Raggio di Dio: Romanzo

By Anton Giulio Barrili

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Title: Raggio di Dio


Author: Anton Giulio Barrili



Release Date: January 25, 2010  [eBook #31077]

Language: Italian


***START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK RAGGIO DI DIO***


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RAGGIO DI DIO.

      *      *      *      *      *      *

OPERE di A. G. BARRILI.

  _Capitan Dodéro_ (1865). 12.ª ediz.                    L. 1 --
  _Santa Cecilia_ (1866). 10.ª ediz.                        1 --
  _Il libro nero_ (1868). 4.ª ediz.                         2 --
  _I Rossi e i Neri_ (1870). 5.ª ediz. (2 vol.)             2 --
  _Le confessioni di Fra Gualberto_ (1873). 12.ª ediz.      1 --
  _Val d'olivi_ (1873). 12ª edizione.                       1 --
  _Semiramide, racconto babilonese_ (1873). 8.ª ediz.       1 --
  _La notte del commendatore_ (1875). 2.ª ediz.             4 --
  _Castel Gavone_ (1875). 9.ª ediz.                         1 --
  _Come un sogno_ (1875). 21.ª ediz.                        1 --
  _Cuor di ferro e cuor d'oro_ (1877). 16.ª ediz. (2 vol.)  2 --
  _Tizio Caio Sempronio_ (1877). 2.ª ediz.                  3 50
  _L'olmo e l'edera_ (1877). 18.ª ediz.                     1 --
  _Diana degli Embriaci_ (1877). 2.ª ediz.                  3 --
  _Lutezia_ (1878). 2.ª ediz.                               2 --
  _La conquista d'Alessandro_ (1879). 2.ª ediz.             4 --
  _Il tesoro di Goleonda_ (1879). 10.ª ediz.                1 --
  _Il merlo Bianco_ (1879). 2.ª ediz.                       3 50
  -- Edizione illustrata (1890). 5.ª ediz.                  5 --
  _La donna di picche_ (1880). 4.ª ediz.                    1 --
  _L'undecimo comandamento_ (1881). 10.ª ediz.              1 --
  _Il ritratto del Diavolo_ (1882). 3.ª ediz.               3 --
  _Il biancospino_ (1882). 9.ª ediz.                        1 --
  _L'anello di Salomone_ (1883). 3.ª ediz.                  3 50
  _O tutto o nulla_ (1883). 2.ª ediz.                       3 50
  _Fior di Mughetto_ (1883). 4.ª ediz.                      3 50
  _Dalla Rupe_ (1884). 3.ª ediz.                            3 50
  _Il conte Rosso_ (1884). 3.ª ediz.                        3 50
  _Amori alla macchia_ (1884). 3.ª ediz.                    3 50
  _Monsù Tomè_ (1885). 3.ª ediz.                            3 50
  _Il lettore della principessa_ (1885). 3.ª ediz.          4 --
  -- Edizione illustrata (1891)                             5 --
  _Victor Hugo, discorso_ (1885)                            2 50
  _Casa Polidori_ (1886). 2.ª ediz.                         4 --
  _La Montanara_ (1886). 6.ª ediz.                          2 --
  -- Edizione illustrata (1893)                             5 --
  _Uomini e bestie_ (1886). 2.ª ediz.                       3 50
  _Arrigo il Savio_ (1886). 2.ª ediz.                       3 50
  _La spada di fuoco_ (1887). 2.ª ediz.                     4 --
  _Il giudizio di Dio_ (1887)                               4 --
  _Zio Cesare_, commedia in cinque atti (1888)              1 20
  _Il Dantino_ (1888). 3.ª ediz.                            3 50
  _La signora Àutari_ (1888). 3.ª ediz.                     3 50
  _La Sirena_ (1889) 2.ª ediz.                              1 --
  _Scudi e corone_ (1890). 2.ª ediz.                        4 --
  _Amori antichi_ (1890). 2.ª ediz.                         4 --
  _Rosa di Gerico_ (1891). 3.ª ediz.                        1 --
  _La bella Graziana_ (1892). 2.ª ediz.                     3 50
  -- Edizione illustrata (1893)                             3 50
  _Le due Beatrici_ (1892) 2.ª ediz.                        3 50
  _Terra Vergine_ (1892). 3.ª ediz.                         3 50
  _I figli del cielo_ (1893) 3.ª ediz.                      3 50
  _La Castellana_ (1894). 2.ª ediz.                         3 50
  _Fior d'oro_ (1895)                                       3 50
  _Con Garibaldi, alle porte di Roma_, ricordi (1895)       4 --
  _Il Prato Maledetto_ (1895)                               3 50
  _Galatea_ (1896). 3.ª ediz.                               1 --
  _Diamante nero_ (1897)                                    3 50
  _Sorrisi di gioventù_ (1898). 2.ª ediz.                   3 --
  _Raggio di Dio_ (1899)                                    3 50

      *      *      *      *      *      *


RAGGIO DI DIO

ROMANZO

DI

ANTON GIULIO BARRILI







MILANO
FRATELLI TREVES, EDITORI
1899.

PROPRIETÀ LETTERARIA
_I diritti di riproduzione e di traduzione sono riservati per tutti i
paesi, compreso il Regno di Svezia e di Norvegia._

Tip. Fratelli Treves.




RAGGIO DI DIO




CAPITOLO PRIMO.

Un bel sogno avverato.


"E andando da Chiavari a Lavagna, occorre in poca distanza il fiume
nominato dagli antichi Entella, e dai moderni Lavagna; il quale ha la
sua origine nel monte Appennino, di qua dalla terra di Torriglia in le
confine di Bargagli e di Roccatagliata: e muoiono in questo fiume,
Graveglia, Ollo e Sturla, torrenti che alcuna volta vengono con furia".
Grazie, monsignor Giustiniani, vescovo di Nebbio e annalista di Genova;
grazie infinite, e basta così. È la "fiumana bella" di Dante Alighieri,
certamente la più bella di Liguria; e bene l'ha dichiarata tale il
divino poeta, che le vide tutte, quante ce n'erano "tra Lerici e
Turbìa", ma su questa si trattenne più a lungo, guardandone dal ponte
della Maddalena il largo specchio azzurrino, con le due file di pioppi
che ne accompagnavano il corso. Ma noi non ci fermeremo qui, come il
grand'esule fiorentino; risaliremo la fiumana bella fino al confluente
del Graveglia, dov'essa fa una gran curva, per voltar poi risoluta a
ponente maestro; e lì faremo alto ai Paggi, come ora si dice, e dove
nell'anno di grazia 1506 durava ancora in ottimo stato un castello dei
Fieschi.

In altri tempi s'era chiamato la Guaita; più tardi, con lieve mutamento,
la Guardia. E meritava il suo nome, stando là come una scolta avanzata
di tutte le terre Appenniniche ond'era formato il dominio dei Fieschi,
gran ventaglio di borghi e castella che dalla Scrivia si stendeva alla
Magra, includendo Casella, Savignone, Montobbio, Torriglia, Valdetaro,
Santo Stefano d'Aveto, Varese, Pontremoli; e chi più n'ha ne metta,
andando fin oltre i cinquanta. Passavano infatti questo numero le terre
murate dei Fieschi; tenute con varia fortuna, s'intende, come in tempi
guasti doveva accadere; onde i cinquanta e più feudi contigui scesero
qualche volta a trentatrè, facendo ancora quel che si dice comunemente
un bel numero.

Gran gente, quei conti di Lavagna! Disputata un pezzo al Comune di
Genova la terra onde traevano il titolo maggiore e più caro, vedutosi
fabbricare all'incontro, nel 1167, il castello di Chiavari, indi a
trentun anno cedevano quel feudo invidiato, diventando nobili genovesi,
e ben presto una delle quattro grandi famiglie potenti e prepotenti
della Repubblica. Ricchi di capitani e d'ammiragli, come di cardinali e
di papi, ora ripigliavano le terre perdute, ora altre ne acquistavano, a
ristorarsi dei danni. Al tempo di cui raccontiamo, erano già molti rami
di Fieschi, ma tutti strettamente collegati d'interessi, sotto gli
auspicii del ramo principale, rappresentato allora da Gian Aloise,
signor di Pontremoli, di Varsi, di Loano, di Montobbio; principe di
Valdetaro e conte di San Valentino; marchese di Torriglia, Varese, Santo
Stefano d'Aveto, Calestano, Vigolzone, Gremiasco, San Sebastiano, e via
discorrendo per un pezzo; un gran signore, a farla breve, superiore nel
tempo suo agli altri tutti d'Italia per ampiezza di dominio, e quasi un
piccolo re. In Genova, tanta era la sua autorità, sedeva per decreto
sugli anziani, e gli si davano i titoli d'illustre e di eccelso, come ai
principi di corona.

Con queste fortune al casato e con le politiche necessità che ne
conseguivano, la Guardia aveva riconquistata una parte dell'antica sua
importanza militare. Il padrone era un valoroso; ma in patria non aveva
fatto niente di notevole, e per quello che aveva fatto in terre lontane
si poteva dire che riposasse sugli allori. Avrebbe difesa strenuamente
la sua rocca, se mai fosse stata minacciata: per intanto l'aveva
battezzata Gioiosa Guardia, in omaggio al cavalier Lancillotto di
romanzesca memoria, ma più alla bellissima donna che da un anno aveva
fatta signora del castello, impalmandola con rito solenne e con gran
pompa comitale nella vicina chiesa di San Salvatore.

Era dunque gioiosa, la Guardia, per decreto recente del suo felice
padrone. Ma non corrispondeva alla bellezza dell'epiteto la faccia
smunta del suo custode, o gastaldo che vogliam dirlo, non potendo, per
la presenza del legittimo signore, decorarlo del sonoro titolo di
castellano. E nondimeno, quel gastaldo decorava l'ufficio con la
misurata gravità dell'aspetto; a cui, nel pomeriggio del 5 marzo 1506,
si poteva aggiungere la composta dignità dell'atteggiamento, quantunque
egli fosse modestamente seduto sovra una panca, entro la prima cinta del
castello, assistendo ad una partita di pallone, caldamente impegnata fra
sei giuocatori. Diciamo di passata che cinque di essi erano uomini
d'arme del castello, e il sesto un frate francescano, come appariva
dalla tonaca, saviamente raccorciata a mezza gamba coll'aiuto del fido
cordone, su cui ella veniva a far grembo.

Quanto al nostro personaggio, vediamo di abbozzarne in pochi segni
l'asciutta figura. Appoggiate le mani scarne ma forti sul pomo della
spada; accavalciate le gambe lunghe, che mettevano in mostra due
stivaloni di cuoio cordovano e due calze divisate di bianco e d'azzurro;
ritto il busto nel suo giubbone attillato di cuoio, donde uscivano le
maniche di lana, divisate anch'esse dei due colori di casa Fiesca; ritta
la testa che pareva tutta in fiamme pel colore della barba e dei capelli
rosseggianti al sole; tirata un po' indietro sul cocuzzolo la berretta,
anch'essa di cuoio, con larghe frappe di bianco e d'azzurro, sormontata
da una gran penna lionata di pavone, il nostro personaggio aveva una
bell'aria di vecchio soldato in licenza, felice d'un po' di riposo, ma
pronto a gittar la berretta per calzar la barbuta. Non era bello, no
davvero; aveva troppo scarno il viso lungo, e gli occhi grigi, quasi
bianchi, sotto le ispide sopracciglia rossigne: il naso, poi, che
incominciava colla buona intenzione di parere aquilino, finiva in una
pallottola rossa, non conveniente di certo alla severità dell'aspetto, e
molto meno alla dignità della carica. Ahimè, non si nasce perfetti. Ma
don Garcìa, che tale era il nome del personaggio, non si dava un
pensiero al mondo di queste fisiche imperfezioni. Era passato il tempo,
se mai; ed egli godeva della vita quel tanto che se ne può godere di là
dai cinquanta. Per allora, si dilettava di veder giuocare al pallone;
era tutto nelle belle battute e nelle pronte rimesse, nelle volate e
nelle cacce vinte; accennava del capo ai bei colpi, batteva le labbra ai
falli. A lui si rimettevano nei casi dubbi, ed egli dava il responso,
con calma e buon giudizio, senz'ombra di parzialità. Pure, come ogni
fedel cristiano, egli avrebbe potuto pendere più di qua che di là, ed
averne ancora la scusa, poichè uno dei giuocatori, il frate, era
spagnuolo al pari di lui.

Perchè quella spagnuoleria là dentro? E come andava che non dispiacesse
a nessuno? Diciamo subito che quei due spagnuoli, don Garcìa e frate
Alessandro, e per terra e per mare erano stati compagni di ventura al
signore del castello; e soggiungiamo che dei cinque giuocatori genovesi,
tutti uomini d'arme della Gioiosa Guardia, tre erano stati coi due
spagnuoli ai medesimi incontri, ricordando altresì che più di tutti
aveva rischiata la pelle quel vecchio, non solamente per far servizio al
loro signore, ma ancora per salvare la bellissima donna, diventata da un
anno cristiana e contessa, col nome di Giovanna del Fiesco.

Queste erano ragioni da bastare là dentro, rendendo cari, non che
tollerabili, i due forestieri. Ma della ammissione d'un di loro in
ufficio tanto geloso dovevano pur fare le meraviglie taluni di fuori,
che non sapevano bene le cose. Ed uno di costoro, Filippino Fiesco,
passato due mesi prima da Gioiosa Guardia, non aveva potuto trattenersi
dal farne cenno al signore del luogo.

--Cugino Bartolomeo,--gli aveva detto, temperando con un suo risolino
l'impertinenza della domanda,--che v'è saltato in mente di prendere per
servitore uno spagnuolo? Siamo per Francia, noi, non per Castiglia e
Leone.

--Ah, sì?--aveva risposto Bartolomeo Fiesco.--E meglio per noi, che non
fossimo per nessuno. Quanto alla gente fidata, si raccatta dove si
trova. Il mio gastaldo io l'ho conosciuto tra Spagnuoli, e di dovunque
egli sia, me lo tengo caro. Del resto, che ci trovate di strano? Io non
faccio altro che imitare il re Cristianissimo.

--In che modo?

--Nell'unico che sia possibile a me. Chi ha messo egli a comandarci, che
Iddio lo benedica?

--Monsignor Filippo di Cleves, signore di Ravenstein,--rispose Filippo
Fiesco,--regio governatore e luogotenente generale dei Genovesi, come
cantano tutte le gride.

--Dimenticate "ed ammiraglio del Levante";--ripigliò Bartolomeo
Fiesco.--Ma forse egli pare anche a voi un ammiraglio d'acqua dolce.
Quello, del resto, è il capo della gente di Francia, mandato qui per
figura e per indorarci la pillola. Io intendevo parlare del comandante
vero, di quello che fa tutto in casa nostra. Non è questi il
Roccabertino? E chi è il Roccabertino? non è forse un Aragonese? Ed io
ho per luogotenente un Catalano. La differenza è qui tutta.--

L'argomento non ammetteva risposta; e messer Filippino potè anche
pensare che ognuno in casa sua si governa a suo modo. Nè altre molestie
ebbe don Garcìa, che veramente non le meritava. E tutti sapendo ch'egli
era stato buon compagno di rischi del capitano Fiesco, nessuno conobbe
mai quale alto ufficio avess'egli esercitato in Haiti. Tacevano le sue
gesta i pochissimi che avrebbero potuto parlarne; frate Alessandro, ad
esempio, suo conterraneo e suo introduttore alla mensa soldatesca nel
bosco di Xaragua; Giovanni Passano e Pietro Gentile, che di aiutanti del
Fiesco essendosi mutati in aiutanti di don Garcìa per una lugubre
impresa, non avevano nessuna ragione di vantarsene, quantunque nella
brutta occasione avessero imparato a stimare quell'uomo. Senza di lui,
come si sarebbe salvata la infelice regina di Xaragua? Senza i casi che
necessariamente n'erano seguiti, come si sarebbe salvata Higuamota, la
graziosa fanciulla, diventata moglie a Giovanni Passano un mese dopo che
sua madre era diventata contessa del Fiesco?

Fortunato, il Passano! Restava luogotenente del conte; ma in tempo di
pace, com'erano allora i nostri reduci del nuovo Mondo, faceva
dell'altro, vivendo molto a Genova e curando gl'interessi del suo
protettore. Lo chiamavano già Da Passano. E perchè no? Forse era della
stirpe onorata di quei nobili della Riviera di Levante, e il nome voleva
pur dire qualche cosa, anzi più di qualche cosa, in un tempo che quei
_de_ e quei _da_ non si usavano con norme fisse. Era il tempo, o giù di
lì, che un gran capitano di ventura, d'antico ceppo parmense, signor di
Berceto, di Torchiara e di San Secondo, si sentiva chiamare
promiscuamente Pier Maria Rossi e Pier Maria De Rossi; ed egli poi, a
farlo a posta, sull'ingresso di Torchiara faceva scolpire il suo nome
nella umilissima forma di Pietro Rosso. È vero che lo metteva in fin di
verso, per far rima a modo suo con due finali in "orso". Ma, per trovare
esempi più prossimi, gli stessi conti di Lavagna non avevano sempre
creduto, coi genealogisti di casa, d'essere stati chiamati Fieschi, per
una ottenuta prefettura del Fisco imperiale in Italia, donde sarebbe
venuta la più o meno naturale storpiatura del _Fliscus_. Il nostro
Bartolomeo, che gradiva anche alle sue ore il nome di Damiano, lasciava
correre un _Bartholomeus Frescus_ in atti notarili; e questo forse in
omaggio ad una più modesta genealogia del 1171, quando due conti di
Lavagna avevano preso a far cognome dai lor soprannomi di Fresco e di
Secco, trovati buoni a distinguere le loro due nobili persone, che
portavano il medesimo nome di Ugo. Non troppo dissimilmente i contèrmini
Malaspina si erano spartiti in due rami, il fiorito ed il secco.

Ma torniamo a don Garcìa, che in tutte queste minuzie non ha niente a
vedere. Era un brav'uomo, che si sapeva contentare, avendo un pane
onorato per la vecchiaia. Faceva un po' di tutto, alla Gioiosa Guardia.
Antico soldato, insegnava anche il mestier delle armi ai vassalli del
conte; nei giorni festivi metteva in ordinanza un centinaio di fanti a
piedi, e una diecina d'uomini a cavallo, che facessero bella mostra
battendo le strade da Chiavari a Carasco, a San Colombano e più oltre.
Invigilava, nelle stagioni opportune, ai raccolti dei poderi, e
riscuoteva in nome del conte tutti i diritti feudali, facendo qui, come
del resto, assai bene le cose, con gravità, senza rigore, con giustizia
che non escludeva la umanità, persuaso dopo tutto di far piacere al
padrone, e più ancora alla padrona.

Quella donna era amata, adorata per tutta la valle dell'Entella e per le
vicine convalli dello Sturla, della Graveglia, dell'Ollo. Bisognava
vedere che calca di gente, quando, insieme colla nobilissima suocera, la
veneranda madonna Bianchina, scendeva ai divini uffizi nella chiesa di
San Salvatore. Ricordavano tutti che ne' suoi paesi di là dall'Atlantico
era stata regina; e naturalmente si magnificava il suo lontano reame.
Quello che non si poteva ingrandire, perchè già troppo grandeggiava da
sè, era la sua stupenda bellezza. La sua carnagione d'un color caldo
oltre il tipo europeo, non appariva neanche tale, smorzata com'era e
condotta al vermiglio dallo strano onnipotente fulgore delle pupille
nerissime. E ferivano, quelle pupille, dovunque si volgessero a caso; e
molti si sarebbero lasciati ferir volentieri, a patto di sentirle
rivolte a sè con qualche pietosa intenzione. Ma la contessa, nel fatto,
non aveva occhi se non per il suo dolce marito, che spesso le accadeva
di chiamare Damiano. E a lui più spesso accadeva di chiamarla Fior
d'oro: Giovanna non mai; piuttosto, alla spagnuola, Juana, che riteneva
molto del suono di Anacoana. I nomi, si sa, non hanno piccola
importanza, in amore.

Anche a lui volevano bene quei terrazzani, più ancora che non lo
rispettassero come vassalli. Già, non lo tenevano quasi più per un
Fiesco; tanto che, all'usanza di Genova, lo chiamavano Bartolomeo delle
Indie. Sicuro, e bene prendeva egli il nome da quelle Indie occidentali,
dov'era stato quattro volte ad ogni sbaraglio, prode soldato, esperto
navigatore, singolarmente caro a quell'altro Genovese, così grande e
così maraviglioso uomo, che le aveva scoperte per potenza d'ingegno e di
fede. Quanti erano stati con lui partecipavano un poco della sua epica
grandezza; perfino i due umili marinai, Guglielmo e Battista, che si
erano ridotti a vivere anch'essi nel recinto ospitale della Gioiosa
Guardia, e che tutti i giorni di festa, infallantemente, seduti
all'ombra fuor della porta del castello, tenevano cattedra di geografia
transatlantica. A quei discorsi accorreva sempre più gente che non alle
prediche dei frati, i quali pure descrivevano qualche volta le
magnificenze del regno di Dio. Ma in queste si sentiva sempre lo sforzo
di fantasia di chi non c'era mai stato; laddove le magnificenze del
nuovo Mondo avevano avuto quei due semplici marinai per testimoni
recenti.

Che fossero egualmente veridici non si potrebbe giurare. Raccontavano le
cose come se le avessero ancora davanti agli occhi, e raccontandole ne
davano il barbaglio agli occhi dell'uditorio. Si trattava d'oro,
infatti; oro a mucchi, in pagliuole ed in polvere, da tuffarci dentro le
braccia fin sopra il gomito; oro ad ogni piè sospinto, a colonne, a
pilastri, a scaglioni, a piramidi; oro a bizzeffe, in quel paese di
Veraguas, dove bastava smuovere un pochettino le zolle, per trovar le
radici degli alberi affondate in quel coso giallo lucente; oro nel fiume
dello Yaque, presso San Domingo, ove del prezioso metallo non erano
fatte solamente le arene del fondo, ma i ciottoli delle due rive, e i
massi e le scogliere delle svolte. Che poesia, quella dell'oro! E come è
nata? Tutta per amore della sua bellezza in sè, o non per l'acquisto,
che rende così facile, d'ogni desiderata fortuna?

S'intende che i due narratori non si fermavano alla magnificenza delle
cose inanimate. Anche gli uomini, laggiù, erano d'una specie insolita; e
tra gli uomini il Prete Janni, favolosa figura del Medio Evo, ci aveva
la sua parte non piccola. Guglielmo non lo aveva veduto; Battista
nemmeno. Personaggi così alti come il Prete Janni non si lasciavano
vedere da poveri marinai; ma il grande scopritore del nuovo Mondo sì, lo
aveva veduto, gli aveva parlato a lungo, era stato suo ospite, accolto
alla sua mensa, nella sua intimità. Quel gran monarca si era tanto
innamorato delle virtù di Cristoforo Colombo, che lo avrebbe caricato di
diamanti, se questi si fosse risoluto di prender servizio con lui. E si
diceva a San Domingo che l'odio di Aguado, di Bovadilla e di Ovando
contro l'ammiraglio e vicerè delle Indie fosse nato appunto da questo,
che il Prete Janni aveva fatto festa a lui, non volendo veder loro
neanche come prossimo; ond'era avvenuto che verdi dall'invidia fossero
andati ad accusar l'ammiraglio presso Ferdinando il Cattolico,
dipingendolo come uno che era già in via di tradirlo, sottraendo alla
corona di Spagna i benefizi della grande scoperta. Sicuramente,
l'ammiraglio poteva far ciò, solo che lo avesse voluto. Il prete Janni
lo stringeva tanto colle sue offerte d'amicizia! Figurarsi, che voleva
dargli in moglie sua figlia, ricca come il mare, bella come il sole, e
buona come il pan di Natale. Ma il signor ammiraglio non si era lasciato
prendere all'amo; aveva resistito a tutte le offerte, a tutte le
promesse più lusinghiere; tanto più che da genovese sottile s'era
accorto che la bella aveva un occhio di vetro. Bella, poi, la vantavano
tutti alla Corte; ma Guglielmo e Battista non l'avevano veduta mai.
Un'altra, piuttosto; e quella bella era bellissima; e il loro capitano
se l'era portata via, quantunque regina, e l'aveva fatta contessa. Già,
tutti i salmi finivano in gloria.

Qui poi l'uditorio poteva dar ragione ai parlatori, e in piena
cognizione di causa. Un tal miracolo di donna non si era visto mai,
neanche dai più vecchi, che pure avevano veduta entrare in casa Fieschi
madonna Bianchinetta, nel primo fiore della sua gioventù. Che splendore
di sposa, quella regina delle Indie! Per lei si era scomodata, e con
ragione, tutta la casata dei Fieschi; ed anche gli altri rami minori dei
conti di Lavagna, come gli Scorza, i Bianchi, i Della Torre, i Levaggi,
i Leivi, gli Zerli, i Cogorno, i Cavaronchi, i Ravaschieri, i Penelli.
Il capo dei Fieschi, in persona, l'eccelso conte Gian Aloise, aveva
lasciato Genova e la sua reggia di Vialata, per assistere alla
cerimonia, per condurre egli stesso quella regina del nuovo Mondo
all'altare. E bella come il sole, poichè non si poteva trovare un
paragone più alto; e buona come il pan di Natale, e dotta come un libro
stampato. Come parlava l'italiano! come il genovese, che è poi la madre
lingua d'ogni buon Ligure, e certamente quella del Paradiso terrestre;
specie colla giunta di quella sonora e dolce cantilena chiavarese!
Difatti, anche queste finezze aveva imparate in pochi mesi la regina
delle Indie. E si andava a sentirla, ma più ancora a vederla, senza
stancarsene mai, nelle domeniche, quando la bellissima donna, ritornata
dai divini uffizi, scendeva alla porta del castello per distribuire il
pane ai poveri dei dintorni. Quei poveri si moltiplicavano come i pani e
i pesci dell'Evangelio. C'erano molti che si facevano poveri a bella
posta: ma erano riconosciuti, e tenuti lontani. Solo alle donne, che
usavano di questo sotterfugio per avvicinarsi alla signora contessa, non
si faceva il torto di cacciarle; per rispetto al loro sesso si
lasciavano accostar tanto, che la signora le riconoscesse da sè.

--E voi, che cosa chiedete?--diceva ella, ridendo d'un risolino
malizioso.--Non siete già povere, voi!

--Oh, signora, siamo bisognose la parte nostra;--rispondevano le più
ardite.--E siamo venute, perdonateci.... siamo venute a prenderci
un'occhiata di sole.--

Sorrideva, la bellissima donna, arrossendo; e dava un ceffone, con la
sua morbida mano; ma tanto leggero, che pareva una carezza, ed era
ricevuto con divozione, come la guanciata del vescovo alla cresima.

--Qui non voglio altri che poveri, avete capito?--

Così conchiudeva, volendo parere sdegnata. Ma c'era tanta soavità
d'accento nel rimprovero, e tanto sorriso nello sfolgorìo di quegli
occhi scorrucciati, che le buone valligiane di Carasco, di Graveglia e
di Paggi levavano le mani in atto di adorazione, come se avessero veduta
la Madonna, e in cuor loro promettevano di ritornarci la domenica
vegnente.

Gioiosa Guardia, davvero, sotto la benefica luce di quegli occhi
celestiali. Ma qualche volta su quei begli occhi si stendeva un velo di
mestizia. Passavano allora le immagini di un altro popolo, assai più
numeroso, amante anche quello e devoto, ma che aveva la sua quiete, la
sua sicurezza da lei, e non era avvezzo a provare più gran gioia nella
vita, di quando si raccoglieva estatico ad ascoltarla, rapito ai suoni
del _maguey_, agli accenti soavi dell'areìto Povero popolo d'Itiba! come
lo avevano ridotto allo stremo quei feroci conquistatori spagnuoli,
deludendo i nobili disegni del Giocomina, del venerando condottiero dei
Figli del Cielo! Ma se il ricordo d'Itiba era triste, la bella ed
infelice regina di Xaragua aveva imparato molte cose nella terra di
Azatlan. Era disceso su questa terra un altr'uomo dolce, buono,
compassionevole ai mesti, un uomo divino, e avevano voluto sperimentarne
la virtù infinita mettendolo in croce come un malfattore; poi si erano
pentiti, lo avevano riconosciuto in ispirito e verità, gli avevano
eretto altari, e lo adoravano, e lo mettevano in croce ogni giorno,
disconoscendolo, bestemmiandolo, negandolo nei giorni della spensierata
allegrezza, per invocarlo nell'ora della paurosa avversità, superbi a
vicenda e codardi, sopra tutto eternamente fanciulli.

Perciò qualche volta accadeva anche a lei d'esser mesta. Ma quelle erano
le nubi passeggere, candidi fiocchi vaganti, che macchiavano
all'orizzonte un bel cielo d'estate, senza turbarne il sereno. Ed era
felice, oramai, quanto è dato a creatura umana sulla terra; felice per
quell'uomo che viveva adorandola, e non si muoveva di là, dove l'aveva
condotta a rifugio. Che amasse la sua rocca e il suo poetico Entella,
non si poteva dubitare, poichè tante volte lo diceva egli stesso. Ma non
così aveva amato quel fiume e quelle mura negli anni della adolescenza,
quando animoso cacciatore batteva le macchie, ed era sull'Antola o sul
Penna più spesso e più volentieri che in casa. In quel castello era
nato; su quelle rive beate era cresciuto, ricco, orgoglioso del nome e
della potenza che confortava quel nome; e giovane si era mescolato in
Genova alle zuffe micidiali del tempo, avendone presto la sazietà.
Curioso di dottrina, o più vago di novità, aveva atteso agli studi nella
università di Pavia, riportandone come un fastidio d'anni sciupati;
ond'egli non aveva cercato nella quiete della sua terra il rimedio alle
pene del cuore, ma si era buttato per morto alle imprese del mare. E
quali imprese! Non già per diventarci padron di galere, e da fortunati
scontri aver lustro e potenza come tanti altri suoi pari e consorti, per
vantaggio di una casata che omai ridiventata padrona dell'antico
dominio, lo aveva allargato quasi a reame, dall'Appennino al mare e
dalla Scrivia alla Magra; bensì per tentare un cammino ignoto, col
rischio di giungere ad un punto donde il naviglio si sprofondasse nel
vuoto. Orribile chiusa, e creduta allora certissima! Il guaio non gli
era occorso; aveva potuto ritornare, e con la sua parte di gloria. Pure,
ricondottosi a casa, non aveva potuto star fermo; viaggi su viaggi,
fortunali e vitacce da cani; spesso in pericolo d'andar pastura ai
pesci, più spesso di buscarsi un colpo di freccia avvelenata; prigionia
tra i selvaggi, condanna a morte, agonia a fuoco lento, nulla aveva
potuto corregger l'umore vagabondo del gentiluomo marinaio, di
quell'argento vivo. Ed ecco, di punto in bianco, il gran cambiamento:
quell'umor vagabondo, quell'argento vivo, s'era chetato ad un tratto:
lui tutto casa, lui tutto "fiumana bella", lui tutto moglie, e
innamorato per giunta, come un ragazzo di vent'anni. Ma ecco, il segreto
del mutamento era qui.

--Come sei buono, Damiano!--gli bisbigliava Fior d'oro.

--Sfido io!--rispondeva egli, con quel suo piglio che volentieri girava
al comico.--Son buono, perchè sono felice. E sono felice....

--Perchè?--domandava lei, con accento di cara malizia.

--Perchè....--ripigliava Damiano, girando un po' largo, per voglia di
ridere.--Perchè ci ho la mia Gioiosa Guardia che amo tanto....

--Giustissimo; e la tua "fiumana bella"--suggeriva lei, prestandosi al
giuoco assai volentieri.--Con queste due cose....

--Con queste due cose ci sarebbe anche da morir di noia;--proruppe
Damiano.--Le avevo, e non mi sono bastate. Diciamo dunque, per essere
nel vero, che ci ho te, cara donna adorata. La più bella donna, nel
verde più vivo, sotto il più dolce azzurro del mondo, ecco la felicità
vera ed unica. Ed ecco quello che io volevo dire, contessa Juana, se voi
mi aveste lasciata fare la mia progressione ascendente.

--E non ve l'ho lasciata fare, da quella gran cattiva che sono! Ma voi
me ne punite tanto severamente, che avrei voglia di rifarmi da capo. Per
altro,--soggiunse ella, mettendosi sul grave,--dicono che un bene
posseduto non sia più un bene.

--Vedete che logici da strapazzo!--replicò Damiano, ridendo.--Il bene è
il bene, di qui non si esce. Se si mutasse, sarebbe un'altra cosa, ne
convengo. Ma come potrei volerlo mutato? In più no, perchè io ho tutto
quello che desideravo. In meno, neanche, perchè quello che desideravo lo
desidero ancora: e questo è il fatto, la condizione su cui possiamo
fondare il nostro ragionamento. Ho io studiata bene la mia logica?

--Eh, non voglio dire di no. Il mio signore ha sempre ragione. Ed era il
bel sogno, questo,--diss'ella traendo un sospiro,--il bel sogno che ho
sognato con te. Il bel sogno si è finalmente avverato; o Dio, tra quanti
pericoli, tra quante angosce mortali! Se c'è giustizia in terra, il bel
sogno non dovrebbe finire.

--Così dico io;--conchiuse Damiano.--Non dovrebbe, non deve, non dovrà.
Dimmi, Fior d'oro; sei tu sicura di te?

--Oh sì, di me....--gridò ella, levando gli occhi al cielo.--Ed anche di
te,--soggiunse tosto,--anche di te, conte Fiesco, che sei così nobile
spirito e così candido cuore. Ma non presumi troppo delle tue forze....
e della natura umana? È della donna amare, e saperlo far bene, non
sapendo far altro: è dell'uomo l'operare, il faticare in qualche utile
impresa, per deludere la sazietà.... per vincer la noia.... E per
questo, me lo lasci dire?.... per questo, bisognerebbe forse mettersi a
far qualche cosa.--

Tremava un pochino, parlando così, e mendicava le parole. Ma ebbe il
pronto conforto di sentirsi dar ragione da lui.

--Sicuramente;--diss'egli.--Ci pensavo appunto stanotte, mentre tu
riposavi, Fior d'oro. Bisognerà far qualche cosa. Ed ho trovato.

--Ah sì? E che sarà?

--Continuare ad amarti;--rispose gravemente Damiano, facendo cadere
dall'alto, l'una dopo l'altra, le sillabe.--Vi ho lungamente
contemplata, amica mia; vi ho pure abbracciata, ma guardingo, sapete,
con mano leggera leggera, per non rompervi il sonno, che era così dolce;
ed ho pregato Dio che non mutasse niente, che lasciasse tutto così, come
ha tanto saviamente disposto, nella sua misericordia infinita.--

E voleva dare in una risata; ma non n'ebbe il tempo. La contessa Juana
rideva già più di lui, non senza lagrime; quelle care lagrime che tanto
abbelliscono ogni profonda allegrezza. E un po' tardi, ma in tempo, gli
ricambiava l'abbraccio.




CAPITOLO II.

Ambasciator non porta pena.


Ma ritorniamo una seconda volta, e sia la buona, al nostro don Garcìa,
che con tanta attenzione seguiva le vicende di un bellissimo giuoco.
Proprio si arriva al punto che la piacevole occupazione gli era
interrotta dall'avvicinarsi d'un famiglio, le cui prime parole ebbero
virtù di farlo balzar subito in piedi. Molestie dell'ufficio,
naturalmente; e la Guardia non poteva esser sempre gioiosa, pel suo
degno custode.

--Ci abbandonate?--gli chiese frate Alessandro, che per fortuna di
giuoco veniva ad essergli più vicino, e lo vedeva muoversi di scatto
dalla panca.

--Per forza;--rispose don Garcìa.--Ed anche, diciamolo pure, con un
certo piacere. Arriva il nostro Giovanni Passano.--

La nuova si sparse fra gli altri giuocatori, e la partita fu subito
interrotta, come la piacevole occupazione di don Garcìa. Il Passano
aveva amici da tutt'e due le parti; e se si contentavano di piantar lì
la giuocata quei che avevano il disopra, con "quaranta e la caccia",
era naturale che non si dolessero quelli che s'avviavano a perdere, non
avendo che un "quindici".

Giovanni Passano, al suo smontar da cavallo nel cortile della Gioiosa
Guardia, fu accolto a festa dai suoi vecchi compagni d'Haiti e della
Giamaica.

--Che buon vento vi porta?--gridavano a gara, stringendogli la
mano.--Finalmente! Bisognerà metterci il segno per ricordo, stamparla,
toccarsene un occhio. Sapete che ci mancate da un mese?

--Eh, si fa come si può;--rispondeva il Passano, commosso da tutte
quelle dimostrazioni d'amicizia.--Appena levati i piedi dagli impicci,
eccomi qua. Pietro Gentile! Guglielmo! Battista! frate Alessandro, che
per riverenza alla tonaca dovevo metter primo di lista!...
Quantunque,--soggiunse ridendo, al vedere tutti quei grembi e sboffi
fuor dal cordone di san Francesco,--mi pare che la portiate sempre alla
diavola. Giuocate al pallone, vedo. È un bel giuoco; ma non da frati.

--Chi ve l'ha detto, messer Giovanni? Nessun testo lo proibisce; e ce
n'è uno che forse li permette tutti. Ma sì. _Servite Domino in
laetitia_; lo raccomanda il Salmista. Volete giuocare anche voi?

--Eh! se non fossero quattr'ore che mangio polvere, e che mi fiacco le
reni col cavallo più indiavolato della cristianità.... A proposito, mi
fareste un gran piacere ad esorcizzarlo coll'acqua santa.

--O voi col vino di Vernazza, piuttosto.

--Il vino di Vernazza fa bene all'uomo;--conchiuse gravemente il
Passano, mentre si avviava colla brigata verso l'ingresso della seconda
cinta.--Qui, infatti, ci ho un testo sacro ancor io; _vinum bonum
laetificat cor hominis_. E il signor conte?--ripigliò, con accento
mutato, parlando a don Garcìa.--E la signora contessa?

--Benissimo;--rispose lo Spagnuolo.--E vi direi che sono là bene
accostati sul medesimo ramo, come due tortore innamorate, se fosse
almeno ora di giardino. Saranno invece nella caminata, lei col suo
tombolo a far merletti, lui a metter del nero sul bianco.

--Ma anche a far merletti e a scrivere si può star molto vicini, non è
vero?

--Oh questo poi sì; alla medesima tavola, per non perdersi d'occhio. Vi
faccio annunziare, mentre bevete un bicchiere?

--No, non occorre;--rispose pronto il Passano.--Non dico per il bere,
intendiamoci; dico per il farmi annunziare. Non c'è premura; è una
visita senza impegno, la mia. A presentarmi, ci sarà sempre tempo per la
cena.

