

Quante generazioni erano passate mai per la casa silenziosa fra
gli orti? La pietra della soglia era consunta; ma quando udivo lo
scricchiolio dei calzari di Serenella, quando udivo la sua voce, il suo
passo là dentro, mi pareva che il piccolo nido fosse sorto per lei sola
e da tempo infinito l’attendesse.

Il nostro primo pensiero, allorchè, come un tempo, andammo per i romiti
sentieri della campagna, fu per la terra lontana. C’è, nel rievocare,
la stessa dolcezza del sogno. Le cose lontane si trasfigurano.

Parlavo a voce lenta ed ella ascoltava, assentiva, sorrideva. Fu così
che per la prima volta, dopo sì lungo sostare, le nostre labbra si
trovarono riunite in un impeto di gioia.

— Ricordi quando si levava dai monti lontani dell’occidente la stella
dell’amore e della notte? In fondo alla laguna l’aria era più chiara
e si vedevano i monti remotissimi di una terra sconosciuta per noi;
da quei monti balzava la prima stella. Ti soffermavi con gli occhi
lucenti: Che cosa porta mai l’astro della sera? — Io tacevo; si udiva
solo il fremito delle sottili canne. Poi passavan sotto la nuova luna,
passavano cantando, raccolte in lunghi sandali neri, le compagne tue
dalla timida voce nei festosi ritornelli. Qualcuna andava a nozze
fra il rosseggiare delle faci. Si udiva l’epitalamio, si udiva un
singhiozzo d’amore. E le fanciulle? Le vergini dal piccolo zendado
che stavano su le vuote soglie a sogguardare dagli occhi incerti e
sognanti? Sarebbe venuta la loro volta? Che cosa portava mai l’astro
della sera?

Scendeva la notte primaverile ed era sì dolce sostare all’aperto! Le
vergini dagli occhi di viola, dal piccolo seno acerbo correvano per le
_fondamenta_ con accese tede di biancospino: — Benvenuta primavera!
Benvenuta sorella verde! — Voci timide ma soavi, ma belle. Passavano
le fiamme a chioma lasciando uno sfolgorìo di falene subito spente e la
città lagunare si cingeva di un diadema di stelle d’oro.

Ricordi il nostro silenzio? Avevamo un tumulto nel core. Così si
sostava ogni notte finchè i pastori scendessero per il Bosco Eliceo a
calpestare i primi gigli del freddo.

Ero giunto anch’io con le greggi a rompere il tuo silenzio. Da terre
lontane, lanciato verso un sogno, mi ero soffermato a guardarti. Ma tu
eri sì alta su la tua soglia, chi poteva giungere fino a te? Eri come
un fiore sbocciato in un giardino chiuso. Eppure mi trattenni per il
tuo primo sorriso!...

Dopo avermi ascoltato con gli occhi fissi lontano, nel cielo
lontano dove smorivan le nubi, si volgeva ad un tratto e mi guardava
intensamente quasi a rassicurarsi ch’ero ben io che parlavo; poi, gli
occhi si addolcivano nell’acconsentimento.

Si seguiva a volte il corso dell’Aniene; a volte sostavamo sotto i
grandi archi rossigni di qualche acquedotto in rovina o vicino a un
disperso sepolcro ai limiti della solitudine.

A me fiorivan su le labbra i baci e gli inni; traboccavan su dall’anima
commossa perdutamente. E Serenella ascoltava e taceva abbrividendo per
la troppa dolcezza.

Eravamo arrivati a quel punto per foschi roveti; non sono pianeggianti
le vie della gioia nè aperte e battute; avevamo quasi disperato della
vita per giungere ma il cantico superbo dell’amore si levava ora, per
noi, come un volo d’aquile scagliate contro il rutilante sole, nei
cieli altissimi.

Che mi poteva turbare ormai? Non i pallidi compagni, gli elucubratori
di sterili dottrine pomposamente drappeggiate nella porpora.
L’abbagliante sfoggio dei loro paradossi non bastava a nascondere o ad
abbellire il fine bestiale.

Non Sita. Senza odio e senza rancore, spenta l’aspra crisi in cui mi
dibattevo peritando, era scomparsa per me anche l’immagine di lei.

L’amore non è fatto di violenza: Sita era trascorsa simile a una nave
in fiamme sopra un cupo mare sconvolto da una tempesta notturna.

L’anima mia, in una chiarezza mattinale, risaliva alle sue origini di
semplicità. Una volta ancora sentivo la gioia, la forza, il significato
della vita. Ben temprato al dolore che non aveva saputo rendermi
cinico, nè farmi schiavo, nè abbattermi, levavo una volta ancora la
fronte al mio sogno, io che non recavo altro fra gli uomini se non
quel poco d’armonia che aveva sorriso a mia madre dal piccolo mondo,
dall’universo stellare. Il lavoro in cui ogni uomo lascia il segno
della sua volontà su le brevi vie della terra e l’amore in cui l’anima
s’imparadisa verso l’ignoto, questo il confine o meglio il ritmo della
vita.