--Ah, mi levate una spina dal cuore;--disse quell'altro, mentre lo
faceva entrare nel tinello, al pianterreno della rocca.--Avrei giurato a
tutta prima che veniste per portarci via il padrone. Che ci volete fare?
Presentimenti; e fortuna che qualche volta ingannano! L'altro giorno,
passando di qua messer Filippino, che, sia detto con la debita reverenza
al casato, ha sempre la lingua un po' amara, si lasciò sfuggire certe
parole! "Che Gioiosa Guardia! diceva; che Gioiosa Guardia! Dormigliosa,
dovreste chiamarla. Con Ercole che fila ai piedi di Onfale". Io, per
dirvi la verità, non conoscevo questa signora, ed ho dovuto farmi
spiegare l'arcano da frate Alessandro. Ne sapeva poco più di me, quel
bravo figliuolo; ma tanto da capire che si trattasse d'una donna, la
quale faceva perdere il tempo al dio della forza. Il nostro conte,
veramente non fila, e nemmeno la contessa; quantunque, se filasse, vi so
dir io che con quelle sue dita darebbe dei punti alle fate. Ma io ho
bene inteso, dopo la spiegazione di frate Alessandro, che cosa volesse
dire messer Filippino. Il padrone non si occupa se non della padrona, e
lascia che gli altri della casata facciano e disfacciano a modo loro le
cose della Repubblica. Ma di che si lagnano, se mai? Egli tira le mani e
i piedi fuori del giuoco; li lascia dunque padroni; non vi pare?

--Giudicando alla grossa, sì;--rispose il Passano, mentre con diligenza
amorosa osservava il liquido topazio delle Cinque Terre attraverso la
lucida parete del bicchiere.--Ma possono aver ragione i suoi nobili
parenti, a desiderare che un tal uomo non si ritiri dal giuoco. Sapete
bene; dove bastano undici, il dodicesimo aiuta.--

Don Garcìa rizzò l'orecchio a quelle parole dell'amico.

--C'è dunque da aiutare a qualche impresa?--diss'egli.

--No, ch'io sappia;--replicò il Passano.--Ma c'è una condizione di cose
che parla abbastanza chiaro da sè. Noi del Gatto, o del Basilisco, anzi
diciamo pure di tutti e due questi graziosi animali, siamo per Francia;
e sta bene, tenuto conto delle buone ragioni che ci abbiamo: ma siccome
tutto questo, messo in ispiccioli, significa avere un presidio straniero
in città, non si può neanche sostenere alla faccia del popolo che sia la
più bella cosa del mondo. D'altra parte, i popolari, cioè a dire i
nostri signori d'origine popolana, chiamati altrimenti del portico di
San Pietro, vorrebbero aver mani in pasta, allontanando dalla madia quei
del portico di San Luca; e questi, capirete, spalleggiati come sono dal
gatto e dal basilisco, antiche insegne dei Fieschi, non ci pensano
neanche a ceder d'un passo. Si guardano dunque in cagnesco, e come possa
andare a finire Dio solo lo sa. Speriamo, nondimeno; Dio misericordioso
potrebbe appigliarsi al buon partito di accomodar la testa a tutti. Dei
miracoli se ne son visti, in altri tempi: perchè non ne accadrebbe uno
nel nostro? Parlo così,--soggiunse il giovanotto,--perchè conosco il
padrone, chè non se ne fa nè di qua nè di là. Ma guai a parlar di pace
in Violata!

--Gian Aloise è sempre il più forte?--entrò a dire don Garcìa.--E sempre
bene coi francesi?

--E come!--rispose il Passano.--Non si muove foglia che Gian Aloise non
voglia. Quasi si direbbe che in Genova sia lui il padrone, com'è il
capitano generale di tutta la Riviera di Levante. Ci sono i francesi nel
Castelletto. Ma quelli si possono magari considerare stipendiati, come
se fossero svizzeri, o tedeschi; zuppa o pan molle.

--Sia contento, allora,--disse don Garcìa,--e lasci quieti noi in
Gioiosa Guardia, dove si sta così bene.

--Felice mortale! L'avete trovata, la nicchia? E badate, ci verrei tanto
volentieri ancor io.

--Con donna Higuamota, non è vero? Ma olà!--ripigliò don Garcìa, come
per darsi sulla voce.--Non dimentichiamo che l'ha tenuta a battesimo la
madre del padrone, e che bisogna dire donna Bianchina.

--Già,--disse ridendo il Passano,--quantunque sia bruna. Tien più di
Caonabo che di Anacoana, la mia dolce metà. Fortuna che amo le brune!

--O perchè non l'avete condotta con voi, amico Passano?

--Che, vi pare? dovendo fare una visita di poche ore....--

Don Garcìa inarcò le ciglia, ma non aggiunse parola.

In quel mentre si faceva udire un gran rumore dalla scala vicina, donde
qualcheduno scendeva a precipizio, saltando ad ogni tanto e tonfando,
alla guisa dei ragazzi. E subito dopo si vide balzar dentro un
adolescente, dai capegli biondi e dalla faccia birichina. Pareva, a
vederlo, che il mondo fosse suo, o che lo credesse da vendere, e da
poter comprare coi quattro soldi che a lui ballavano in tasca.
Polidamante (era questo il suo nome) poteva dirsi l'imagine, il simbolo,
il genio della Gioiosa Guardia, ove del resto era nato. Se gli altri ci
avevano pochi fastidii, egli non ne aveva nessuno. Tutto di primo
impeto, correva sempre, quando c'era da muoversi; quando poi doveva star
fermo, si addormentava. Non faceva mai niente con misura; e forse per
ciò era molto caro al padrone.

--Che c'è?--chiese don Garcìa.

--Presto, le acque;--gridò quell'altro, senza fermarsi a rispondere in
tono.--Dove sono le acque?

--Nei fiumi;--disse il Passano;--e neanche ne han tutti.

--Ah, siete voi, messer Giovanni? Bene arrivato! Dicevo le acque
acconce, le acque cedrate, i siroppi per la signora.--

I famigli, che non avevano bisogno di tutte quelle spiegazioni, avevano
già levato da una credenza il vassoio con le bocce di cristallo, e si
preparavano a seguire con quello il messaggero Polidamante.

--Quando si dice nascer vestiti!--esclamò don Garcìa, volgendosi al
Passano.--I padroni hanno anticipata l'ora di uscire in giardino. Potete
salire dietro a Polidamante, e presentarvi, e far le vostre ambasciate,
senza interrompere i commentarii di Cesare.

--I commentarii.... Che dite voi, don Garcìa?

--Eh, sì, i commentarii di Cesare, come li chiama frate Alessandro.

--Sta bene, avevo inteso;--riprese il Passano.--Domandavo che diavolo è.

--Una storia, amico, una storia di laggiù, mi capite? Il capitano ci ha
fatto l'onore di chiamarci nella caminata, per cinque sere alla fila, e
ce ne ha letti già cinque capitoli. In quello scritto racconta tutto
quello che s'è fatto alle Indie.

--Ah, bene! capisco, ora. Ci avrà molto da raccontare, perchè molto si è
fatto. E parla di voi?

--No, non ci siamo ancora, a quel punto;--rispose don Garcìa,
rannicchiandosi.--Penso, del resto, che quando saremo a quel punto,
egli mi dovrà passare sotto silenzio. Del che non mi lagnerò,--soggiunse
egli umilmente;--che anzi, dovrò sapergliene grado. Beati gli uomini di
cui non avrà da occuparsi la storia.

--Bravo! siete filosofo?

--Alle mie ore, amico Passano.--

L'amico Passano strinse la destra di quell'altro Seneca; e vuotato il
suo calice fino all'ultima goccia, che non era d'aceto, si avviò verso
la scala.

--Va, bello mio, va, che non la conti giusta;--borbottò tra i denti il
bravo don Garcìa, uscendo alla sua volta di là.--Questa visita di poche
ore, a spron battuto, mi sa di chiamata a Genova lontano un miglio. C'è
la mano di messer Filippino, qui sotto; scommetterei. Quello là non vuol
dare nè lasciar pace a nessuno.--

Il giardino di Gioiosa Guardia, anzi i giardini, perchè erano quattro,
bisognava andarli a cercare in alto, come gli orti pensili di
Semiramide. Si stendevano essi sui bastioni della rocca, per tutta la
lunghezza delle cortine, fiancheggiati e conterminati dalle torri, che,
per conseguenza logica quanto architettonica, erano appunto quattro,
senza contare il battifredo, gran torre più alta, dalla parte
dell'ingresso, colla campana al sommo e con l'orologio nel mezzo. Forte
arnese per guerre medievali, la Gioiosa Guardia non poteva più dirsi
tale in un tempo che le artiglierie mobili e di grande gittata potevano
batterla da parecchie eminenze circostanti. Ma essa non s'aspettava di
queste noie, e il suo padrone, amico della pace, ne lasciava il carico
ad altri luoghi fortificati della sua parentela, da Montobbio a
Pontremoli. In uno di quei casi di necessità, che gli amici della pace
come Bartolomeo Fieschi si dovessero ricordare d'essere stati uomini di
guerra, la Gioiosa Guardia poteva essere ancora un bell'inciampo a
soldatesche raccogliticce, non esperte o impazienti d'assedii; e il suo
signore, poi, avrebbe amato sempre meglio far impeto in aperta campagna;
che infine non era neanche troppo aperta, e i suoi duecento uomini, ben
comandati, potevano valere per mille. Frattanto, sui pensieri di guerra
avevano il sopravvento le arti della pace, e prima fra tutte l'arte dei
giardini.

Madonna Bianchinetta, la santa madre del capitano Fiesco, ne aveva preso
cura da giovane; ma poi, cresciuta negli anni, se n'era via via
disamorata, piacendole assai più di passar le sue ore nella cappella del
castello, dedicata a san Colombano; un gran santo, quello, e quasi di
casa, che era morto non troppo lontano di là, nel monastero di Bobbio, e
che dava il nome, del resto, ad una terra vicina. N'era venuto nei
giardini del castello un gran guaio per le varie famiglie dei fiori; i
quali, si sa, per prosperare domandano amore, intristiscono
nell'abbandono, e muoiono anzichè darsene pace. Per contro erano
cresciuti gli alberi, gran solitarii, anche quando si ritrovino in
molti, che degli uomini non si dànno un pensiero al mondo, e vorrebbero
anzi che gli uomini non si dèssero tanto pensiero di loro, per
tagliarli, segarli, riquadrarli, piallarli a molti usi volgari, o farne
legna da ardere. E insieme con gli alberi erano venute su liberamente
le rose, belle salvaticacce che bastano molto a sè stesse. Diradare
quegli alberi, sfrondandoli un pochino qua e là, ravviar quelle rose,
nettandole d'ogni seccume e potandole, era stata la prima cura dei nuovi
arrivati; quanto ai fiori più delicati, poco c'era voluto a trarne da
tutti i dintorni, a farne allignare nelle vecchie aiuole risarchiate, e
lungo i viali rifatti.

Per quei viali passeggiava la coppia felice; Fior d'oro col braccio
sinistro girato intorno alla vita di Damiano; Damiano col braccio destro
girato intorno al collo di Fior d'oro. Erano atti, per avventura, di
soverchia libertà; ma non veduti per allora se non dagli uccellini
saltellanti e chioccolanti sugli alberi. Ed essi, finalmente, come
quegli alberi per tanti anni avevano fatto, non si davano pensiero di
nessuno. Se n'andavano a passi lenti, così mollemente abbracciati,
chiacchierando a mezza voce, bisbigliando quasi, com'è l'uso degli
innamorati a buono, che non han nulla da dirsi di serio, nè sopra tutto
di nuovo, ma che nelle cose più naturali e più comuni debbono metter
sempre un po' di mistero.

Un rumor di passi sulla ghiaia del viale fece voltar la testa a Damiano.
Una sbirciata bastò al felice mortale, perchè egli spiccasse il braccio
dalla dolce postura che s'era scelta con tanto buon gusto, e prendendo
per mano la contessa Juana muovesse incontro al nuovo venuto.

--Quello, o ch'io sogno, è il vostro genero;--gridò egli con
ostentazione di allegrezza, più fatta per consolar l'ospite, che per
esprimere il vero sentimento dell'animo.--Capite, Fior d'oro?--incalzò,
rivolto alla contessa, mentre stendeva pure la mano al suo antico
aiutante.--Vostro genero! vostro genero!

--Già,--disse a sua volta il Passano inchinandosi,--il genero d'una
suocera a trent'anni. Si può ben dire l'età d'una donna, in un caso come
il mio, non è vero?--

Così dicendo, prendeva la mano che la contessa gli aveva stesa in atto
benevolo, e si chinava ancora accennandovi il bacio di cerimonia che la
galanteria spagnuola incominciava a far prosperare sulle terre italiane.
Mai suocera al mondo meritò tanto un simile omaggio, od altro assai meno
cerimonioso di quello.

--Come sta madonna Bianchina?--gli domandava frattanto il Fiesco.

--Bene, benissimo; e saluta, s'intende, e abbraccia la sua bella mamma.

--Perchè non condurla con voi?--

Era la stessa domanda di don Garcìa; ed ebbe l'istessa risposta. Onde da
parte del Fiesco l'istesso inarcamento di ciglia, ma con una giunta di
parole che non aveva potuta fare quell'altro.

--Visita di poche ore! Mi spaventate, Giovanni mio. Faccende, dunque? e
gravi?

--Oh, questo poi no. Son venuto col libro dei conti. Volevo sapere che
cosa si dovrà fare della vostra parte di profitti sulla nave _Paradiso_.
Siete il partenevole più grosso, e ci avete un guadagno, quest'anno, di
seimila ducati larghi.--

Bartolomeo Fiesco fece una bella riverenza. Seimila ducati larghi erano
una bella somma. Il ducato largo, o genovino d'oro come s'era chiamato
nei tempi anteriori, con un peso di grammi 3,567, eguale del tutto al
suo fino, e con un valore di due lire, due soldi, e due denari, valeva
nei primi anni del Cinquecento, in moneta corrente, tre lire e due
soldi. La lira genovese ne valeva allora più di tre delle nostre;
sicchè, fate il conto, e troverete che il ducato largo ne valeva più di
dodici delle odierne italiane. Moltiplicate per seimila, e vedrete che
bel guadagno avesse fatto messer Bartolomeo delle Indie col suo
_Paradiso_. Ancora qualche annetto di fortuna, e c'era da farsi foderar
d'oro una bella nicchia in purgatorio.

Fece dunque una bella riverenza, come il caso meritava. Ma non gli parve
altrimenti che fosse mestieri un viaggio, per sapere dove andasse
collocato tant'oro.

--Per questo siete venuto!--diss'egli.--E non la ricordavate, la mia
massima? San Giorgio, amico Passano; le "colonne" di san Giorgio sono le
mie colonne d'Ercole. È quello il luogo, il posto, il rifugio sicuro pei
ducati larghi. Ma forse avete ancora da dirmi della Santa Giovanna?

--Quella è arrivata a Bari per le lane; non si aspetta prima di giugno.
Così almeno mi ha detto ier l'altro il Sauli, che aveva ricevuto
lettere. Ho qui invece il fogliazzo delle spese. Se gli date
un'occhiata, essendo ancora giorno....

--Volete dire che i numeri si leggono male a lume di lucerna? E
sia;--soggiunse messer Bartolomeo,--contentiamo questo terribil Passano.
Sedete?--diss'egli, facendo un cenno d'invito a Fior d'oro.

--Fate, fate;--rispose la contessa;--io vi lascio. Quando siete coi
numeri, bisogna lasciarvi stare.

--Capirete, Juana, e perdonerete senz'altro. Son genovese; e il
genovese, per vostra norma....

--Oh, non dicevo per questo;--interruppe la bella.--Che genovese, del
resto? Non vi vantate, amico mio. Volevo dire piuttosto che vi
c'imbrogliate parecchio.

--Ah sì, birichina? Ma ciò avviene perchè guardo voi; e allora, povero a
me, smarrisco perfino il ricordo della tavola pitagorica.

--Vedete dunque....--diss'ella con aria di trionfo.--Ragione di più per
lasciarvi con messer Giovanni mio genero. Farò allestir la cena un po'
prima, perchè egli avrà appetito, m'immagino.

--Abbastanza, madonna;--rispose il Passano.--Ho tanto rinsaccato, su
quel maledetto cavallo!--

La contessa si era ritirata; ma dal vano di un uscio, voltandosi, aveva
gittato un bacio col sommo delle dita a Damiano. E Damiano, che lo colse
al volo, non volle lasciarlo senza ricevuta.

--Povera tavola pitagorica!--gridò egli ridendo.--La vedo brutta.

--Che c'è?--disse il Passano, levando la fronte dai suoi scartafacci.

--Niente, niente; parlavo a mia moglie. Mia moglie!--ripetè il capitano
Fiesco.--Ecco due strane parole. Sapete, Giovanni mio, che non so
avvezzarmi a questo nome? e che mi par sempre un sogno?

--Restate nel sogno;--rispose quell'altro.

--Certamente, certamente, poichè il sogno è così dolce! Ma ora che siamo
soli, ragazzo mio, vuoi tu dirmi che cosa significhi la tua visita? Tu
non sei mica venuto per sapere dove andassero collocati i miei ducati
larghi.... e neanche per rompermi la testa col fogliazzo. Tu hai una
commissione per me, ed una commissione urgente.

--Avete ragione;--rispose il Passano.--Ecco qua, infatti.--

Così dicendo, traeva di sotto al giubboncello una lettera, e la porgeva
al capitano Fiesco.

--Ah, volevo ben dire!--esclamò questi.--Gian Aloise?...

--Lui, in persona. Mi aveva mandato a chiamare in gran fretta, ier sera;
ed ho risicato, figuratevi, di fiaccarmi tre volte il collo in quei
cento scalini di Violata, non avendo altro lume nel buio se non questi
due occhi. Giunto alla sua presenza, eccovi il dialogo che corse tra
noi: Verrà di questi giorni a Genova il tuo principale?--No, eccelso
signore; è più facile che Genova vada a Chiavari, di quello che venga a
Genova lui.--Ebbene, andrà Genova a Chiavari, nella persona tua;
passerai da me domattina per tempo; ti darò una lettera, che dovrai
consegnargli senza fallo in giornata; a lui, mi capisci? e parlandogli a
quattrocchi, che nessuno ne abbia fumo. Ritornai da messere Gian Aloise
questa mane per tempo; tenevo il cavallo sellato ad aspettarmi fuori
della porta di Santo Stefano. Avuta la lettera, son ridisceso dalla
Montagnola; ho infilata la via dei Lanieri; son montato in arcione, e
via di galoppo, che n'ho ancora le reni fiaccate.

--S'intende che ti sarai ristorato a tutte le frasche.

--Messere!...

--Eh via, non saresti genovese. Hai rinfrescato a San Martino,
confessalo; e nota che ti fo grazia di San Fruttuoso. Il secondo
bicchiere l'hai bevuto a Nervi; il terzo a Recco, con un rincalzo a
Ruta, per ragione della faticosa salita; il quarto a Rapallo, il quinto
a Zoagli. Dimmi che non è vero.

--Siete uno stregone, messere;--disse ridendo il Passano.--Per altro,
non sono mai sceso d'arcione.

--Te lo credo, questo, perchè al debito non sei venuto mai meno. Quanto
a rinfrescar l'ugola, non è mai stato un delitto. E dall'oste della
Maddalena, poi? Dicono che ce n'abbia bevuto una mezzina anche Dante.

--Ma sempre stando in arcione;--rispose il Passano.--Furono tutti
bicchieri della staffa.

Il capitano Fiesco s'indugiava in queste celie, per non leggere il
foglio che gli aveva consegnato il Passano. La lettera donde si aspetta
una noia si dissigilla mal volentieri; si spera sempre in un accidente
improvviso che possa dispensarcene. Ma l'accidente non ci fu, e messer
Bartolomeo dovette rassegnarsi. Aperse il foglio, e lo spiegò; spiegato
che lo ebbe, incominciò a leggere, ed anche ad aggrottare le ciglia, a
batter le labbra, a sbuffare.

--Oh Dio!--esclamò, quand'ebbe finito.--Ma son pur fastidiosi! Io
consigli? E che ci ho da veder io? come ho da darne io, che non ho
saputo mai domandarne? Che noia! che noia! E ancora dovrò ringraziarlo,
il mio eccelso parente, che ha mandato te per messaggero, e non il suo
Filippino.

--Filippino?...--balbettò il Passano, che non vedeva la ragione
dell'essere messo in paragone con quel pezzo grosso.

--Già, il nostro buon cuginetto Filippino;--riprese il capitano
Fiesco.--Quello là, o con un pretesto o con un altro, è sempre da queste
parti; due, tre, quattro volte ogni mese. Il giovanotto non ha mai avuto
tanto da fare nel capitanato di Chiavari, come dal giorno che ho preso
moglie io.

--Che dite, messere? Io casco dalle nuvole.

--Ed io vorrei risalirci, con Fior d'oro tra le braccia, e non
ricomparire mai più alla vista dei seccatori. Vuoi sapere? Filippino s'è
messo in mente di toccare il cuore a Fior d'oro. Fa l'occhio pio, lui,
ch'è una bellezza a vedere. Sospira, recita i sonetti del Petrarca, e li
mette a raffronto colle rime amorose dell'Alighieri. Una sera, che ci
fece la stampita più lunga, figúrati che ci sciorinò tutto il canzoniere
della Bella Mano. Tu non lo conosci, il canzoniere di Giusto de' Conti
da Valmontone, tutto inteso a celebrare la mano della sua bella? Lo
conosco io, pur troppo, e me ne dolgono ancora gli orecchi. Maledetto
biondino! Quantunque, a farlo a posta, s'è imbattuto in una che i biondi
non li vuol neanche per prossimo.

--O allora, scusate....--si provò a dire il Passano.

--O allora, caro mio, m'annoia egualmente;--rispose il capitano
Fiesco.--Qualche volta mi vien voglia di assestargli uno scapaccione.

--La contessa se n'è avveduta?

--E come no? Se ne avvedono gli usci e le imposte, che sono di legno, e
gli arazzi e i corami delle pareti; perfino il pappagallo, ultimo avanzo
dei dodici portati da San Domingo, che ha imparato a ciangottare:
Filippino sciocco! Noto, per amor di giustizia, che vorrebbe dire
Filippino Fiesco; ma non gli riesce, e dice sciocco tale e quale. Fior
d'oro, dal canto suo, lo chiama Gunora. E potrebbe anche chiamarlo
Guatigana. Ma quel poveraccio va rispettato, che almeno ha saputo
morire. Quanti pretendenti, mio Dio!--esclamò il capitano Fiesco,
sospirando.--Hanno avuto tutti buon gusto, non lo nego; ma ti confesso
che m'hanno tutti mortalmente seccato, e mi seccano. Basta, ti ho fatto
il mio sfogo, e tu chiudilo in petto, _alta mente repostum_, come
direbbe Virgilio. Il giorno che avrò accoppato messer Filippino, ne
capirai il perchè, senza bisogno di venirmelo a chiedere. Ma ora che ci
penso.... In questa lettera dell'eccelso Gian Aloise non ci sarebbe la
zampa di messer Filippino bello? Mi vogliono levare da Chiavari, è
chiaro, come si leva una lepre, o un cinghiale. Vogliono tirarmi sul
Bisagno, anzi peggio, sul Rivo Torbido. Una volta là, addio guardia e
custodia del fatto mio: feste in Violata, festini a San Lorenzo;
dovunque c'è un Fiesco, sarà un invito a ballare. E tu balla, Damiano, o
lascia ballar chi ne ha voglia. Così il mio Filippino ha libertà di
corteggiare Madonna, di atteggiarsi a suo "intendio" secondo l'uso della
giornata. Ma io me ne intendo più di te, Filippino bello; quando il tuo
diavolo nasceva, il mio andava già ritto alla panca. E per la croce di
Dio.... Oh, smettiamo; ecco madonna che torna.--

Infatti, sull'uscio dond'era sparita un'ora prima, riappariva Fior
d'oro.

--Avete finito di far conti?--diss'ella.

--E da un pezzo;--rispose Giovanni Passano.

--Allora, eccomi qua. Vorrete accettare un rinfresco, per aguzzar
l'appetito? Polidamante, i bicchieri e il vin di Cipro.--

Polidamante, che era comparso allora nel vano dell'uscio, corse ad
eseguire i comandi. Due minuti dopo, era in giardino col vin di Cipro e
il vassoio.

--Dategli da bere, Juana;--disse il conte Fiesco alla moglie.--Ma in
verità non lo merita. Sapete che ha vuotate tutte le cantine che ha
incontrate in viaggio, da San Martino d'Albaro al ponte della Maddalena?
E certo, con lo stomaco scavato da tanto bere, egli ha più fame che
sete.

--È anche pronta la cena;--rispose Fior d'oro;--ed egli non avrà da
penar molto. Genero,--soggiunse ella, accostando il calice a quello del
Passano,--siate il benvenuto coi vostri scartafacci e colle vostre belle
notizie. Beviamo ora alla salute della nostra Bianchina.--

Tutto bene, sì; ma le belle notizie il Passano non le poteva mandar giù,
dopo averle portate, e conosciute molto noiose.

--Ed ora,--diceva egli tra sè, mentre mandava giù più facilmente il suo
vin di Cipro,--come la prenderà Fior d'oro, quando saprà che si vuol
Damiano a Genova? Basta, la cosa non mi riguarda; ambasciator non porta
pena.--




CAPITOLO III.

I commentarii di Cesare.


La cena era imbandita nella gran caminata del castello, dove il nostro
Giovanni Passano ebbe il piacere di far riverenza a madonna Bianchinetta
Fiesca, la veneranda madre del suo capitano. Il giovinotto la chiamava
madrina, per aver ella tenuta la vezzosa Higuamota al fonte battesimale.
La nobil signora vide assai volentieri il marito della cara figlioccia,
e lo chiamò a dirittura figliuolo. Ha di queste delicatezze la
vecchiaia, e pare che le derivi dal cielo, a cui è già tanto vicina.

Si ragionò di molte cose, a mensa, mutando gli argomenti come le
portate. Così venne "in tavola" l'eccelso Gian Aloise, con tutte le sue
vaste ambizioni, ch'erano poi la gloria e l'onore della illustre casata
dei Fieschi; una delle prime signorili d'Italia, e già considerata come
principesca, tanto che non si faceva più lega o trattato di pace tra il
re Cristianissimo e gli stati Italiani, che non vi fosse inclusa quella
grande famiglia, alla pari con essi. Ed anche, volgendo il discorso qua
e là, non fu dimenticata una più potente signoria, che per verità non
era argomento da tavola; vogliamo dire la peste, oramai da tre anni
vagante in Liguria, come nelle regioni contermini, ma che a Genova non
aveva potuto menare gran guasto, per le buone provvisioni del governo.
Strano, per altro, che ne avesse avuto a pagar le pene il provveditore,
che era messer Giacomo Fouchesolts, luogotenente del regio governatore
monsignor Filippo di Cleves. Ma oramai da un anno il povero luogotenente
era morto, succedendogli, come sappiamo, il Roccabertino; sicchè, non
c'era più molto da dirne, e neanche molto di un morbo al quale i popoli
d'Europa s'erano avvezzati in que' tempi, come noi a tutte le specie di
nemici invisibili, che coi nomi svariati di microbii, bacilli,
micrococchi e germi patógeni, dovrebbero poi essere l'attenuata ma non
estenuata discendenza dei persecutori di quattro o cinque secoli fa.

--Parliamo di cose allegre;--disse ad un certo punto il Passano.--Ne ho
sentito una, che mi ha riempito di giubilo. Voi scrivete i vostri
commentarii, capitano?

--Chi te lo ha detto? Sei arrivato ora, e già sai....

--Non ve ne maravigliate, principale. Per giunger quassù, naturalmente,
dovevo passar di laggiù.

--Tu parli come un libro stampato;--disse Bartolomeo Fiesco.--Alla mia
volta dovevo immaginare che don Garcìa e frate Alessandro non volessero
aver segreti per te. Sono essi infatti i miei due pazienti uditori
serali. Che vuoi? bisogna ammazzare il tempo. Io scrivo di giorno, e
leggo di sera. Oggi appunto ci avevo un paio di capitoli finiti. Ma ora
che sei capitato tu coi tuoi scartafacci, tanto più importanti dei
miei....

--Li avete letti, i miei; letti ed approvati;--interruppe il
Passano.--Non vogliate defraudarmi della parte mia. Diteglielo voi,
madrina;--soggiunse il giovinotto, vedendo che il principale
nicchiava;--diteglielo voi, che ha da leggere.

--Mio figlio mi fa piacere, se legge;--rispose madonna
Bianchinetta.--Quando legge dei suoi viaggi, mi par di viaggiare con
lui.

--E che bel viaggiare!--aggiunse il Passano.--Se scrive come parla, ha
da essere un racconto gustoso.

--Voi volete lodarmi, Giovanni, e, sia detto con vostra buona pace,
proferite una sciocchezza insigne;--sentenziò gravemente Bartolomeo
Fiesco.--Imparate, giovinotto di poche lettere, che lo scrittore
italiano si guarda bene di scrivere come parla, avendo alto il rispetto
delle vergini muse, dei lettori di buon giudizio, e di sè. Quando parla,
apre la bocca, e dà il volo a tutti i passerotti che gli girano per
l'anima; quando scrive, li mette tutti quanti sotto chiave, indossa il
lucco, tempera la sua penna d'oca, e va a cercare nel fondo del calamaio
tutte le sentenze più gravi, tutti i più ornati periodi. Prosa robusta
vuol essere. Noi discendiamo dai Romani, che diamine! e Cicerone,
maestro in materia, vi mostrerà coll'esempio che altro è scrivere un
bigliettino al suo segretario, altro è scrivere a Pomponio Attico; altro
scrivere a Pomponio, ed altro assalir Catilina, o Verre, o Marc'Antonio.
Ma basta; voi mi sentirete, o giovane inesperto, mi sentirete
scrittore; e se non dormirete in piedi, o seduto, l'avrò per un atto di
valor singolare, da mettere accanto agli altri, per cui vi ho sempre
stimato ed amato. _Dixi._--

E qui, naturalmente, una bella risata, di quelle che sapeva rider
Damiano. La cena era finita, e i famigli erano venuti a sparecchiare,
mentre i padroni di casa e il loro ospite uscivano a far due passi in
giardino. Quando rientrarono, la gran tavola era rischiarata da tre
grandi lucerne d'argento; il lusso d'allora, in materia d'illuminazione.
Il numero dei lumi e la preziosità del metallo compensavano la poca
vivezza della luce. E non solo c'erano lumi in tavola, ma anche ciò che
può far perdere il lume del raziocinio a chi non sappia usarne con
discrezione; vogliamo dire certe bocce vistose di vino delle Cinque
Terre, coi calici di cristallo in grandi vassoi d'argento. Furono allora
mandati a chiamare i due "uditori pazienti" che per verità erano
impazienti d'aspettar la chiamata, tanto furono pronti ad accorrere.

Offriva un bel quadro, la caminata di Gioiosa Guardia, in quella sera di
marzo, al lume delle tre grandi lucerne d'argento, i cui dodici
lucignoli, diradando le ombre senza cacciarle del tutto, lasciavano
intravvedere lungo le alte pareti i ritratti di quattro o cinque
generazioni dei Fieschi, soldati e marinai, ambasciatori, vescovi,
cardinali e papi. Ma lo sguardo era maggiormente attratto verso il
camino, onde la sala prendeva il suo nome di caminata; gran camino di
pietra nera scolpita, sul cui alto stipite sorgeva lo stemma dei
Fieschi, col suo elmo di fronte, carico di svolazzi e fogliami, donde
apparivano affrontati il gatto sedente e il basilisco nascente. In
quella mezza luce non si poteva leggere il motto: _sedens ago_, scolpito
in una fascia tra l'elmo e lo scudo; e questo solamente si ricorda per
amor d'esattezza. Davanti al camino, un po' lontano dal capo della
tavola, sull'alto scanno comitale sedeva madonna Bianchinetta, tutta
vestita d'ormesino nero, con la sua cuffiettina della medesima stoffa
marezzata, donde sbucavano sulle tempie le ciocche dei capelli bianchi
come neve, tanto belli a vedersi nelle case che serbano il culto della
dolce famiglia. Alla destra di lei stava la contessa Juana, ma seduta
più in basso, in modo da potere ad ogni tanto piegar la testa sul
bracciuolo dello scanno, e i suoi capelli nerissimi alle carezze della
vecchia signora. I detrattori delle suocere avrebbero dovuto ritrovarsi
un po' là, per sentirsi morire l'eterna celia sul labbro.

Presso il capo della tavola, o meglio, tra questo e la contessa Juana, e
avendo alla sua destra il Passano, era venuto a sedersi Bartolomeo
Fiesco, pronto a squadernare i suoi gran fogli di carta. Dall'altro lato
sedeva frate Alessandro, e presso a lui don Garcìa, con Polidamante; il
quale per verità non si poteva dire che sedesse, avendo addosso
l'argento vivo, ed ora per una cosa ora per l'altra cercando sempre di
muoversi. In mezzo al semicerchio sarebbe rimasto uno spazio vuoto; ma
lo colmavano già due grossi alani, Ovando e Bovadilla. Immaginate di
certo chi avesse chiamata così quella coppia canina. Onore immeritato, e
solamente da attribuirsi alla sua desinenza, il nome del commendatore
di Calatrava era venuto a decorare la femmina. Gran matti, quei cani,
essendo ancora molto giovani; più matti di Polidamante, col quale
facevano a correre nei cortili e nei fossi di Gioiosa Guardia. Ma per
allora, o che sentissero la gravità del momento, o che avessero
abbastanza rosicchiato in cucina, si erano adagiati in quel vano, come
due sfingi di basalto, colle zampe anteriori accostate e coi musi
allungati sulle zampe. Facevano così per godere quanto più potevano la
frescura del pavimento? o non piuttosto per prepararsi a gustare la
prosa robusta d'uno scrittore italiano?

Bartolomeo Fiesco prese i suoi fogli in mano; tossì, com'era di rito, e
poi disse:

--Frate Alessandro li chiama i Commentarii di Cesare; ma egli s'inganna
a partito. Cesare raccontava le cose da lui medesimo operate, e con
tanta fortuna; io le cose che ho viste accadere, e non liete, pur
troppo. _Quæque ipse miserrima vidi...._

--_Et quorum pars magna fuisti;_--aggiunse prontamente frate Alessandro.

--Ah no; fui parte, ma piccola;--ribattè il capitano Fiesco.--Questo
capitolo, poi, a farlo a posta, narra di cose avvenute quando io e voi,
frate Alessandro, fummo partiti dalla Giamaica su quel guscio di noce,
lasciando il nostro grand'uomo a combattere con l'ira degli elementi e
con quella degli uomini sulla spiaggia di Maima. Tutta roba adunque che
sapemmo poi, al ritorno, e che naturalmente ho dovuto restringere in una
mezza dozzina di pagine.

--Leggete, principale, leggete!--gridò il Passano.--Non ce le fate
sospirare, vi prego.

--Lo volete, e sia. Tossisco ancora una volta, e incomincio;--disse il
capitano Fiesco.--Non m'interrompete; le vostre osservazioni potrete
dirmele poi. Non fate rumore, che la mamma vuol sentir bene ogni cosa. A
farvi bere ci penserà Polidamante, che per muoversi non ha bisogno
d'inviti.--

Dopo questo preambolo il capitano Fiesco incominciò la lettura dei suoi
Commentarii, al capitolo XXV: _Di quel che seguì alla Giamaica, come ne
fu partito il Mendez col Fiesco_.

"Partite le canòe per l'isola di Haiti, la gente dei navigli cominciò ad
ammalarsi, così pei travagli del fortunoso viaggio, come per la
mutazione dei cibi, non avendo più vino, nè altra carne che d'_utia_,
quando pure potevano procacciarsene dai naturali. Aspra vita; e dovevano
durarla, stando colà sequestrati? Certamente ci sarebbero morti
d'inedia, dicevano alcuni; perchè l'Almirante non voleva ritornare in
Ispagna, dond'era stato bandito, nè all'isola di Haiti, dove alla vista
di tutti il commendatore di Lares gli aveva proibito di toccar San
Domingo, per quanto bisogno ne avesse. Sarebbero tornate le canòe del
Mendez e del Fiesco? soggiungevano i fratelli Porras, che primeggiavano
tra i mormoratori scontenti. Quei due potevano esser giunti a San
Domingo, ma forse per andar di là in Castiglia, a perorare la causa
dell'ammiraglio caduto in disgrazia. E che questo potesse anch'essere il
vero, lo dimostrava il fatto che il Fiesco, avendo avuto oramai il tempo
di andare a San Domingo e tornare, non era più ricomparso. Del resto,
potevano le due canòe essersi anche perdute: si doveva per questo
rimanere laggiù ad aspettare una morte sicura, chiusi in quelle due navi
sdruscite, per capriccio d'un gottoso, la cui stella era tramontata da
un pezzo? Essi ancor sani, e, per grande fortuna, dovevano pensare ai
casi loro, e andarsene a San Domingo, per raccontare all'Ovando come
fossero trattati tanti onorati Spagnuoli da quell'avventuriere italiano.
L'Ovando sicuramente li avrebbe rimandati in Castiglia, dove li
avrebbero ascoltati e vendicati il vescovo Fonseca e il tesoriere
Morales.

"Così parlavano i Porras, uno dei quali era il capitano della arenata
_Bermuda_, e l'altro il notaio capo della spedizione. E Francesco e
Diego furono tanto più facilmente ascoltati, in quanto che si sapeva da
tutti che d'una loro sorella era il Morales fortemente invaghito.
Entrarono quarantotto nella congiura dei Porras; e il giorno 11 di
gennaio del 1504 il capitano Francesco se ne andò di buon mattino colla
saliva amara dal signor Almirante, che era inchiodato dalla gotta nel
suo giaciglio a poppa. "Perchè restiamo qui? gli chiese. Non vi par
tempo di levarci da questo cimitero?" Le parole del Porras fuor del
costume arroganti, lasciarono intendere al signor Almirante che
quell'uomo avesse già molti a spalleggiarlo; e più se ne persuase,
quando, alle sue ragioni alzando le spalle, il capitano della _Bermuda_
gridò con piglio sdegnoso: io me ne vado in Castiglia, con coloro che
vorranno seguirmi. Ed usciva così dicendo dal castello di poppa,
l'insolente capitano; e a lui si univano tumultuando i seguaci della sua
ribellione, mettendo mano alle scuri, e gridando all'Almirante ed ai
suoi: _mueran! mueran!_ col qual grido si riscaldavano il sangue.

"A quelle voci balzò dal giaciglio il signor Almirante, e venne
zoppicando sull'uscio. Accorsero i suoi familiari, ed altri che
l'obbedivano ad ogni costo, per fargli scudo dei loro petti contro quei
forsennati. Altri correvano a trattenere l'Adelantado, il valoroso don
Bartolomeo Colombo, che già abbrancata una lancia si disponeva come
Achille a dar dentro. E gli uni e gli altri consigliavano al capitano
Porras di non tentare la sorte di una strage fraterna, che anco a lui
poteva costare la vita: se ne andasse pure coi suoi, quanti fossero,
quanti volessero seguirlo.

"Accetta quell'altro il partito, forse immaginando che a far peggio, e
con fortuna, non avrebbe poi evitato un castigo. Egli e i suoi scendono
dalle navi; slegano dieci canòe che il signor Almirante aveva comperate
dai naturali, per tenerle pronte ad ogni stremo; vi tirano dentro molti
rematori dell'isola, che hanno con belle promesse adescati, e mettono la
prora verso levante, costeggiando, come avevano veduto fare al Fiesco ed
al Mendez.

"Andando così marina marina, spesso calavano a terra, e prendevano a
forza quanto lor bisognasse. Pagherà l'ammiraglio, diceva il capo dei
ribelli; se non vi pagherà ammazzatelo pure, essendo egli prima e vera
cagione d'ogni male, e per voi e per noi, come pei vostri fratelli di
Haiti. Con queste arti si vettovagliavano ogni dì. Giunti finalmente
alla punta orientale della Giamaica, e fatte le maggiori provvigioni per
il lungo tragitto, si spinsero in alto mare, ma non andando più di
quattro leghe lontano. Il vento si era voltato; si procedeva a stento
coi remi, e le onde furiose entravano a far carico, minacciando di
affondare o di capovolgere le lunghe e sottili imbarcazioni. Bisognò
alleggerire, buttando le vettovaglie; bisognò alleggerire ancora,
buttando i poveri Indiani che s'erano fidati alle belle promesse. Così
ne perirono diciotto; con altri pochi che stavano ai remi, si toccò
finalmente la riva, delusi d'ogni speranza, famelici, ed armati; perchè
alle armi non avevano già rinunziato.

"Che fare? Alcuni proponevano di aspettare il buon tempo, e di navigare
a Cuba, donde più facilmente avrebbero raggiunto Haiti. Altri, non
intieramente guasti dell'anima, consigliavano di tornar pentiti al
signor Almirante. Prevalse il partito dei Porras, di restar liberi,
scorrazzando per l'isola. Non marcirebbero nelle navi; con l'armi alla
mano otterrebbero da vivere; e là, stando alle vedette, aspetterebbero
come tutti gli altri una via di salute. Era il partito peggiore,
derivandone il malcontento dei poveri isolani, soggetti alle rapine
continue di quella schiera malvagia. E un altro guaio sovrastava agli
uomini rimasti obbedienti sulle navi. A provvederli di cassava e dei
frutti della terra gli isolani si erano volentieri adattati. Ma quella
povera gente, vissuta fino allora con pochi bisogni, non faceva grandi
seminagioni. I figli del Cielo distruggevano in un giorno più di quello
che i naturali del paese consumassero in venti. Dovevano lasciarsi
taglieggiare dai ribelli, e provvedere in pari tempo agli uomini del
Giocomina, per il ricambio di qualche campanello, o d'una manata di
perline di vetro? Così avvenne che dispregiando i baratti e dimenticando
le fatte promesse, non portassero più nulla, trascurando perfino di
accostarsi alle navi.

"In quel terribile frangente una ispirazione celeste venne al pensiero
del gran Genovese. Altri dirà che le sue cognizioni d'astronomia gli
tornarono utili. E l'una cosa e l'altra possono ritenersi per vere.
Scelto il suo giorno, che fu l'ultimo di febbraio, mandò un naturale di
Haiti ad invitare i capi delle vicine tribù, che freddi si dimostravano,
ma non erano nemici, e in lui riponevano fede. Avutili a sè, parlò in
questa guisa:--Noi siamo cristiani; il nostro Dio abita in cielo, buon
re per tutti i suoi sudditi, e dei buoni ha cura, e i malvagi castiga.
Già voi vedete come abbia punito i cristiani ribelli, non permettendo
che si allontanassero dalla vostra isola contro il comando del loro
Giocomina; vi vedrete ora puniti con fame e peste voi stessi, che non
portate più alle navi le vettovaglie pattuite. Non lo credete? Ebbene,
n'avrete un segno manifesto nel cielo, non più tardi di questa notte,
vedendo venir fuori la luna adirata.

"Partirono; alcuni con paura, altri sprezzando la vana minaccia. Ma non
era vana, com'essi pensavano. Appunto in quella sera, all'apparir della
luna incominciando l'ecclisse, e più aumentando quanto ella più
ascendeva sull'orizzonte, quei poveri inesperti ricordarono le parole
del Giocomina quanto fossero vere; e fu tanta la paura loro, che con
grandissimi pianti e strida venivano d'ogni parte ai navigli con grandi
carichi di vettovaglie. Prega il tuo Dio per noi, dicevano al Giocomina,
pregalo che non eseguisca l'ira sua contro di noi; e manterremo d'ora
in poi le nostre promesse, fino a tanto che tu rimarrai alla spiaggia di
Maima. A che il signor Almirante si raccolse, per parlar col suo Dio; e
tanto stette appartato finchè l'ecclisse della luna era sul crescere; ed
essi tuttavia forte gridavano che dovesse aiutarli. Ma quando egli vide
che l'oscuramento della luna era presso al suo massimo punto, non
rimanendo più che di vederlo scemare via via, venne fuori dicendo aver
fatto orazione per loro, promettendo che quind'innanzi sarebbero buoni,
e tratterebbero bene i Cristiani, portando loro tutte le cose necessarie
alla vita; e Dio aver perdonato, in segno di che vedrebbero essi che
l'ira passava, e con questa la infiammazione della luna. La qual cosa
avendo effetto insieme con le sue parole, essi rendevano molte grazie al
Giocomina e lodavano il suo Dio: e così stettero finchè non ebbe termine
l'ecclisse.

"Fu questo assai buono espediente, al cui felice successo aiutò la
nessuna cognizione di quei naturali intorno ai moti degli astri, e alle
ragioni per cui talvolta si ecclissano il sole e la luna; eventi celesti
che essi stimano accadere a danno degli uomini. Nè io mi starò a lodare
con molte parole l'accorgimento del signor Almirante, bastando il
considerare che con esso egli ebbe provveduto alla salvezza di tanta
gente cristiana, quantunque per sedizioni e turbolenze continue così
poco meritevole delle sue cure paterne. Indi a pochi giorni giungeva
alla spiaggia di Maima la canòa di Bartolomeo Fiesco, che prima non
aveva potuto, per ragioni gravissime, le quali partitamente si diranno
più sotto, non volendo io interrompere con privati accidenti, comunque
maravigliosi e terribili, il racconto delle cose che riguardano il
grande Navigatore genovese e le fortunose vicende del suo quarto
viaggio. Accolto a festa dal signor Almirante, recava il Fiesco novelle
del Mendez, da lui lasciato a San Domingo; novelle non liete, le quali
il signor Almirante non stimò di far conoscere ad altri; che anzi, a
tutti i ritornati della canòa fe' giurare il segreto. Le novelle erano
queste, che dopo tanti mesi di preghiere, tenuto quasi sotto custodia
dal governatore, il Mendez non aveva potuto ottenere i navigli da
condurre alla Giamaica, nè la licenza di trovarne egli stesso, pagandoli
coi denari del signor Almirante; donde appariva chiaro il bieco
proposito del gran commendatore d'Alcántara, di far perire Colombo e di
oscurarne la gloria. Ma forse in tal proposito non avrebbe egli potuto
durare, poichè il Fiesco gli era fuggito di mano, e certamente, Dio
permettendolo, sarebbe giunto ad informare il signor Almirante di tutte
quelle macchinazioni della brutta invidia e malvagità singolare di lui.

"Ma intanto la gente raccolta nelle due navi sdruscite, ignorando le
nuove, stimava perduto il Mendez; nè quasi poteva più dubitarne, non
pure per il ritorno avvenuto del Fiesco senza il compagno di tragitto,
ma ancora per certe voci sparse dai sollevati del Porras, di una
imbarcazione che s'era vista al largo della punta di Aramaquique,
capovolta e trasportata dalle correnti, che sono fortissime al levante
della Giamaica. Crebbero le paure, e con le paure le mormorazioni, i
malcontenti, le trame. Già si ordiva una congiura, capitanata da un
Bernardo di Valenza, speziale dell'armata, a cui s'aggiungevano uno
Zamora e un Villatoros. E questa certamente avrebbe potuto segnare la
estrema rovina dell'Almirante e de' suoi fedeli, se non fosse
intervenuto un caso fortunato a sviare le menti; onde lo speziale finì
con aver pestata l'acqua nel mortaio. Si vide adunque una sera apparire
da scirocco una caravelletta, quasi una voglia delle due che si
aspettavano, sospirando, da poco meno di otto mesi. Quel piccolo guscio
si accostò sull'imbrunire alle due navi arenate; un palischermo se ne
spiccò, muovendo verso la capitana e portandovi il suo comandante Diego
d'Escobar, inviato dal signor governatore. Brutta scelta era stata
quella di Nicola Ovando, che sapeva l'Escobar nemico mortale del signor
Almirante, contro il quale si era ribellato col famoso Roldano,
meritando una condanna di morte, a cui non era sfuggito se non per
l'amicizia del Bovadilla, gran protettore dei tristi.

"Quasi per aggiungere lo scherno all'offesa, portava l'Escobar in
presente un barile di vino e una mezzina di porco salato. Se ne
cavassero la sete, un centinaio di bocche, quante ne lasciava alle due
navi sdruscite la sollevazione del Porras! Quanto ad aiuto di navigli,
il gran commendatore (lo avevano infatti promosso alla maggior dignità
di Alcántara, e si era spogliato della commenda di Lares) non poteva far
altro che promesse, e solo per dimostrare il suo buon animo mandava
quella piccola caravella, l'unico legno che si trovasse ad aver sotto
mano. Bisognava contentarsi delle promesse, e far buon viso a chi le
portava. Gran mercè che Diego d'Escobar si fosse incaricato di portar
anche una lettera del Mendez, dove quel buon servitore faceva relazione
di tutto il suo viaggio: relazione attenuata, s'intende, poichè doveva
passare sotto gli occhi dei nemici; ma il signor Almirante sapeva
leggere tra le righe.

"Questi avrebbe voluto rispondere, non pure al Mendez, ma ancora al
governatore. Ma venne il mattino, e la caravelletta era scomparsa. Diego
d'Escobar non aveva avuto altro incarico che di spiare e di riferire
all'Ovando se l'odiato Genovese fosse ancor vivo. Bartolomeo Fiesco, dal
canto suo, potè immaginare che quell'esploratore fosse venuto anche un
pochino per lui, per vedere se egli, con quel suo tronco di legno
incavato, fosse riuscito ad afferrar la Giamaica, e quali notizie avesse
portate al signor Almirante. Se questo era il disegno di Nicola Ovando,
poco doveva profittargli la sua accortezza. Bartolomeo Fiesco, che già
all'apparire della piccola caravella si era posto sull'avviso, e delle
persone che lo accompagnavano aveva prudentemente nascoste quelle che
gli premeva di non lasciar vedere ai curiosi, trovò modo di dire
all'Escobar, nel cospetto del signor Almirante, come questi fosse già
informato delle buone intenzioni di don Nicola Ovando.--Gliel ho pur
detto io, non dubitate, che il signor governatore non ha per ora a San
Domingo i legni necessarii per mandare a levarci di qui; e se anche non
giungevate voi, egli era già ben persuaso della bontà e della cortesia,
comunque per ora impotenti, del gran commendatore d'Alcántara che Dio
guardi, a cui vi prego di rammentarmi come suo buon servitore.--Era una
bugía necessaria; e con certa gente, del resto, non si nasconde mai
abbastanza quel che si pensa di loro. Il Fiesco, dopo tutto, non si
pentì di quella bugía, nè d'altre parecchie, che per difesa sua e degli
amici gli fosse tornato di dire. Se poi son colpe, ne domanderà
l'assoluzione al suo confessore."

--Fossero tutte lì!--scappò detto a frate Alessandro.

--Ah, tu non vuoi starmi ai patti, frate scudiero!--esclamò il capitano
Fiesco.--Polidamante, negagli il vino.

--Per carità!--riprese il frate scudiero.--Stavo appunto per accennargli
di mescere; e vi chiedo assoluzione a mia volta. Sapete pure che in
certi brutti momenti avevamo promesso di confessarci l'un l'altro. Ma
proseguite, capitano, ve ne prego.--

Il capitano Fiesco bevette un sorso, e ripigliò la lettura.

"Ritornando ora al signor Almirante, dirò com'egli, confidando oramai
d'essere prima o poi sovvenuto di navigli, e cedendo all'impulso del suo
cuore sempre inchinevole a pietà, mandasse due uomini a terra, dei suoi
più fedeli, per tornare all'obbedienza i ribelli, avvisandoli
dell'arrivo della piccola caravella, e mandando loro a testimonianza del
fatto, come della bontà sua, una parte dei presenti che gli aveva
portati l'Escobar. Già si disponevano alcuni ad accettare il perdono; ma
li trattennero i Porras, più infelloniti che mai. E così, dopo essere
stati un pezzo a consiglio, rispondevano tutti ad una, non volersi
fidare del perdono, nè del salvacondotto che mandava loro il signor
Almirante. Volentieri se n'andrebbero quieti dall'isola, s'egli
promettesse di dar loro uno dei due navigli che aspettava, o mezzo
naviglio, se uno solo ne fosse arrivato; e frattanto, poichè avevano
perdute tutte le cose loro, volesse egli spartire con essi tutte quelle
che aveva. E rispondendo i due ambasciatori non esser patti ragionevoli
i loro, replicarono arroganti che quanto non si concedesse loro per
amore, saprebbero bene pigliarsi per forza.

"Altro aggiungevano i Porras, riscaldandosi via via. Bene conoscevano
l'Almirante per uomo vendicativo e crudele. Per sè stessi non temevano,
sapendosi forti di amicizie e protezioni alla Corte; bensì per tanti
loro compagni dei quali egli avrebbe preso vendetta, sotto colore e nome
di castigo. Per tali ragioni non si era fidato di lui Francesco Roldano;
e bene gli era riuscito, essendo stato tanto favorito da far mandar
l'Almirante carico di ferri in Castiglia. Nè essi avevano minor cagione
o speranza di fare altrettanto. Della piccola caravella, poi, non era da
creder niente; ad altri la dèsse ad intendere. Quella non era stata una
caravella vera, ma un fantasma di nave, opera di negromanzia, essendo
noto come valesse l'Almirante in quell'arte diabolica. Perchè, se era
opera d'uomini, non era rimasta, scambio di apparire a vespro e di
sparir nella notte? Perchè con nessuno della sua marinaresca si era
potuto parlare? Se fosse stata vera, bene si sarebbe affrettato
l'Almirante a imbarcarvisi, col fratello e col figlio. Con le quali e
con altre parole indirizzate allo stesso proposito, ottennero i Porras
che la gente si confermasse nella ribellione, deliberando ancora di
muovere verso i navigli, per far bottino, e prender l'Almirante
prigioniero; se pure già non pensavano di far peggio.

"E mandavano i fatti compagni alle parole, accostandosi alla spiaggia di
Maima. Non era più tempo d'indugi. Scese l'Adelantado con cinquanta
armati, risoluto di sanare quei cervelli matti con buone ragioni, se
potevano bastare; con le cattive, se fosse stato mestieri. Giunto ad una
collina, e fermatosi ad un tratto di balestra dai sollevati, Bartolomeo
Colombo fece chiedere il capo loro a parlamento. Non risposero quelli
alla proposta degli ambasciatori, e pensando di aver da fare con gente
stremata di forze, brandendo le spade nude, e le lance che avevano,
formati in un drappello, e gridando ammazza, ammazza, assalivano la
squadra dell'Adelantado; avendo prima giurato i sei più valenti di non
dipartirsi l'uno dall'altro, ma di volgersi tutti contro Bartolomeo
Colombo, perchè, morto lui, non facevano stima degli altri. Il che non
piacque a Dio che loro venisse fatto, essendo stati così ben ricevuti,
che cinque o sei ne caddero per terra, tra i quali erano i più di quelli
che avevano giurato di colpire l'Adelantado. E questi diè dentro così
forte, uccidendo ed atterrando, che l'istesso Francesco Porras non fu
più in tempo a fuggire; laonde, lui fatto prigione, voltarono le spalle
quanti non eran caduti.

"Volentieri avrebbe Bartolomeo Colombo proseguito l'inseguimento e lo
sterminio di quei malvagi. Ascoltò nondimeno il consiglio di tale che
aveva veduti sopra un'eminenza i naturali in gran numero, e forse
disposti a saltare sui combattenti, sotto colore di aiutare i sollevati,
ma col proposito di opprimere i fedeli dell'Almirante. E di questo il
consigliere non si loderà troppo, pensando che forse egli vide un po'
grosso, quel giorno; mentre forse era meglio sperdere in un colpo la
mala semenza, poichè nessuno valeva forse meglio del loro capo
prigioniero ed incolume, nè del suo fallito imitatore, lo speziale
mastro Bernardo da Valenza; il quale, a detta del signor Almirante,
avrebbe meritato d'esser fatto a pezzi non una volta ma cento.

"Bene o male che fosse, l'inseguimento cessò, e ritornammo ai navigli,
menando prigione Francesco Porras con altri de' suoi. Della nostra gente
due soli i feriti; l'istesso Bartolomeo Colombo in una mano, assai
leggermente, e un maestro di sala dell'Almirante, percosso di lancia in
un fianco. Pareva una cosa di nulla; pure, in capo a pochi giorni, il
disgraziato morì. Dei sollevati, per contro, moriva in battaglia
Giovanni Sanchez di Cadice, quello che sulle acque del Betlem si era
lasciato sfuggire il cacico Quibian, per avergli allentata in mal punto
la fune; e taccio d'altri minori. Ferito in molte parti del corpo, e
rovinato giù da una balza, guariva invece Pietro di Ledesma, il forte
nuotatore che tuffatosi in acqua dalla nave di Colombo, aveva superata
la barra del Betlem, giungendo alla piccola colonia dell'Adelantado, e
riportandone per l'istessa via le tristi notizie al signor Almirante.

"E merita costui un particolare ricordo, per la stravaganza del caso.
Per due dì, dal 19 maggio, che fu il giorno della battaglia, rimase in
quella fossa, senza che alcuno sapesse di lui, o gli desse aiuto, tranne
gl'Indiani; i quali con maraviglia, non sapendo come tagliassero le
spade nostre, gli aprivano con istecchi le ferite; una delle quali nella
testa, per cui si vedeva il cervello, un'altra in una spalla, che si era
quasi spiccata; un'altra ancora ad una gamba, spaccata dalla coscia alla
caviglia; un'altra finalmente (e questa non si sapeva come fosse
avvenuta) alla pianta del piede, dal calcagno alle dita. Coi quali danni
nello scafo, quando gl'Indiani gli davan più noia, diceva: lasciatemi
stare, che s'io mi levo su, vi farò.... E lo diceva con tal voce di
tuono, che quelli spaventati la davano a gambe.

"Inteso di quel fatto sui navigli, volle pietà che fosse curato e
portato in una capanna, per ripararlo dal freddo della notte, e dalle
migliaia d'insetti che lo molestavano di giorno, minacciando di finirlo
essi soli. Quivi, invece di usar trementina a ciò necessaria, gli
medicavano le piaghe con olio bollente. Le quali furono tante, da far
strabiliare il cerusico. Infatti, ogni giorno dei primi otto che lo
medicò, gli trovava sempre qualche nuova ferita.

"La lezione domenicale del 19 maggio era stata così solenne, che la
mattina del lunedì i superstiti fuggiti mandarono a chiedere
misericordia. Si pentivano dei lor falli; volevano tornare alla
obbedienza. E l'Almirante concesse un perdono generale, a patto che il
Porras, capo ed istigatore, rimanesse in prigione, per non esser causa
d'alcun nuovo tumulto, e che i pentiti non venissero sulle navi a
leticare coi rimasti fedeli, o a seminarvi zizzanie. Questi, per
miglior consiglio, sotto la scorta di un fidato ufficiale, mandò per
l'isola al traffico, prendendo vettovaglie e dando cianfrusaglie in
ricambio. Ed erano i baratti di questa forma; per uno o due _utias_, che
son come conigli, si dava un ferretto di stringa; per una focaccia di
pan di cassava, due o tre avemmarie verdi o gialle; per maggior quantità
di cose, un campanello di ottone; ai capi delle tribù, che stavano ai
patti, ora un piccolo specchio, ora una berretta rossa, ora un paio di
forbici. Piccole cose, e di piccola utilità; ma sapevano contentarsene
quei popoli agresti. Certo, in cuor loro pregavano Giocovagama che ci
rimandasse in Azatlan, donde eravamo venuti. Amavano il Giocomina degli
uomini bianchi; ed egli ne meritava l'amore. Ma quante anime nere, tra
quegli uomini bianchi! Per un vero figlio del cielo, quanti Goeiz
scaturiti d'inferno!"




CAPITOLO IV.

L'epistolario di Cicerone.


--Chi dorme si svegli;--gridò il capitano Fiesco, deponendo i suoi
fogli, poichè aveva finito il capitolo.

--Siamo qui con gli occhi aperti e le orecchie tese;--disse frate
Alessandro.

--Continuate, signor conte, se le dame permettono che si abbia una
volontà in loro presenza;--aggiunse il cerimonioso don Garcìa.

--Le dame veglieranno fino a mezzanotte, se occorre;--disse a lui di
rimando madonna Bianchinetta, avendo un cenno di assenso dalla contessa
Juana.

--Avete tutti i voti, capitano;--conchiuse Giovanni Passano.

--Non tutti;--riprese il Fiesco.--Vedo che Ovando e Bovadilla
sbadigliano. Del resto, per continuare a leggere, bisognerebbe che
n'avessi materia. E sono rimasto qui, non avendo per l'altro che un
guazzabuglio di appunti. Debbo ancor raccontare mezzo mondo di cose:
come e quando ci giunse la nave comperata dal Mendez, e un'altra mandata
per vergogna dal gran commendatore di Alcántara; come si partì
finalmente il 28 giugno dalla spiaggia di Maima, un anno e quattro
giorni dopo averci dato in secco per nostra salute; come si giunse il 13
agosto nel porto di San Domingo, dove il nostro grande e sant'uomo
ricevette senza perdere la pazienza le mendicate giustificazioni e le
false proteste d'amicizia dell'Ovando; mentre a costui doveva scusarsi
Bartolomeo Fiesco, per quanta poca voglia ne avesse, dell'essersi
allontanato da San Domingo, senza prender commiato da quel suo
svisceratissimo amico; intanto che un bel mozzo tinto di carbone la
faccia e le mani, un frate francescano più soldato che frate, e un certo
don Garcìa travestito da marinaio e più nero del mozzo, si tenevano
prudentemente sotto coperta. Come Dio volle, uscimmo da quella trappola
il 12 settembre, dopo essere stati un mese coll'anima in soprassalto,
per passare cinquantasei giorni sempre sospesi tra morte e vita, da San
Domingo nel nuovo mondo a San Lucar di Barrameda nel vecchio. Che mare,
vi ricordate? Cristoforo Colombo non l'ebbe mai peggio in sua vita. Ed
anche si può dire che l'Atlantico serbasse i suoi furori solamente per
lui, non lasciandogli, salvo nell'approdo a Guanahani, un giorno intiero
di pace. Agli altri navigatori sempre mare tranquillo, e vento in fil di
ruota! È giusto, dopo tutto. Quello è il grand'uomo, epico e tragico ad
un tempo; debbono dunque esser sublimi di angosce mortali tutti gli
accidenti della sua vita. Gli altri sono i curiosi che vanno sull'orma,
i mediocri che seguono il solco tracciato da lui. Cabral, d'Ojeda,
Vespucci, Cabotto, ed altri, quanti siete o sarete, che la fortuna
manderà innanzi a pedate, affrettatevi a dimenticare quello che il gran
Genovese ha operato per benefizio di tutti, non avendone altro che
amarezze dagli uomini e tradimenti dalla vostra cieca signora. Ma basti
di ciò, se pure non ho detto già troppo;--conchiuse il capitano Fiesco,
prudentemente ammainando la vela.--Volevo dirvi che da San Domingo a San
Lucar ce ne avrò ancora per quattro o cinque capitoli; dopo di che
prenderò a raccontare la nostra particolare odissea, dalla Giamaica ad
Haiti, e da questa a quella ritornando, con tutto quello che c'è stato
di mezzo. Sarà l'episodio nel poema eroico del nostro immortale
cittadino; ma che episodio, siatemene voi testimoni! e ditemi ancora se
per me non debba esser piuttosto il poema. Lo scriverò, mettendoci tutto
il tempo che sarà necessario, e lo lascerò per ricordo ai Fieschi delle
generazioni future.

--Lo darete alle stampe, speriamo;--disse il Passano.

--Questo poi no. Ai Fieschi, ho detto, e non ai fischi;--ribattè
prontamente l'autore.--Dimmi tu ora, Giovanni dell'anima mia, se con
questa allegrezza della Gioiosa Guardia, dove ho portato con me il
premio maggiore che uomo potesse sperare dei patiti travagli, e con
l'onesto desiderio di lasciarne memoria ai dolci nepoti, io possa
risolvermi di lasciare questo mio nido di pace per le chiamate del colle
di Carignano.

--Che c'è?--disse Juana, turbata a quel cenno improvviso.

--Leggi;--rispose il Fiesco, levando dal giustacuore la lettera che
poche ore prima gli aveva consegnata Giovanni Passano.

Poi, rivolgendosi al suo luogotenente, soggiunse:

--Caro mio, non ti maravigliare. Per mia moglie e per mia madre non
posso avere segreti.--

Fior d'oro, intanto, aperto il foglio sotto gli occhi di madonna
Bianchinetta, a mezza voce leggeva. E noi leggiamo con lei la lettera
dell'eccelso ed illustre Gian Aloise Fiesco:

  "_A messer Bartholomeo Feisco_

  nostro amato parente _nec non viro excellentissimo_.

"Havemo ricevute a suo tempo le doe lettere che Voi ne mandasti per lo
cavallante Nicholin di Baceza et per lo ballestero Anthonio de Rì. Le
quali ne hanno immensamente allegrato per quello che diti de la vostra
bellissima sposa et de la nostra nobile cugina Bianchineta che Dio
vardi. Ma similmente non intenderne che Voi vi adormentati in ocio de
Gioyosa Guardia, come novo Hercule in Lydia, salva sempre la gratia de
la celeste Fior d'auro; non parendone digno di cavallier come Voi et
experimentato in tanti famosi incontri de terra e mar, di restar lontano
et alieno da quelle imprese dove se guadagna gloria et roba per lustro
d'el nome et potencia de la casata. _Ergo_ è nostra mente che Voi
vegniate _quam primum poteritis_ a trovarci in Violato; che se noi
facessimo come ne avressimo bon desiderio una seconda volta il viaggio,
li maligni inimici del Gatto direbbono forsi che noi tememo per lo
nostro capitanato de Levante; il che non sarìa savio da parte nostra.
_Etiam_ molte cose haverei da dirvi et tute di grande importancia per
Voi et per noi che dite di amare, nel che volemo ben credervi. Onde Vi
preghiamo non fate dimora. Il nostro Giovan di Passano el ve dirà a
bocca quanto sia nostra voglia di vedervi accanto a noi per quel molto o
poco che vorrete restare. E Iddio vi tegna sempre in la soa santa
custodia.

  "_Genue. Die V Martii A. D. 1506._

      "Vostro parente et bon servidore

      "GIOAN ALOYSE."

Così la lettera dell'eccelso ed illustre capo della gente Fiesca. E Fior
d'oro, com'ebbe finito di leggere, alzò la fronte a guardare il marito.

--Andrai?--diss'ella.--Gian Aloise ti prega.

--Andare è presto detto;--rispose Bartolomeo Fiesco.--Io non ci ho
cuore, nè gambe. Scriverò; non sono oramai uno scrittore? Ma
sì;--rispose egli, cercando di ribattere una obiezione che già vedeva
balenare dagli occhi di Fior d'oro;--io sono famelico di oscurità, che è
principio di pace, e quell'altro laggiù vuol tirarmi in luce di
meriggio. Qui si sta bene: non per niente è Gioiosa Guardia. Anche
nostra madre, che è vissuta tanti anni senza di me, ha bisogno di
rifarsi della lunga solitudine. Di voi non parlo, Juana, che mi dareste
un ceffone più forte di quelli con cui accarezzate le guance alle finte
povere della vallata. Qui si sta bene, ripeto, e meglio non si starebbe
in nessun altro luogo. Desideri la vita operosa, con tutte le sue ansie,
con tutte le sue illusioni e le sue delusioni, chi non l'ha ancora
vissuta. È giusto che ognuno s'istruisca, e paghi i maestri del suo.
Quanto a me, ho imparato abbastanza; onde dirò col poeta, di cui non
ricordo più il nome:

    Il porto è qui: speme e fortuna addio;
    Già m'ingannaste, or fate ad altri il gioco.--

Ciò detto, fece un cenno a Polidamante. Ed era un cenno complesso,
perchè Polidamante non istette dubbioso un momento, ma saltando lesto e
scavalcando i due corpi distesi di Ovando e Bovadilla, venne ad
abbrancare il fiasco del vino delle Cinque Terre per ricolmargliene un
calice. Messer Bartolomeo ringraziò il coppiere con gli occhi, e
tracannò il vino d'un fiato.

Giovanni Passano taceva; e si capiva che tacesse, essendo stato egli il
portatore della lettera di Gian Aloise, e incaricato al bisogno di
confortare con nuove ragioni a bocca l'invito che recava per iscritto.
Ma il capitano Fiesco aveva dalla sua frate Alessandro e don Garcìa, che
gli davano ragione due volte, approvandolo, e bevendo da capo con lui.
La contessa Juana, per contro, era rimasta pensosa; e ciò non gli
andava, parendogli di non esser sicuro della vittoria, se non gliela
confermava il giudizio di Fior d'oro.

--Non vi piace la mia risoluzione?--diss'egli.

--Non dico questo, nè lo penso;--rispose la contessa.--Ma riconosco che
ci sono le occasioni, pur troppo, in cui non possiamo fare quel che ci
torna meglio.

--Oh, per questo, vedrai che lo potrò;--ribattè egli animandosi.--Non
sono uno schiavo, io; e Gian Aloise non iscrive da padrone. Diciamo
piuttosto ch'egli tratta da re. Quando un re scrive "vi vedrò
volentieri", il cortigiano accorre senz'altro. Io non sono un
cortigiano, e non ho ambizione di uffici illustri o lucrosi. E li
merito, poi? Penso di no, ed ho il diritto di esser modesto, mi pare.
Infine, che cos'è che si pretende da me? Sono un uomo di vaglia. Come lo
sanno? da che lo argomentano? Sono stato navigatore e soldato per
passatempo, come prima ero stato scolaro a Pavia, e laureato in medicina
e filosofia. Quel che sono mi son fatto da me, e me lo spendo a mio
modo. Vengo meno con ciò agli obblighi del mio sangue? No. Queste terre
me le hanno lasciate i miei maggiori; le tengo e le difendo;
difendendole, son utile ancora ai Fieschi confinanti con me. Questo è il
mio scoglio, e ci fo il mestiere dell'ostrica. Quando mai si è preteso
che l'ostrica lasciasse di far l'ostrica, per fare il pesce spada?--

Gli pareva d'aver vinto, con questo ragionamento, e che nessuno gli
potesse rispondere. Ma in quel punto Ovando e Bovadilla levarono il muso
e rizzarono gli orecchi, brontolando verso l'uscio:

--Che c'è?--disse il Fiesco.--Hanno sentito qualche cosa d'insolito?

--Rumore nel cortile;--rispose Polidamante.--Sembra uno scalpitìo di
cavalli.

--Visite a quest'ora?--ripigliò messer Bartolomeo.--Vedrete che sarà
Filippino.

--Ma che!--disse allora Madonna Bianchinetta.--Sono appena tre giorni
che l'abbiamo veduto.

--E tre giorni sono qualche volta un secolo;--ribattè egli
ostinato.--Del resto, chiunque sia, non istarà molto a farsi vedere.--

Comparve indi a poco sull'ingresso della cantinata un famiglio, che
tirandosi da un lato della soglia, solennemente parlò:

--Magnifico signore, è qui messer Filippino.

--Ah, Filippino!... Ma se lo dicevo io!... Questo qua veramente mi ha
preso a proteggere.--

Fior d'oro si mosse verso il marito, cercando di chetarlo collo sguardo.

--Già,... ecco....--balbettò egli allora.--Volevo dire che m'ha preso a
voler bene. E chi ci vuol bene, quando ne sia il bisogno, ci protegge.
Andiamogli incontro; sarà il miglior modo di mostrargli gratitudine per
tanta bontà.--

Prima che il capitano Fiesco fosse in fondo alla sala, compariva messer
Filippino sull'uscio; Filippino il bello; Filippino il biondo, come lo
diceva spesso e volentieri il padrone di casa. Un bel giovane infatti, e
d'un bel biondo di stoppa, come la natura benigna ne dispensa qualche
volta alla umanità bisognosa.

Frate Alessandro e don Garcìa, fatta riverenza alle dame, erano
spulezzati al primo annunzio della visita illustre. Li avrebbe seguiti
volentieri Giovanni Passano, ma non n'ebbe il tempo. Del resto, arrivato
quel giorno come un messaggero di Gian Aloise, egli era anche in quella
casa un parente. Non appariva dunque un intruso; non doveva riuscire
importuno, se anche i due Fieschi avessero a parlare di cose per le
quali era venuto alla Gioiosa Guardia egli stesso.

--Siete dunque voi, Filippino?--gridò il capitano Fiesco,
dischiudendogli quasi le braccia, ma fermandosi a mezz'aria per
istendergli le mani.--A quest'ora ci capitate? Di passaggio, m'immagino,
e vorrete pernottare da noi?

--No, non di passaggio, vengo appunto per voi;--rispose Filippino,
arrossendo un poco.--Del resto, è sempre piacevole capitare a Gioiosa
Guardia, che è tanto ospitale e benevola. Sapete bene che quante volte
ho da passare di qua, non mi lascio sfuggir l'occasione di riverir le
dame e di stringer la mano a Voi. Questa volta sono ambasciatore, o
messaggero, o cavallante, come vorrete chiamarmi. Ecco una lettera di
Gian Aloise.

--Dell'eccelso Gian Aloise?--esclamò il capitano Fiesco.--La seconda in
un giorno!

--Infatti, sì;--rispose Filippino.--Egli mi ha detto della commissione
che aveva data al nostro Giovanni Passano. Ma nella lettera a lui
consegnata aveva dimenticato un punto di capitale importanza. Allora
egli ha chiesto a me se mi sarei sentito....

--Di montare a cavallo, non è vero?--interruppe messer Bartolomeo.--E di
galoppare a Gioiosa Guardia, dove gli amici son sempre così lieti di
vedervi? Ma galoppando così, Voi avrete anche dimenticato di cenare; e
se permettete, s'imbandirà subito per Voi. Polidamante!...

--No, vi prego, non fate nulla di nulla. Sapevo di non giungere in
tempo per la cena, ed ho mangiato un boccone dall'oste del Rupinaro.
Piuttosto,--soggiunse Filippino con grazia,--l'ho ancora qua nella gola,
e gradirò che mi diate da bere.

--Allora, faccia Polidamante l'ufficio suo, e Voi siate contento a modo
vostro. All'ospite non bisogna dar noia, per desiderio di mettergli la
casa sulle spalle;--conchiuse saviamente messer Bartolomeo.--Ma
intanto,--seguitò, volgendosi al Passano,--eccoti qui un oste del
Rupinaro, che tu hai saltato nella tua rassegna stradale.

--Non l'ho saltato;--rispose il Passano.--Ho solamente risposto di sì a
tutti i nomi che Voi dicevate.

--E perchè non ho detto quello, tu l'hai taciuto, manigoldo? Ma leggiamo
questa lettera, che dovrebb'essere la seconda ai Corinzii.--

Mentre il capitano Fiesco parlava così, disponendosi ad aprire la
lettera, messer Filippino faceva riverenza alle dame. Fior d'oro, contro
l'usanza delle nuore, stava molto ai panni della suocera; e messer
Filippino, che aveva una voglia spasimata di bisbigliare qualche cosa
molto sottile e molto profonda a madonna Juana, dovette contentarsi di
dirne molte assai comuni e leggiere a madonna Bianchinetta, parlando
della salute, del tempo, della strada percorsa, e di simili altre
bazzecole. Ma anche a ragionare d'inezie c'è il modo di andar nel
sublime, o almeno di rasentarlo, con un buon lavoro d'occhiate
compassionevoli, tremiti di voce e soavi inflessioni d'accento. Ora in
quest'arte Filippino era passato maestro.

Gli occhi di Fior d'oro, badando poco agli atti di Filippino, andavano
spesso al marito, spiandone i moti e ricercandone l'animo; cosa
facilissima, perchè egli non usava nascondersi mai. Così lo vide batter
le labbra, leggendo, tentennare il capo, e finalmente richiuder la
lettera con un atto di grande impazienza.

--Ebbene, ve lo dicevo io, che non si può far sempre quel che si
vuole?--gli bisbigliò ella, che già si era staccata dal fianco della
suocera, per accostarsi a lui.

--Ma sì! Fior d'oro ha sempre ragione;--rispose egli avvilito.--Questo è
più forte dell'altra. Leggila a nostra madre.--

Fior d'oro prese il foglio dalle mani di lui, e come aveva letto il
primo sotto gli occhi di madonna Bianchinetta, così lesse il secondo.
Qui Giovanni Passano si mosse per andarsene. Messer Bartolomeo voleva
trattenerlo, non vedendoci ragione; ma il suo luogotenente ottenne
licenza con una argomentazione invincibile.

--Se quello che scrive Gian Aloise è tale da poterlo sapere ancor io, me
lo potrete dire domani, prima ch'io parta; se non è tale, potrete
tacerlo, ed io sarò felice di non averlo ascoltato. Voi anche mi avete
insegnato a non esser curioso; e i fatti del prossimo sono spesso così
poco interessanti! Aggiungete che in ogni cosa io sono vostro, ed altro
non mi piace che di obbedirvi. Ora, se permettete, vo a prendere il
fresco e a fare un po' di chiacchiere con quei due, che sicuramente
m'aspettano.--

Giovanni Passano aveva fatto un altro ragionamento tra sè, in forma di
dilemma. Una delle due, diceva; o messer Filippino s'è fatto aggiungere
un poscritto per averne occasione a capitare anche lui, e non bisogna
essergli testimoni d'una puerile alzata d'ingegno; o Gian Aloise ha
pensato di mandare per un secondo messaggero le cose più importanti o
più gelose che non aveva confidate al primo, e non è bene che il primo
resti a sentire ciò che porta il secondo. I grandi vanno serviti con
discrezione, non mostrando troppa curiosità di capirli. Queste massime
il Passano non le avrebbe pensate al Mondo nuovo; ma le doveva pensare e
praticare nel vecchio, dove infine voleva far la sua strada, da
onest'uomo, sì, ma senza dar nello sciocco.

La lettera di Gian Aloise diceva così:

  "_A messer Bartolomeo Flisco_

  nostro caro cugino et strenuo cavalliere.