Avevo ben visto su la mia via orribili sciagure, tragiche disperazioni,
rovine inenarrabili e avevo visto le creature colpite levarsi
foscamente e fissare con occhi torti il cielo e scagliare a Dio la
bestemmia e la maledizione. Il cielo splendeva sereno e l’affannata
gente bestemmiava e malediceva sè stessa. Guai a chi si sente troppo
solo nel mondo; guai a chi non conosce l’amore che è il divino segno
della natura nostra.

Solo le aquile delle sommità, sanno soffrire e morire sdegnosamente nel
silenzio.

Ma il grande stuolo deve rispondere alle sue leggi d’armonia, solo da
queste si irradia la gioia e la pace.

Vivemmo in quei primi giorni del ritorno quasi inconsapevoli ancora
di tutto il nostro bene. Era su la terra e nel nostro cuore una
trasfigurazione gentile.

Io mi sentivo oppresso da una moltitudine di pensieri che non potevo
esprimere; ogni mia sensazione si era affinata; il sorriso di tutte
le cose aggiungeva un suono, un colore, un’idea al mio cantico
fraterno; non dall’attimo nè dal tempo; non dal minimo nè dall’infinito
discendeva in me forma o pensiero discordante. Serenella, la capinera
degli orti, si stringeva al mio braccio sorridendo, sempre più bella.

Nelle ore in cui, per necessità di vita, riprendevo l’interrotto
lavoro, ella sedeva in disparte a compire qualche sua opera femminile.
Sedeva presso una finestra o passava per la stanza sì lievemente ch’io
l’avvertivo appena.

Trascorrevano giorni dolcissimi. Il primo sole ci svegliava; il canto
delle creature festose che spiano sui prati o fra le rame il ritorno
dell’astro d’oro saliva alle nostre camerette ch’erano sotto ai tetti.
Dalla finestra aperta irrompeva una deliziosa frescura; vedevamo le
prime nubi rosee navigare per l’incantevole giovinezza del cielo. Come
tremavano le anime nostre dietro le forme vanenti!

E di lassù, simile ad un annunzio solare, scendeva il trillo delle
allodole, il canto che trema in note perdute e gorgoglia ed ha il
fremito, il chiocchiolio delle piccole fonti.

I rami più alti dei meli che salivano a spiare dal piccolo vano delle
nostre finestre, i rami tutti fioriti si tingevano lievissimamente
d’oro. Talvolta ondulavano per il posarsi di una cincia fra corolla e
corolla.

Mi appoggiavo al davanzale. Omero era già partito con la sua carretta.
Il lontano orizzonte era chiuso dai monti Albani biancheggianti qua e
là di paesi e di ville fino alla vetta di Monte Cavo. Dietro la grande
ombra azzurra pareva si stendesse un incognito mare lucente.

Più vicino, la terra si raccoglieva nella sua fioritura. Oltre la
siepe dell’orto mormorava un fontanile ombreggiato dalle rame di un
pesco e nell’acqua tersa, dallo sfondo del cielo, spuntavano altri rami
parimenti in fiore. Le rondini rasentavano guizzando con lunghe strida
le acque dell’Aniene.

Ad un tratto dalla cameretta vicina si levava una voce, un canto dolce,
poi udivo un lieve picchiare all’uscio.

— Duccio? Amico mio?

Appariva col suo zendado su le spalle, animata dal sonno tuttavia;
superbamente giovane e bella. Fioriva il collo, nella sua soave
nudità, dalle radici del seno al principio della gola dove ancor più
si ingentiliva in una morbidezza di giacinto e il viso, bianco come
un alburno, si ravvivava su le guance di un rossore tenuissimo. La mia
bella Boopis aveva gli occhi sì grandi sotto il lieve arco cigliare e
così puri! Tutta l’anima del mattino e della primavera si specchiava in
quelle nere pupille!

Scendevamo nell’orto. Ella si riempiva il grembo di fiori per adornarne
il mio tavolo da lavoro. Andava tacita fra pianta e pianta sotto
il sole novello che le accendeva i capelli dello stesso color delle
viole. La vedevo chinarsi con atti aggraziati. La figura sottile, dalla
mollezza di uno stelo, non aveva mai disarmonie. Le sue stesse mani
facevano sbocciare i fiori: non era ella la Primavera?

La veste chiara, la messe floreale, quel suo incedere lieve, quasi
inaudibile per cui pareva sfiorasse la terra, e il nimbo, il gran
nimbo d’oro del mattino che tutta l’avvolgeva compivano la grazia
dell’incanto.