"Il nostro Giovan Passano vi avrà data a quest'ora una lettera mia et
significata la nicissità grande in che vivemo del vostro consiglio[tn69]
di valente huomo qual siete in così giovine età et forte non manco di
braccio. Del quale come del consiglio poderia esser uopo, se Vi parerà
esser da ciò, come noi Vi stimiamo. Sappiate ora che non solo è
turbamento in città et gran confusione, per li popolari che sempre
vorriano mettersi in loco di nobili, con dire che essi son nati in casa
soa, di gente municipali romane et noi di fuori et stirpe di barbari:
del che non so come possino haver certezza, non leggendosi in carta
veruna se non questo, che i loro ascendenti furono gente della plebe
arricchiti in vender grasce et navigar trafficando. Nè questo solo; ma
ancora vorriano che s'aiutassi Pisa contro l'armi di Firenze, mettendo
il Comune in tale impegno che non sia poi sicuro di sopportare. _Etiam_
non possiamo noi dimenticare che per muover con oste a Pisa bisognerà
passare per le terre del nostro capitanato; dove ogni grosso esercito
che passasse facilmente sarìa tratto da desiderio a mutare quello che
ivi è stato stabilito per l'onore de la nostra casata; et
contrariamente un piccolo soccorso non bastando per salvezza di Pisa,
trarrebbe le vendette di Fiorenza, non già contro il comune di Genoa
lontano, ma contro li feudi nostri in val Magra, quali assai ne dee
premere di tener fortemente. Ond'io meglio stimo che un potente signore
abbia Pisa, il quale ne assicuri et conservi la libertà contra Firenze,
potendo misurare gli aiuti al bisogno et non lasciarsi cogliere alla
sprovveduta, come senza fallo userebbe il Comune nostro, sempre in
tumulti et trambusti et confusione babelica. Il carico di tener Pisa par
dunque a noi destinato dal cielo, non ad altro signore che già briga per
ottenerlo, mettendosi in vista. Uomo nostro, intendente et valoroso per
andar colà, sentir le opinioni et provvedere con pronte risolutioni io
non vedo altri che Voi, nostro cugino amatissimo; che se gli animi dei
Pisani, come io credo, fussino a noi inclinati, Voi subito di studioso
ambasciatore e consigliero potresti mutarvi in capitano di armati,
avendone noi già in Lunigiana ammassati quanti basteriano per il primo
bisogno, e gli altri sarian pronti a seguire. Meglio di tutto ciò
parleremo in Violato, ove è sempre gran desiderio de la vostra persona.
Venite dunque; e se non basta a muovervi la nostra amicizia, Vi muova il
consiglio di madonna Bianchinetta, orgoglio del nostro parentado, a la
quale bacio divotamente le mani, come alla eccelsa sposa vostra
incomparabil Fiordoro.

  "_Genoa, li V martio del 1506._

      "Sempre al vostro servitio et bon cugino

      "GIO: ALOIXE."

E indirizzo e firma apparivano un po' diversi dall'una lettera
all'altra. Ma così erano gli uomini di quel tempo, che all'ortografia
badavano poco, anche per il fatto di non averla troppo sicura. Per
altro, come si riconoscerà dal contesto di quest'ultimo messaggio,
vedevano chiaro in quel che volevano, e non si lasciavano tirare nè di
qua nè di là da pericolose incertezze.

Madonna Bianchinetta e la sua bellissima nuora erano rimaste sopra
pensiero. Proponeva gran cose, l'eccelso Gian Aloise, e per accettare,
come per ricusare il partito, bisognava meditarci su. Messer Filippino
frattanto aggiungeva di suo, commentando l'epistola:

--Siamo in famiglia, e si può dire ogni cosa. I Pisani non vogliono
essere oppressi da Fiorenza; e tanta è la ripugnanza loro a quel giogo,
che vogliono piuttosto quello di Genova, dimenticando il colpo mortale
della Meloria. Potrebbe Genova accettare l'invito, e noi di casa Fiesca
goderne, se Genova fosse nostra più che non sia. La teniamo in parte,
preponderandovi con l'aiuto del re Cristianissimo, a cui siamo d'aiuto
pur noi, tenendogli in fede la Repubblica. Ma più teniamo e con maggior
sicurezza la Riviera di Levante, quanta n'è dall'Appennino al mare tra
la Scrivia e la Magra, non senza forti scolte nelle valli del Taro e
della Baganza. A noi, non a Genova, si spetta di andare in soccorso di
Pisa. Ma c'è qualcun altro che vorrebbe mettersi avanti in nostro luogo.
Quest'altro non ve lo dice la lettera di Gian Aloise, perchè non tutto
si confida allo scritto; ma egli è Gian Giacopo Trivulzio, il quale, se
non forse quanto Gian Aloise Fiesco, è pur molto in grazia del re
Cristianissimo. Non pare a Voi che in questo caso avrà ragione il primo
che metta innanzi le mani? A questo occorre un uomo assai destro, che
vada ad offrire gli aiuti, a concertarne il modo; e tutto ciò non in
nome del Comune, che non sarebbe prudente consiglio aggravar
dell'impresa, ma di quell'uomo che in Genova è più potente e a Pisa più
prossimo per l'ampio dominio. Accettano? Sì, perchè nella estremità a
cui sono ridotti non hanno altro partito. E Voi allora vi potete scoprir
meglio, come capitano della gente che aspetterà un cenno vostro per
accostarsi alla città, fronteggiare i Fiorentini e lasciare a terra il
Trivulzio con le sue ambizioni. Questo in digrosso il pensiero del
nostro eccelso parente; le cose minute vi dirà egli in Violata.--

Bartolomeo Fiesco stava fra due; nè già pei commenti di Filippino, che
lo avrebbero anzi persuaso a dire un no tondo tondo, ma per la lettera
di Gian Aloise. Si volse allora alla madre, domandandone con gli occhi
il parere.

--È cortesia lo andare;--disse madonna Bianchinetta.--Se tu non puoi
accettare, figliuol mio, dirai meglio le tue ragioni a voce, che non per
iscritto.--

Si volse egli allora a sua moglie, e n'ebbe queste parole:

--Bisogna andare. Te lo avevo già detto per la prima lettera; e nella
seconda son nuove ragioni, che mostrano anche molta fede in te. Si
verrebbe meno alla fede di un tant'uomo, non andando alla chiamata.

--Ah! siate lodata, madonna Juana;--gridò Filippino giubilante.--Sarete
voi la fortuna di casa Fiesca.--

Fior d'oro non potè trattenersi dal ridere.

--Vedete,--diss'ella,--da che distanze doveva ella venire!

--Eh!--rispose Filippino.--Le vie della Provvidenza son tante! Si
partirà dunque domattina;--soggiunse.--Gian Aloise sarà così lieto di
riverirvi!--

Correva troppo, messer Filippino bello; e fu fermato di schianto.

--Voi mi mettete d'un viaggio che io non farò certamente;--rispose Fior
d'oro.--È delle donne custodire la casa. Stando accanto alla madre di
mio marito, mi parrà di non averlo tutto perduto, per quei due giorni
che vorrà durarne l'assenza.

--E se durasse di più?--domandò Filippino, che non voleva darsi per
vinto.

--Allora.... allora, si vedrebbe;--rispose conchiudendo Fior d'oro.

Quella sera, ritirandosi nelle sue stanze, il capitano Fiesco diceva
alla moglie:

--Filippino mi annoia.

--Annoia anche me;--rispose Fior d'oro.--Ma è giovane; si cheterà.
Intanto bisogna riderne.

--Potere! È lui, frattanto, il noioso che mi mette tutti questi impicci
sulle braccia. Non lo vedi tu, che fa scrivere due lettere in un giorno,
e ad un oscuro uomo come il tuo Damiano, dall'eccelso Gian Aloise
Fiesco, potentissimo tra i signori d'Italia, ed amicissimo del re di
Francia? Io, come dice frate Alessandro, faccio un ridosso ai
Commentarii di Cesare: ma il vecchio di Violata vuol farne un altro
alle Epistole di Cicerone, che son più di ottocento.

--Vedi?--gli disse sorridendo Fior d'oro.--Bisogna andare, perchè non
n'abbia a scrivere altrettante.

--Andare,--riprese Damiano, più Damiano che mai in quell'ora,--e dirgli
quel no, che avrei potuto mettere in carta?

--Non è certo,--replicò la bellissima donna,--che quel no si possa
scriver meglio, potendolo dire con garbo, dopo aver sentite tutte le
ragioni del tuo nobil parente. Ci penserai, del resto, le peserai
attentamente. Potresti anche lasciarti persuadere da qualche ragione più
forte, che toccasse l'utilità della casa e l'onor del tuo nome. La
ragione più forte non ci sarà? Il tuo no sembrerà detto dopo aver
meditato, e ad ogni modo ne avranno scemato l'asprezza le parole cortesi
e la stessa tua condiscendenza all'invito.--

Damiano guardò Fior d'oro con tenerezza, e le pose al collo le braccia.

--Bella bocca!--le mormorò.--Bella bocca, che parla così bene!

--Bella!--ripetè ella con accento malizioso.--E non cara?

--E bella e cara,--gridò Damiano, con uno de' suoi impeti di
passione,--e, se vi piace di saper tutto, adorata.--




CAPITOLO V.

Al soccorso di Pisa.


Il palazzo di Gian Aloise Fiesco sorgeva sul colle di Carignano, accanto
alla chiesa patronata che un cardinal Luca Fiesco, diacono di Santa
Maria in Vialata a Roma, aveva ordinato nel 1336 fosse eretta in Genova
col medesimo titolo; donde il nome di Vialata si stese a tutta quella
parte della collina, corrompendosi poi nel dialettale "_Viovâ_" per
rifarsi ancora italiano in "Violato" e dar occasione a qualche moderno
di derivarlo "dalla copia delle viole che vi nascevano e soave fragranza
diffondevano intorno". Chi sente l'arcana poesia dei fiori può anche
contentarsi di questa etimologia, che ha dopo tutto il gran merito di
suscitare graziosi pensieri.

Non ne suscitava di tali il palazzo, edificato presso il fianco sinistro
e perciò a mezzodì della chiesa, con la quale faceva angolo il suo
fianco destro, conterminando il piazzale di quella fino al bastione, che
in guisa di belvedere si stendeva lassù verso ponente per un gran tratto
del colle. E mentre da quel lato il palazzo dei Fieschi dominava il
prospetto della superba Genova, fronteggiando il colle di Sarzano e la
mole dell'antico Castello, guardava da tramontana il vasto anfiteatro
del monte Peraldo colla sua gran cinta di mura alte sui greppi; da
mezzogiorno, poi, vedeva gran tratto di mare, solcato da centinaia di
vele, che uscivano dal porto o venivano all'approdo, passando sotto i
suoi occhi lungo la Marinella, detta altrimenti il seno di Giano; e da
levante, se pur non iscorgeva il Bisagno, nascosto sotto le alte mura di
Santa Chiara, godeva la scena incantevole del colle d'Albaro, colla
imminente piramide del monte Fasce e collo sfondo azzurro del
promontorio di Portofino, dietro a cui si stendeva la riviera di
Levante, oramai diventata un gran feudo dei Fieschi.

Al palazzo, che meglio si sarebbe detto castello, si accedeva da due
parti; da levante per un viale campestre, collegato alla via che
dall'Acquasola e dagli Archi di Santo Stefano metteva a San Giacomo di
Carignano, e là si presentava difeso da due grossi torrioni; da ponente,
ove appariva più alto, quasi impervio come una rupe Tarpea, si giungeva
ad esso dal borgo dei Lanieri, lungo il Rivo Torbido. Colà, passato
appena il convento e la chiesa de' Servi, si levava pel dorso della
Montagnola una gran cordonata di oltre cento scaglioni, onde si risaliva
ad un loggiato coperto, di là riuscendo ad un ingresso laterale
dell'edifizio, aperto sopra una vasta spianata di giardino. Arrivati
finalmente lassù, si godevano i particolari di quella nobile fabbrica,
onde da lontano si era ammirata soltanto la maestà del complesso. Non
dissimilmente dalla chiesa contigua, il palazzo era sui quattro lati
incrostato di marmi a fasce alterne bianche e nere, rotte a giuste
distanze da grandi finestre, partite a colonnini; e le finestre,
inframmezzate da statue, raccolte nelle loro nicchie sagomate con
bell'arte d'intagli, erano fiancheggiate da lunghi ramponi di ferro,
rivoltati a staffa, tutti terminati in un giglio di ferro battuto,
certamente in omaggio cortigianesco ai gigli di Francia. A quei ramponi
sporgenti, che altri casati di parte ghibellina usavano decorare d'un
capo d'aquila, si soleva nei giorni di pubblica festa appendere gli
scudi e l'arme di famiglia; il che dicevasi fare la impavesata. Nè
mancava la "conoscenza" ossia la insegna della gente, scudo, cimiero e
motto, espressi in pietra di Lavagna e murati ben alto sui prospetti del
palazzo. Più basso, per modo che si vedesse bene dai viandanti, era
murata la targa indicante il privilegio d'immunità dalla forza della
giustizia, onde il Comune aveva donate le case dei Fieschi. In quelle
targhe, o liste di marmo, poste sugli angoli dell'edifizio, si vedevano
scolpite due mani rivolte alla croce di Genova; ed erano i segni "_ultra
quae non licebat satellitibus homines infestare_".

Descritta la forma esterna del palazzo di Vialata, sarebbe forse utile
fare altrettanto per gli appartamenti e gli arredi. Ma noi abbiamo
soltanto da accompagnarci Bartolomeo Fieschi, il quale non vorrà
restarci lungamente; perciò tralasceremo una descrizione che troppo
somiglierebbe ad un inventario, nella sua aridità notarile. Luigi XII,
che alloggiò in Vialata nell'anno 1502, ebbe a dire, certamente
prendendo occasione dal palazzo del suo ospite, che le case dei
Genovesi erano più doviziose e meglio fornite della stessa sua reggia.
Io, per amore dell'arte, accennerò soltanto che nel vestibolo Gian
Aloise aveva fatto dipingere a buon fresco i Giganti fulminati da Giove;
motivo che indi a poco doveva essere imitato da Pierino del Vaga nella
caminata di Andrea Doria a Fassòlo. Rivalità di sfoggio signorile, che
incominciava a mostrarsi in forme artistiche e mitologiche, per girar
poi alle manifestazioni politiche e diguazzare nel sangue! Per opera di
un altro Gian Luigi, quarantadue anni più tardi, il Giove ottuagenario
di Fassòlo, mortogli il nipote Giannettino e minacciata da presso la
recente sua reggia, era costretto a fuggire di nottetempo infino ai
monti di Voltri; ritornato di là a cose quiete, non perdonò la paura che
gli avevan fatta provare, e prese a fulminare i Giganti di Vialata,
abbattendone l'orgoglio, diroccandone dalle fondamenta il palazzo
fastoso.

Nella sua gran caminata, dipinta da Leonardo dell'Aquila, finalese, e da
Giacomo Serfoglio, da Salto, l'eccelso Gian Aloise ricevette il parente
aspettato. Bartolomeo Fiesco era alloggiato da gentiluomo a Gioiosa
Guardia, con gusto severo ed onesta larghezza, secondo il costume dei
vecchi. Là dentro, in Vialata, era una varietà artistica che prendeva
accortamente da tutti paesi, ed una profusione di lusso da abbagliare la
vista. Tappeti di Fiandra coprivano i pavimenti; forzieri ferrati alla
francese si alternavano lungo le pareti a gran sedie intagliate di noce,
alcune sormontate dalle armi gattesche e roveresche accollate, altre
dalle armi gattesche e carrettesche, a ricordare i successivi
matrimonii di Gian Aloise con Bartolomea della Rovere, nepote di papa
Giulio II, e con Caterina del Carretto, sorella al marchese del Finale.
Archi turcheschi con le loro faretre, vecchi trofei di ammiragli della
casata, ornavano la gran cappa del camino, di pietra di Lavagna,
riccamente intagliato a fiori, fogliami, chimere ed altre forme di
mostri, non esclusi i soliti imperatori romani. Qua e là in vistose
credenze si accoglievano a centinaia gli arnesi di prezioso metallo;
idrie, guastade d'argento lavorato a rilievo e dorato, catini e piatti
d'argento istoriato, confettiere d'argento niellato alla barcellonese.
Ma più assai delle opere d'orefice, più ancora d'una collana di grosse
perle in numero di settantatrè, che si ammirava con altre gemme in una
vetrina particolare, colpivano il visitatore gli arazzi ond'erano
coperte le vaste pareti, con certe istorie del Testamento vecchio, tra
cui primeggiava per bontà di disegno e vivezza di colori, come per
terribilità di effetti, quella di Nabucodonosor, il gran colosso dal
piede d'argilla. In una sala attigua alla caminata il nostro capitano
Fiesco aveva già dovuto fermarsi a contemplare altri arazzi, che
recavano espressa la storia romanzesca di Biancafiore.

Al giungere del suo parente di Gioiosa Guardia si levò l'eccelso Gian
Aloise dal gran seggiolone di cuoio dorato su cui stava seduto, davanti
ad una tavola lunga, coperta di quel drappo turchino che fin d'allora si
chiamava "da consigli" poichè già si fabbricava a quell'uso, di coprir
tavole da adunanze. Nel mezzo del drappo erano ricamate le armi dei
Fieschi, ripetute da per tutto, perfino sul calamaio quadro di legno
d'ebano intarsiato, nel manico d'argento del temperatoio, e sul pernio
delle forbicette dorate che gli facevano compagnia. In tutti i
particolari, in tutte le minuzie, appariva il lusso sfoggiato e il
consapevole orgoglio d'un principe. Non ci maravigliamo se mirasse al
dominio di Pisa.

Dall'anno 1494 ardeva la guerra tra Firenze e Pisa, questa amando viver
libera, e quella volendo signoreggiarla. Nè a Genova nè al suo
potentissimo Gian Aloise Fiesco tornava che i Fiorentini dilatassero
maggiormente l'imperio, poichè non solo questi agognavano l'occupazione
di Pisa, ma insidiavano Pietrasanta e Sarzana. Per tali ragioni si
accoglieva l'ambasceria dei Pisani, che offrivano di congiungersi
perpetuamente con la Repubblica genovese, pronti ad accettarne le leggi.
Ma qui cominciavano ancora i dissensi. Erano nel Senato nobili e
popolani, cioè famiglie antiche feudali, e famiglie di popolo grasso,
salite ai primi gradi, ma non tenute pari a quell'altre, che pur da
talune popolari avevano lasciato occupare il dogato, designandole un
pochettino a scherno col soprannome di Cappellazzi. Erano queste le
famiglie dei Fregosi e degli Adorni, dei Montaldi e dei Guarchi, sempre
appoggiate a questa o a quella delle famiglie nobili, o feudali, dei
Fieschi e dei Grimaldi da un lato, dei Doria e degli Spinola dall'altro.
Ma l'appoggio era dato in guisa, che, le rivalità continuando tra i
Cappellazzi, non potesse mai prosperare e soverchiare una parte di loro,
e i nobili godessero tranquilli fuor di città i loro dominii feudali,
lavorando ancora ad estenderli come potessero, gli uni con la prevalenza
della parte guelfa, gli altri della parte ghibellina in Italia. Guelfi i
Fieschi e i Grimaldi, dovevano facilmente trionfare nei secoli XIV e XV,
in cui cadevano quasi da per tutto in Italia le fortune imperiali. Doria
e Spinola, dal canto loro, dovevano presto rifarsi, colla protezione di
Spagna. Intanto, nel periodo incerto della prevalenza francese in
Italia, e guelfi e ghibellini, essendo nobili tutti, parevano sentirla
ad un modo, per opporsi alle ambizioni dei popolari; onde si vide nel
primo trentennio del secolo XVI andar pienamente d'accordo i Fieschi coi
Doria.

Tornando alle offerte di Pisa, com'erano fatte solennemente al Senato
genovese, proponevano i popolari di accettarle, soccorrendo quella nobil
città, non senza concedere ai Pisani la cittadinanza di Genova, e
mandando famiglie genovesi quante più si potesse a stabilirsi in Pisa.
Consiglio generoso e prudente era quello; ma non poteva piacere a Gian
Aloise Fiesco, vicario e capitano generale della Riviera di Levante.
Pisa soccorsa con un esercito pari al bisogno, altro non significava che
la Riviera di Levante aperta a quell'esercito; onde per allora scemata
l'autorità del capitan generale, e in processo di tempo perduto l'util
dominio di quel vicariato. Pisa soccorsa con poca gente, significava
vittoria dei Fiorentini, col loro voltarsi minaccioso non pure contro
Pietrasanta e Sarzana, ma ancora e più contro i dominii feudali dei
Fieschi.

Di qui la opposizione che alle offerte dei Pisani aveva fatta Gian
Aloise in Senato, mettendo innanzi che non si potesse far nulla senza
il beneplacito del re Cristianissimo, a cui Genova si era data in balìa.
E perchè il re Luigi si trovava allora di qua dalle Alpi, si sentisse
lui, se n'esplorasse l'animo, prima di deliberare il soccorso di Pisa.
Così nascevano le due ambasciate d'ufficio; una ai Pisani, per dar buone
parole, l'altra al re Luigi, per averne il parere.

Ma il re Luigi doveva rispondere in quel modo che al Fiesco tornasse più
utile. E perchè la risposta volgesse favorevole alle ambizioni del
potente signore, andavano lettere di costui; portate da un suo
fidatissimo uomo, a quel re. In pari tempo occorreva guadagnar l'animo
dei Pisani, mandando loro un altr'uomo per chiedere se il valido e
sicuro aiuto d'un gran signore genovese non potesse convenir loro assai
più dell'incerto e scarso che dar poteva il Senato. Certo, ponendo in
questa forma il dilemma, i Pisani non avrebbero esitato un istante. E
perchè il re Cristianissimo si sarebbe acconciato ai fatti compiuti,
occorreva che l'uomo mandato ai Pisani fosse destro negoziatore e
capitano risoluto ad un tempo, cioè pronto a tirar dentro un grosso di
soldatesche, già preparato a due terzi di strada, per unirlo a difesa
della città con le forze di Pisa, comandate allora da Tarlatino di Città
di Castello, un condottiero che si poteva sperare di trar bellamente
agli interessi del futuro padrone.

Bartolomeo Fiesco era stato a sentire, tanto più attento, quanto più a
lui era rivolto il discorso; come spesso occorre nelle assemblee grandi
e piccole, che gli argomenti tutti dell'oratore e tutti i lenocinii
dell'arte sua mirano sempre ad uno tra gli ascoltatori, e gli altri
sono come zeri, destinati a far numero con quella unità. Certo, se il
capitano Fiesco accettava di esser egli l'uomo per Pisa, il partito di
soccorrer questa con le forze dei Fieschi era vinto; il re
Cristianissimo avrebbe approvato il fatto; Gian Giacopo Trivulzio
sarebbe rimasto colla voglia; i popolari genovesi non avrebbero più
potuto alzare la testa; mentre dal canto suo Gian Aloise avrebbe
posseduta di schianto una tal potenza principesca, da pesar poi, bene o
male, ma sempre moltissimo, sulla bilancia mal certa delle fortune
d'Italia.

Ma il capitano Fiesco non voleva esser quell'uomo. Più sentiva ragioni
che lo dovessero smuovere, più ne trovava da opporre. Lo aveva giudicato
male, il suo eccelso parente, argomentando di lui da sè stesso.

--Ahimè!--diss'egli, quando vide venire quell'altro a mezza
spada.--Riconosco la bellezza audace del vostro disegno; ma tanta
bellezza e tanta audacia non sono il fatto mio. Senza contare che io non
son destro ai maneggi politici, e mi ci troverei davvero come un pesce
fuor d'acqua, penso che nella parte militare dell'impresa fallirei per
precipitazione, che è il guaio dell'indole mia, e di cui non son mai
riescito a guarirmi. Troppo grande è il carico che vorrebbe darmi la
vostra fiducia, ed io sono troppo piccolo uomo.

--Ma pensate,--replicò Gian Aloise, non vedendo altro nella risposta del
capitano Fiesco che un effetto di modestia soverchia,--pensate che
sareste spalleggiato da tutti. Duemila uomini son pronti a Sarzana, e
mille a Pontremoli; tutta gente che al vostro cenno correrebbero sotto
Pisa. Non vi parlo della gente che ho tra Rapallo e Lavagna, che ben
sapete quant'è. L'avreste tutta, come si suol dire, sotto la mano.

--Ripeto, non è il fatto mio;--ribattè Bartolomeo Fiesco.--Voi mi fate
più esperto capitano che io non mi sia mai sognato di essere. Chi ha
comandato i cento, e magari i cinquecent'uomini, può ritrovarsi con
diecimila impacciato come un pulcino nella stoppa.

--Eh via! s'ha da credere? Chi è stato a tanti sbaragli, meritando la
lode e l'affetto del vicerè delle Indie occidentali, non vorrà mica
perder la testa in una faccenda che deve andare da sè.

--Se deve andare da sè come Voi dite, perchè metterci a capo un uomo che
mostrate di stimare più ch'egli non sia stato mai? Ogni altro, che abbia
risolutezza, dovrebbe bastare.

--Risolutezza e perspicacia;--ripigliò Gian Aloise.--E perspicacia ed
ambizione di far bene. Non avete Voi ambizione?

--No;--rispose Bartolomeo Fiesco.

--Per un Fiesco, è nuova;--ribattè Gian Aloise.--Per Bartolomeo delle
Indie, è strana.--

Lo toccavano sul vivo; e naturalmente gli saltò la mosca al naso; che la
pazienza non era mai stata il suo forte.

--Ecco;--diss'egli, assumendo a suo modo una cert'aria di gravità e
promettendo colla solennità dell'accento un lungo discorso;--facciamo ad
intenderci. Ne ho avute, delle ambizioni; e potrei averne ancora, ma in
un campo diverso. Bartolomeo delle Indie, avete detto, e sta bene.
Rimandatelo dunque alle Indie. Qui si fanno gran cose, che potranno
riuscir piccine alla prova; laggiù si fan cose piccine, che potranno
esser grandi. E questo, badate, non per diverso vedere, ma perchè laggiù
si taglia dalla pezza, potendo fare una cappa da gentiluomini, mentre
qui si raccozzano scampoli e stracci, volendo cucirsene un manto reale.
Perchè questo? Perchè qui siamo gli eredi di un gramo passato, e in
molti e in troppi ci contendiamo un osso già spolpato da Goti e Greci,
da Longobardi e Franchi, da Ungheri ed Alemanni; un osso, mi capite? che
oggi han preso a smidollare Francesi e Spagnuoli. Laggiù, vivaddio, non
si è eredi di nessuno; laggiù si può esser magari gli autori della
stirpe e gli arbitri del futuro, preparandolo con libertà, bene o male,
meritandone la gratitudine o le maledizioni dei posteri.

--Spaziate come un'aquila, cugino!--esclamò Gian Aloise.

--E sarò un nibbio, poi;--rispose il capitano Fiesco.--Ma vedo, se
permettete, un orizzonte più largo di questo; forse perchè ho viaggiato
di più in compagnia d'un uomo grande, l'unico grande che mi offrano le
storie, non escluso quel Carlomagno a cui si riferiscono le nostre
vanità, quando vanno più alte. Il mio grand'uomo, col suo ingegno e
colla sua costanza, ha trovato un mondo nuovo; quell'altro, con la sua
forza, con la sua onnipotenza, non è riuscito se non a rimpiastricciare
il vecchio, che gli è rimasto poi sempre un lavoraccio.

--Povero a voi, se foste vissuto a' suoi tempi! neanche un paladino
avreste voluto diventarci?

--Chi sa? Ed avrei forse ottenuto il gran titolo, facendo imprese da
cantarsi in piazza per rallegrare la gente. Questa che noi faremmo,
avendo la Riviera di Levante per via, e la foce d'Arno per meta, sia
pure importante come a Voi pare; ne posso ammettere l'utilità, non ne
vedo la grandezza, non ne sento il desiderio. Perdonate, illustre
cugino; e possa cascarmi la lingua, se ho qui la più lontana intenzione
di spiacervi; verrà giorno che anco dei Fieschi si perda il nobilissimo
seme. Già, con tanti vescovi, cardinali e papi nella nostra famiglia,
niente è più probabile di questo. Ed altre ne periranno egualmente, meno
nemiche nel corso dei secoli al precetto divino del _crescite et
multiplicamini_. Ma delle une e delle altre sarà molto che duri fra
mill'anni il confuso ricordo; laddove fra diecimila, se tanti ne camperà
questo povero globo, resterà viva la memoria della maravigliosa scoperta
di Cristoforo Colombo, lanaiolo e marinaio. Di me chi ricorderà che
giovane ho combattuto in patria, per utile degli Adorni e per danno dei
Fregosi? Un cenno fortuito di cronaca, forse, che anco potrà esser roso
dai tarli e travolto nella cesta delle cartacce. Ma le storie diranno,
ne ho fede, ai più lontani nepoti, che ero ancor io alla maravigliosa
scoperta, e che ai pericoli del mare ignoto fu recato per opera mia un
po' del buon sangue marinaro di certi conti venuti su da Lavagna.

--Questi poveri conti ve ne ringrazieranno dai loro sepolcri;--notò Gian
Aloise imbizzito.

--E faran bene, vedete?--ripigliò senza scomporsi Bartolomeo Fiesco.--I
vecchi, infatti, che oggi si gloriano di tante cose destinate a perire,
avranno ottenuto nella persona mia la loro parte di gloria vera,
nell'opera stupenda, indimenticabile, eterna, d'un uomo nuovo, d'un
marinaio, d'un lanaiuolo. Ecco la mia ambizione, Gian Aloise; la quiete,
oramai, non avendo più nulla a fare di ciò che m'era più a grado, e il
cuore avendo pur esso i suoi diritti; la quiete della mia bicocca, e la
certezza d'una pagina non brutta nella storia del mondo. Soldato ero, e
al bisogno potrei ritornare, se fossero in giuoco l'onore e la sicurezza
dei Fieschi. Avessero anche il torto, non istarei a guardare, e dal
posto mio non mancherei all'appello. Ma questo per difesa, e sentendo la
voce del sangue. Ci sono obblighi sacri, come ci sono necessità
ineluttabili. Anche il primo dei filosofi, uso alle più ardue
speculazioni della mente, mangia beve e dorme e veste panni come
l'ultimo degl'imbecilli. Facciamo l'obbligo nostro, cediamo alle
necessità della vita; ma il pensiero sia libero, e resti il cuore nei
vincoli cari ch'egli stesso s'è imposti. Non mi date ragione?

--Siete un bel matto;--disse Gian Aloise, ridendo.

La masticava male, per altro, e non rideva di cuore. Come avrebb'egli
potuto, dopo quella intemerata del suo caro parente, la cui poca
ambizione gli guastava in un punto i superbi disegni? Il potente signore
di cinquanta castella, da Montobbio a Pontremoli, vicario e capitano
generale della Riviera di Levante da Rapallo a Sarzana, principe del
Senato e quasi protettore della Repubblica di Genova, non aveva tra
tanti consanguinei, nè tra gli aderenti più saldi, l'uomo che potesse
andare a Pisa per lui. O piuttosto ne avrebbe avuti cento, ma non
adatti, non arnesi, come suol dirsi, da bosco e da riviera, diplomatici
ad un tempo e soldati, accorti per tastare il terreno, dare indietro
senza parere, o andare fino al fondo senza esitare un istante. Avveduto
com'era, l'eccelso Gian Aloise non voleva dare un passo se non era certo
del fatto suo, bene sapendo che in un fallo commesso, e non riparabile,
egli avrebbe perduta, non che l'impresa, la fama.

Rise, adunque, ma per dissimulare la stizza; e rimase freddo, ostentando
di parlar d'altro. Freddi al pari di lui rimasero gli altri della nobil
casata; tra i quali Emanuele ed Ettore Fieschi erano certamente i più
ragguardevoli dopo di lui. Freddissimi poi i tre giovani figli di Gian
Aloise, che erano per ordine di nascita Geronimo, Scipione e Sinibaldo;
i primi due destinati a morir presto, e il terzo a raccogliere l'eredità
di tutti, avendo poi da Maria della Rovere l'ultimo dei Gian Luigi, e il
più famoso per la sua tragica fine. Tutti costoro si sentivano un po'
offesi, più ancora che dal rifiutato viaggio di Pisa, dalla poca stima
che il capitano Fiesco faceva dei nobili di antica stirpe, a paragone
d'un uomo nuovo, d'un lanaiuolo, che aveva scoperto il nuovo Mondo.
Scoprire un nuovo Mondo, gran che! Ciò poteva toccare in sorte ad ogni
marinaio, sbalestrato dalle tempeste lontano dai lidi conosciuti. Vincer
battaglie, occupar terre murate, sbalzar rivali di seggio, ottener
signorie, era quello il gran fatto, da cui si riconosceva la bontà dei
cavalieri antichi. Mettere un oscuro lanaiuolo più su della loro
prosapia! una prosapia discendente per più o meno sicuri rami del real
sangue di Borgogna! Ma tanto valeva allora dichiararsi partigiano dei
Popolari, che finalmente, se non erano nobili feudali, in gran parte
avevano contratto parentado con essi, e da trecent'anni si erano
illustrati nelle più alte magistrature della repubblica.

Filippino, da ultimo, non sapeva che pesci pigliare. Se in quel momento
non gli fosse passata davanti agli occhi la immagine di Fior d'oro,
lasciandogli intravvedere anche il pericolo di non accostarsi più a lei,
certamente egli avrebbe rizzato muso più di tutti al suo pazzo
congiunto. E dire che era stato lui, Filippino, a metter gli occhi sul
capitano delle Indie, per la commissione di Pisa; lui a muoversi per
Chiavari e andarlo a cercare in Gioiosa Guardia, per condurlo davanti
all'eccelso Gian Aloise! E dire che di quella impresa si era tanto
lodato in cuor suo! Che figura doveva essere in quella vece la sua, nel
cospetto del signor di Vialata, che tanto si riprometteva da
quell'alzata d'ingegno del giovane innamorato!

Il capitano Fiesco aveva preveduto l'effetto del suo rifiuto sull'animo
di Gian Aloise; a quella freddezza si era ben preparato. Perciò, vedendo
languire la conversazione, e per cagion sua, non volle restare a farla
morire del tutto, nè altrimenti mostrarsi impacciato.

--Ad un povero cavaliere,--incominciò egli allora,--ad un povero
cavaliere che non vi può servire a nulla (e potete credere che gliene
dolga nel profondo dell'anima) Voi concederete licenza di ritornare alla
sua bicocca, non è vero?--

Gian Aloise fece da principio un gran cenno del capo, che pareva un
segno di condiscendenza dell'olimpio Giove. Quindi con gravità
d'accento, onde trapelava un pochettino d'ironia, lasciò cadere dal
labbro queste misurate parole.

--Non piaccia a Dio che vogliam dare alla nostra cara figlioccia
maggior dispiacere di quello che ha avuto, restando un giorno lontana
dal suo dolce marito. Ad un pronto commiato, che voi mostrate di
desiderare senza neppur trattenervi alla nostra tavola per quest'oggi,
mettiamo per altro una condizione, che troverete onesta ed assai
temperata. Alla regina di Xaragua, che fu donna d'alto cuore e di forti
propositi, riferirete tutto ciò che vi abbiamo detto, e la prova di
fiducia che eravamo disposti a darvi. Così, buon cugino, avremo conforto
a pensare che per la prima volta forse, ma non senza giusto motivo, la
contessa Juana sentirà un po' diverso da Voi; in fatto di ambizione, per
esempio, ed anche in fatto di amicizia. Lasciatemelo dire,--soggiunse il
vecchio gentiluomo, vedendo che il capitano Fiesco faceva l'atto di
provarsi a rispondere,--perchè davvero vi siete mostrato più tenero
della quiete vostra che della mia amicizia. Non la perdete, però; Gian
Aloise Fiesco ha il cuore più alto che la gente non creda.--

Il capitano Fiesco pensò che fosse meglio star zitto, lasciando
all'eccelso parente la soddisfazione d'aver parlato per l'ultimo.
Altrimenti, di parola in parola, Dio sa quel che sarebbe avvenuto;
questo, ad esempio, ch'egli si sarebbe ripigliati tutti i suoi buoni
argomenti, li avrebbe appesi all'arcione, e sarebbe corso a spron
battuto su Pisa.

S'inchinò, dunque, con aria di molta confusione, e non disse parola in
risposta a quel discorso agrodolce di Gian Aloise.

--Mi permetterete,--balbettò in quella vece,--di offrire i miei omaggi a
madonna Caterina?

--Potete andare; è laggiù nelle sue stanze.--

Il capitano Fiesco non se lo fece dire due volte, e si allontanò,
salutando con molta disinvoltura tutta la sua illustre casata.

La nobile Fiesca era là, a pochi passi dalla caminata, nell'anticamera,
o, per usar la lingua del tempo, nella "guardacamera" della sua sala di
ricevimento. Non ci voleva molta perspicacia ad intendere che la signora
contessa era stata in ascolto alla toppa dell'uscio. Ella stessa, del
resto, lo confessò candidamente al suo visitatore.

--Vi ho udito;--diss'ella.--Vi eravate molto animato, e non ho perduto
neppur una delle vostre parole.

--Immaginate, madonna Caterina;--rispose egli umilmente,--come io sia
addolorato di non aver potuto rispondere meglio alla fiducia del vostro
eccelso consorte.

--Non vi addolorate, cugino;--replicò la nobil signora.--Il mio cuore di
donna vi ha dato ragione. Ma son cose da proporsi? ad un giovanotto che
da un anno appena ha impalmata la più bella e la più cara creatura del
mondo? E che idee di grandezza nuova son queste, che possono mettere a
repentaglio l'antica? Che follìa, poi, di rendere, con sempre più vaste
ambizioni, scontenti i figliuoli del loro stato presente, che è già così
alto, e tanto invidiato?

--Intendo la madre:--notò Bartolomeo Fiesco;--ma la discendente di
Aleramo potrà forse giudicare più benignamente le vaste ambizioni di
Gian Aloise.

--V'ingannate, cugino. La discendente di Aleramo sa che il grand'uomo si
attenne alla marca che gli era stata data in custodia, nè volle alzar
gli occhi, o metter la mira più in alto. E Guglielmo Lungaspada, e
Gerberga sua moglie, amarono far lignaggio di cavalieri contenti al più
modesto ma ancora assai nobile ufficio di governare pacificamente un
popolo di quieti ed onesti lavoratori. Lungi dal pensiero di accrescere
il dominio, o di tenerlo raccolto in un ramo della famiglia, lo
spartirono equamente tra i loro figliuoli; e dove le città della
spiaggia, fatte ricche dal mare, vollero esser padrone di sè, non furono
i signori del Carretto quelli che si ostinarono a tenerle sotto tutela.
Quando poi la cupidigia e l'ingiustizia tolsero ad uno di loro la parte
sua, e che voleva esser sua per vincolo di amore, sapete bene che Dio
non tardò a reintegrarne la famiglia nel suo giusto possesso. Ed io
vengo di là, buon cugino; vengo da quel dolce Finaro che sempre tenne
fede ai miei padri, meritando ch'essi non levassero gli occhi a cose più
alte, ma più vane, e più pericolose per giunta.--

Così parlava il cuore d'una madre. Sentiva egli già, cuore presago, le
matte ambizioni condurre a ruina la casa? Quarantadue anni ancora, e
nell'ambizioso figliuolo del suo Sinibaldo non pure la grandezza della
casa doveva perire, ma la istessa progenie dei Fieschi.




CAPITOLO VI.

Filemone e Bauci.


Era partito per Genova con una scorta di sei balestrieri a cavallo, non
volendo scomparire con la gente di messer Filippino, e piacendogli di
onorare per una volta tanto il suo antico luogotenente Giovanni Passano,
diventato in certo qual modo suo genero, ma sopra tutto suo "alter ego"
in Genova per ragion di negozi. Quanto a sè, viaggiava volentieri da
solo, come quando al suo ritorno dal forte di San Tommaso, davanti alle
cascatelle del rio Verde, era caduto nella imboscata dei selvaggi di
Maguana; ricordo piacevole, com'è sempre quello d'un pericolo corso e
scampato; ricordo piacevolissimo, perchè dal pericolo di morte gli era
venuto il suo raggio di vita, alla presenza di Anacoana, la bellissima
tra le belle, la perla di Haiti, il fior di Xaragua.

Povera madonna Catarina Bescapè della piazza del Regisole in Pavia, come
impallidivate al paragone! Già non eravate più che un'ombra, una larva,
come tutte quelle giovani bellezze di Cuba e di Haiti, Samana Taorib,
Caritaba non meno Taorib, Abarima più Taorib di tutte, e non meno
dimenticata anche lei. Il gran sole di Maguana aveva facilmente
dissipate quelle visioni dell'alba, tessute di nebbia e di follìa.
Com'era bello quel sole! e come aveva trasfigurato anche l'uomo su cui
aveva posato il suo raggio! La migliore tra le donne aveva inteso il
gran cuore di Damiano, per mezzo alle follìe della baldanzosa gioventù,
e di quel cavaliere capriccioso aveva fatto con l'amor suo un gentiluomo
severo, un fior di senno. Ci voleva una gran fiamma per domar lui, per
farne un altr'uomo. Così la fanciulla ardita va di buon passo alla fonte
lontana, saltellante e leggera con la sua brocca di rame, che ad ogni
moto del fianco le vacilla sul capo; ma torna diritta ed austera al
villaggio, sapendo che del prezioso umore non dee versare una goccia.

Damiano (perchè sempre un po' di Damiano ha da trovarsi nei panni di
Bartolomeo Fiesco) non voleva perdere una goccia della sua felicità.
Bella! bella! bella! andava ripetendo egli dentro di sè, a guisa di
giaculatoria, mentre scendeva a gran passi la cordonata del palazzo di
Gian Aloise. Donde sarà lecito argomentare che non pensasse più affatto
ai discorsi tenuti lassù; o che piuttosto ne ricordasse uno solo,
l'ultimo, il più breve e il più caro. Caterina del Carretto nei Fieschi,
parlandogli della contessa Juana, l'aveva esaltata a ragione come la più
bella creatura del mondo. E voleva dirglielo, a sua moglie, appena fosse
rientrato in Gioiosa Guardia: "così, dolce amica, siete stata giudicata
da una gran dama che se ne intende; e in Genova, badate, nella città
fortunata, dove le belle donne si trovano a macca, come sui nostri
Appennini i ceppatelli e le uòvole alla prim'acqua d'agosto."

Frattanto, voleva pensare a lei; e per questo, se era venuto in troppa
compagnia, intendeva di ritornare da solo. La cosa non doveva esser
difficile, poichè il Passano restava a Genova, e messer Filippino, a Dio
piacendo, trattenuto a consiglio in Vialata, non aveva pretesti per
rifare il viaggio.

Sceso in fretta alla chiesa dei Servi, risalito per Rivalta alla porta
Soprana, ridisceso dal Prione a San Donato, e di là per la via di
Chiavica riuscito in Canneto, svoltò da un vicolo nella strada di San
Lorenzo, strettissima allora, quasi serrata nel fianco sinistro del
Duomo, e tutta fiancheggiata dalle case dei Fieschi, mentre dall'altra
parte si stendevano quelle dei Doria. Vialata era pei Fieschi una
novità; e chiesa e palazzo e giardini erano stati edificati nel secolo
XIV, su terreni a bella posta comperati dai De Marini. Il grosso delle
case dei conti di Lavagna era stato da prima, e durava ancora nei pressi
del San Lorenzo; ci aveva un suo palazzo l'istesso Gian Aloise; ci
avevano le lor case Emanuele e Gian Ambrogio Fieschi; poco lontano da
essi, in Canneto, ci aveva la sua Ettore Fiesco, del ramo di Savignone;
e in fila con essi Bartolomeo Fiesco la sua, abitata allora dal suo
quasi genero Giovanni Passano.

Salutato costui e lasciatogli le sue istruzioni, preso commiato dalla
adolescente sposa di lui, che sperò invano di ritenerlo qualche ora,
mosse per San Domenico alla porta di Santo Stefano, fuor della quale lo
attendeva Pietro Gentile colla scorta dei balestrieri a cavallo. Ed era
anche là il suo fido ronzino Talavera, un cavallone che pareva una
montagna, leardo moscato, di gran collo, di gran petto, forte di
garretti e di groppa, bestia soda e potente, come usavano allora, da
portare in arcione uomini vestiti di ferro.

Prima di mettersi in cammino, messer Bartolomeo disse a Pietro Gentile:

--Tu ora va innanzi con gli uomini; io seguirò ad una certa distanza.
Vorrei procurarmi l'illusione di andare da solo. Così mi parrà di
ritornare ai tempi che ero scolaro, e me ne andavo da casa, per i monti,
allo studio di Pavia.

--Come volete, messere;--rispose lo scudiero.--Ma per rinfrescarvi.... e
per rinfrescarci....

--Volevo ben dire se non pensavi a te!--interruppe il capitano Fiesco,
ridendo.--Rinfrescherai gli uomini e te quante volte ti parrà
necessario, o ti farà invito una frasca che t'abbia lasciato buon
ricordo di sè. Ed anche ti fermerai in ognuno di quei luoghi ad
attendermi: arriverò, berrò un sorso ancor io, e vi pagherò lo scotto.
Quanto a rifocillarci, che te ne pare di Ruta? È a mezza strada; e di
lassù si vede casa nostra; quasi se ne sente l'odore.

--L'odore della scuderia fa correr meglio il cavallo;--notò Pietro
Gentile.

--Ci pensavo per l'appunto;--replicò il capitano.--Siamo dunque intesi.
Andate, nel nome di Dio!--

La cavalcata si mosse, e Bartolomeo Fiesco la lasciò andare un bel
tratto, fin che non ebbe passato tutto il sobborgo. Poi si mise a sua
volta in viaggio, andando di portante lungo la sponda destra del
Bisagno, fino al ponte di Sant'Agata, e di là per Terralba a San Martino
d'Albaro. Nelle salite, s'intende, lasciava il portante, e prendeva il
galoppo.

La strada di Levante faceva allora più sghembi che non ne faccia ora,
con tanti mutamenti e allargamenti di vie provinciali. Ma non riusciva
neanche troppo più lunga per l'uomo a cavallo, che fra trotto galoppo e
portante non impiegava più di cinque ore dal ponte di Sant'Agata sul
Bisagno a quello di Santa Maria Maddalena sull'Entella.

Felice come uno scolaro in vacanze, proseguiva il cavaliere la sua via.
Non aveva più sopraccapi a molestarlo, e il cuore gli si gonfiava
d'allegrezza. Guardia Gioiosa! Guardia Gioiosa! le tue torri erette,
ancora tanto lontane, le vedeva egli con gli occhi del desiderio ad ogni
svolta della strada romana, ad ogni radura di bosco, ad ogni squarcio di
valle, a Quinto, a Nervi, a Bogliasco, tra gli smeraldi e le perle di
quella cintura nuziale che il monte Fasce e il monte Moro, accigliati
cavalieri, ma non altrimenti insensibili, sembrano offrire alle ninfe
del golfo. Più in là Sori e la sua Pieve sbucavano occhieggiando dalle
loro vallette tutte coperte di olivi, di limoni e d'aranci; ancora più
in là si stendeva Recco, orgogliosa della sua valle più larga, dalle
sponde ricche di pampini, dai gioghi vestiti di castagni e di roveri. A
lui pareva di vedere per la prima volta quelle bellezze di terra, di
mare e di cielo. E perchè no? Non era egli rinato, quel giorno, se
usciva illeso da un grande pericolo? Grande, sì certamente. Andare a
Pisa, ambasciatore e soldato, che si canzona? e col rischio, anzi con
la certezza di doverci metter le barbe, di sostener magari un assedio, e
d'esser pronto ad ogni sbaraglio! Bella cosa in altri tempi per lui: ma
allora! allora, poi, Gioiosa Guardia e non più.

Alle osterie dove lo aspettavano i suoi balestrieri, beveva volentieri
come un altro Passano. Amava classicamente il vino, pel colore, ancor
più che non lo amasse pel sapore, quantunque al sapore non diniegasse
giustizia. Al vino avrebbe fatto un inno in versi, se avesse avuto
tempo, perchè in gioventù era stato poeta anche lui. Non potendo in
versi, glielo faceva in prosa. E gli accadeva di lodarlo perfino
cattivo, o mediocre; specie quel giorno, che ogni bicchiere gli segnava
una stazione del viaggio felice, e pareva infondergli nuovo vigore alla
corsa. Con che giubilo si mosse da Recco per la grande ascesa di Ruta,
lasciandosi sotto, dalla sua destra, il grappolo delle case bianche di
Camogli, sospeso come un nido d'alcioni alla rupe! Non c'era pericolo
tuttavia che quel grappolo facesse un capitombolo in mare, essendoci
laggiù per guardia, sovra una lingua di terra, il chiesone di san
Prospero, niente disposto a gradire lo scherzo.

Oltre Camogli si dilungava in alto mare il promontorio di Portofino,
vasto scenario azzurro che da Genova fin là gli aveva impedita la vista
di Chiavari. Quel promontorio egli ricordava d'averlo corso tutto fino
alla sua estremità, in una cui piega aveva visitato San Fruttuoso di
Capodimonte, la vecchia abbazia il cui prospetto chiudeva tutta quanta
la spiaggia, ma invitava ad entrare per i suoi porticati, tanto che
c'entrava qualche volta anche il mare, quasi in atto di rivolere le
barche, tirate là sotto dai pescatori a rifugio.

--Vedete quel Doria!--pensava egli, mentre sul colmo di Ruta, davanti
all'osteria del Pavone, sbocconcellava il suo mezzo pollo. L'hanno
intesa, la pace, come va preparata e goduta, fabbricando quella abbazia
solitaria, dopo l'altra di San Matteo entro le mura della città
rumorosa. L'hanno intesa, sì, ma per andarla a godere dopo morti. E
nondimeno abbiano lode, per aver capita la vanità delle cure mondane. A
che serve tanto combattere? a che serve esser signori di Genova, o di
Pisa, o di casaldiavolo? Mi direte: se i tuoi maggiori avessero pensato
come te, caro, non saresti qui ora a sgranocchiare un pollo, e a
rinfrescarti l'ugola con un bel calice di vin di Vernazza, accanto al
tuo Talavera, che pare il cavallo di Troia, fra i tuoi balestrieri che
aspettano il tuo comando per rimontare in arcione; avresti forse di tuo
una scure, e faresti il boscaiuolo nelle macchie dell'Appennino, felice
abbastanza di poterti dissetare ad una scarsa fontanella, dopo avere
inghiottito a forza due necci, o stancate le mascelle intorno ad una
mezza pagnotta di pan vecciato. Adagio, Biagio! chiarirò il mio
pensiero. Certamente l'uomo deve operare, industriarsi in qualche nobile
impresa, combattere magari, a piedi e a cavallo; ma per l'onore della
sua gente, per la grandezza e per l'utilità della patria. E ci fu un
tempo, ci fu, che tutti si faceva così; e a chi non faceva così, a chi
lavorava per sè, per guadagnar signorìa, i consoli spianavan le case,
come a Fulcone di Castello buon'anima sua. Ma poi, che cos'è avvenuto?
arraffa tu, che arraffo io. Se almeno quel che arraffiamo di qua ce
l'avessimo a portare di là! Tanto severo è san Pietro! Con le persone
lascerà passare anche le bazzicature? Oh, riveriti e potenti baroni,
siate i ben venuti al _refugium peccatorum_. C'è appunto di là, ai primi
posti, una panca vuota. Si farà presto a metterci anche uno stramazzo
per voi "eccelsi, illustri et magnifici viri". Ah sì, aspettatelo, che
venga a parlarvi così! Badate piuttosto alle chiavi.--

Dopo Ruta, San Lorenzo alla falda del monte, e Santa Margherita in una
insenatura del bel golfo Tigulio, e Rapallo nobilmente seduta alla
spiaggia, in aspetto di città che attende maggiori destini, con la valle
Christi laggiù a sinistra nel piano verdeggiante, e monte Allegro, ben
degno del nome, là in alto. Grande azzurro di cielo, gran turchino di
mare; una corona di monti che pare anfiteatro di giganti in Tessaglia:
una valle che par quella di Tempe; uno specchio d'acque tranquille entro
una cornice di maraviglie ridenti al sole, che dà l'idea d'un pezzo di
paradiso; o sire Iddio, quante bellezze aggruppate! Ma il cavaliere non
le guarda neppure: salta perfino Zoagli, gala di merletti pendente sullo
sparato della costa di Leivi, non vedendo, non intendendo, non
desiderando altro che un lido biancheggiante di là dalle case di
Rovereto. Le fermate dei rinfreschi si son fatte più rade e più corte;
anche il cavallone di Bartolomeo Fiesco va più franco e più rapido.

--O Talavera! o gran bestia!--gridava il cavaliere, più allegro che
mai.--Tu sei maraviglioso d'intelligenza, quantunque ignorante di
cosmografia quanto il personaggio di cui porti il nome. Ma che importa a
te la cosmografia? Una cosa sai tu, e la sai bene; che a Gioiosa Guardia
t'aspetta una bella scuderia, una buona strigliata, non senza la fortuna
di una morbida mano che ti palpi il gran collo. Non è così, Talavera? E
nitrisci, briccone! Nitrirei anch'io, se fossi nella tua pelle. Ma
parlo, io, che quasi non posso star più nella mia; spando le mie parole
al vento, per provare il gusto di sentirle, e sperando che un soffio ne
arrivi laggiù, ripercuotendosi dietro la piega di quel monte, da San
Pietro delle Canne a San Salvatore, da San Salvatore a Paggi, alla
Gioiosa Guardia, al mio nido.--

Di monologo in monologo era giunto a Chiavari e alle rive dell'Entella.
Sul ponte della Maddalena fece la fermata un po' lunga. Era quella una
sua divozione, di cui la contessa Juana non era gelosa, avendo imparato
a rispettarla, anzi partecipandovi anch'essa. Un gran pellegrino era
passato di là, e si era fermato ad ammirare la fiumana bella da quel
medesimo ponte, durato intatto fino ai dì nostri. Ed era bello, il ponte
della Maddalena; quasi bello come il suo fiume, che è tutto dire. Oggi
l'hanno allargato, e credo, Dio ci perdoni, anche rintonacato.

--O padre Alighieri!--esclamò Bartolomeo Fiesco.--Tu ci sei passato, di
qui, esule pellegrino; e li hai veduti, i miei maggiori, ed uno di loro
hai fatto parlare nel tuo sacro poema. Li hai veduti, e certamente ti
sei maravigliato che non sapessero contentarsi della potenza loro, già
così grande, e sopra tutto non ne intendessero i veri uffici, che erano
e sarebbero ancora, se non prendo abbaglio, di render prospero e felice
un popolo affidato alla loro tutela, in mezzo a tanto sorriso di natura,
a tanta benedizione di frutti, e del suolo e del mare. E non essi
soltanto hai veduto fallire alle speranze della patria, che ancor oggi
domanda rimedio a' suoi mali; che "le terre d'Italia tutte piene son di
tiranni, ed un Marcel diventa ogni villan che parteggiando viene". Oggi
come allora, e peggio d'allora. Quando sarà finita? Mai, se noi stessi,
che la potenza aiuta e la storia ha confermati, non vogliamo dare
l'esempio. Non vogliamo? È presto detto, e forse è più vero che oggi
come oggi non ne abbiamo più il modo. Triste cosa, assai triste, vedere
il bene ed esser travolti dall'onda prepotente del male. E poi? e poi
verrà un'ondata più alta, più vasta, più forte, come quelle che ho viste
io nell'Atlantico, che ci soverchierà tutti quanti, parte inghiottendo
senza misericordia, parte restituendo alla luce del sole, ma istupiditi
ed impotenti, raggomitolati sulla rena a piangere la comune miseria coi
nostri nemici d'ieri, come noi mal ridotti, istupiditi come noi,
impotenti come noi a rimettersi in piedi. "Ahi, serva Italia, di dolore
ostello!" Ma queste cose non pensa l'eccelso Gian Aloise; ed anche è
inutile che le ricanti io, suo piccioletto parente. "Ei s'è beato, e ciò
non ode". Dategli Pisa; vuol Pisa, lui, per tenerla come tien Genova,
col dubbio favore di questi, con la ostilità palese di quelli, coi
mutabili umori degli uni e degli altri, dipendente egli stesso
dall'autorità di un re straniero, le cui fortune posson crescere e
calare, e se cresciute soffocarlo, se volte in basso trascinarlo nella
caduta. Son questi i tuoi accorgimenti, eccelso Gian Aloise. Me ne son
fatto fuori, quest'oggi, e torno alla mia pace, al sorriso del mio cielo
e della mia donna. Ma durerà questa pace, per coloro che se ne mostrano
degni, intendendola? E a noi, meno alti e meno ambiziosi rami del tronco
di Lavagna, non toccherà d'essere involti nella rovina che a sè prepara
il ramo maggiore? Perchè questo, o prima o poi, se le ambizioni
crescono, avverrà senza fallo.--

Il monologo era riuscito quella volta un po' lungo; ma il ponte della
Maddalena lo meritava. Aggiungete ch'era l'ultimo. Bartolomeo Fiesco diè
di sprone al cavallo; e Talavera, che non aspettava altro, spiccò un
salto e prese subitamente il galoppo per la strada di San Salvatore e di
Paggi, dove da un quarto d'ora lo avevano preceduto i compagni, sentendo
anch'essi l'odore della mangiatoia, e non avendo in groppa nessun
ammiratore di Dante. Giungevano inaspettati alla Gioiosa Guardia, con la
bella notizia che li seguiva il padrone. Partito a bruzzico dal suo
castello, messer Bartolomeo ritornava per l'ora di cena: gran fretta,
sicuramente, ma anche un bel miracolo di galoppate. E fu accolto con le
faci; suonò a festa la campana del battifredo; non mancò neppure una
salve d'archibugiate.

Si facevano pazzìe per riceverlo; ma ne fece egli più assai alla vista
della contessa Juana, che era discesa ad incontrarlo nel cortile.

--Allegro?--diss'ella, avvicinandosi alla staffa per istendergli la
mano, che il cavaliere baciava, piegandosi tutto sull'arcione.

--Non vedi?--rispose egli, com'ebbe potuto compiere il rito.--È Talavera
che fa il matto, sentendosi a casa. Talavera, gran bestia, non vedete la
padrona, che ha pronta una carezza per voi?--

Il cielo era puro, e tutto scintillante di stelle. La brezza primaverile
già raddolcita di qualche tepore pareva promettere le vampe dell'estate;
e frattanto le destava nel cuore di Damiano.

--Donna mia dolce!--sussurrò il capitano Fiesco, prendendo Juana per la
vita, e muovendo con lei su per le scale.--Lásciati amare; lasciami
esser felice.

--Ah, ecco!--diss'ella.--Non è più Talavera, che fa il matto.

--No, cara, son io, io, proprio io, che ho voglia di saltare e di
cantare, tanti sono i grilli che ho in corpo.--

Sorridente, amorosa, Fior d'oro lo accompagnò nelle sue stanze, dov'egli
si tolse di dosso la polvere.

--Ed ora,--ripigliò la contessa,--ragioniamo un pochino, se è possibile.
Vai?

--Dove?--domandò il capitano Fiesco, che aveva la mente a tutt'altro.

--A Pisa.

--No, se Dio vuole, no.--

Fior d'oro diede in una grande risata.

--N'ero sicura;--gridò, lasciandosi cadere su d'una scranna.

--E perchè allora m'hai fatto andare a Genova?--chiese egli, che era
voglioso di ridere altrettanto, ma non voleva parere.

--Per debito di cortesia, se ti rammenti. Ed anche potevi sentir ragioni
che ti dovessero persuadere. Gian Aloise non ti ha persuaso, e sia per
il meglio. Almeno avrai fatte le cose per bene?

--A quel dio! Ci siamo lasciati più amici di prima. Egli mi ha
assicurato, congedandomi, di avere il cuore più alto che il mondo non
creda. Ed io, figúrati, l'ho più alto che il mondo non si possa sognare.
Sento che l'ho qui.... sulle labbra. Vuoi sincerartene, Fior d'oro? Oh,
dolce donna! un ceffone? Ma l'ho già avuta da un pezzo, la cresima.
Nondimeno, ripeti, Fior d'oro, perchè ripeto ancor io. Queste tue dita
son dolci più che lo zucchero. E si resti qui, buon Dio, e non venga più
in mente a nessuno di smuovermi dalle braccia di Fior d'oro, perchè
sarei capace di ribellarmi anche al re Cristianissimo.

--E al re Cattolico per giunta, non è vero?

--A quello, poi, con più gusto; quantunque m'abbia fatto tanto buon
viso, l'ipocrita. E mi voleva ai suoi servigi, per un quinto viaggio. Ah
sì, sta fresco, se m'aspetta. Non più viaggi, del resto. L'ho detto
anche al grand'uomo, che ho seguitato con tanta devozione ad ogni
rischio. Signor almirante, non fate, vi prego, più assegnamento su me.
Sono un uomo navigato; ho fatta la parte mia, e di viaggi ce ne son
voluti quattro, perchè io riuscissi a portar via il mio pezzo di mondo
nuovo. È anche vero,--soggiunse il capitano Fiesco inchinandosi,--che ho
avuto il pezzo migliore. Gli altri oro in polvere, oro a pagliuole, oro
a catolli; io a dirittura Fior d'oro. E non mi si parli più di passare
l'Atlantico; non mi si parli più di lasciar le rive dell'Entella.
"Gioiosa Guardia e la mia donna" ecco il mio motto, e vo' farlo
scolpire sulla nostra "conoscenza" in uno svolazzo coi fiocchi,
debitamente custodito dal gatto e dal basilisco di casa.

--Ora, sta bene;--disse Fior d'oro.--Ma quando sarò vecchia?

--Vecchia! che parola è questa? vecchia voi, dolce Juana?

--Ma sì, la cosa avverrà pur troppo, un giorno.

--Lontano, lontano, lontano!--gridò egli, accompagnando quella gran
lontananza con molto sforzo di braccia.--E quando sarete.... cioè,
quando non sarete più giovane, quando non sarete più giovane voi,
pensate che sarò vecchio io, che d'anni n'ho più di voi, e parecchi.

--Io penso,--rispose Fior d'oro,--che la donna ha una giovinezza
soltanto. L'uomo, quando non ha più l'età della grazia, ha ancora l'età
della forza.

--Già, ci diventa un Ercole;--esclamò egli, facendo spallucce.--Lo vedo
brutto quell'Ercole, che si prepara a rinnovar la serie delle sue
immortali fatiche. Ma io farò meglio, vedete, io che non voglio passare
una quinta volta le sue bugiarde Colonne. Guardate là, mia dolce Juana,
a quella parete. C'è uno scaffale di noce, con una filza di novanta
volumi. Non è una gran biblioteca, lo so; ma ce ne son di più piccole, e
presso uomini più grandi di me. Gian Aloise, a buon conto, ce n'ha
ottantatrè nel suo palazzo di Vialata; sette meno di me; ond'io mi stimo
più ricco di lui. E tutti scelti, i miei, da Virgilio a Dante, col
Canzoniere del Petrarca per giunta, e perfino il Canzoniere di Giusto
de' Conti, quello della Bella mano, che è il caval di battaglia di
messer Filippino. Or dunque, veniamo a noi; pensiamo pure al giorno
ch'io sarò vecchio, e voi.... non più tanto giovane. Quel giorno o
quella sera, mentre voi farete la calza accanto alla gran tavola della
caminata, io incomincierò a ripassare per voi tutti i miei volumi, e ve
li leggerò ad uno ad uno. Tradotti, si capisce, ad aperta di libro, che
i denari del latino non me li sono giuocati. Cari miei vecchi autori! Ce
n'è uno che ha fatto un poema, si può dire, a bella posta per noi, tanto
s'attaglierà al caso nostro il suo episodio più bello.

--E sarebbe?

--Ovidio, nelle libro ottavo delle sue Metamorfosi. C'è l'episodio di
Filemone e Bauci, due sposini invecchiati l'uno accanto all'altro nella
loro capanna, che poi fu tramutata dagli Dèi in un tempio di marmo e
d'oro; ed essi continuarono ad amarsi, essendone i sacerdoti; ed
ottennero di poter morire insieme, tramutati in due piante, un tiglio e
una quercia, sul limitare del tempio.

--È una bella immaginazione;--disse Fior d'oro.--Non c'è altro di
spiacevole che la tua deliberazione di rimandarne la lettura ai giorni
della nostra vecchiaia. Perchè non leggere fin di stasera il grazioso
racconto? Ne godrebbe anche la mamma, che è tanto felice di stare a
sentire.

--Eh, perchè no?--rispose il capitano Fiesco.--Tanto, un nuovo capitolo
dei Commentarii non l'avrò in pronto se non per domani sera.

--Ah, bene, bene!--esclamò Fior d'oro, battendo le palme con allegrezza
infantile, mentre si avviavano alla caminata, dove li aspettava la
mamma, ed anche la cena preparata.--Filemone, hai detto?...

--E Bauci;--aggiunse il capitano Fiesco.--Son due nomi greci; e Filemone
vuol dir l'amante, e Bauci vuol dir la vezzosa, la graziosa, e simili
altre delicatezze femminee.

--O Damiano! quante cose sai tu!

--Ti pare? Certo, so quasi tutte le inutili; e delle veramente utili una
sola.

--Ah sì? sentiamola un po'?

--Amarti. Non sono Filemone? E bada, bambina, Filemone vuol anche dire
accarezzante. Ond'io, se vorrai tener quella mano a posto....--

E un bacio corse, e fu reso. Bauci non voleva mentire al suo nome di
graziosa.

Madonna Bianchinetta Fiesca, venuta poc'anzi a sedersi sulla sua sedia
comitale, li vide entrare abbracciati, ed abbracciati correre a lei. Non
era da farne caso, perchè così li vedeva ogni giorno; ed ella finalmente
ne era tutta felice. Anch'ella amata, a' suoi bei tempi; ma più
rispettata che amata, essendo stata sposata ad un uomo dabbene, ma
austero di modi, e diciamo pure un po' orso. E vedova, e invecchiata
nella vedovanza, era vissuta là molto sola, con quel benedetto ragazzo
sempre in giro pel mondo, tanto in giro, che presto non bastandogli il
vecchio, era andato in traccia del nuovo. Finalmente aveva messo il
cervello a partito; ma per domare quel cervello c'era voluto il cuore.
Ond'ella ebbe cagione di rallegrarsi, la nobil signora, e di amare anche
più quella bellissima nuora che le aveva fatto il miracolo. Nessuna
maraviglia, del resto; la contessa Juana si faceva adorare da tutti;
senza volerlo, solamente mostrandosi, aveva stregato un po' tutti.

La veneranda signora seppe quel ch'era avvenuto in Vialata; molto
sommariamente, per altro, non avendo creduto opportuno suo figlio di
riferirle per filo e per segno i discorsi suoi coll'eccelso Gian Aloise,
mentre amava piuttosto trattenersi su quelli della nobile Caterina del
Carretto nei Fieschi. Quella era una donna che capiva le cose; ed egli,
il capitano, avesse pure a soffrirne la dignità mascolina della stirpe,
sarebbe stato felicissimo se per tutte le terre dei Fieschi, da
Savignone a Pontremoli, da Vialata a Gioiosa Guardia, non gli uomini
avessero più comandato, ma una buona volta le donne. A quali altezze
maggiori non sarebbe salita la gente Fiesca, in cinquanta e magari
cent'anni di senno e di grazia al governo de' suoi destini! E in quella
vece, o miseria! si perdeva in vane contese e in più vane ambizioni il
presente, guastando anche nel germe il futuro.

Sorrideva, madonna Bianchinetta, bene intendendo la ragione di tutti
quegli amabili paradossi del suo amabilissimo figliuolo. Il fatto era
questo, che i belli occhi di Fior d'oro avevano avuto più forza del
miraggio di Pisa.

--Infine,--diceva,--se tu non hai ambizioni, perchè ne avremmo noi, che
saremmo rimaste qua ad aspettarti?

--E questa sera gran lettura;--soggiungeva Fior d'oro.--Sai, mamma, che
ci tradurrà da un poeta latino la storia di Filemone e Bauci? Si tratta
di due, uomo e donna, che si sono amati per tutta la vita.

--Han fatto bene;--sentenziò madonna Bianchinetta.--Quando si può, è la
cosa più bella del mondo. E voi li imiterete, m'immagino. Ma non
dimenticheremo poi la storia del nuovo Mondo?

--Non dubitare, mamma;--rispose il capitano Fiesco.--Domattina mi metto
a lavoro, e domani sera ne avrai un altro capitolo. Sai che la scrivo
tanto volentieri. Ma che c'è? Visite ancora? Non ci sarebbe dunque più
pace, a Gioiosa Guardia?--

Si sentiva infatti uno scalpitìo di cavalli nel cortile, su cui
guardavano appunto le alte finestre della caminata. Polidamante fu
mandato a vedere che diavol fosse.

--_Ecce iterum Crispinus_,--borbottò il padrone di casa.--E dico
_Crispinus_ per attenermi al testo. Ma sarà poi _Philippinus_, che
guasterà il verso a Giovenale, e la veglia a noi altri.--




CAPITOLO VII.

"Dove amore non è, più nulla è il resto".


Non era _Philippinus_, no; nient'altro che un cavallaro, un corriere, un
messo, o che altro si voglia dire, mandato da Genova per portar lettere
alla Gioiosa Guardia. Polidamante, sceso a pigliar lingua, tornava su
tutto affannato, con un plico, fatto di quella grossa carta di filo, che
già da un secolo e più si fabbricava a Voltri, sul far di quella che
aveva dato fama per tutta cristianità alle cartiere di Fabriano.

--Sire Iddio, che letterone!--esclamò il capitano Fiesco, torcendo lo
sguardo atterrito.

--Vedi?--notò madonna Bianchinetta.--Ci avrai da leggere un bel poco, e
Filemone e Bauci dovranno aspettare.

--Chi manda la staffetta è Giovanni Passano;--diceva Polidamante in quel
mezzo.

--Strano!--ripigliò messer Bartolomeo.--Ci siam visti mezz'ora prima che
io rimontassi a cavallo. Che bisogno c'era di mandarmi un corriere alle
calcagna?

--Questo, senza dubbio,--replicò sua madre,--di farti giunger notizie
importanti, avute da lui subito dopo che tu eri partito. Ma c'è un modo
di saper tutto;--soggiunse con un placido riso la veneranda
signora;--aprire quel letterone, non ti pare?

--Ecco, fuman le dapi;--disse il figliuolo, niente persuaso della
utilità di aprire il messaggio.--Rischiavo di seccarmi con Filippino
bello, e già n'ero tutto rimescolato. E poichè da questo lato respiro,
non voglio procurarmi altre noie per ora. Che cosa mi diceva il Passano,
nel prender commiato? Che andava al banco di San Giorgio. Vorranno
dunque esser filze di numeri, tutta roba da levar l'appetito. Ceniamo; e
tu, letterone, aspetta.--

Il letterone ebbe riposo su d'una credenza, e il capitano Fiesco pensò
d'aver pace a tavola. E volle ridere, volle scherzare, secondo l'uso; ma
non gli veniva fatto come le altre volte. Credeva anche d'aver portato
dal suo viaggio frettoloso una buona dose d'appetito; ma non fu nulla,
ed egli mangiò poco, e bevette anche meno. Quel letterone, posato laggiù
sulla credenza, gli pesava sull'anima.

Perchè poi tanto sgomento per due o tre pagine di scritto? Ecco qua;
bisogna sapere prima di tutto che messer Bartolomeo Fiesco, dacchè aveva
fatto ritorno alla casa de' suoi padri, era diventato nervoso. Non già
stizzoso, o di mala voglia, perchè quasi sempre era ilare; ma in mezzo a
tanta allegria sentiva di tanto in tanto i brividi dell'uomo che ha
paura, che teme o sospetta di qualche cosa che non sa, ma che sente
venirsi addosso, o pender da un filo sulla sua testa, come la famosa
spada di Damocle. Le visite sopra tutto gli urtavano i nervi, e pareva
che si aspettasse sempre una seccatura enorme. In verità non aveva tutti
i torti. O per recitar sonetti della Bella mano a sua moglie, o per
mandar lui a Pisa, capitava messer Filippino assai più spesso del
bisogno. Ed altri ancora, parenti come Filippino, o partigiani della
gente Fiesca, o vecchi conoscenti, si affollavano a Gioiosa Guardia, per
ossequiare, per visitare, per esplorare, sopra tutto per far discorsi
inutili, tra i quali non mancava mai l'accenno alla vita operosa che
doveva aver fatta il capitano Fiesco, e alla impossibilità che egli si
contentasse della vita tranquilla, uniforme e noiosa del castellano.
Volevano saper tutti quando ne sarebbe uscito, e come contasse di usare
il suo tempo. Ond'egli aveva già incominciato a capire che si sarebbe
stati assai meglio in un bosco, e ben fuori di mano, anzi ben fuori di
quella regione, dove, o di qua dall'Appennino o di là, erano sempre
castella dei Fieschi, con Filippini in moto, e parenti e conoscenti, e
cacciatori e curiosi, cavallari, staffette e via discorrendo, fino alla
consumazione dei secoli e della pazienza degli uomini. Quel letterone,
frattanto! Che diavolerìa si nascondeva là dentro? Messer Bartolomeo,
diventato più nervoso che mai, non se lo poteva levar dalla mente, lo
sbirciava da lontano con occhio sospettoso, quasi temesse da un momento
all'altro di vederne saltar fuori uno scorpione, una vipera, un
basilisco; questo, anzi, più facilmente, essendo una bestia
dell'araldico serraglio Fieschino.

--Morale della favola;--diss'egli ad un certo punto tra sè.--Imparate, o
giovani, a non lasciar chiusa una lettera che abbiate ricevuta. Meglio
è morire sul colpo, che patire un'agonia di due ore.--

E madonna Bianchinetta e Fior d'oro, che parevano essersi scordate di
quel misterioso letterone! La cena era finita, la tavola sparecchiata, e
del noioso messaggio nè l'una nè l'altra delle due donne faceva parola.
Doveva parlarne lui, facendone nascer lui l'occasione. E l'occasione fu
questa, di fare una giratina per la sala, di accostarsi a quella
credenza, e di salutare il letterone con un grido di maraviglia.

--Oh, eccolo qua, il bossolo dei segreti. Prendi, Juana, mia dolce
amica, aprilo tu, ch'io non lo leggo. Piacevole non è di certo; e ci
sarà almeno questo di buono, che la sua prosa, passando per la tua
bocca, avrà acquistato buon suono.--

La contessa Juana aperse, e lesse. Non faccia maraviglia che sapesse
leggere. Fior d'oro certamente non leggeva ancora a Maguana, nella casa
di Caonabo, suo terribil signore e padrone. Ma già leggeva a Xaragua,
avendo presto imparata la lingua castigliana. Aveva seguitato a leggere
alla Giamaica, e poscia in viaggio, imparando via via l'italiano, e
continuandone con mirabil profitto lo studio in Gioiosa Guardia. La
Corinna di Haiti aveva ingegno potente; le cognizioni a lei nuove della
civiltà europea erano venute insieme coll'esercizio di quelle due
lingue, fondendosi, estendendosi, formandole un nuovo tesoro, dandole
quasi un'anima nuova.

Per contro, aveva abbandonato assai dell'antica, o forse l'aveva sepolto
nel profondo. Più non toccava il _maguey_ dal malinconico suono; nè
meditava più, nè cantava più l'_areyto_ in cui era maestra. L'ultimo era
stato quello di Cahonana nell'atto di partirsi per sempre dalla sua
isola natale. Bene sulle rive dell'Entella s'era provato Damiano a
chiederle la grazia d'un canto nella lingua d'Itiba. Ma ella se n'era
schermita.

--Bambino amato, non esser cattivo; dolce signore, non esser tiranno.
L'_areyto_ era la gioia di un popolo semplice e buono, che sapeva
appagarsi dei frutti della mia povera mente. La poetessa dell'_areyto_ è
morta insieme col suo popolo; perchè vuoi tu risuscitarla, se non hai
forza di ritornarle in vita il suo popolo? Con altro nome rivive
Anacoana; rivive per miracolo d'amore e di gratitudine. Ti ho amato,
conte Fiesco, dal primo giorno che ti ho conosciuto; sarei morta coi
miei poveri sudditi, amandoti e benedicendoti. Tu hai voluto ch'io
vivessi, e la mia vita è diventata cosa tua, poichè tu l'avevi salvata.
Tua regina, o tua serva, ogni condizione mi è buona; comandarti mi è
dolce, obbedirti ancor più. Ma ti prego, una cosa non chieder da me; non
chieder la voce che piacque a tanti infelici, la cui sorte è il segreto
tormento dell'anima mia. La voce di Itiba è morta; ed io soffro già
tanto, sforzandomi di dimenticare quei giorni! Dunque, se m'ami
davvero....

--Dunque più nulla;--aveva detto Damiano, troncandole la frase.--La
bella bocca che diceva le belle canzoni, io la suggello coi baci.

--E ti basti,--aveva ella risposto,--pensando che il cuore trabalza,
venendo ad incontrarli sul labbro. Piacerebbe a te di narrarmi il tuo
passato? Nè io, bada, chiederò mai di conoscerlo. Che colpa avresti ai
miei occhi, se dal giorno che m'hai conosciuta il tuo cuore è stato mio,
intieramente mio? Quanto a me, conte Fiesco, ho un passato, e tu lo
conosci: ebbi un fiero padrone, che ho rispettato; n'ho uno assai
cortese, che adoro. Tra l'uno e l'altro è il dolore d'una patria morta,
a cui non gioveranno i miei pianti, ma a cui dobbiamo usare entrambi la
pietà del silenzio.--

Il conte Fiesco riconobbe che sua moglie aveva ragione, e non chiese più
nulla di quelle arti gentili di cui ella era stata maestra in Haiti. La
cultura della contessa Juana si faceva del resto così profonda e così
vasta nelle discipline europee, che veramente non era più necessario
tornare col desiderio a prove antiche d'ingegno, le quali avevano il
torto di destare in lei troppo dolorosi ricordi.