La seguivo da lontano per non turbarla. Intorno a noi, dalle siepi,
dall’intrichio dei rami stridevano le cincie inseguendosi fra voli e
frulli.

Ad un tratto si volgeva verso me con un sorriso.

— Perchè stai tanto lontano? Ho finito. Vado a portare i fiori sul tuo
tavolo. Mi aspetti?

— Ti aspetto.

Udivo il suo canto dalla piccola casa. E ricompariva in un battibaleno.

A volte sostavamo su l’orlo del fontanile. Ella guardava l’acqua che
pareva si stendesse limpidissima sopra un altro cielo ma più pallido,
più remoto.

— Eccoci isolati fra due cieli — diceva sorridendo. — Guarda Duccio,
come una barca sul mare!

E ancora:

— Perchè dicono che gli alberi non hanno un’anima? Gli uomini non sanno
parlare come gli alberi fioriscono! Noi ci esprimiamo con la parola
e gli alberi col colore. Non ti sembra più bello? Fanno meno chiasso
loro, e dicono tante cose di più!

Poi rompeva in un chiaro riso appoggiando il capo su la mia spalla.

Talvolta mi guardava fra il serio e il faceto per chiedermi
improvvisamente:

— Ti sembro molto sciocca?

E come la fissavo, stupìto dalla subita domanda riprendeva:

— Rispondi, rispondi.

— Ma perchè mi chiedi una cosa tanto strana?

— Perchè? — dopo un attimo di silenzio, sotto voce, come per farsi
perdonare sussurrava:

— Perchè ho paura di non piacerti abbastanza!

I baci erano la correzione di tali errori frequentissimi.

A volte la nostra giovinezza irrompeva in subite giocondità
irrefrenabili.

— Siamo stati mai tristi? — chiedevo dimentico già del passato.

Ella si avvicinava, con un dito su le labbra.

— Lasciali dormire — rispondeva — lasciali tranquilli nell’Isola della
Croce.

Ad un mio sguardo interrogativo, distesa la mano verso il remoto
orizzonte, soggiungeva con un tremito nella voce:

— I morti!

Erano ombre fuggevoli.

Quant’era più bella Roma nel cantico del nostro amore! Roma che
sorge fra una corona di fontane, eternamente giovane come l’acqua che
l’irradia!

Il giorno trascorreva per noi sì rapido come un battere di palpebra.
Quando ero stanco di lavorare verso l’ora del tramonto, mi volgevo a
chiamarla:

— Serenella?

— Duccio!

— Vogliamo andare a Roma?

— Sì.

— Sei pronta?

— Prontissima.

Si partiva soli, osservando, ridendo, per la via Nomentana verso Porta
Pia. E, a parte a parte, l’anima della grande Sfinge millenaria ci
appariva nella sua vastità.

Un giorno sostavamo nella chiesa enorme, nella basilica della
cristianità, stupiti più che ammirati, mentre si trasognava, nella
Cappella Sistina, innanzi all’eternata visione michelangiolesca.

Serenella guardava ascoltando. Talvolta, nelle sale del Vaticano,
innanzi a qualche splendore d’arte ho visto gli occhi di lei luccicare
d’improvviso per un rapido commovimento.

Certi giorni salivamo alle grandi ville principesche: al Gianicolo, al
Pincio; o si sostava nei musei di Villa Borghese o ai solitari prati
di Villa Pamphili. Questi ultimi, cinti da grandi masse di pini, ci
ricordavano i nostri boschi lungo l’Adriatico; i nostri boschi selvaggi
nei quali s’inselva il tasso e sibila la serpe dagli aspri ginepri.
Così dagli scavi ai musei; dalle membra disperse dell’antica Roma agli
ultimi aspetti che assunse; attraverso alla sua storia che fu la storia
del mondo, andavamo pensosamente animando del nostro amore tutte le
cose.

A sera si tornava un poco stanchi, ma al piccolo desco quand’eravamo
vicini, a fianco a fianco e dalla porta e dalle finestre dischiuse
entrava l’ultima luce, l’ultimo alito del crepuscolo; quando la
raccolta dolcezza del nostro nido ci era intorno, ogni segno di
stanchezza scompariva per dar luogo al lieto, al soave conversare
interrotto a volte da pause. E le pause aumentavano sempre più.

Come l’aria s’era fatta tepida, Omero dormiva sotto il pergolato; si
udivan, da qualche gora sperduta, le rane che pare annunzino con la
loro tremante voce il tremolio delle stelle; dalle macchie si levavano
i primi squittii, le prove sommesse degli usignuoli. Vedevamo salir la
luna tra le rame dei peschi: fiore d’argento fra fiori di corallo.