Or dunque, ritornando al racconto, la contessa Juana aperse il plico, e
lesse; anzi tutto una lettera di Giovanni Passano, che diceva così:

  "_Magnifico Signor mio e padrone osservandissimo_,

"Vi parrà strano che appena partito Voi per la Gioiosa Guardia io abbia
da mandarvi il messo, come il cacciatore sull'orma. Così è piaciuto a
Dio, dal quale vengono le fortune tutte e disgrazie di questo mondo, con
che egli sperimenta le sue creature. Ma questa volta è misericordia sua
e gran favore che sia evento piacevole, come io ben credo, trattandosi
di lettera che Vi scrive l'uomo che più amate e venerate dopo il supremo
dator di ogni bene.

"Sappiate adunque che, mentre Voi andavate verso porta di Santo Stefano
glorioso, io me ne andai al magnifico Banco di San Giorgio per collocare
il denaro che eravamo rimasti d'intesa. E là mi avvenni per singolar
fortuna nello spettabile iureconsulto messer Nicolò di Oderigo, che
scendeva allora dallo scalone. Umanamente mi salutò, e mi chiese di Voi,
che tanto desiderava incontrarvi. E gli dissi che appunto eravate giunto
questa mattina, ma per stare sull'ali e ripartire; che anzi a quell'ora
certamente andavate passando il ponte di Sant'Agata benedetta. Mostrò
dispiacere di tal contrattempo, perchè aveva ricevuto lettera di
Castiglia per Voi, e a me la diede, commettendomi di spedirla al più
presto. E sì m'aggiunse il prefato messer Nicolò: "ignoro che cosa sia
detto in tal lettera, avendola sigillata senza leggere; ma se somiglia
ad altra per me ricevuta, certo è fatto di somma importanza, e merita
che il vostro signore e parente subito la tenga in sue mani". Al che
risposi non dubitasse, che avrei fatto ogni diligenza, siccome ero
pronto, anche partendo io medesimo.

"Non fu mestieri di ciò, avendo io trovato Battistino di Certénoli, che
si disponeva appunto a partire. Io solo gli ho fatto e faccio
raccomandazione di non fermarsi troppo a tutte le frasche, più che non
avvenga a me quando vengo a trovarvi. Ed egli, saputo esser ciò per
Vostro servizio, promette e giura, se Voi non correte più di lui, di
raggiungervi ancora in cammino. Quanto a messer Nicolò di Oderigo,
richiesto da me che cosa fosse scritto a lui, per darvene contezza,
risposemi queste parole: "Il nostro eccelso concittadino spera e
dispera ad un tempo: è come un naufrago, che può toccar terra con
l'aiuto di Dio, o andare sommerso nel profondo del mare. Egli è tanto
disgraziato come grande".

"Messer riverito, io vi prego di star bene, e bacio umilmente le mani a
madonna Bianchinetta e a madonna Fior d'oro mia nobil cognata; che
veramente io non mi risolverò mai di chiamarla suocera, contro ogni
apparenza di ragione. Bianchina mia a voi tutti si raccomanda.

  "Di Genoa, li 6 marzo anno Domini 1506.

      "JOHANNES PAXANO."

Il capitano Fiesco era stato a sentire con una certa curiosità la prima
parte della lettera di Giovanni Passano. Alla seconda, ricominciò a non
poter più star fermo sulla sedia, tanta era l'agitazione che gli entrava
addosso; agitazione a cui partecipava l'animo di Fior d'oro, com'era
dimostrato dall'andar più spedito, quasi convulso, della lettura.

--All'altra! all'altra!--gridò messer Bartolomeo, com'ella ebbe finita
la prima.--Che sarà mai, mio Dio, se un uomo grave e tranquillo come il
dottore Oderigo si mostra così sgomentato per la sorte del nostro
grand'uomo?--

Fior d'oro prese allora la seconda lettera, e con molta reverenza ne
lesse la soprascritta, in lingua spagnuola: "_Al muy virtuoso Señor
micer Bartholomè Fresco_"; poi ruppe il suggello, aperse il gran foglio,
e lesse il contenuto, scritto in lingua italiana, mescolata di forme
spagnuole e latine, di questo tenore:

  _"Virtuoso amico._

"Iddio nostro signore ha disposto che quando la creatura è nel fondo
delle afflizioni, ella a Lui abbia ricorso e in Lui solo confidi: ma non
è senza suo consiglio che ella si volga agli amici, nei quali è come un
raggio in terra della sua eccelsa bontà. Tra i miei mali ho questa
sorte, che ancora qualche anima mi resti fedele. Ma perchè i pochi che
mi amano son tutti lontani da me?

"Amico, la mia querela col mondo è antica oramai, come l'uso ch'egli ha
di maltrattarmi. Già mille combattimenti mi diede, e a tutti ho
resistito finora; in che non mi ha giovato nessuno. Ei mi tiene
crudelmente colato a fondo: solo mi regge la speranza di Chi creò tutti,
e sudditi e re. Il soccorso di Lui fu prontissimo sempre. Un'altra
volta, è già molto, trovandomi assai abbattuto, mi sollevò col suo
braccio divino, dicendo: levati su, uomo di poca fede, che son io, non
aver timore. Ma adesso la voce misteriosa non parla più come prima; temo
forte che voglia altro di me.

"Da più d'un anno sto qui aspettando che don Fernando mi renda giustizia
e m'ascolti, come aveva promesso anche a Voi. Tutti ottengono da lui, di
dovunque arrivino; checchè gli propongano, son tutti ascoltati: più
ancora se nemici miei, o da lui avuti per tali. Di me non si fa caso;
anche qui tutti mi sfuggono, come fossi un lebbroso. Pensate a questo,
Voi che avete visto il mio arrivo a Barcellona. Ora io vi sto
mallevadore che non è uomo sì vile il quale non pensi d'oltraggiarmi.
Se io avessi rubate le Indie per darle a Portoghesi, come una volta si
sospettò indegnamente, quando la tempesta mi gittò nel ritorno alle rive
del Tago, non potrebbero in Ispagna dimostrarmi nimicizia maggiore. Chi
ciò crederebbe d'un paese, dove fu sempre tanta generosità di sentire?

"Grande aggravio ricevo da questo re, poi che la eccelsa donna mia
protettrice è in cielo (che più non la vidi viva al mio ritorno), e non
so come basteranno le forze a sostenere il mio dritto. Ma per rispetto a
quella medesima dignità che Iddio mi ha data, quando permise che io
discoprissi un mondo e lo rendessi alla sua fede, dovrò combattere fino
all'ultimo soffio di vita. E son qui solo, nella mia pena, infermo,
aspettando ogni dì da un uscio la giustizia degli uomini, dall'altro
quella del cielo. Non è con me neppure il mio buon fratello don
Bartolomeo, sempre in moto per mia cagione. Diego Mendez fu qui, nè
vuole abbandonarmi del tutto; ma in troppe circostanze non fa al bisogno
mio, dovendo, egli anche provvedere a sè stesso. Ah, i miei amici d'un
tempo! Il loro affetto mi consolerebbe d'assai cose che mi mancano. E mi
manchino pure per sempre; perchè "dove amore non è, più nulla è il
resto".--

Tremava, per commozione profonda, la voce della bella lettrice; e gli
occhi del capitano Fiesco si erano velati di lagrime.

--Com'è vero!--diss'egli.--È questo il grido dell'anima.

--E noi lo sentiremo;--rispose Fior d'oro;--e correremo a lui, non è
vero?--

Messer Bartolomeo si turbò forte, a quell'altro grido dell'anima.

--Andrò certamente;--balbettò egli.--Ma tu....

--Ed io con te. Potrei forse lasciarti solo?

--Perchè no! Andavo pur solo a Pisa!

--Che mi parli tu di Pisa?--proruppe Fior d'oro.--Non ci sei andato,
finalmente. E laggiù, dov'egli soffre, dond'egli chiama soccorso, il
debito nostro è di andare senza indugio. Non gli debbo ancor io qualche
cosa? Ma lasciami leggere il resto; son poche righe ancora;--soggiunse
ella, sforzandosi d'apparire tranquilla.

E proseguì, sebbene con voce alterata, la dolorosa lettura.

"Domando forse troppo? Vi conosco, fedele amico dei lieti giorni come
dei tristi, e penso che ciò non sia. Avendovi presso, di due cose una mi
verrà bene ad ogni modo. O mi rifiorirà la speranza, poichè avrete
ottenuto Voi ch'io parli un'ultima volta al re; e Voi solo potrete
ottenerlo, che foste ricevuto da lui, e congedato con buone promesse.
Dovrà ricordarle, vedendovi; e forse egli sentirà rossore di ciò che fa,
per mio danno ed onta sua. O non otterrete nulla neppur voi? Sarà segno
ch'io non debbo aspettare più nulla dal mondo, se non questo, che Voi mi
chiudiate gli occhi al gran sonno. In questo caso sarete ancora il ben
venuto al mio fianco; nell'ultim'ora della mia triste vita mi sarà dolce
l'aspetto della città dond'io venni, e nella quale son nato.

"Ricordatemi, ve ne prego, alla nobil signora che allieta i giorni del
vostro riposo, e che ha tanto da perdonarmi anche lei. Ma io veramente
non sono in colpa, e fu con buono intendimento tutto quello che feci.
Iddio mi aveva guidato laggiù; gli uomini malvagi hanno guastata l'opera
di Dio, come già aveva fatto il maligno, sotto forma di serpente, in
quel beatissimo Eden, di cui mi sembrò l'imagine sulla terra di Haiti. E
ancora salutate per me il virtuoso messere Gian Aloise con la sua
signora madonna Catalina. Dite loro che mi perdonino, se non ho più date
nuove di me, che liete e degne di loro non n'ebbi più da gran tempo.
Neanche, per dirvi tutto, ebbi comodità di scrivere, negli umili
alberghi per cui mi vengo tramutando, poverissimo come sono, e spesso
costretto ad accettar prestito da qualche anima buona. Non che per
iscrivere una lettera e dar beveraggio a chi la porti, non ho il più
delle volte una "bianca" per l'offerta in chiesa. Le mie rendite sono a
San Domingo, e le tiene e le gode il gran commendatore d'Alcántara, che
Iddio non vorrà dimenticare, nella sua forza e sapienza infinita, mentre
io sono sventurato come vi dico. Ho pianto molto in mia vita sugli
altri; su me piangerà presto la terra, se ancora ha senso di carità, se
ancora v'è in pregio la verità e la giustizia. E vi tenga Nostro Signore
nella sua santa guardia, con tutti coloro che amate; poichè, vi ripeto,
dove amore non è, più nulla è il resto.

  "De Segovia, a 20 de febrero 1506.

      "_El Almirante mayor del mar Oçeano
      "Visorey y Gobernador general de las Indias, etc._

                   S.
                S. A. S.
                X. M. Y
              Xpo FERENS.

I titoli non mancavano mai, nelle lettere di Cristoforo Colombo. E
potevano far sorridere gli sciocchi, e far piangere gli assennati,
pensando che l'almirante maggiore dell'Oceano, il vicerè e governatore
delle Indie era povero in canna, spesso nelle osterie, dov'era costretto
a prendere i suoi pasti, non avendo di che pagare lo scotto. Quanto alla
sigla che aveva sostituita alla firma, gli amici suoi sapevano che cosa
volesse dire. Così l'aveva egli solennemente descritta nel suo
testamento e istituzione di maggiorasco, del 22 febbraio 1498: "......
don Diego mio figlio e tutti i miei successori e discendenti, come pure
i miei fratelli Bartolomeo e Diego, porteranno le mie armi quali le
lascierò dopo morte, senz'aggiungervi alcun'altra cosa, e saranno
scolpite sul lor sigillo. Don Diego mio figlio, o chiunque erediterà i
suoi beni, andando al possesso dell'eredità, segnerà con la firma di che
ora mi servo, che è una X con sopra una S, una M con sopra un'A, ed una
S più in su, e quindi una Y sormontata da una S, colle linee e punti
giusta il mio costume". Ma la descrizione non essendo ancora
l'interpetrazione, bisognerà soggiungere quella che n'hanno tentata i
moderni eruditi, ricordando che Cristoforo Colombo, a detta del figlio
Fernando nella sua _Historia dell'Almirante_, "se alcuna cosa aveva da
scrivere, non provava la penna senza prima scrivere queste parole:
_Jesus cum Maria sit nobis in via_". Così avendo egli mutata la firma
dopo le dignità ottenute, formò la sigla misteriosa, che si può
sciogliere naturalmente in questo modo: _Salva me Xristus, Maria,
Yosephus_. Quanto all'ultima linea, _Xristoferens_, mezzo abbreviato, è
l'istesso nome di Cristoforo, portatore di Cristo, come anche dimostra
la nota iconografia di quel santo, col famoso distico leonino e
maccheronico che suol richiamare alla mente.

--Ed ora,--disse Fior d'oro, nell'atto di ripiegare il
foglio,--sosterrai tu che io non debba seguirti? Vedi, egli vuol
chiedermi perdono, non essendo in colpa di nulla. Io, io debbo portargli
una parola di riconoscenza per me, con le benedizioni del mio popolo,
ch'egli amò tanto, ch'egli avrebbe reso felice, se gli uomini malvagi
non ne avessero attraversati i disegni.

--Sia come volete, Juana;--rispose il capitano Fiesco.--Il cielo forse
v'ispira. Al letto di un infermo vale anche meglio una donna che un
uomo. Iddio ha posto negli occhi vostri un raggio della sua pietà, e
sulle vostre labbra il balsamo delle sue misericordie. Nè il grand'uomo
sarà solo, quand'io dovrò chiedere udienza al suo re. Non vorrà certo
negarmela;--soggiunse messer Bartolomeo;--tanto cortesemente mi aveva
egli accolto, che pareva non sapesse più spiccarsi da me. Niente al
signor Almirante, e si capiva, quantunque promettesse di vederlo e di
udirlo; a me tutto; mi avrebbe posto Castiglia e Leone sulle braccia,
con le Indie per il buon peso. "Voi siete, signor conte, in grandissima
stima presso don Nicola Ovando, che d'uomini s'intende, come del nostro
servizio; stimato dal gran commendatore d'Alcántara, che così
vantaggiosamente mi scrive di Voi, non sarete meno stimato e favorito da
me: non dispiaccia ad un Fiesco di prender servizio presso un re
d'Aragona, che conosce il merito, e sa ricompensarlo". La grazia delle
sue ricompense! Ma bisognò sputar dolce, dopo inghiottito l'amaro.
Infine, chi sa? Non è una ispirazione del cielo che l'Almirante mi
richiami presso di sè, per ottenergli giustizia? E se fossi io quello
che potesse fargliela avere.... colla reintegrazione dei suoi
diritti.... colla spedizione sua ad un altro viaggio di scoperta!...

--Quante speranze ad un tratto!--esclamò Fior d'oro.

--Non per me, si capisce. Io non andrò più, certamente. Sarà un
sacrifizio.... che farò lietamente a Fior d'oro. Ma per lui, che forse
ad un tale annunzio ritornerebbe da morte a vita, mi par che sia bene
tentare, e per intanto sperare. Sperare giova, e tentare non nuoce.
Andremo dunque a Segovia. Ma ora che ci penso, come vi porterei io in
Ispagna, dove forse Fior d'oro....

--Fior d'oro può restar qui;--rispose la contessa;--ed anche può esser
morta di là dal gran mare. In vece sua può ben rinascere il mozzo
Bonito, di cui conservo ancora le spoglie.--

Con quel nome e in quelle spoglie Anacoana era andata dalla sua isola
natale alla Giamaica, e di là ritornata a San Domingo, per passar poscia
in Europa; mozzo per tutti, tranne per pochissimi che erano a parte del
segreto.

--Eh, voi trovate rimedio a tutto, Juana;--disse il capitano Fiesco,
sforzandosi di sorridere.--Ma questo mi fa pensare che avrò da trovar
qualche cosa ancor io, non essendo naturale che un mozzo faccia così
lungo tragitto per via di terra. Dove sarà il cavallaro? Probabilmente
nel tinello a cena; che non avrà voluto rinunziare alla buona occasione.
Polidamante!--

Il ragazzo non era là in anticamera, e bisognò andarlo a chiamare
dall'alto dello scalone. Udì la voce tonante del padrone, ed accorse.

--Battistino è ancora giù con voi altri?

--Sì, mio signore; anzi dormirà qui, avendo fatto tardi, per andare a
Certénoli.

--E non ci andrà. Si tenga pronto a ripartire domattina all'alba per
Genova.--

Ciò detto, il capitano Fiesco ritornò alla caminata, e là scrisse in
fretta una lettera per Giovanni Passano.

--E questa è fatta;--diss'egli conchiudendo, mentre suggellava il
foglio.--Se il _Paradiso_ è ancora in porto, può esser qui doman
l'altro. Non sarà neanche mestieri che ci facciamo vedere a Genova.--

Madonna Bianchinetta approvò tutti gli ordini del figliuolo, e la fretta
con cui erano dati. Aveva sparse tante lagrime, la veneranda signora,
sentendo legger la lettera del signor Almirante!

Due giorni appresso, sull'ora del vespro, la nave _Paradiso_ gettava le
àncore davanti alla spiaggia di Chiavari. Subito si spiccava dal suo
bordo un palischermo, con quattro rematori sui banchi di voga, e
Giovanni Passano al timone. Un'ora dopo, il fido luogotenente e ministro
del conte Fiesco era a Gioiosa Guardia. Non si poteva fare più presto,
nè meglio di così, per contentare quell'argento vivo del conte.

Messer Bartolomeo s'imbarcò a notte alta, avendo non meno alte ragioni
di far ciò. Quel mozzo Bonito non doveva esser visto da tanta gente, che
nei giorni festivi ammirava la contessa Juana nella chiesa di San
Salvatore. Con messer Bartolomeo e col mozzo Bonito montarono in nave
due scudieri, Pietro Gentile, e frate Alessandro. Il frate tornava al
suo secondo uffizio d'elezione; non dimenticando il primo, per altro,
poichè portava la sua tonaca e la sua cocolla, delle quali aveva fatto
il solito involto.

--Portar l'abito indosso e portarlo in mano è tutt'uno;--diceva il frate
scudiero.--L'essenziale è di non lasciarlo per via, di non gittarlo ai
rovi, come fanno certuni, dimenticando i loro giuramenti. Io tengo i
miei, onorando il glorioso fondatore dell'ordine, seguendone gli esempi,
facendo allegramente quel po' di bene che posso. Il benedetto san
Francesco non voleva musi lunghi, nè ipocrisie. Gli uomini aveva tutti
per fratelli; e chi si adoperava per utile dei fratelli, lo aveva per
figliuolo.--

Anche don Garcìa avrebbe voluto seguire il padrone e accompagnare il
conterraneo; tanto più che si approdava a Barcellona. Sosteneva di poter
rientrare senza pericolo in Ispagna, avendo lasciato San Domingo col suo
bravo congedo, per anzianità di servizio. Ma il capitano Fiesco non
volle saperne di lui.

--Restate, don Garcìa;--gli aveva detto.--Dio guardi se qualcheduno vi
riconosce....

--Avete ragione, signor conte;--aveva risposto don Garcìa, chinando
umiliato la fronte.

--E non dico per questo che voi ora pensate;--replicò il capitano
Fiesco.--Dico che anche essendo partito col vostro bravo congedo, vi
siete allontanato da San Domingo _insalutato hospite_. E l'ospite era il
governatore, che può aver notata la cosa. Il congedo, poi, era soltanto
a voce. Insomma, vi dico che non è bene per voi venire laggiù, e meglio
sarà che rimaniate qui, a godere davvero il vostro congedo benedetto.--

Così restò don Garcìa, e la nave _Paradiso_ si allontanò senza di lui
dalla spiaggia di Chiavari. Fortunata, aveva anche il vento in fil di
ruota, che, avendo preso a soffiar nella notte dalle gole di Sestri
Levante, doveva accompagnarla fino oltre la punta di Portofino. Di là da
Capodimonte, lo ebbe di fianco, ed era tramontana schietta: ma la
tramontana era anche più favorevole del vento in poppa, perchè si poteva
serrarla con tutte le vele, navigando al gran largo, che è la più
gloriosa maniera, ed allarga altrettanto il cuore del capitano, che ha
fretta di giungere al porto.

La nave non volendo toccar Genova, era rimasto a terra e per via di
terra sarebbe tornato a casa il Passano.

Ora, mentre egli usciva da Gioiosa Guardia, dove era andato a prendere
un cavallo dalle scuderie, indovinate chi gli passò davanti agli occhi,
tra Paggi e San Salvatore. Il capitano Fiesco ci avrebbe dato alla
prima. Messer Filippino? Lui, sicuramente, lui, che aveva trovato un
altro buon pretesto, di andare in Fontanabuona, per passare davanti al
castello del suo amato parente, fermarsi un tratto ad ammirare la
contessa Juana e sospirarle un sonetto.

--Io arrivo, e voi partite?--diss'egli, facendo la bocca dolce.

--Sì, parto, come vedete, messer Filippino.

--E i miei buoni parenti stanno bene?

--Benissimo,--rispose il Passano,--e in via per la Spagna.

--Per la Spagna!--ripetè Filippino, stupito.--Il mio caro cugino, che
non si voleva più muovere.... per nessuna ragione!...

--Eh, capirete, messere; quando si trattava di andar solo. Ma ora va
accompagnato.

--Accompagnato!--ripetè Filippino, sgranando gli occhi, e impallidendo
un pochino.

--Già, con la dolce consorte. Beato lui, che può portarsela allato come
la sua buona spada. Io, poveraccio, vado e torno ad ogni tanto, sempre
costretto a lasciare la mia sposina a Genova. È vero che i miei viaggi
son brevi.--

Messer Filippino non gli dava più retta. Che importava a lui delle pene
maritali di Giovanni Passano?

--La contessa con lui!--esclamò.--E quanto rimarranno?

--Questo non saprei dirvi io, messere. Nè credo che lo sappia madonna
Bianchinetta. Ma potete provare a domandargliene.

--Veramente, non contavo di entrare, questa volta. Ho da fare a Santo
Stefano....

--Allora, buon viaggio, messer Filippino.

--E a voi, messer Giovanni, a voi.--

Giovanni Passano toccò il cavallo, che subito prese il portante, andando
verso la Maddalena.

--M'è rimasto di stucco:--diceva il Passano tra sè.--Che fastidioso uomo
è costui! Ed ora, se Dio vuole, per la prima volta non gli parrà
Gioiosa, la Guardia.--

Aveva dato nel segno. Messer Filippino c'entrò, mezzo per consuetudine,
e mezzo per curiosità, volendo sapere, se gli veniva fatto, come e
perchè fossero partiti i due coniugi, e quanto sarebbero rimasti
lontani. Ma la Gioiosa Guardia, dove più non era la contessa Juana, gli
parve triste, desolata come un nido vuoto. Anch'egli doveva pensare quel
giorno, ma con altra intenzione, quello che Cristoforo Colombo aveva
scritto all'amico: "Dove amore non è, più nulla è il resto".




CAPITOLO VIII.

Dolenti note.


Non avendo speranza di leggere un altro capitolo dei Commentarii di
messer Bartolomeo Fiesco, che se ne va con buon vento alle coste di
Spagna, cercheremo di dir noi brevemente quanto sarà mestieri conoscere
dei casi di Cristoforo Colombo, ritornato che fu dal suo quarto viaggio
di scoperta, e della condizione tristissima ond'egli era stato
consigliato a scrivere la dolente sua lettera al virtuoso capitano.
Dovremo per ciò ritornare un passo indietro (e sian pur molti, a patto
che non paian più d'uno) fino alla partenza del signor Almirante
dall'isola Giamaica, dove il fedel Diego Mendez gli aveva condotto un
naviglio, e il perfido Ovando, non potendo più oltre ignorare lo stato
del grand'uomo, gliene mandava un altro, che finalmente si era risoluto
di trovare.

Su quei due navigli s'imbarcavano i fedeli dell'Almirante e i pentiti
seguaci del Porras, facendo vela il 28 giugno 1504, dopo un anno e
quattro giorni di forzata inerzia nel villaggio galleggiante sulla
spiaggia di Maima. Ancora non si era chetato lo sdegno degli elementi
contro il magnanimo nocchiero, che primo aveva osato sfidare i flutti
dell'Atlantico; e le correnti fortissime tra la Giamaica e la Spagnuola
diedero assai travaglio alle navi, che solo il 13 agosto afferravano il
porto di San Domingo. Col livore nell'anima e col sorriso sulle labbra,
accolse don Nicola Ovando l'aborrito Colombo; gli profferse ospitalità
nel palazzo del governo, e mostrò di volergli usare ogni maniera di
cortesie. Quella era la pace dello scorpione, come si diceva con
energica frase intorno al signor Almirante; e non senza ragione, poichè
il gran commendatore d'Alcántara, ch'era lo scorpione in discorso,
mentre faceva la bocca dolce al suo ospite, metteva in libertà il
Porras, che questi aveva condotto prigione, unico escluso dal perdono
concesso ai ribelli, come quegli che li aveva istigati e spinti alla
prova delle armi. Non pago di ciò, don Nicola Ovando parlava di voler
fare egli stesso un'inchiesta di ciò ch'era avvenuto alla Giamaica,
sostituendosi audacemente all'autorità del signor Almirante, e usurpando
il diritto dei reali di Spagna, ai quali si spettava, se mai, di
rivedere il processo e di far piena giustizia. Ma qui il signor
governatore non andò oltre la minaccia, che forse aveva fatta per
giustificare lo scarceramento del Porras, ed anche per fare dispetto al
suo ospite e indurlo ad abbreviare i termini del suo soggiorno a San
Domingo.

Messer Cristoforo non voleva già rimanere a lungo in quel triste luogo,
dove i segni dello sgoverno e della rapina erano troppi e troppo
evidenti; dove ancora non tacevano gli echi delle orribili carneficine
che avevano funestata da un capo all'altro la povera Haiti; dove infine
non c'era verso di ottenere alcuna soddisfazione delle sue rendite, e
nemmeno un'ombra di conti. Al signor governatore aveva oramai restituito
il naviglio, e un altro ne aveva acquistato del suo. E per tal modo, su
due legni proprii, come un privato armatore, riconduceva in Ispagna
tanti servitori della Corona, che per Castiglia e Leone avevano due anni
intieri messa a bei rischi la pelle. All'Ovando e al soggiorno di San
Domingo lasciava ancora tutti i ribelli del Porras, che il signor
governatore li premiasse pure secondo i gran meriti loro, e magari li
facesse del suo consiglio di governo. Ed egli, co' suoi due legni, si
mise alla vela il 12 di settembre.

Qui subito incominciò la disdetta. Avevano fatte appena due leghe di
cammino, che sulla nave dell'Almirante si spaccò per lungo l'albero di
maestra, dalla vetta fino in coperta. Buon legno, e stagionato, anche
tu? L'Almirante passò sulla seconda nave, che era sotto il comando
dell'Adelantado, e rimandò a San Domingo la caravella inservibile. Si
veleggiava con buon vento, e i cuori si riaprivano alla speranza;
quand'ecco, il 18 ottobre, una terribil fortuna di mare, che mette
l'unica nave in pericolo. Se n'esce sani, e torna il mare in bonaccia;
ma il giorno appresso, in quella gran calma, e quasi non lavorando le
vele, si spezza in quattro l'albero di maestra.

--Piove sul bagnato!--si contentò di dire l'Adelantado, che tosto,
consigliato dal fratello, a cui la gotta non consente di lasciare il
giaciglio, prende un'antenna di rispetto, ne fa un piccolo albero,
fortificandolo di legname preso dai castelli di poppa e di prora,
strettamente lega ogni cosa con gran giri di fune, e vi adatta la vela.
Si naviga ancora verso levante, ma incappando presto in un altro
fortunale, che porta via l'albero di trinchetto. In tal guisa
l'Atlantico rabbioso dava congedo al suo domatore: e in tal guisa, fatte
settecento leghe di mare e d'angoscia indicibile, nella mattina del 7
novembre il legno disalberato afferrava San Lucar di Barrameda, donde il
signor Almirante, sfinito da due anni e mezzo di continui travagli,
tormentato dalla gotta e più dal pensiero della umana malvagità, si
faceva trasportare a Siviglia.

Sperava di trovar pace colà, e di ricuperare tanto di forze da potersi
condurre a Medina del Campo, dov'era allora la Corte, necessariamente un
po' nomade in quel primo periodo di ricostituzione del regno. Ma non
ricuperò punto di forze, non avendo trovata la pace, bensì in gran
disordine le cose sue, poichè dal tempo della sua prigionìa, avendo il
Bovadilla preso possesso della sua casa e delle sue sostanze in San
Domingo, non pure non gli pagavan le rendite, ma non erano state neanche
esatte con la debita puntualità, e quel tanto che se ne veniva
raccogliendo restava nelle mani del governatore. Ond'egli, un mese dopo
l'arrivo a Siviglia, scriveva al figliuol suo Diego, ch'era paggio alla
Corte: "Il governatore m'ha crudelmente trattato. Mi dicon tutti che io
là posseggo undici o dodicimila castigliani; ed io non ne ho avuto un
quarto". Si aggiunga che quel quarto gli era servito a comperar le due
navi, per portare in Ispagna tanti buoni servitori della Corona, che
ancora un mese dopo l'arrivo a San Lucar di Barrameda non avevano
ricevuto il soldo di due anni e mezzo di onorati servizi; e a lui si
volgevano, chiedevano denari a lui, che non ne aveva per sè.

Nè solo scriveva al figliuolo che perorasse per lui e per la giustizia;
scriveva al re, scriveva alla regina. Ordinassero che fosse dato il
soldo a quella povera gente; comandassero all'Ovando di fargli pagare
senza indugio il dovuto, perchè, senza una lettera regia, nè quegli si
sarebbe mosso, nè gli stessi agenti dell'Almirante in San Domingo
avrebbero ardito aprir bocca; provedessero finalmente, in guisa che
meglio fossero amministrate laggiù le rendite della Corona; al qual
proposito bastava accennare che una immensa quantità d'oro si
ammonticchiava in mal costrutte case, esposte di continuo alla rapina,
al saccheggio. Aveva risposte, ma fredde, che lo rimandavano di giorno
in giorno, anzi peggio, di mese in mese. Erano andati alla Corte del re
Ferdinando e della regina Isabella, i suoi due fidati amici, Diego
Mendez e Alonzo Sanchez di Carvajal, ricevendo anch'essi un sacco e
sette sporte di buone parole. Più non poteva fare la regina, inferma, da
parecchi mesi inchiodata in un letto: più non voleva fare il re, largo
promettitore, non senza un'aria di canzonatura, che tirava, sia detto
col rispetto dovuto a su' Altezza reale, che tirava i ceffoni. Intanto,
trionfava il Porras, parente in quel brutto modo che sappiamo al regio
tesoriere Morales. E il re Ferdinando a tutte le sollecitazioni del
povero infermo di Siviglia mandava a rispondere: "si vedrà, si farà
quanto è dovuto, e più ancora"; la regina Isabella, in cui era riposta
l'ultima speranza dello sventurato Colombo, la regina Isabella moriva.

Povera donna, infelice regina, che non aveva avuto in tutta la sua vita
fortunosa un'ora di pace! Abbiamo narrate le vicende della giovinezza di
lei, e come le paresse liberazione andar moglie a Ferdinando d'Aragona.
Ma proprio allora incominciò la prigionia, non della persona, bensì
dell'anima generosa, del cuore pietoso d'Isabella di Castiglia e Leone.
Le istesse gioie della maternità, che consolano tante donne d'un nodo
malaugurato, volsero in lutto per lei. Le era morto l'unico maschio, il
principe Giovanni; morta la diletta figliuola Isabella, e il
figliuoletto di lei, don Michele; restava Giovanna, misera creatura che
doveva rimanere nella storia col nome di Giovanna la pazza, maritata
all'arciduca Filippo d'Austria, bel giovane e dissoluto, che la rendeva
infelice vivendo, e doveva lasciarla infelicissima, morendo un anno di
poi. Di tutti questi dolori materni nutriva Isabella i suoi anni maturi;
e d'altri ancora, onde la colmò di continuo l'indole avara e tiranna del
suo consorte e signore. Quell'astuto Aragonese, che, lei morta appena,
sarebbe passato a seconde nozze con una principessa francese, non era
fatto davvero per darle allegrezza della vita e del regno. E cercò
sempre, la nobil donna, di nascondere al mondo la sua infelicità; fece
quanto potè, anche in punto di morte, per esser creduta la più felice
delle mogli.

"Che il mio corpo (diceva ella nel suo testamento) sia seppellito nel
monastero di San Francesco, nell'Alhambra della città di Granata, in un
modesto sepolcro, senz'altro monumento che una semplice pietra, su cui
sarà scolpita l'iscrizione. Desidero nondimeno, ed ordino, se il re mio
signore s'eleggesse sepoltura in una chiesa, o monastero, in alcun altro
luogo o parte de' miei regni, che il mio corpo sia pur tramutato e
sepolto accanto a quello di Sua Altezza; per forma che la unione di cui
abbiamo goduto in vita, e di cui speriamo la Dio mercè che le anime
nostre godranno nel cielo, possa essere raffigurata dalla unione dei
nostri corpi in terra."

Isabella moriva il 26 novembre del 1504, a Medina del Campo, in età di
cinquantaquattro anni. Il grand'uomo ch'ella aveva protetto,
intendendone l'ingegno e la missione divina, trattenuto dalla sua
infermità nelle mura di Siviglia, non aveva potuto rivederla un'ultima
volta: neanche gli fu dato di conoscer subito la notizia della morte di
lei. Sapendola aggravata dal male, e desideroso di recarsi al suo letto
d'agonia, non aveva trovato mezzo di trasporto più adatto d'una lettiga
che i canonici di Siviglia avevano usata poco prima per trasportare la
salma del cardinal di Mendoza. Ma i canonici temevano per il fatto loro,
che non andasse guasto o perduto; e l'istesso giorno che Isabella moriva
a Medina del Campo, si faceva in Siviglia tra quei canonici e il "vicerè
delle Indie" un regolare contratto per l'affitto di quella lettiga, di
quella bara, restando mallevadore don Francesco Pinedo, tesoriere della
marina, che la strana vettura sarebbe stata restituita. Già era per
salirvi il dolente; ma le trafitture del suo male e lo straordinario
rigore della stagione non gli permisero di mandare ad effetto il suo
divisamento.

La morte d'Isabella era il colpo di grazia al grande infelice. Viva la
regina, si poteva sperare ch'ella fosse un giorno e l'altro per vincer
l'animo iniquo di Ferdinando; e ad ogni modo si poteva esser certi che
la regia fede sarebbe stata mantenuta, com'era scritta in forme solenni.
Lei morta, le ragioni di Cristoforo Colombo, lasciate così a lungo
sospese, sarebbero state sicuramente disconosciute, e le speranze
deluse. E ancora tentava, scrivendo lettere su lettere, mescolando le
umili supplicazioni alle giuste querele. Nella primavera del 1505 tentò
per lui don Bartolomeo suo fratello di ottenere a voce quello che per
iscritto non si era potuto fin allora. L'Adelantado conduceva seco il
secondo figliuolo dell'Almirante; savio e costumato adolescente, allora
nei diciassette anni, che aveva partecipato alle fortunose vicende del
quarto viaggio. Si chiamava Fernando, l'adolescente; Fernando, come il
re; ma non gli valse altrimenti che ad ottenere un altro sacco di buone
parole.

Un filo di speranza era venuto al signor Almirante dalla notizia che
Diego di Deza, il dotto domenicano, allora vescovo di Palencia, ma
innalzato ad arcivescovo di Siviglia, sarebbe rimasto alcun tempo alla
Corte. Diego di Deza era stato l'unico dotto, e perciò l'unico
sostenitore di Cristoforo Colombo, nel famoso consiglio degli indotti di
Salamanca. Non avendo potuto persuadere i suoi ostinati colleghi, era
pure tornato utile al navigatore genovese, consigliandolo a restare in
Castiglia, aspettando una migliore occasione di vincere. Queste cose,
che tanto onoravano il Deza, mandò a ricordargli Cristoforo Colombo: ma
è da credere che l'arcivescovo di Siviglia non potesse far più, per
l'amico, nessuno di quei buoni uffici che aveva fatti il lettore di
filosofia del convento di San Domenico in Salamanca. Un altro amico
parve la man di Dio allo sventurato Colombo, quando se lo vide comparire
in casa, in quella medesima primavera del 1505. Quell'amico era Amerigo
Vespucci, che al tempo del terzo viaggio di Cristoforo Colombo al nuovo
Mondo, era stato con Alonzo d'Ojeda alle Antille, in quella spedizione
che fu il primo colpo dato da re Ferdinando ne' suoi patti solenni
coll'Almirante maggiore del mare Oceano e Vicerè governatore generale
delle Indie. La conoscenza di Amerigo Vespucci con Cristoforo Colombo
era anche più antica, poichè il Vespucci era stato computista presso il
fiorentino Giannotto Berardi, ricco negoziante in Ispagna, il quale
appunto aveva dovuto dare una sua nave alla grande spedizione
dell'Almirante, allora per l'ultima volta in auge presso la Corte
spagnuola.

Di lui scriveva l'Almirante al figlio Diego, il 3 febbraio 1505: "....
Ho parlato con Amerigo Vespucci, latore della presente, chiamato dal re
per affari di navigazione. Egli ebbe sempre desiderio di compiacermi; è
uomo molto dabbene; la fortuna gli fu avversa, siccome a molti altri; i
suoi lavori non gli profittarono come ragione voleva. Parte assai ben
disposto per me, e bramoso, se gli è possibile, di fare qualche cosa che
mi sia utile. Io di qui non so di che potrei incaricarlo, perchè ignoro
che voglia da lui la Corte; egli va, determinato di fare per me quanto
gli sarà possibile. Vedi in che può servirmi, e adóprati a questo
proposito, poichè egli farà ogni cosa; parlerà e metterà tutto in opera;
ma tutto sia segretamente, a fine di non destar sospetti contro di lui.
Io gli dissi quello che potei circa le cose mie, e lo informai della
ricompensa che mi ebbi ed ho per le mie fatiche".

La lettera era bella, e doveva infiammare il giovine Diego Colombo di
nobilissimo zelo a servire il buon Amerigo, che certo si adoperò per
l'amico, e da amico lo servì, dando il suo nome di battesimo a quella
parte del mondo, che senza l'ingegno, la costanza, la intrepidità del
navigator genovese sarebbe rimasta Dio sa quanto ancora sconosciuta, ma
sicuramente di là dagli anni di vita concessi dalla natura al buon
messere Amerigo. Non ci ebbe colpa, dicono, nella faccenda del nome; fu
un capriccio della gran matta, il giorno che, sollevata un pochino dagli
occhi la benda famosa, lesse a caso il nome del Vespucci sopra una carta
delle terre di recente scoperte da un altro.