I nostri silenzii si facevano più penosi; più lunghi i baci, più
lunghi, interminabili. Ogni cosa ha la sua stagione ed ogni azione
sotto il cielo ha il suo tempo. Io sapevo perchè gli occhi di Serenella
si oscuravano per subite tristezze.

Una volta salimmo al Palatino, al colle degli imperatori. Fra antri e
rovine e fra gruppi di cipressi e di palme giungemmo alla sua parte più
estrema, più isolata.

Sorge laggiù, poco lungi da una casa silente, un’ara di travertino, un
antichissimo altare sacro al dio ignoto. Dice la frase dedicatoria: —
_Sei deo sei deivæ sacrum_.

Noi non ti conosciamo Signore, tu sei l’Ignoto, la divinità arcana che
si cela nel silenzio dei boschi e nell’immensità dell’Universo. Noi ti
adoriamo nel tuo mistero, Signore.

Così i primigeni, gli armati di scure, le anime semplici che
semplicemente adorarono. La luce smoriva colorando in croco l’ara
solitaria presso la quale ci soffermammo, il capo e gli occhi reclini.
Sentivo la mano di Serenella che era fredda benchè la stringessi
fortemente.

— Hai inteso?

— Sì — rispose a pena.

— Vuoi che sia qui, di fronte al silenzio, all’ara del Dio Ignoto?

— Sì, lo voglio.

Allora ci inginocchiammo invocando mutamente la pace al nostro amore e
su la terra e nel poi.

Quando l’amore congiunge due anime non v’è forza al mondo che possa
disgiungerle. Ella sarebbe rimasta per sempre l’amica, l’amante mia,
non la sciocca moglie che la consuetudine impone; non l’_utile_ donna,
ma la compagna dell’anima.

A notte nella nostra casa fra gli orti, salimmo le piccole scale
recando due lucerne come sempre e, all’ultimo ripiano, ci soffermammo.
Su la bocca della mia piccola amica correva un sorriso. Levai fino al
volto di lei lentissimamente la mia fiamma.

Due voci di giovanetti si levarono dall’ombra come in un accordo
incantesimale:

    _Ah! quando l’uva invaia_
    _quando arossano le viti_
    _io verrò alla tua soglia...._

Forse ella disse una parola, non so, ma la mia lucerna si spense.

Poi l’amore socchiuse la porta.




XXII.

L’uomo e la croce.


La lotta non era finita ancora (la perfetta quiete prelude alla morte,
alla trasmigrazione delle nostre energie verso un’altra lotta ignota)
pure mi ero composto una sicura finalità di vita onde potevo più
liberamente esplicarmi.

Uscendo dal niente, mi ero conquistato anch’io un piccolo posto nel
mondo; il mio lavoro era retribuito; potevo fare assegnamento su la mia
intelligenza alla quale gli uomini avevano dato già qualche valore.

Cominciava allora, è ben vero, il periodo più acerbo; sapevo quante
difficoltà mi sarebbero sorte innanzi a rendermi più difficile il
proseguire; ma che m’importava? Quale pregio avrebbe un qualsiasi
bene se lo si potesse ottenere agevolmente senza affanno? E nel comune
apprezzamento, stimiamo forse un bene le cose che ci sono a portata di
mano e il possesso delle quali non ci costa il minimo sforzo?

Uscito, per merito della mia stessa natura ripugnante da qualsiasi
pervertimento, dalla crisi dell’intelletto e del senso che per poco non
m’aveva respinto nell’ombra dalla quale era uscito, mi trovavo ora, con
la mia dolce amica, nelle migliori disposizioni di spirito e di vita.

La via era aperta; avanti, adunque, verso le lontane aurore su le
quali si affissano gli occhi dell’umanità lanciata sopra una strada
eterna verso un apparente confine; avanti finchè l’armoniosa giovinezza
cantava. Quando sincerità ci accompagna, la nostra voce può destare
qualche eco nelle anime che attendono.

Un campo più vasto di quello che avevo fino allora tentato, mi
seduceva; il campo dell’azione sul quale, fra odii e violenze, le
classi sociali si combattono. Ivi agii in seguito.

Dirò ciò che vidi e vissi della gigantesca lotta fra i poveri e i
ricchi in altra parte del romanzo della vita mia.

Allora, per ciò che riguardava l’armonia dell’anima, ero giunto a
compimento.

Di Sita sapemmo un giorno che aveva ereditato l’enorme patrimonio del
marchese Di Narva e che era partita improvvisamente senza dire ove
andasse a destino.

Dileguava dal nostro mondo chi sa verso quali oblique avventure. Oltre
alla sua bellezza ella possedeva ora l’arme più sicura al dominio: il
denaro.

Che ne avrebbero pensato mai i pescatori del suo oscuro nido disperso
fra le lagune quando fosser venuti a conoscenza di tutto?

Molto probabilmente avrebbero dimenticato Sita di un tempo per
inchinarsi alla signora dell’oggi. D’altra parte ella non sarebbe
ricomparsa mai più su le tredici isolette che reggono Comacchio a
fior dell’acqua; nell’anima di lei non era nè gentilezza di ricordo nè
desiderio di ritorno.

Dalla memoria dei più, col trascorrere del tempo si sarebbe cancellata
l’immagine della superba.

Zalèbi dormiva per sempre nell’Isola della Croce e Diavolo accanto
a lui, nello spazio breve. Poco dopo la mia partenza la verità circa
l’omicidio di Diavolo si era risaputa per la voce di tutto il popolo
e, esaurito qualche inevitabile procedimento burocratico, anche la
Giustizia aveva messo la cosa in tacere. Scomparsa Sita (ed ella, prima
di partire, avea messo nessuno a parte de’ suoi propositi di vendetta)
ogni incentivo al ricordo della tragedia trascorsa era caduto così che,
toltone Pietro e Giovanni della Nave (gli unici due superstiti ai quali
Serenella ripensava sovente con subite tristezze) forse nessun altro
ricordava.

Solo Serenella ed io saremmo ricomparsi laggiù a rallegrare per qualche
giorno la solinga casa troppo silente fra il continuo risciacquio dei
canali.

Era il nostro proposito che avevamo manifestato anche ad Omero.

— Non vorrai essere con noi?

— Non parliamone; c’è tempo ancora — aveva risposto. Poi si era
allontanato pensosamente scuotendo il capo.

Da qualche tempo venivo notando sul suo viso, tracce di un interno
turbamento che non riuscivo a spiegarmi. Gli occhi suoi avevano un
continuo velo di malinconia che scompariva solo quando glie ne muovevo
dolce rimprovero; più volte l’avevo sorpreso seduto all’angolo della
casa vicino al pergolato, la faccia nascosta fra le mani. Siccome
odiava l’inerzia e trovava modo di occupare ogni minuto della sua
vita, quello stato di abbandono, sì nuovo in lui, mi aveva colpito
profondamente. Quale pensiero doloroso l’opprimeva?

Avrei voluto interrogarlo, ma ne conoscevo troppo intimamente il
carattere per tentare una prova che gli sarebbe riuscita discara.

Le nostre attenzioni, il nostro palese affetto lo facevano contento.
Non era stato egli per noi più che un buon padre? Quale dovere lo aveva
spinto a sacrificare la sua vita per il nostro bene?

Il saperlo triste mi era di continua amarezza; ciò turbava un poco la
gioia di quei nostri giorni belli; pure non ne parlavo con Serenella
per non addolorarla. Ella si era legata ad Omero con sì forte tenerezza
femminea che troppo si sarebbe accorata supponendo solo ch’egli potesse
soffrire.

A volte gli imponeva le mani sul capo baciandogli i capelli ed era come
un fregio di grazia il nodo delle piccole mani sul capo che incanutiva.
Omero era invaghito di quell’amore ma lo sfuggiva dolcemente quasi
temesse una commozione troppo intensa. Raccoglieva il frutto della sua
abnegazione.

Era uscito dall’ombra per noi, per noi soli; dal giorno in cui mia
madre era morta mi si era posto al fianco per vigilare sul mio destino
dapprima, su la nostra gioia di poi senza voler nulla per sè, tenendosi
in disparte quando vedeva raggiunta la nostra, la sua volontà. Quale
dio di bontà lo guidava? Per quale profonda dolcezza rendeva agli
uomini bene per male?

Il suo muto cuore stoico aveva incomprensibili grandezze. Il sacrificio
ch’egli compiva in silenzio era come un semplice atto della sua vita
di eroe. E quando aveva dato tutto, anche il poco che possedeva, anche
la sua lacera veste, riprendeva la via senza rivolgersi, per non veder
tristi coloro che abbandonava.

Lo accoglievano diffidenti e piangendo lo vedevano ripartire. Chi era
mai quell’uomo forte e buono che aveva la voce profonda, le parole di
un saggio e gli occhi sì dolci ed azzurri sul viso adusto? Chi era? Da
quale parte era giunto? Dove andava?