Il quale seguitava ad illudersi; come s'era illuso, quando, ritornate da
San Domingo alcune navi cariche d'oro per la Corona, della parte dovuta
all'Almirante non portarono nulla, e dovevano esserci per lui almeno
settantamila scudi; come quando, essendo mossa questione di far partire
per il nuovo Mondo tre vescovi, indarno richiese che fosse ascoltato il
suo parere prima di eleggerli. Questa, per altro, era stata ingiuria
troppo grave alla sua dignità, e non aveva saputo tollerarla. Infermo
com'era, proponendosi di andare a Segovia, dove allora si ritrovava la
Corte, a far dimostrazione del suo desiderio di farla finita con tante
tergiversazioni indegne di un re, come con tante offese al suo buon
diritto, aveva chiesto per lettera il permesso di servirsi d'una mula
per il viaggio, non potendo sopportare lo scuotimento del cavallo. È qui
da sapere che il troppo frequente uso dei muli aveva fatto trascurare in
Ispagna l'allevamento dei cavalli; onde già il re Alfonso XI aveva
proibito l'uso dei muli per cavalcatura. Il divieto era stato mitigato
in processo di tempo, ma poi rimesso in tutto il suo vigore dal re
Ferdinando, che l'andare a dorso di mulo permetteva soltanto agli
ecclesiastici, alle donne, ai fanciulli. Incomportabili angherie pei
tempi nostri; ma allora un re poteva tutto quel che voleva; e a volere
non mancavan pretesti.

La licenza, chiesta da Cristoforo Colombo negli ultimi giorni del 1504,
non fu accordata se non il 23 febbraio dell'anno seguente. Il re
Ferdinando, evidentemente seccato dall'idea di quella visita, aveva
trovata quell'altra rémora, per allontanarsene quanto più potesse la
noia. Forse ricordava il proverbio: "piglia tempo e camperai". Tante
cose potevano accadere in due mesi! E ancora fu servito dalla mala
ventura del suo Almirante maggiore, a cui le pioggie rovinose di
quell'inverno avevano guaste le strade, di guisa che non gli venne fatto
di mettersi in cammino se non un mese più tardi.

Il colloquio di Segovia meriterebbe d'esser narrato in disteso. Ma se
uno degli interlocutori ci è caro, l'altro maledettamente ci è in uggia.
Si sta mal volentieri con lui; si guadagna un tanto a vederlo di
scorcio, e passando; specie quando si sa di dover presto ritornare alla
sua non lieta presenza.

Cuoceva al re di tante concessioni straordinarie ad un navigatore
straniero; concessioni la prima volta già fatte di mala voglia, tra per
finirla con un molesto dimandatore, e per la convinzione di non
impegnarsi a nulla. Che cosa avrebbe mai scoperto quel promettitore di
regni? Qualche altro scoglio in mezzo all'Oceano, da far riscontro a
Madera e Porto Santo; nel qual caso un titolo di vicerè contava poco, e
si poteva concederlo, in vista d'un bruscolo negli occhi ai Portoghesi,
fin allora troppo fortunati vicini. O non trovava niente; e buona notte
al titolo di vicerè, come a quello d'Almirante maggiore, che andava a
seppellirsi in fondo all'Oceano. E questa, poi, era la saldissima fede
di Ferdinando d'Aragona; il quale non aveva apposta la sua riverita
firma alle concessioni sullodate, se non per compiacere ad un vero
capriccio della regina di Castiglia e Leone, sua magnanima consorte,
troppo facile ad infiammarsi d'un disegno che a lui pareva d'imbroglione
o di matto. Quelle concessioni maledette, le aveva poi confermate al
ritorno del Genovese, non matto nè imbroglione, ma scopritore d'un
mondo; le aveva confermate nel caldo di un entusiasmo che per un istante
aveva sopraffatto anche lui. Ma il secondo viaggio, con tutte le spese
che aveva cagionate, con tutte le speranze forsennate che aveva pel
momento deluse, offriva il buon pretesto per scemare allo scopritore una
somma di privilegi, che parevano inconciliabili colla maestà del regno.
Non c'era ancor l'oro a botti; c'era un mondo da sfruttare; doveva
scoprirlo tutto quell'uomo, aver la sua parte di tutto? Di qui la prima
violazione dei patti stabiliti con quell'uomo, e la licenza data ad
altri scopritori, che già diventavano legione; di qui tutto il resto,
che si compendia in un ragionamento crudele, ma semplicissimo: dobbiamo
noi lasciare tant'oro ad un marinaio fortunato, che ce ne ha ritrovata
la vena? dobbiamo noi lasciare tanti privilegi ad uno straniero, che
vuol trattar da pari a pari con noi, per il fatto che ha indovinata una
strada sul mare? E qui dubbiezze, che la pronta calunnia convertiva in
sospetti; qui malumori che la vigile perfidia traeva ad ostilità; qui
facili sdegni e dure risoluzioni, seguite da tardi pentimenti, ognuno
dei quali lasciava il suo lievito di rancori nell'animo di chi aveva
dovuto mostrarsi pentito, e disposto a render giustizia. Ma il re
Ferdinando, diventando a mano a mano più forte nei consigli della mite
Isabella, e già in via di allontanarne il cuore del suo infelice
protetto, era piuttosto vergognoso che poco desideroso di mostrarsi
sleale. E ancora, vivente la regina, si dovevano rispettar certe forme;
lei morta, e lui rimasto reggente di Castiglia in nome della figliuola
Giovanna, non c'era più ragione di rispettar neppur quelle.

Accolse dunque con fredda cortesia il gran suddito; ascoltò i lagni del
suo vicerè ed almirante maggiore, senza dargliene i titoli; venendo al
fatto, dichiarò di non potergli rispondere lì per lì, trattandosi di
quistioni complesse, e da parecchio tempo malamente intricate. Erano
giuste tutte le offese ch'egli diceva esser fatte ai suoi privilegi, con
le patenti date ad altri scopritori, ad altri governatori? C'era per
tutte queste faccende un Consiglio delle Indie. I re, disgraziatamente,
non potevano sapere appuntino ogni cosa, bastando loro di vigilare
dall'alto, perchè ad ognuno fosse facile sostener sue ragioni. Don
Cristoval sosteneva che il Consiglio delle Indie gli fosse nemico. Come
disingannarlo? come sincerarsi che si apponesse al vero? Doveva il re
sciogliere il consiglio delle Indie, in tal dubbio, e per una accusa di
parte? Non potendo scioglierlo, poteva prender licenza di non
rispettarlo? Questioni complesse, questioni intricate; ci sarebbe voluto
un arbitro, per vederci chiaro, e proferire un giudizio.

Don Cristoval si appigliò per disperato a quest'áncora di salvezza. Un
arbitro, sì, lo accettava. E perchè non sarebbe stato il vescovo di
Palencia, testè nominato arcivescovo di Siviglia, ma non ancora andato
ad occupar la sua sede? Era lì, sotto la mano, il buon Diego di Deza,
dottissimo uomo, savio, e prudente. Parve ottimo anche al re Ferdinando,
che con questa trovata aveva l'aria di concedere ogni cosa. Intanto si
levava di torno un argomentatore importuno; e guadagnava tempo, che era
l'essenziale. Piglia tempo e camperai.

Ma l'arbitro, che era parso a tutta prima un tocca e sana, non rimediava
a nulla di nulla. Sarebbe bisognato anzi tutto distinguere, stabilir
chiaramente le materie su cui dovesse esercitare la sua autorità.
Ferdinando intendeva su tutte; non così l'Almirante. Questi accettava
l'arbitro per ciò che riguardava i suoi diritti sull'entrate delle
Indie, arretrati da computare, redditi da stabilire pel futuro. E ci
fosse anche da dare un taglio, per amor di pace; l'Almirante non voleva
piatire per una questione di denaro; che anzi, senza arbitrato, si
sarebbe rimesso alla coscienza del re, e solamente accettava l'arbitrato
perchè il re non voleva far lui, per tema di apparir giudice e parte. Ma
egli, l'Almirante, non poteva egualmente sottoporre ad arbitrato i suoi
titoli di vicerè, d'almirante maggiore, di governator generale, coi
privilegi annessi e connessi, i quali ancora di recente erano stati
offesi coll'invio dei tre vescovi, senza averlo pure consultato.

--Queste,--diceva egli,--sono mie dignità, regolarmente conseguite e
guadagnate con l'opere mie a pro' della vostra Corona. Che se io ne
facessi getto, e mi adattassi a rinunziarne solo una parte, lascerei
credere di avere in alcuna cosa demeritato del regio favore, o di non
esserne stato mai degno. E se io ne son degno, perchè dispogliarmi? La
forza può tutto, ed io cederei alla forza; ma potrei appellarmi alla
divina giustizia, presso a cui, nella gloria che alle sue virtù era
dovuta, siede ora la nostra regina. Che direbbe ella, vedendo così
deluso il suo volere e non mantenuti i patti da lei liberamente
sottoscritti? Perchè i suoi voleri sian rispettati, non è stata nominata
una Giunta degli scarichi?--

Don Cristoval toccava un tasto assai delicato. Castiglia e Leone
vegliavano gelosamente alla custodia dei loro diritti. Nel matrimonio
della loro regina col re di Aragona si preparava la unione delle due
parti di Spagna in un solo reame; ma per intanto, uniti i sovrani,
restavano distinti i diritti; nè il regno più vasto voleva essere
assorbito dal più piccolo. Morta la regina di Castiglia e Leone, sotto
colore di far rispettare gli obblighi che per isgravio di coscienza
avesse ella potuto assumere in suo vivente (e qui si vedeva la mano del
clero di Castiglia, le cui ragioni di classe si confondevano con quelle
della patria dignità) era stata istituita quella Giunta, intitolata
degli "scarichi della coscienza regale", che doveva nel fatto riuscire a
freno del re Ferdinando, nel tempo della sua inevitabil reggenza in
Castiglia. E quell'uomo ch'era tuttavia così potente per far pesare la
sua autorità nelle cose d'Europa, sostituendo nella lontana penisola
italiana il predominio spagnuolo al predominio francese, non poteva
egualmente far pesare la sua volontà sul reame di Castiglia. Ne era il
reggente, finchè non giungesse la figliuola Giovanna, col suo giovine
marito, ad assumere la corona d'Isabella; e una giunta _de los
Descargos_ teneva infrenato il reggente. Casistica politica dei tempi; e
a qualche cosa serviva.

Ferdinando aveva avuto comune con Isabella il titolo di Cattolico; ed
era naturalmente devoto. Meglio sarebbe stato aver religione, pensare
che ogni promessa è debito, e che ogni debito è sacro. Egli tentò in
quella vece di persuadere l'ostinato avversario a recedere dalle sue
pretensioni, accettando un gran titolo di nobiltà e un vasto dominio in
Andalusia; Carrion de los Condes, niente di meno. Ma Cristoforo Colombo
non s'era mosso per ricchezze e per titoli; bensì per l'onore del suo
nome, che oramai era vincolato alle dignità conseguite. Ricusò dunque
dominii e marchesati; al re Ferdinando non rimase altro che di chinare
la testa, passando sotto il giogo _de los Descargos_. Giogo soave, per
altro, e con cui si guadagnava tempo, assai tempo, fin oltre il bisogno.
Quel vecchio ostinato, rotto nella salute, non avrebbe mica voluto durar
tanto da veder la Giunta degli Scarichi della coscienza regale metter
fine ai suoi delicatissimi uffici. Era composta di gran signori,
chiesastici e secolari: ferma nell'opporsi alle prepotenze del re su
Castiglia e Leone, non poteva sentire ugual voglia di render giustizia
ad uno straniero, il quale pretendeva titoli e privilegi non mai
ottenuti in tal copia nè con tale pienezza da alcun suddito di
Castiglia, di Leone, d'Aragona.

Bene si avvide Cristoforo Colombo, che da quella parte non c'era niente
a sperare. Passavano i mesi, e la Giunta studiava ancora, o diceva di
studiare. Nè per altra via aveva potuto smuovere il re, quantunque le
buone parole non mancassero mai. E giunto così alla primavera del 1505,
dopo aver scritto in quel modo che sappiamo al conte Fiesco, suo
compagno di gloria, così scriveva desolato ad un altro amico, a Don
Diego di Deza, fatto arbitro un istante, ma senza frutto, della sua
querela col re.

"Pare che Sua Altezza non estimi a proposito di mantenere le promesse,
da lui e dalla regina, la quale or si trova nel sen della gloria,
ricevute sotto la lor parola e sotto il loro sigillo. Opporsi al volere
di lui sarebbe un lottar contro il vento. Io ho fatto tutto ciò che
dovevo; lascio il resto a Dio."




CAPITOLO IX.

Spera di sole.


Segovia, nella Vecchia Castiglia, poco distante dalle falde
settentrionali della Sierra di Guadarrama, è una città nobile e bella,
come tutte le città molto antiche di qualsivoglia paese, che possono
piacere e non piacere, secondo i gusti e gli umori, ma che bisogna
accettar come sono. A buon conto l'avevano per bellissima i suoi
dodicimila abitanti del 1506, tenendosi molto della sua zecca, che era
la più vecchia della Spagna; delle sue diciotto chiese, compresa la
cattedrale di stile tra gotico e moresco, non meno decorosa del duomo di
Salamanca, e provveduta d'un campanile a gran pezza più alto; finalmente
del suo Alcazar, saldamente piantato su d'una roccia dominante, antico
soggiorno dei re Mori, e per allora della Corte spagnuola, nomade al
solito, e già meditante il suo trapasso a qualche città meno antica,
forse, ma più adatta a ricevere i nuovi sovrani di Castiglia, il cui
arrivo dalle Fiandre si sperava sempre imminente.

L'orgoglio di Segovia era il suo acquedotto romano, di cento e
sessantun arco, in due file sovrapposte, tutti di pietre riquadrate e
senza cemento. L'aveva fatto costrurre Traiano, come i Segoviani
affermavano? Poteva essere; ma in verità non era neanche necessario
ricorrere a quel virtuoso imperatore, nato Spagnuolo, per intendere il
fatto di quella maraviglia d'arte in Ispagna, essendo nota la
imparzialità Romana in materia edilizia, e l'usanza costante di decorare
di grandi opere di pubblica utilità ogni parte più lontana del
vastissimo impero. L'acquedotto di Segovia non aveva altro torto che di
fare tropp'ombra in certe strade della città per cui veniva a passare,
tragittandosi dall'una all'altra delle due colline su cui ella era
fabbricata, in forma di nave, a cui il fiumicello Eresma faceva uffizio
di chiglia. Ma è detto che ogni gloria si paghi; e Segovia pagava la sua
gloria a quel modo, come pagava la sua sicurezza antica con un giro di
mura turrite, aperte da sette porte, quattro delle quali mettevano ad
altrettanti sobborghi. Donde si vede che fin d'allora Segovia non capiva
in sè stessa. E faceva mostra d'un'insolita animazione, in quella fine
d'inverno del 1506, tra tanti fumi di grandezze cortigiane, quasi non
sentendo più il freddo, ignorando perfino di avere tra le sue mura,
all'ombra dell'acquedotto di Traiano, un grand'uomo, ma grande davvero,
e non di quelli che si distinguevano per classi.

Povero grand'uomo, a sessant'anni già vecchio, mani e piedi rattrappiti
dalla gotta, senz'altra energia che degli occhi sfolgoranti, senz'altra
gioventù che della bocca, rimasta sempre bellissima! Stava a letto la
più parte del giorno, poichè quell'anno l'inverno s'era mantenuto
rigidissimo, invadendo anche ed usurpando i principii della primavera;
ond'egli, latinista impenitente, soleva dire col suo malinconico
sorriso: "_in cauda venenum_". Per poche ore, intorno al mezzodì,
alzatosi con grave stento da letto, cercava di reggersi in piedi; per
riflessione, diceva, e per avvezzarsi ad uno sforzo maggiore che un
giorno o l'altro avrebbe dovuto pur fare. Intorno a lui poca gente: anzi
tutto il figliuol suo Fernando, caro adolescente sui diciassette anzi, a
cui traluceva dagli occhi la mestizia pensosa di una esistenza già
provata alle sventure, e fors'anche il dolore profondo di non vedere
accanto al padre venerato una madre ond'egli non aveva avute mai le
carezze; indi un uomo di matura virilità, l'Aiace Telamonio d'un'altra
Iliade, don Bartolomeo Colombo, uomo di poche parole e di molti fatti,
più conosciuto sotto il nome di Adelantado, come a dir podestà,
governator di provincia, prefetto; finalmente Geronimo, un marinaio
fedele, che faceva i servigi della casa, e troppo spesso non avendo da
far nulla, s'industriava a tener vivo con poche legna uno scarso fuoco,
insufficiente a riscaldare la cameretta del signor vicerè delle Indie.
Che freddo in quella casa! che tristezza, più dura a gran pezza del
freddo!

Ma un po' di calore, un po' d'allegrezza doveva penetrare anche là
dentro. Irrompevano, con un raggio di sole mattutino, tre visitatori
inattesi; un cavaliere di bell'aspetto, uno scudiero, un adolescente
vestito da mozzo, ma con figura di paggio. Erano venuti con grossa
scorta da Barcellona, per la via di Lerida e di Saragozza; ma passata
la Sierra di Guadarrama, ne avevano rimandata una parte, per non lasciar
troppo scarsa di numero la marinaresca del _Paradiso_, di quella bella
nave che li aveva portati fino a Barcellona, e che laggiù, in quel
massimo porto di Catalogna, doveva aspettarli.

Non venivano ad accrescere il numero delle bocche in quella povera casa,
dove sicuramente, non che mancasse il superfluo, scarseggiava il
necessario. Erano viaggiatori che potevano smontare alla migliore
_posada_ di Segovia, e prender magari un palazzo in affitto, se la folla
dei gentiluomini e dei servitori di Corte avesse lasciato in quei giorni
un posto conveniente a nuovi ospiti. Restando accanto al signor
Almirante non sarebbero stati altrimenti a carico della famiglia, dove
anzi portavano un po' d'agiatezza, e per intanto un raggio di sole;
raggio benefico insieme e crudele, poichè metteva più in chiaro la
nudità desolata d'una casa da poveri.

Alla vista di messer Bartolomeo Fiesco si rianimò, ed anche si commosse
vivamente, il disgraziato vicerè delle Indie. Aveva stretta fra le sue
braccia la testa dell'amico, l'aveva baciato e ribaciato sulle guance,
come un padre il figliuol suo prediletto.

--Che Iddio vi benedica, conte Fiesco!--diss'egli, con voce mezzo
soffocata da lagrime di tenerezza.--Ecco, vedete? è il primo raggio di
sole che ci risplende, dopo tanti giorni di nuvole. Anche la primavera
vuol mostrarsi, ora che voi ci arrivate. Ah, come siete stato buono a
muovervi per me!

--Poteva dubitarne Vostra Eccellenza?--rispose il capitano Fiesco.

--Lasciate i titoli;--riprese Cristoforo Colombo.--Non me li dà
Ferdinando; potete sopprimerli Voi.--

Non pareva al capitano Fiesco che il discorso del signor Almirante fosse
conforme ai sani precetti della logica; e non volle lasciarlo passare
senza protesta.

--Ecco,--diss'egli,--il re Ferdinando può molte cose, e potrà anche
questa. Ma non possiamo sopprimerli noi, i vostri titoli, noi che vi
abbiamo seguito, noi che abbiamo veduto come sapeste meritarli. Tornando
a lui, siamo qui sulle terre del Cid; ed è venuto con me frate
Alessandro, il quale saprà dirvi in canzone come fosse riconoscente un
altro re ad un altro valentuomo.

--Eh, ci pensavo infatti, alla ricompensa che ebbe il valoroso don
Rodrigo di Bivar dal suo re don Alfonso;--disse frate Alessandro,
accostandosi al capezzale dell'infermo.--Mi astenevo dal parlare, per
sentimento di rispetto. Mi permette ora Vostra Eccellenza che io le baci
la mano?

--La guancia, buon frate, e siate il ben venuto anche voi;--rispose
l'Almirante.--E mi pare, in tanta contentezza, di non sentire già più i
miei dolori. Ospiti antichi e molesti, vorranno cedere il posto ai nuovi
e cari che la provvidenza m'invia? Mi alzerò certamente un po' prima del
solito. Ma quel ragazzo.... quel giovinetto che è laggiù.... Oh, sarebbe
vero? il mozzo Bonito?--

Il mozzo si fece innanzi a sua volta; grazioso adolescente, vestito alla
marinaresca, di panni grossolani e mal tagliati, ma dai quali prendeva
disgraziatamente più spicco la sua bella faccia vermiglia, inghirlandata
dalle indocili ciocche dei capelli neri abbastanza arruffati.

--Sicuro,--diceva intanto il capitano Fiesco,--ecco il mozzo Bonito che
avrebbe potuto venire in veste da paggio, ma si è fitto in capo di non
indossare altri abiti che questi, per ripresentarsi al cospetto del suo
Giocomina.

--Che idea! che idea!--mormorò l'Almirante, mentre, avendo presa la mano
del mozzo, se la recava alle labbra, come in altri tempi la mano regale
d'Isabella di Castiglia.--Venire fin qua!... tra questa gente.... a
rinfrescare certe memorie dolorose!...

--Ha voluto;--rispose il capitano Fiesco;--ha voluto così, e non c'è
stato verso di fargli cambiar proposito.

--Ebbene,--sentenziò l'Almirante,--sia fatta la volontà.... delle dame.
Non è così che bisogna dire? E vi ringrazio con tutto il cuore, o mozzo
Bonito. Perchè qui, naturalmente, l'abito fa il monaco, e non bisogna
dir nomi, nè scoprire segreti.

--Così è, Giocomina;--rispose il bel mozzo, arrossendo;--resti il
segreto, che mi ha permesso di accompagnare il conte Fiesco. Potevo io
lasciarlo venire solo da voi? mentre il mio desiderio più vivo era
quello di vedervi ancora una volta, e di portarvi l'attestato della mia
gratitudine?

--Gratitudine! da Voi.... mozzo Bonito? E Voi, e i vostri, non avreste
piuttosto ragione di maledirmi?--

Così parlava, non senza sospiri, lo scopritore di Haiti, mentre
l'immagine di un popolo distrutto si affacciava agli occhi della sua
mente turbata.

--Non dite, Giocomina, non dite!--ripigliò il mozzo Bonito,
inginocchiandosi alla sponda del letto e prendendo amorosamente tra le
sue morbide mani il pugno rattrappito del vecchio glorioso.--Tuttavia vi
han reso giustizia, i figli d'Itiba; in Voi tutti hanno venerato un
messaggero del cielo. Le vostre intenzioni erano pure; ed io ora posso
riconoscere che erano sante.

--Amore vi ha illuminato, o mozzo Bonito, dandovi la conoscenza del Dio
unico e vero. Fidiamo in lui;--conchiuse l'Almirante.

--E speriamo, per conseguenza;--soggiunse il Fiesco.--Non è già perduta
ogni speranza?

--La speranza è l'ultima a morire;--disse l'infermo.--Ma ce n'è così
poca.... così poca!

--Vediamo, signor Almirante; lasciate che ne giudichi anch'io. E per
cominciare, permettete che io vi faccia qualche domanda.

--Fate, amico mio, fate; son pronto a rispondervi.

--Da chi aspettate giustizia? dal re Ferdinando?

--È l'unico oramai, a cui mi possa rivolgere, poichè la regina è nella
gloria di Dio. Aspetto giustizia, ed egli la nega; giurando di volerla
fare, la nega, proponendomi gran dominio e titolo di gran nobiltà in
Ispagna, purchè io rinunzi agli uffici, alle dignità che sono la mia
proprietà e la mia gloria. Mi sono richiamato alla sua lealtà, ma
inutilmente; è uno sleale, quel re. Ho invocata la santa memoria della
regina, che non poteva essere offesa col violare le sue volontà, col
tradire le sue intenzioni. E così siam venuti al partito di sottoporre
la mia querela alla Giunta degli scarichi. Sapete che cos'è?

--Ne ho sentito parlare abbastanza in otto giorni di viaggio attraverso
Catalogna ed Aragona;--rispose il capitano Fiesco.--È una giunta che non
iscaricherà nulla di nulla.

--È anche il mio pensiero, oramai;--riprese l'Almirante.--E per questo
avevo tentato di questi giorni un'altra via, scrivendo a Diego, il mio
primogenito. Doveva egli offrire in mio nome a Sua Altezza un patto
assai conveniente. Mi tengano pure per straniero; rinunzierò alle mie
dignità di vicerè delle Indie, di almirante maggiore dell'Oceano, ma a
benefizio del figliuol mio; egli vada al governo della colonia e delle
altre terre scoperte da me, assistito da un consiglio di persone scelte
tutte quante dal re. A questo patto io non avrei chiesto più nulla;
salvato l'onore, nient'altro poteva più importarmi, nessuna ambizione,
nessuna vanità, nessuna idea di tornaconto passarmi pel capo.

--Ed egli?

--Ed egli neppur questo ha voluto accettare.

--Nessuno gli ha parlato per Voi, dei potenti amici che vi hanno in
altre occasioni assistito? Il Quintanilla? il Santangel?

--Morti!--rispose Cristoforo Colombo, traendo un sospiro;--morti come il
cardinale di Mendoza, che fu mio protettore costante, e nella cui bara
dovevo io per grande fortuna essere trasportato da Siviglia alla Corte.

--E il nuovo arcivescovo di Siviglia?

--Diego di Deza? È ancor qui, ma inascoltato. Ferdinando lo venera, ma
facendogli sentire che non ha da metter bocca in cose di Stato, specie
ora che c'è una Giunta degli Scarichi, che ha ufficio di coscienza, e
non può essere turbata da raccomandazioni di nessuno. Anche della
coscienza si giova, il re Ferdinando, anche dell'altrui coscienza, per
offendere la sua propria, per soffocarne le voci.

--Questo è dell'indole sua;--disse Bartolomeo Fiesco;--e servono bene
gli scrupoli di coscienza a coloro che non vogliono por mente al più
grave, che sarebbe quello di non mettersi in condizione di averne. Ma
lasciamo queste sottigliezze, nelle quali si smarrirebbe anche la
coscienza del vostro umilissimo servo, quantunque abbia fatto il suo
corso di filosofia. I due Medina, che vi erano tanto amici, che pensano?

--Non si mostrano alla Corte da un pezzo;--rispose l'Almirante.--Nè io
so in che potrebbero giovarmi, se pure volessero. C'è la Giunta degli
Scarichi, oramai!

--E con questa si può chiudere la bocca ad ogni onesta
osservazione?--ripigliò il capitano Fiesco.--Io non lo credo; e vo'
farne ad ogni modo l'esperimento.

--Amico mio, in questa speranza mi ero rivolto a Voi, ricordando le
accoglienze cortesi, le larghe dimostrazioni di stima che vi aveva fatte
il re, tenendovi in quel conto che meritate.

--Sì, come parente di Gian Aloise;--rispose il Fiesco, ridendo.--L'ho
ben capito io, il suo giuoco. Gian Aloise è un gran signore, ha voce in
capitolo laggiù, ed anche più verso qua, nei consigli del re
Cristianissimo. Mostrarsi cortese ai Fieschi era un bell'accorgimento,
ed assai naturalmente suggerito al re Cattolico, che correva il rischio
di perdere la corona di Castiglia e Leone, se il re Cristianissimo non
concedeva la sua amicizia a lui, ma in quella vece a Filippo d'Austria e
alla consorte Giovanna. E chi sa? forse ancor oggi Ferdinando può
credere la partita non del tutto perduta, ed un Fiesco esser buono
ancora a qualche cosa. Vedremo, vedremo;--soggiunse il conte, che pareva
riscaldarsi al giuoco anche lui.--Certo, se la parola di un uomo può
servire a vincerne un altro, io dirò quella parola. Ma in verità, avrei
più fede nell'efficacia d'una parola di donna.

--Di donna! e di qual donna?

--Di una gran donna; d'un miracolo di donna; della donna che vinse per
Voi una battaglia campale. Rammentate, signor Almirante?... Quando i
vostri alti disegni stavano per naufragare tra gli ostacoli messi avanti
dai consiglieri della Corona, e Voi già eravate risoluto di lasciare la
Spagna, quella donna, amata dalla regina, andò a chiudersi in un
convento, non volendo più uscirne, se la Corona non accettava tutte le
condizioni poste da Voi. La bella prova di amicizia si seppe, ed onorò
grandemente quella donna nel cospetto del mondo.--

Il capitano Fiesco parlava, e la fronte dell'infermo si era offuscata;
gli occhi sfolgoranti si erano ascosi sotto le palpebre; le vivide
labbra, ultima bellezza di quel volto, contratte in uno spasimo
d'angoscia profonda.

--Beatrice di Bovadilla!--mormorò egli con un filo di voce.

--Sì, la marchesa di Moya;--riprese il Fiesco;--la marchesa di Moya che
io vidi a Barcellona, nelle solenni accoglienze che vi erano fatte
dalla Corte.

--Tacete, conte Fiesco, tacete per carità!--gridò l'Almirante.--Non
toccate una piaga mal chiusa. Per avermi così animosamente protetto, la
nobil creatura ha tanto dovuto soffrire!

--Caduta in disgrazia, forse?

--Non già, ch'io sappia, finchè visse la regina. Ella stessa si
allontanò dalla Corte, non potendo sempre rispondere con quella sua
fiera schiettezza a tutti i miei nemici, che si moltiplicavano ogni dì,
guadagnando anche l'animo di coloro.... a cui non si poteva rispondere.
Così, sdegnata con tutti, si ritirò nei suoi dominii; ed anche, io
penso, sdegnata con sè, col suo nome. Anima eccelsa! Voi non ignorate di
qual sangue ella sia; voi ricordate che se una Bovadilla fu l'angelo
tutelare della impresa a cui mi ero votato, fu un Bovadilla lo sgherro
che mi ribadì le catene ai polsi, quelle catene che non mi
abbandoneranno mai più. Voi le metterete nel mio feretro, Adelantado,
mio buon fratello; e tu, Fernando, figliuol mio. Me lo avete promesso
con giuramento. Io le ritroverò, nel gran giorno; con esse mi presenterò
al Giudice eterno....

--Sì, sì, chiunque di noi Vi sopravviverà per disgrazia sua, come per
legge di natura, non vorrà dimenticare i vostri desiderii, nè venir meno
alle vostre volontà;--rispose l'Adelantado, con burbero accento, che
male dissimulava la interna commozione.--Ma ora non vi turbate, fratello
mio; sapete pure come ciò vi torni dannoso. E non vogliamo sperar poi
che ne sia molto lontana l'occasione?--

Un sorriso d'incredulità sfiorò le labbra dell'infermo; e un moto del
capo accompagnò quel sorriso.

--Ah, non la temo;--diss'egli.--Tante volte l'ho vista da vicino, la
morte! Ma vorrei vivere quanto basta, fossero settimane soltanto,
fossero giorni, per uscirne coll'onor mio, per confondere i nemici del
mio nome, e del vostro. Di operare altre cose nel mondo non ho più
speranza oramai. Vanno già tutti sulle tracce del Genovese, e trionfano.
N'abbiano inni e corone dalla gran mentitrice, e conforto, se possono,
nel fondo della loro coscienza. Ma voi dicevate, buon amico....

--Volevo chiedervi se la marchesa di Moya fosse ancora alla Corte. Mi
avete detto anticipatamente di no. Nei suoi dominii, avete aggiunto. In
quali? Moya, che apparteneva al marito, è in Catalogna. Bovadilla, che
appartiene al suo nome, è in Andalusia; ma lontano da Siviglia, mi pare.

--Ed è a Siviglia, la nobil signora;--rispose l'Almirante;--ma non nel
castello de' suoi padri. Per quel ch'io ne so, dovrebb'essere nel suo
ritiro prediletto, fra le monache di Santa Chiara.

--Bisogna parlare a lei, muover lei;--disse il Fiesco.

--Lei? ci pensate? per vincere il re?

--Il re, o la regina;--replicò il Fiesco prontamente.--Lascio stare il
re, a cui pensate Voi, e che per ora, se è re in Aragona, non è altro
che un reggente in Castiglia e Leone. Sappia dunque Vostra Eccellenza
che i denari del viaggio da Barcellona a Segovia non me li sono spesi
troppo male, e del mio tempo ho usato con un certo giudizio. Alle
_posadas_ ho discorso con ogni sorte di gente, popolani e signori, e
preti e frati, e monache e soldati. C'è un'altra querela in campo, che
al re Ferdinando pare assai più grave della vostra, e che per lui
certamente è più fiera. Essa era già forte negli ultimi giorni di vita
della regina Isabella, a cui si voleva persuadere di lasciar reggente in
Castiglia il re suo marito, finchè giungesse alla maggiorità il
figliuolo di Giovanna. Era un bel colpo, che escludendo dal trono la
figlia e il suo giovane marito, assicurava ancora un quindici anni di
regno a danno della figlia e del genero. Ma la regina non ha voluto fare
quest'offesa a sua figlia; non ha voluto con un atto simile di materna
crudeltà ribadire alla povera Giovanna il nome di pazza, che i
cortigiani di Ferdinando non si son peritati di affibbiarle. Nel fatto
la povera Giovanna non è pazza se non d'amore per il suo maritino troppo
bello. Gran colpa! anche Isabella si ricordò di aver amato il suo
Aragonese, credendolo tutt'altro da quello che ben presto si palesò,
astuto, bugiardo e senza cuore. Ma lasciamo stare gli aggiunti, che a
far le cose in regola dovrei dargliene troppi. Sta il fatto che la
regina non acconsentì al disegno di una reggenza prolungata in quella
forma; e fece bene; e la nobiltà e il clero di Castiglia hanno avuto
un'altra occasione di lodare il gran senno della regina Isabella, come
l'amor suo intelligente per il popolo che Dio le aveva concesso in
governo. Lei morta, e fallito il colpo della lunga reggenza, Ferdinando
non si adatta alla breve: tenta il re di Francia, che a lui, non al
genero Austriaco, assicuri la propria alleanza; un'alleanza che
Ferdinando farebbe tosto balenare davanti agli occhi di Castiglia, per
trarla ai suoi desiderii.

--E a far riconoscere pazza la figliuola, non è vero?--domandò
l'Almirante, che seguiva con molta attenzione il ragionamento del
capitano Fiesco, tanto largamente istruito in viaggio.

--Così è, signor Almirante. Ma il re di Francia sta sul tirato; dà buone
parole a Ferdinando, come Ferdinando a Vostra Eccellenza; nel fatto non
vuol rendere un così grande servizio al suo caro rivale di predominio
nelle cose d'Italia. Ed ecco un giuoco doppio, che forse si prepara per
noi; o persuadere al re Luigi di concedere la sua alleanza al re
Ferdinando, come più vecchio, e più da lui sperimentato in tanti
incontri, piacevoli e spiacevoli che fossero; o persuadergli di
riconoscere Giovanna e Filippo, legittimi sovrani di Castiglia, ed
allearsi con loro. Dell'accordo con Ferdinando avrebbe forse buone
ragioni il re Cristianissimo, se davvero non vuol contesa col re
Cattolico nelle cose del reame di Napoli, e se questi non gli fa
ostacolo nelle cose di Lombardia.... e della nostra povera Genova. Ma
per render possibile un tale accordo, bisognerebbe che persona amica, in
cui re Luigi molto si fida, mettesse una buona parola.

--Gian Aloise?--domandò l'Almirante.

--Lo avete detto, messere;--rispose Bartolomeo Fiesco.--Ma questa forse
è la via più lunga; la più breve, per noi, sarebbe quella delle Fiandre.

--Lontane!--osservò l'Adelantado.

--Eh, pur troppo; fin che gli sposi regali stanno laggiù, non regnano
qui, e c'è poco da sperarne, anzi nulla. Ma io ho anche sentito dire
che si dispongano a calare in Ispagna. Forse l'inverno così lungo, e non
largo che di fortunali nel golfo di Biscaglia, è cagione del loro
indugio a risolversi. Ma pensate, messeri, se Giovanna di Castiglia
viene ad occupare il trono di sua madre, che novità potranno essere per
tutti! Ella sola può sgravare la coscienza regale, senza mestieri d'una
Giunta che par fatta a posta per guadagnar tempo al re d'Aragona, e che
del resto, vagliando minutamente ogni atto della defunta regina,
cercherà sempre di intenderne l'animo con tutte le restrizioni
possibili. Per me, il miglior modo di sgravar la coscienza regale è
quello d'intenderla nel suo senso più largo, rispettandone gli atti,
mantenendone le promesse. E sarà questo per la nuova regina il miglior
modo di onorar la memoria di sua madre, mostrandosi degna di lei.

--Questo dovrebbe essere;--notò l'Almirante.--Ma sarà?

--Dobbiamo sperarlo; dobbiamo esplorar l'animo della nuova regina, se è
risoluta di occupare il suo regno. E chi più forte sull'animo suo della
marchesa di Moya, che fu dama d'Isabella, ed ha conosciuto Giovanna
bambina? Beatrice di Bovadilla, che sa tutto, può istruirla di tutto.

--Ma non vorrà la nuova regina mostrarsi troppo ligia a suo
padre?--domandò l'Adelantado.--Almeno sui principii del regno?

--Questo non crederò io;--rispose il Fiesco.--Troppe ragioni dividono la
figlia dal padre, ricordi d'offese antiche, ed offese recenti. Volete
Voi che Giovanna s'inchini ai voleri di suo padre, ne sposi i rancori e
ne faccia sue le vendette, rammentando ch'egli voleva farla apparire
incapace di regnare?--

Bartolomeo Colombo chinò il capo, assentendo. Se la nuova regina
appariva in Castiglia, niente era perduto. Anche il signor Almirante
riconosceva la giustezza di quella argomentazione; e riaprendo il cuore
alle più vive speranze, dimenticava ad un tratto i suoi mali. Non è
salute di corpo senza gioia di spirito: dove questa risplende, se ne
illumina l'altra, e rivive.

--Avete ragione;--diss'egli.--Giovanna sola può render giustizia.

--Si parli dunque a Beatrice di Bovadilla;--riprese il capitano
Fiesco.--Se la nobil signora si rammenta di ciò che ha fatto per Voi,
non vorrà certamente lasciar l'opera sua incompiuta.

--Ahimè! si rammenterà ella?--esclamò l'Almirante, traendo un
sospiro.--Dopo quelle catene, ella non mi ha più riveduto; nè io ho
cercato di avvicinarla.

--V'intendo, messere; si frapponeva tra Voi e donna Beatrice la torbida
figura dello sgherro. Ma credete Voi che Beatrice di Bovadilla potesse
mutarsi da quella di prima perchè il suo indegno fratello vi faceva una
guerra codarda quanto feroce? Avevate Voi offeso quell'uomo, perchè
l'onor della casa facesse tacere nel cuor suo le voci dell'antica
amicizia?

--Ben dite;--ripigliò l'Almirante.--E Voi certamente la giudicate
com'ella si merita, la mia buona protettrice. Ma dopo tanti anni
passati!... Anch'io, trattenuto da tante paure, non ho più osato
presentarmi a lei. La morte orribile di quell'uomo ne fu anche cagione.
Pure, Iddio mi è testimone che io avevo fatto quant'era da me, per la
salvezza di quell'uomo, che era suo fratello, e cristiano.

--Iddio lo vide, e quanti avevano orecchi a San Domingo lo
seppero;--aggiunse il Fiesco.--Lo seppero, prima che i loro occhi
vedessero la tempesta da Voi annunziata imminente. Ciò che fu saputo e
visto laggiù, non rimase ignoto in Castiglia; ne è giunta notizia anche
a lei, non dubitate.