Pareva un ramingo, un pezzente, forse un bandito. Giunto nel paese
verso sera, aveva chiesto ospitalità a qualcuno, senza nulla ottenere
perchè i dispersi hanno sempre alle calcagna l’ombra della minaccia.
Rifugiatosi vicino a qualche pagliaio, coi cani, il giorno dopo si era
incaponito a restare benchè tutti gli facessero brutto viso. Nessuno
lo aveva accolto; non gli avevano dato nè una vanga nè un tozzo di
pane. Allora si era unito ai poveri: a coloro che vanno raccogliendo
gli stecchi e gli sterpi lungo le siepi; aveva prestato mano ai bimbi
poveri e soli e ancora gli anziani vedendolo passare avevano gridato:
— Vattene! Chi sei? Che cerchi da quelle creature? — Non si era adirato
mai, neppure una volta; que’ suoi grand’occhi chiari non si turbavano,
nè sapevano l’ira. Così con minor diffidenza gli si eran dischiuse le
porte. E l’avevano veduto lavorare per dieci e voleva solo il pane per
la sua cena e la paglia per dormire. Era dunque un Santo? Le donne
lo guardavano stupite. Poi la diffidenza si cambiava in amore, in
venerazione.

Aveva fatto del bene a tutti, come poteva: soccorrendo i poveri con
l’opera sua e co’ suoi guadagni; si era intromesso nelle sfide; aveva
vinto con la forza i più forti, senza vantarsi, ritraendosi sempre nel
suo grande silenzio di solitaria grandezza.

E un giorno non si era più riveduto. Gli uomini erano corsi nei
dintorni a cercarlo; le donne, i bimbi l’avevano atteso all’aurora e ai
tramonti piangendo invano, invano. Le bisacce su le spalle, gli occhi
fissi al sole occiduo, Omero aveva ripreso la strada interminata.

Era il destino di lui; la sua gioia e il suo dolore eterni.

Quante volte, nelle soste meridiane, allorchè andavamo insieme verso
una comune sorte, avevo intuito da qualche sua vaga parola un simile
ricordo che gli si ridestava nell’anima. Allora abbassava il capo fra
le mani e, quando lo rialzava, gli occhi suoi erano più lucenti.

— Che hai Omero?

— Nulla.

— Rimpiangi il tuo passato?

— Non lo rimpiango, lo vivo.

— E perchè non hai sostato mai?

Tendeva una mano verso l’estremo occidente:

— Perchè c’è chi m’aspetta laggiù.

Una volta sola mi aveva parlato di Donetta e sì intensamente e con tale
commozione che i singhiozzi mi erano saliti alla gola irrefrenabili
perchè in quella tristezza dell’uomo che aveva votato tutta la sua vita
di bontà al ricordo di una creatura amata fugacemente io vedevo una
grandezza divina.

Era ripreso forse dal ricordo, dal rimorso?

Temevo fosse così e di giorno in giorno mi aspettavo il doloroso addio.
Avrei fatto il possibile per trattenerlo; ma sapevo già vano ogni mio
tentativo.

Un giorno Serenella lavorava nelle stanze superiori; si udiva il
suo canto tranquillo. Omero era stato quel giorno più irrequieto del
solito. Ero giunto allora da Roma e mi disponevo a salire allorchè udii
la voce di Omero che mi chiamava. Mi volsi: lo vidi ritto sulla soglia
della capanna nella quale soleva dormire. A’ suoi piedi giacevano le
sue bisacce. Era pallido e commosso. Intesi ma non parlai.

— Duccio — mi disse a voce bassa in cui trascorse come un fremito di
pianto — non dir nulla a Serenella.

— Di che cosa?

— Io parto.

— Parti? E perchè?

— Tu sei felice e Serenella è felice... io non ho più niente da fare
qui: il mio compito è finito. Non parto per sempre: ci rivedremo, non
so quando, ma ci rivedremo. Non pregarmi, non dire ch’io resti, ne
soffrirei. Tu conosci il mio destino. A Serenella dirai, per adesso,
che Paolo mi ha voluto con sè al convento: poi, quando l’idea della
mia lontananza non le sembrerà troppo grave, le dirai la verità. Non
bisogna farla piangere, ha pianto troppo: ne è quasi morta! Promettimi
di far così, Duccio, promettimi di non attristarla per me: mi faresti
tanto più amaro il cammino!

— Ma perchè parti? Che posso fare perchè tu sia contento, perchè tu
riposi tranquillo?

— Niente.

— Vuoi vivere solo?

— No.

— Io non posso nulla, proprio nulla per darti la pace?

— Non puoi nulla!

— E ti ho invidiato un tempo! Credevo tu recassi con te la tua gioia:
libero, solo, soddisfatto...

M’interruppi, il suo viso era divenuto più pallido ancora. Mi guardava
con severità dolente; non avevo udito mai la sua voce tremare così:

— Lo sapevi già, Duccio: Io sono un miserabile!... — Raccolse le
bisacce, si calcò il berretto su gli occhi e si incamminò. Lo seguii
senza aver core di aggiungere parola.

Dall’alto discese la voce di Serenella. Cantava la leggenda del re
Artigù. Omero si rivolse ad ascoltare, poi chinò il capo e proseguì in
silenzio.

A Porta Pia volle lo lasciassi. Mi baciò, si passò il dorso della mano
su gli occhi e partì. Gli tenni dietro da lontano. Era l’ultima volta
forse.

Lo seguii fino al Testaccio.

La grande collina sepolcrale della Roma degli imperatori che la
leggenda, a significare l’inaudita potenza dell’Urbe, disse formata dai
frantumi dei vasi entro ai quali i popoli vinti mandarono annualmente
i loro tributi d’oro e d’argento all’impero, stava contro la luce del
vespero, troneggiando. Si levava oscura e solenne intenta all’arrivo
del nuovo guerriero il quale giunto di un balzo su la cima, tragga
dalle viscere di lei il vermiglio ancìle a propiziare un superbo volo
di fiammanti vittorie su l’Urbe che ancora attende.

Intorno era il silenzio.

Omero proseguiva a buon passo: lo vidi prendere il cammino verso la
vetta solitaria. Andava col capo ricurvo pensando forse gli astati
armentari delle sue lande; il sorriso di un piccolo volto velato dalla
morte.

Ascese, ascese verso la luce estrema, si allontanò su i cieli.

Si udì sotto, nell’ombra, un improvviso tinnire di campanacci. Dalle
rive occulte del Tevere giungeva un immenso gregge che trascorse
compatto come una lenta fiumana, docile alle grida ed ai vincigli dei
pastori dall’aspetto di fauni.

Ma il mio cuore, gli occhi miei erano lassù verso l’uomo che scompariva.

Il sogno e l’aspra libertà, sanguinosa chimera che sospinge gli uomini
servi degli uomini alla furiosa lotta, al grido ribelle, al folle
impeto di rovina; che sospinge gli uomini servi del fato all’amara
solitudine dei dispersi, lo traeva per mano a nuove soste nel mondo
degli ignoti.

Abbandonava tutto per lei; riprendeva la sua miseria per lei.

Ah! non sola; non era sola nel suo cuore: un’altra voce lo traeva al
suo viaggio. Giungeva dalla città dei boschi e delle lande la voce
di Donetta. Era di notte, andavano insieme ed egli recava sul capo il
carico di sterpi che ella aveva raccolto; si tenevano per mano: ella
anzi aveva preso la mano di lui per stringerla e aveva mormorato alcune
parole di soavità.

Vivevano, in fondo all’anima del solitario, quelle sole parole dolci e
tristi come un singulto represso.

Ascese ancora, sempre più; forse il mio pensiero lo fece gigante.

Ad un tratto lo vidi fermo nell’impeto di luce rossigna che coronava la
vetta del colle sepolcrale.

Al fianco di lui, protesa all’abbraccio, si elevava una croce di ferro.

Ristette un attimo a capo scoperto, poi una voce lo chiamò da altre
rive, da lontani Oceani. Mosse qualche passo ancora su la cima e
dileguò per sempre verso le livide maremme.

Fu allora che si levò nell’aria con le prime stelle il canto nostalgico
dei pastori errabondi.


  FINE.




INDICE.


  PARTE PRIMA

  VERSO LA LIBERTÀ.

      I — Aeternum vale                  _pag._ 3
     II — Alba nuova                       »   12
    III — L’ignoto                         »   26
     IV — Solo l’amore è eterno            »   38
      V — Serenella                        »   49
     VI — La minaccia                      »   63
    VII — Il ballo agli Argini             »   74
   VIII — I corsari della laguna           »   90
     IX — Aspri confini                    »  101
      X — Solitudini amare                 »  111

  PARTE SECONDA.

  AMOR FONS VITAE.

     XI — A Roma                           »  121
    XII — Homo homini lupus                »  132
   XIII — L’inattesa                       »  150
    XIV — Nella suburra                    »  160
     XV — Omero                            »  173
    XVI — La casa del sogno                »  182
   XVII — Surge et ambula                  »  194
  XVIII — Artifex vivendi                  »  206
    XIX — Nel silenzio                     »  247
     XX — Il piacere                       »  260
    XXI — L’altare del dio ignoto          »  281
   XXII — L’uomo e la croce                »  294




DEL MEDESIMO AUTORE:


  _Anna Perenna_, novelle      L. 3 50
  _I primogeniti_, novelle        3 50




NOTE:


[1] A Comacchio si chiamano _campi_ i vari compartimenti nei quali la
grande laguna è divisa per mezzo di argini melmosi.

[2] Il _Campo dei Poveri_ è un tratto di laguna nel quale la pesca non
è vietata ad alcuno.

[3] Si chiamano _casone_ le varie abitazioni sparse su le isole della
laguna. Servono ad un tempo da stazioni di pesca e da ricovero per le
_guardie vallive_.

[4] _Paradello_ (forcino) è la stanga con la quale si guidano le
imbarcazioni nelle acque poco profonde.

[5] _Fiocinini_ sono i pescatori di frodo. Il loro nome deriva da
fiocina.

[6] La gente di Comacchio chiama _ordini_ le prime burrasche
novembrine. Quando detti _ordini_ cominciano, allora le anguille
migrano in grandi masse dalle lagune al mare e comincia la pesca.

[7] La _veste_ è un abito di rozza tela resa impermeabile con l’olio.

[8] Uccello palustre.

[9] Le genti di Comacchio chiamano _lavorieri_ gli ingegnosi congegni
di pali e di canne coi quali si catturano le anguille.

[10] La _bolaga_ è un enorme canestro sferoidale, contesto di vimini;
può contenere fino a mille chilogrammi di pesce. Si tiene immerso
nell’acqua, legato ai pali del _lavoriero_, per conservar viva la
preda.

[11] _Su via ridestati, non dormire!_





Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo
senza annotazione minimi errori tipografici.





*** END OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK IL CANTICO ***


    

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the following which you do or cause to occur: (a) distribution of this
or any Project Gutenberg™ work, (b) alteration, modification, or
additions or deletions to any Project Gutenberg™ work, and (c) any
Defect you cause.

Section 2. Information about the Mission of Project Gutenberg™

Project Gutenberg™ is synonymous with the free distribution of
electronic works in formats readable by the widest variety of
computers including obsolete, old, middle-aged and new computers. It
exists because of the efforts of hundreds of volunteers and donations
from people in all walks of life.

Volunteers and financial support to provide volunteers with the
assistance they need are critical to reaching Project Gutenberg™’s
goals and ensuring that the Project Gutenberg™ collection will
remain freely available for generations to come. In 2001, the Project
Gutenberg Literary Archive Foundation was created to provide a secure
and permanent future for Project Gutenberg™ and future
generations. To learn more about the Project Gutenberg Literary
Archive Foundation and how your efforts and donations can help, see
Sections 3 and 4 and the Foundation information page at www.gutenberg.org.

Section 3. Information about the Project Gutenberg Literary Archive Foundation

The Project Gutenberg Literary Archive Foundation is a non-profit
501(c)(3) educational corporation organized under the laws of the
state of Mississippi and granted tax exempt status by the Internal
Revenue Service. The Foundation’s EIN or federal tax identification
number is 64-6221541. Contributions to the Project Gutenberg Literary
Archive Foundation are tax deductible to the full extent permitted by
U.S. federal laws and your state’s laws.

The Foundation’s business office is located at 809 North 1500 West,
Salt Lake City, UT 84116, (801) 596-1887. Email contact links and up
to date contact information can be found at the Foundation’s website
and official page at www.gutenberg.org/contact

Section 4. Information about Donations to the Project Gutenberg
Literary Archive Foundation

Project Gutenberg™ depends upon and cannot survive without widespread
public support and donations to carry out its mission of
increasing the number of public domain and licensed works that can be
freely distributed in machine-readable form accessible by the widest
array of equipment including outdated equipment. Many small donations
($1 to $5,000) are particularly important to maintaining tax exempt
status with the IRS.

The Foundation is committed to complying with the laws regulating
charities and charitable donations in all 50 states of the United
States. Compliance requirements are not uniform and it takes a
considerable effort, much paperwork and many fees to meet and keep up
with these requirements. We do not solicit donations in locations
where we have not received written confirmation of compliance. To SEND
DONATIONS or determine the status of compliance for any particular state
visit www.gutenberg.org/donate.

While we cannot and do not solicit contributions from states where we
have not met the solicitation requirements, we know of no prohibition
against accepting unsolicited donations from donors in such states who
approach us with offers to donate.

International donations are gratefully accepted, but we cannot make
any statements concerning tax treatment of donations received from
outside the United States. U.S. laws alone swamp our small staff.

Please check the Project Gutenberg web pages for current donation
methods and addresses. Donations are accepted in a number of other
ways including checks, online payments and credit card donations. To
donate, please visit: www.gutenberg.org/donate.

Section 5. General Information About Project Gutenberg™ electronic works

Professor Michael S. Hart was the originator of the Project
Gutenberg™ concept of a library of electronic works that could be
freely shared with anyone. For forty years, he produced and
distributed Project Gutenberg™ eBooks with only a loose network of
volunteer support.

Project Gutenberg™ eBooks are often created from several printed
editions, all of which are confirmed as not protected by copyright in
the U.S. unless a copyright notice is included. Thus, we do not
necessarily keep eBooks in compliance with any particular paper
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facility: www.gutenberg.org.

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