--E sarà stato il mio premio;--ripigliò Cristoforo Colombo.--Ma da lei
non mi venne una parola; e il tempo, che passa su tutte le cose umane,
avrà cancellato dal cuore della nobil signora anche il nome del marinaio
Genovese.... dell'Almirante del mare Oceano;--soggiunse egli, abbassando
la voce, e fremendo involontariamente al ricordo.--Chi lo richiamerà
alla mente di lei?

--Io, signore;--rispose il capitano Fiesco;--io che ebbi l'onore
di parlarle, dopo il primo e dopo il secondo viaggio. Vorrà
ricordarsene, spero, non essendo io l'ultimo degli uomini, e il nome dei
conti di Lavagna potendo essere un buon passaporto al più umile della
casata. Andrò dunque io, col mozzo Bonito, se egli vorrà
accompagnarmi;--aggiunse egli sorridendo.--E glielo consiglio con tutta
l'anima, poichè la più nobile creatura del nuovo Mondo avrà occasione di
conoscere la sua più degna sorella del vecchio.--

Sorrise il mozzo Bonito, stringendosi con atto modesto al petto del suo
dolce signore. Sorrideva anche il sole alla domestica scena, mandando un
raggio più vivo nella povera stanza, che parve per un istante una
reggia; e gli occhi dell'Almirante sfolgoravano di gioia.

--Voi recate la primavera con Voi, mozzo Bonito;--diss'egli.--Non ho mai
visto così bello il sole, dacchè sono arrivato a Segovia. Iddio ha
condotto qui il nostro amico; Iddio m'aveva bene ispirato a chiamarlo.

--Iddio ne assista sulla via di Siviglia;--conchiuse il capitano
Fiesco.--La giornata è buona; ringraziamolo intanto di questa.--




CAPITOLO X.

"Soy Bovadilla".


Siviglia, la bellissima Andalusa, è lontana da Segovia un buon tratto.
Intercedono due catene di montagne, la Sierra di Guadarrama e la Sierra
Morena; ma dall'una all'altra corre tutta la Nuova Castiglia, con le
valli del Manzanare, del Tago e della Guadiana, con le città di Madrid,
di Toledo, di Ciudad Real e Calatrava. Inoltre, varcata la Sierra
Morena, non si può dire di essere a Siviglia, poichè c'è ancora da
toccar Cordova, e da seguitare per molte miglia il corso del
Guadalquivir, tortuoso fiume se altro fu mai. Viaggio lungo, adunque;
assai lungo in quei tempi, che bisognava farlo a cavallo; più lungo per
il capitano Fiesco, che aveva gran desiderio di far presto.

Per fortuna, ed aiutando alla fortuna la previdenza del cavaliere, egli
aveva ritenuta con sè una parte degli uomini che lo avevano accompagnato
da Barcellona a Segovia. I lunghi viaggi erano resi allora più difficili
dalla poca sicurezza delle strade; onde, a cansare i cattivi incontri,
bisognava andar bene accompagnati, ed armati di tutto punto. Non
accadeva nulla; e si poteva anche dire "precauzioni inutili!" a viaggio
finito. Ma erano state appunto le precauzioni inutili, quelle che
avevano tenuto lontano il pericolo. Ora il capitano Fiesco, che
viaggiava volentieri da solo, non credeva di aver troppa compagnia con
cinque uomini di scorta, compreso il frate scudiero, perchè conduceva
con sè il mozzo Bonito, luce degli occhi suoi, come si diceva in Italia,
anima dell'anima sua, come si diceva in Ispagna. E il capitano Fiesco,
per non usar preferenze, diceva spesso e volentieri in un modo e
nell'altro.

Beatrice di Bovadilla viveva ritirata presso le monache di Santa Chiara,
dove già una volta, quattordici anni addietro, era andata a
rinchiudersi, in un impeto di generoso sdegno per la guerra sleale che
si faceva al promettitore d'un mondo. Viveva da gran signora, come
avrebbe fatto in ognuna delle sue terre, ma contentandosi di poche
stanze, per sè e per le sue donne di servizio; piccola noia dopo tutto,
e mancanza di spazio nemmeno avvertita. La gran dama, quanto è più dama,
ed ha più vasto il palazzo, più vive ristretta nel suo quartierino, nel
suo salotto, nel suo oratorio, nella sua cameretta da lavoro, dov'ella
pensa e sogna, assai più che non lavori d'ago o d'uncino.

Nè faccia maraviglia il ritorno della nobil signora al convento, per una
dimora che pareva fissa oramai. Accadeva spesso a que' tempi che donne
d'alto casato si ritirassero ne' conventi, per farvi a modo loro una
vita monastica. Benemerenze antiche o nuove, legati, largizioni,
protezioni costanti delle grandi famiglie a questa o a quella
corporazione religiosa, rendevano ligio l'ordine ai suoi potenti
patroni, e men severa la regola verso gli ospiti illustri, che cercavano
nelle mura del chiostro la pace dell'anima, quella pace che il mondo non
ha mai data a nessuno, e insieme colla pace vi guadagnavano la illusione
d'esser fuori del secolo. Vedove, nubili, orfane d'insigne casato, vi
riparavano come colombelle a rifugio, quali disfatto il nido, quali non
fatto ancora, o disperando, o disdegnando di farlo.

Di là dentro la marchesa di Moya aveva sfidati i nemici dell'uomo che
l'amor suo aveva preconizzato Almirante dell'Oceano; ed anche, con
quell'esempio di costanza, aveva insegnato fermezza alla sua regale
amica e signora, Isabella di Castiglia. Là dentro era tornata a rifugio,
dopo la morte di don Giovanni Cabrera, marchese di Moya e gentiluomo di
camera del re Ferdinando. Mal maritata al vecchio soldato, che in lei
aveva veduto uno strumento alla sua ambizione di cortigiano, male adatta
alla vita di corte, che sempre più, in processo di tempo, le era
occasione di sdegno per tante ingiustizie, di nausea per tante viltà, la
nobile Beatrice di Bovadilla aveva portate là dentro le sue tristezze,
coll'amara voluttà di raccontarle a Dio, ascoltatore benigno,
consolatore augusto d'ogni orgoglio ferito, d'ogni ambizione offesa,
d'ogni amore deluso, che lascia intravvedere di là dal santuario, tra
nuvole d'incenso e luccichio di candele, uno spiraglio del suo paradiso,
gloria inaccessibile ai tristi, calma solenne, perdono ineffabile, bella
vendetta sull'ingiustizia e sulla viltà della terra.

Il capitano Fiesco non ebbe più difficoltà d'entrare e di ottenere
udienza, che non ne avesse incontrata quattordici anni prima don Alonzo
Quintanilla. Anch'egli, il conte di Lavagna, e il suo mozzo Bonito,
aspettavano di veder comparire la marchesa alla grata; ma anche per essi
un uscio di fianco si aperse, e Beatrice di Bovadilla apparve nella
sala. Bella ancora, quantunque presso a quei cinquanta, che più per le
donne non si contano a primavere, ma disgraziatamente ad autunni!
Qualche filo d'argento screziava i neri capelli, che le uscivano in
lucide ciocche di sotto alla tocca di raso nero, orlata di trinette
d'oro; ma per vedere l'argento bisognava cercarlo, e di cercarlo non
poteva venire il desiderio in mente, tanto era fresca la carnagione e
scevra di rughe, tanto nere le sopracciglia, tanto lucenti gli occhi
nerissimi, tanto vermiglio il fior delle labbra. La volontà si scolpiva
in quelle sopracciglia; la intelligenza lampeggiava in quegli occhi; la
bontà sorrideva da quelle labbra fiorenti. Gran dama sempre, quasi
regina, con la sua lunga veste di velluto operato, il cui color nero
appariva gentilmente attenuato dal bianco della gorgieretta e dei
polsini di tela di Fiandra, era tale da destar l'ammirazione divota di
chiunque la vedesse, e da mettere in vena di sonetti il più misero e
stentato tra i poeti d'allora. Il frate scudiero, a buon conto, avrebbe
messo mano alle canzoni, di cui sempre aveva ingombro il cervello, e
sfrombolata questa quartina per saggio:

      Nobil donna in negra tocca,
    In gramaglia vedovil,
    Per un bacio di tua bocca
    Daría 'l regno Boabdil.

Ma il frate scudiero, allora più scudiero che mai, non era entrato in
convento; vegliava in istrada, aspettando gli ordini del suo grazioso
signore. Beatrice di Bovadilla non ebbe dunque i suoi versi; ebbe per
contro l'ammirazione dei due visitatori. Uno dei quali, essendo a lei
noto, ottenne la stretta amichevole di una bella mano, che divotamente
baciò; l'altro, in quella vece, la cui fine bellezza adolescente troppo
contrastava con l'abito modesto del marinaio, ebbe un'occhiata curiosa,
ed anche un po' diffidente.

--Siamo in viaggio, signora;--disse il Fiesco, a cui non era sfuggito
l'atto della marchesa di Moya;--e Vostra Mercede mi perdonerà, se non ho
voluto rinunziare a questa fedel compagnia. Ho l'onore di presentarvi il
mozzo Bonito, come si chiama ora in Ispagna, come si chiamò per alcuni
mesi di viaggio, dalla Giamaica all'Europa. Son cose, queste, che ad una
gentildonna pari vostra si possono confidare, soggiungendo che il mozzo
Bonito.... è donna, e si chiama Juana contessa del Fiesco.

--Volevo ben dire!--esclamò la marchesa, avvicinandosi con molta ed
affettuosa premura.--Mozzo Bonito, voi siete tanto bello, da non poter
ingannare del vostro sesso la gente. Bisognerebbe esser ciechi! Ed io vi
consiglio, signora contessa, di ripigliare la vostra veste di donna, od
altrimenti di tingervi il viso e le mani.

--La prima cosa non si può fare, signora marchesa;--rispose il finto
Bonito;--e mio marito ve ne direbbe le ragioni, se fosse d'alcun pregio
il conoscerle. La seconda l'avrei fatta ben io, ma col dispiacere di
restare alla porta del convento. Venire a Voi col viso tinto di carbone
o di pece!... che cosa avreste detto di me?

--Niente, bel mozzo; ma capisco che avrei avuto il dispiacere di non
potervi baciare, come ora farò, se permettete, donna Juana mia dolce.
Non ho più grazia, essendo morta la mia gioventù; ma di bellezza
m'intendo ancora, e so apprezzarla dov'è. Che bei fiori dà sempre
l'Italia, il giardino d'Europa!

--Sempre, ben dice Vostra Mercede; ma questo è nativo delle
Indie;--rispose il capitano Fiesco;--delle Indie scoperte da Voi.--

Beatrice di Bovadilla era rimasta colpita da quell'accenno al fior delle
Indie, che mal s'accordava con una bellezza affatto europea; e già stava
mentalmente accozzandolo coll'altro accenno al viaggio del mozzo Bonito
dalla Giamaica all'Europa. Ma l'ultima frase del conte Fiesco doveva
trarla ad un'altra forma di maraviglia.

--Da me!--esclamò la marchesa.--Che dite!

--Il vero, mia signora;--rispose prontamente il Fiesco, volgendo il
discorso al punto che più gli premeva.--Se Voi non eravate, se il vostro
alto patrocinio non assisteva il mio grande concittadino Colombo,
sarebbe ignota la terra dove è nato il mozzo Bonito, e il mare tenebroso
custodirebbe i suoi gelosi segreti.

--Sarà mia gloria;--rispose con bella semplicità la marchesa di
Moya;--ed io sento qui tutto l'orgoglio che Voi mi concedete di
assumerne.

--Non io solamente, signora; è il pensiero costante di don Cristoval.
"Senza l'aiuto di quella donna sublime, sarei rimasto oscuro ed inutile
uomo"; son queste le parole ch'egli mi diceva ancora sei giorni fa, nel
triste tugurio dov'io l'ho ritrovato a Segovia.--

Al ricordo di don Cristoval il volto della marchesa di Moya si era
rannuvolato, e il vivido sguardo nascosto sotto le palpebre. Ma le
ultime parole la scossero; si dischiusero gli occhi, e tutto il volto si
atteggiò ad espressione di doloroso stupore.

--In un tugurio, Voi dite? Molte nuove giunsero qui, del grande
Almirante; non questa, ch'egli fosse in angustie. Non è egli presso la
Corte?

--Presso la Corte, sì, e in un tugurio. A lui fu sempre destino passare
accanto alle grandezze, e trascinare la sua gloria nel fango della
strada. Ricordate? la sventura è con lui. Che ricompensa abbia ottenuta
dei suoi maravigliosi servigi, non ignorate di certo; nè come sia
ritornato dal quarto viaggio, donde ha recata la certezza di tant'oro
quanto basterebbe a saziare l'avarizia di dodici Ferdinandi d'Aragona;
nè come duri la slealtà, che lo ha spogliato delle sue rendite e delle
sue dignità; nè come, essendo morta la regina, gli sia venuta anche meno
la speranza di ottenere quando che sia la giustizia, che, nobilmente
ostinato, continua a domandare. Delle rendite perdute non si duole, più
che un uomo di gran cuore non abbia a dolersi di un furto patito: ben si
duole delle sue dignità, de' suoi titoli, così nobilmente acquistati
com'erano liberamente concessi, di vicerè governatore delle Indie ed
almirante maggiore dell'Oceano. A questi non rinunzia; questi egli
vuole; questi domanderà fino all'ultimo soffio di vita. Non lo
ascolteranno gli uomini? Commetterà le sue ragioni, aspetterà le sue
giuste vendette dal cielo. Ma Iddio, che è fonte di giustizia, Iddio che
ha versato un giorno il tesoro della sua pietà nel cuore di una donna
sublime, non ispirerà questa donna perchè si muova ancora una volta a
soccorso del grande sventurato? Egli non ha bisogno di pane. È qui
finalmente un suo vecchio ufficiale, un suo buon servitore, che farà il
debito suo. Ma questo suo ufficiale, questo suo concittadino, è
straniero, e non può nulla presso la Corte.--

La marchesa di Moya era stata ad ascoltare in silenzio, ma non senza
sospiri, e con gli occhi pieni di lagrime.

--Ahimè!--diss'ella.--Beatrice di Bovadilla non ha più potere presso il
re, poichè la regina è nella gloria di Dio. Non lo sa, questo, il signor
Almirante?

--Lo sa, mia signora; e non voleva che per questo io venissi a pregarvi.
Ma io gli ho detto che la giustizia dee farla chi regna sulla Castiglia.
E sulla Castiglia non regna il re d'Aragona.

--V'intendo: ma chi dovrebbe regnare sulla Castiglia è lontano ancora da
noi.

--Amore e pietà non conoscono distanze; e Beatrice di Bovadilla
potrebbe....

--Perchè vi fermate?--domandò la marchesa.--Perchè, se volete
consigliarmi di andare? Non è un bell'esempio, questo che Voi mi
date;--soggiunse, mettendo nella tristezza di quella conversazione la
timida nota d'un sorriso.--Andrei, non dubitate; andrei volenterosa, ad
ogni preghiera che mi venisse da lui. Ma per questa volta non sarà
necessario andar tanto lontano come Voi proponete. Ho notizie; notizie
sicure; e restino qui tra noi, ve ne prego, come la ragione per cui la
contessa Juana del Fiesco diventa in Ispagna il mozzo Bonito.

--Conoscerete il mio segreto;--disse Juana.--Non dobbiamo averne con
Voi.

--Ma non sia come prezzo del mio;--replicò Beatrice.--E il mio
sappiatelo subito. La regina e il re di Castiglia stanno per
muoversi.... dalle Fiandre (diciamo così), cedendo ai voti di tutto il
reame. Nessuno ancora lo sa; il re Ferdinando, che ne ha timore, crede
che la probabilità sia ancora lontana; spera ancora negli amori di
Francia; e frattanto va trasportando le tende dall'una all'altra città
della Vecchia Castiglia, per amicarsi il popolo, se gli riesce, e
scongiurar la tempesta. Da Medina del Campo a Segovia; da Segovia
ritornerà indietro a Valladolid; da Valladolid a Burgos; poi, chi sa
dove? Tanto ha paura di perdere il giuoco del regno! Questo sappiate per
vostro governo, com'io l'ho da persona amica, che ha veduto Giovanna. Ma
non ne dite nulla; resti chiuso con sette sigilli.

--Anche con l'Almirante dovremo tacere?

--Sì, anche con lui;--disse la marchesa di Moya.--E non per lui,
s'intende, ma per gli altri che lo avvicinano.

--L'Adelantado suo fratello!--notò il Fiesco.--Il suo figliuolo
Fernando!

--Ah, il suo Fernando!--esclamò la marchesa.--Caro innocente bambino,
che ho tenuto in collo ancor io, come una nutrice; che ho veduto
crescere in bellezza e gravità superiore agli anni, quando era paggio
alla Corte! E non c'è altri in casa? nè uomini, nè donne?

--D'uomini sì, un vecchio marinaio, pei servigi di casa, che veramente
son pochi;--rispose sospirando il capitano Fiesco.--Di donne, poi,
neppur l'ombra. La casa del signor Almirante è un convento di
Certosini.--

La marchesa di Moya[tn175] rimase un istante sovra pensiero; poi
scuotendosi ripigliò:

--Non importa; resti egualmente un segreto per lui, quel che vi ho
confidato. È anche necessario per l'utile suo. Se anche fossimo sicuri
che nessuno commettesse un'imprudenza, dobbiamo premunirci contro il
pericolo che dal suo volto trasparisca troppa fiducia, e si trasfonda
negli altri. Ferdinando è sospettoso, e sempre agli agguati; che almeno
egli non sospetti il vero da una maggior sicurezza delle sue vittime.

--Ho inteso;--disse il capitano Fiesco.--Bisognerà parere più contriti e
più umiliati che mai. "_Cor contritum et humiliatum Deus non despiciet_"
direbbe il mio scudiero, che ho lasciato in istrada ad attendermi, e che
è, indegnamente com'egli dice, un frate francescano. Porterò almeno il
vostro saluto al signor Almirante?

--No, vi prego, neppur questo.

--Perchè, se è lecito domandarlo? C'è un segreto anche qui? Una nube, se
mai, che sarà bene dissipare. Tra i nobili cuori non ce ne dovrebbero
essere.

--Dite bene; ma la nube non c'è.

--Il segreto, dunque? Lo rispetteremo.

--Sì, un segreto; ma è quello del mio cuore, e voglio dirvelo. A voi
solo, conte Fiesco, non avrei osato confessarmi, e neanche al vostro
francescano, che pure, se sta con Voi, dev'essere un brav'uomo. Ma c'è
qui tra noi una donna, che mi dà coraggio; che certe cose può
intenderle, e darmi anche ragione. Parlerò dunque: ma voi ditemi prima
una cosa. Perchè siete venuto a me, facendo a bella posta un così lungo
viaggio da Segovia a Siviglia? Vi ha forse egli detto....

--Che siete sempre stata la sua protettrice. E questo io già lo sapevo.

--Ed altro non vi ha detto di me? Ed altro non sapevate Voi?

--No;--disse il Fiesco, che si era turbato un pochino.

Ma c'era tanta asseveranza in quel no, e tanto candore negli occhi del
gentiluomo, che la marchesa di Moya non ebbe più ombra di dubbio, e
prendendogli la mano ch'egli stava per mettersi sul petto a testimonio
della sua fede, ripigliò in questa guisa:

--Vi credo. Del resto, il segreto mio non era tale per nessuno, alla
Corte, nè quando il nostro amico partiva, nè quando fu ritornato dal suo
portentoso viaggio nell'ignoto. Ho amato don Cristoval; lo amo ancora,
come il mozzo Bonito deve amar Voi.

--Oh, bella sincerità!--gridò il mozzo Bonito in un impeto di
ammirazione.

--Sei tu così sincera, Juana?--disse Beatrice di Bovadilla.--Allora
siamo sorelle. Ti piace?

--Mi è caro; ma bada,--rispose Juana,--nella mia patria questi patti di
fratellanza si suggellano sempre col cambio d'una goccia di sangue.

--Così anche faremo, se sarà necessario;--riprese Beatrice.

E tenendo sempre la sua mano in quella di Juana, così continuò,
rivolgendosi al conte:

--Ho amato don Cristoval, ed ho avuto il bell'ardimento di
confessarglielo. È così bello amare un uomo, stimandolo primo per
ingegno, per lealtà, per valor vero e per vera grandezza, che è quella
dell'anima! Nessun amore al mondo è stato più puro del mio; ma l'ho
gridato ai quattro venti, come se fossi io la padrona del suo cuore. Non
ero tale, pur troppo! Quel cuore s'era dato ad un'altra, non degna di
possederlo. Notiamo per la storia,--soggiunse la marchesa, accompagnando
le parole con un lampo degli occhi, donde traluceva la memore superbia
d'una celebrata bellezza,--che ciò era stato prima di conoscermi; ed
aggiungiamo che già quella donna aveva preso ad odiarlo,
disconoscendolo. Tu intenderai queste cose, Juana. L'odio di quella
donna cominciò insieme con una nuova vita, che ella sentiva agitarsi nel
suo seno. Arcani del sangue, ha detto il gran medico Villalobos, a cui
ne ho domandato più tardi. Rispettiamo gli arcani, aspettando che altri
Villalobos li chiariscano alle generazioni venture. Quanto a me, appena
seppi di quella donna, andai a cercarla; non ebbi pace fino a tanto non
potei ritrovarla, per pregarla di ritornare a don Cristoval.

--Tu hai fatto questo, sorella?--disse Juana.

--Sì, non era il dover mio?--chiese Beatrice.

--Vederlo è d'anime grandi, se mai;--rispose Juana, inchinandosi.--Bacio
nella tua mano l'anima tua.

--Ed anche il mio orgoglio, bada;--replicò Beatrice.--Perchè questo non
manca mai, e guasta un pochino la tua Bovadilla. Non volevo l'amor suo
intorbidato da un ricordo nemico. Pensavo ancora che quell'uomo era
grande, e più grande sarebbe divenuto; onde volevo esser grande ancor
io. Avrei desiderato che quella donna persistesse nella sua avversione;
ed ho usata tutta l'arte mia, tutta la mia pertinacia, tutta la mia
eloquenza per vincerla. Dovevo esser lieta della mia sconfitta, non ti
pare? E non fu così: n'ebbi dolore; anch'io m'ero inebriata della mia
magnanimità. Fino all'ultimo, sai? Don Cristoval partiva, e là sulla
spiaggia di Palos incontrai quella donna. Va, le dissi, prendi una
barca, raggiungilo, è tempo ancora per te di riconquistare il tuo posto
onorato. Ricusò, la disgraziata: e perchè? Questo io non so, nè l'ho
domandato al dotto Villalobos.

--Amava un altro, forse;--entrò a dire Juana.

--L'ho bene pensato. Certo, un altro amava lei, e per lei faceva pazzie;
mio fratello don Francisco Bovadilla, commendatore di Calatrava. Fu
riamato? Sfruttato, sì, certo, da bisognosi parenti; ma se ne ricevette
un grazie, si potrebbe anche giurare che una stretta di mano più calda
dell'usato non accompagnasse quel grazie. Io lo argomento dall'ira che
don Francisco serbò sempre viva contro don Cristoval. Rammentate con
quale accanimento perseguitasse egli il suo rivale fortunato? rammentate
le catene di San Domingo? Ah, le orribili catene, che hanno stretti i
polsi dell'uomo grande e giusto!... E fu un Bovadilla, lo sgherro!...

--Calmatevi, signora!--disse il capitano Fiesco.--Il signor Almirante
dubitò sempre di aver perduta per quel fatto la vostra protezione. E
ricordava spesso e ricorda ancora che a don Francisco, se questi avesse
voluto ascoltarlo, avrebbe salvata la vita. Di questo fui testimone, e
potrei star mallevadore ancor io.

--So anche questo;--rispose la marchesa.--E gli ostinati nemici
dell'Almirante gli han fatto colpa anche di questa magnanimità. Non era
tempo da tempeste, sentenziarono; l'Almirante sapeva di non esser
creduto; perciò ha fatto il magnanimo a buon patto. La tempesta,
piuttosto, la tempesta non doveva egli chiamare, con le sue arti di
negromante? E andate a persuadere gli stolti, quando i tristi hanno
parlato! Nè io mi dolsi per la morte di don Francisco, se non perchè
portava il mio nome. Che dovesse finir male glielo avevo predetto io,
senza aver arte di magia più del signor Almirante; glielo avevo predetto
io medesima, dopo ch'egli era andato ad accusarmi al marchese di Moya.
Bei fratelli, non vi pare? Ma torniamo a don Cristoval. Io piuttosto
avevo dovuto temere ch'egli si fosse troppo volentieri dimenticato di
me, per cagione della mia parentela dolorosa. Ed anche debbo dirvi
dell'altro, che più mi stava sul cuore? Ero dolente, scorata, avvilita,
di vedermi trattata così male da lui. Male, sì; non è un male la
freddezza, la noncuranza e la fuga? Ed egli ha sempre sfuggita questa
povera Bovadilla lebbrosa! Come?--continuò la bella marchesa di Moya,
animandosi ai ricordi, e corrugando le nerissime ciglia.--Io l'amo, e
son pronta al sacrifizio più grande che possa fare una donna
innamorata, di cedere l'amor mio ad un'altra. Costei ricusa; io non ne
ho colpa; e quell'uomo dovrebbe esser mio nella pura fede delle anime;
dovrebbe darmi il premio che ho meritato, il premio d'una schietta
parola; qua la tua mano nella mia, e camminiamo puri, baldi, sereni nel
mondo, ed altrettanto sicuri, io di te, tu di me. Così la povera
Bovadilla intendeva l'amore. Così non l'ha inteso l'Almirante del mare
Oceano. Si può dir qui, tra gente che l'ama, e che nessun altri ci
senta, ch'egli è stato in ciò molto minore di sè stesso, cedendo a
piccole paure, a più piccoli scrupoli?

--Non vi rivolgete al mozzo Bonito;--disse il conte Fiesco, tentando
anch'egli di mettere nel doloroso colloquio una nota men triste.--Egli
non vi saprebbe rispondere, non essendo nato in Europa, nè educato dalla
prima adolescenza alle leggi, alle consuetudini, ai riguardi del nostro
mondo decrepito e saggio. Piccole paure? V'intendo; col vostro gran
cuore non ce ne sono; e molta altezza di sentire, e il rispetto che
meritate, potevano tenervi guardata come in una rocca inaccessibile. Ma
egli, che ha l'anima grande, poteva temere di non aver così forte il
cuore, e di non poter resistere alla violenza di un sentimento, che noi
tutti sappiamo come sia indomabile. Qual uomo potrebbe giurare, amando
davvero, di non varcare certi confini? E allora, vedete, le piccole
paure ingigantiscono, gli scrupoli assalgono, e non sono più piccoli. Si
pensa alle ciarle assassine del mondo, e si teme per la donna virtuosa,
fino a quel giorno onorata, che l'amor nostro, eccedendo nelle sue
dimostrazioni, che la sua divina bontà, non vedendo i pericoli,
potrebbero in un momento offuscare. Io non so nulla di ciò dal signor
Almirante; conosco l'anima sua, e giurerei che ha pensato così.--

Beatrice di Bovadilla stette alquanto in silenzio; segno che sentiva la
forza dell'argomentazione. Ma non era vinta; ma non aveva vuotata la sua
faretra.

--Il marchese di Moya morì;--diss'ella finalmente, senza alzar gli occhi
verso il suo interlocutore, e come proseguendo un suo ragionamento
interiore.--Cessavano gli scrupoli del leal cavaliere. Bovadilla era
sempre Bovadilla; rimaneva alla Corte, e vedeva ogni giorno il paggio
Fernando, che già tanto somigliava a suo padre. I maschi per lo più
matrizzano; quello no, era tutto l'Almirante; e Bovadilla lo divorava
con gli occhi, come se fosse stata essa sua madre. Vi ho detto che il
mio terribile orgoglio era diventato sforzo di non averne più.
L'Almirante tornava dai suoi viaggi: misurato, severo, studioso di tutti
i suoi atti. Intesi i riguardi, dopo il secondo viaggio; ancora viveva
Giovanni Cabrera, nostro signore e padrone. Ma dopo il terzo!... dopo le
catene!... Ah, gloriose catene, che del grand'uomo facevano un martire!
gloriose catene, che avrei baciate, e diventavano sacre, com'è sacro il
bacio della donna che ama! Oh, non mi dite nulla; non ci dovevano esser
nubi, tra noi; nè io dovevo aver parenti, per lui; non ne avevo avuti,
assistendolo contro tutti. Quel suo contegno fu un colpo atroce al mio
cuore. Egli ama quella donna, pensai; nè più questo pensiero mi uscì
dalla mente; l'amo ancora, e don Francisco non è più; egli ritornerà a
quella donna. Che cosa avvenne? non so. Il favor della Corte gli veniva
mancando sempre più: nè io osai farmi avanti non chiesta. Incominciavo a
credere ancor io che fosse un delitto, mettermi tra lui e la Enriquez.
La religione, a cui chiedevo conforti, mi sgomentava anch'essa colla
imagine dei diritti dell'altra Beatrice. Ah, quella donna! è qui, nella
mia vita, come un pugnale nel costato; e non mi uccide, ma geme di
continuo la sua goccia di sangue nero. E quella donna è l'errore,
com'era già la perfidia: son io, Fernandez di Bovadilla, son io la donna
di don Cristoval, io che l'ho gridato Almirante del mare Oceano, prima,
assai prima, che altri gli concedesse quel titolo, il più bello che uomo
abbia portato mai sulla terra. Pensateci, conte Fiesco, voi che lo
conoscete a prova, quel mare. L'Oceano, il grande, il terribile Oceano;
e comandato da lui, che lo aveva domato, mentre da migliaia d'anni tutto
il mondo ne aveva avuto paura! Moglie dell'Almirante, avrei fatto
tremare molta gente, che rialzava più baldanzosa la testa. Vivente la
regina, avevo saputo persuaderla ben io, che quell'uomo non era un
avventuriero, e non covava il tradimento nell'animo. Questo infatti si
perfidiava di lui. Voleva dare le Indie al Portogallo! le voleva dare a
Genova, per vendicarsi di Spagna! Tutti avevano sentito; tutti avevano
veduto; avrebbero posta la mano sul fuoco. Non era egli sempre a segreti
conciliaboli con Francesco Rivarola e con Francesco Grimaldi, con
Francesco Doria, con Pantalino ed Agostino Interiani?

--I suoi amici compassionevoli;--interruppe il Fiesco;--i suoi
soccorritori nelle angustie, in cui lo avevano messo le angherie degli
Aguadi, degli Ovandi.... e degli altri.

--E lo immaginavo ben io. Ma come chiuder la bocca a tutti? Anche lei,
la buona Isabella, doveva qualche volta porgere orecchio a tante accuse,
che venivano d'ogni parte al suo trono. E ne piangeva, ora credendo, ora
discredendo. Sai, Bovadilla? mi diceva. Anche questo si dice; se mi
fossi ingannata sul conto del tuo Genovese!... Mio! anche Vostra Altezza
le crede? È così poco mio, che non mi guarda nemmeno.

--Ma egli,--notò il Fiesco,--vi temeva mutata troppo per lui!

--E se mai?...--ribattè la marchesa.--Non dovevo apparir tale, mentre
egli seguitava a tacere? L'obbligo mio era di non attraversarmi alla
Enriquez, di lasciargliela sposare. Non accennava a questo disegno, la
sua deliberazione di togliere il paggio Fernando dalla Corte,
levandomelo dagli occhi? E perchè non chiamare con sè il primogenito,
destinato un giorno a succedergli, e perciò meglio indicato ad un
viaggio d'esperimento, che gli facesse conoscere il suo futuro governo?
Questa considerazione non l'avete fatta anche voi, signor conte?

--Un caso;--rispose il Fiesco;--un caso e non altro. Fernando aveva
manifestato il desiderio di accompagnare suo padre. Era un ragazzo
studioso, per l'indole sua meno adatto alla vita del cortigiano. E su
questa semplice apparenza avete fondata la vostra argomentazione, donna
Beatrice? e siete giunta fino a credere l'Almirante pacificato colla
Enriquez? con una donna, che era diventata una immagine? con una
immagine svanita e dimenticata?

--Dov'è ora quella donna?

--Non so; certo non è in Segovia; certo non l'ha egli riveduta dalla
vigilia del consiglio di Salamanca. Son diciott'anni passati.

--I diciott'anni del mio tormento!--esclamò la marchesa.--E lunghi,
lunghi, troppo lunghi per questo povero orgoglio!--

Povero orgoglio davvero, che si stemprava in un pianto dirotto. Pianse
lungamente, la nobil signora, col viso nascosto tra le palme. E la
contessa Juana, fattasi più presso a lei, con atti amorosi la veniva
accarezzando, la baciava in fronte, le afferrava le mani, per
distoglierle da quel viso; e consolandola de' suoi baci, beveva
silenziosa le lagrime della sua sorella europea. Sapeva anch'essa, la
bella figlia d'Haiti, che le lagrime fan bene, ma a patto che chi ci ama
s'intenerisca con noi.

A poco a poco donna Beatrice si riebbe; rasciugò le sue lagrime, levò la
fronte e disse:

--Che rimedio ci vedete voi, conte Fiesco?

--Rimedio? a che? ad uno stato di cose che quella donna ha voluto?
Quella donna l'ha offeso; è fuggita da lui; ha perfino rinnegata la sua
creatura. Che ci volete fare? Tanti anni sono passati oramai! Cade un
edifizio, per qualsivoglia cagione, folgore, incendio, tremuoto. Si può
vedere a tutta prima la necessità, la utilità di salvarlo. Ma quello che
non si è veduto prima, si vedrà forse più tardi? Sulle vecchie rovine
crescono i cardi, i rovi, le ortiche; tra le vecchie rovine si appiattan
le serpi, e fischiano irritate al viandante. Si gira largo, e si
edifica altrove; o non si edifica più in nessun luogo;--conchiuse il
Fiesco, sospirando.--Povero signor Almirante! la vecchiezza è venuta
precoce su lui.

--Ma il figlio?... come rimarrà egli, povero innocente?

--Il figlio, se ha senno, accetterà la sua sorte, che è bella ancora, e
val meglio di quella che sorride a tant'altri. Non è egli stato ammesso
a Corte, come già il figlio legittimo di donna Filippa Mogniz? Un
decreto sovrano ha nobilitato quel ragazzo, e cancellato il vizio
d'origine. Vizio, poi!... I tempi nostri non mi paiono fatti per badare
a certe inezie. Una sbarra nello scudo, in vece d'una banda o d'una
fascia, ecco tutta la differenza. La illegittimità non ha impedito a
nessun valoroso di diventar cavaliere, conte, principe e re. Più
illustre è la macchia, più porta in alto; e potrei citarvi esempi a
migliaia, antichi e recenti. Lasciamo dunque il pensiero di voler
aggiustare le cose che non richiedono di essere aggiustate, e sopra
tutto di cercar quella donna. Che sarà poi diventata? D'un altro, senza
dubbio; e chi sa? forse contenta, fors'anche felice.

--Lo saprò;--disse la marchesa, con gesto risoluto.--Devo saperlo. Ed
anche mi ha maledetta, sulla spiaggia di Palos, mentre io tentavo una
seconda volta di ricondurla a lui. Ella vedrà pur troppo come abbia
fruttato la sua maledizione. Oggi stesso uscirò dal mio ritiro. Ma non
ho se non donne, al mio servizio; un uomo mi manca.

--Per che fare?

--Per essere il braccio della mia volontà. Non debbo cercare? non debbo
trovare, e subito? Lo avete voi, quell'uomo?

--Ho il frate scudiero, di cui vi parlavo poc'anzi, e che ci aspetta in
istrada.

--Che uomo è?

--Forte e coraggioso, accorto e leale.

--Datelo a me; ve lo renderò presto.

--Sia, ma per la regina Giovanna?...

--Lasciatemi fare; per Giovanna, che è ancora.... lontana, arriverò
sempre in tempo. Voi ritornate a Segovia; e se, giunto là, com'io ne
sono sicura, la Corte non ci sarà più, andate a Valladolid, dove si sarà
trasferita. Anche questo lo so di buon luogo. Vi fa maraviglia? Pensate
che Santa Chiara è di Castiglia, e per Castiglia; e sa tutto, e
partecipa a tutto. Voi dunque non dubitate, poichè a me siete venuto per
il signor Almirante; nè a voi nè a lui mancherà il mio povero aiuto.
Egli ha seguita la Corte fin qui; la segua ancora, perchè io possa
ritrovarlo. Addio, contessa Juana; addio, sorella, e contate su me, se
anche non è stato fatto ancora il cambio del sangue. _Soy
Bovadilla_;--conchiuse la nobil signora, mettendosi solennemente la
destra sul cuore;--una cosa, entrata che sia qua dentro, non n'esce più;
se ho dato questo, l'ho dato per sempre. Amami, e aspettami.--




CAPITOLO XI.

Invito a palazzo.


Israele aveva levate ancora una volta le tende. La marchesa di Moya si
era dunque apposta al vero, dicendo al capitano Fiesco che la Corte
sarebbe passata di quei giorni da Segovia a Valladolid. Sappiamo le
ragioni politiche di quegli spessi tramutamenti; dobbiamo anche
conoscere come e perchè se ne avesse così pronta la notizia nel convento
di Santa Chiara a Siviglia. E non solamente in quello, ma in tutti i
conventi di Castiglia. Era il tempo che la politica degli stati la
facevano i vescovi e i grandi ordini religiosi, padroni dei re, nel nome
istesso di una autorità superna, che innalzava e sbalzava di seggio i
potenti. E i re, si capisce, non potendo fare in casa tutto quello che
volevano, se ne ricattavano fuori, con le guerre di predominio e di
conquista, l'alto clero non disapprovando la supremazia militare della
nazione a cui pur esso apparteneva, e potendo mandare le ragioni
dell'amor patrio di pari passo con quelle del tornaconto di classe. Così
il cattolico re Ferdinando, libero di accrescere la potenza spagnuola
in Italia, dov'egli trasferiva alla Spagna le pretensioni dinastiche
della casa d'Aragona, non era altrimenti libero di fare in tutto a suo
modo nelle terre di Castiglia; e più ancora si sentiva le mani legate
dopo la morte della moglie Isabella. Bene cercava egli di prolungarsi la
reggenza sui dominii della morta; ma da quei dominii, ostinate nella
sostanza quanto rispettose nella forma, resistevano le autorità da tanti
secoli stabilite, dell'alto clero e del basso, vescovi e capitoli,
abbazie, priorati, parrocchie e monasteri.

Anche i conventi di donne partecipavano a questo lavoro di resistenza: e
ciò s'intenderà facilmente, chi pensi che negli ordini monastici erano
allora numerosissime le figliuole delle grandi famiglie del regno,
famiglie a cui pure appartenevano i magnati del clero, alleanza naturale
di nobiltà religiosa e di nobiltà militare; e che delle personali
rinunzie al mondo le nobili claustrali si ricattavano, anch'esse
partecipando largamente alle ambizioni delle casate dond'erano uscite, e
di cui serbavano, se non in tutto il fasto mondano, certamente il
ricordo e l'orgoglio.

A quei centri di vita monastica affluivano, da quei centri si
diffondevano le notizie politiche utili a sapersi da ogni classe di
aderenti. Le vaste possessioni degli ordini religiosi favorivano il
continuo viavai dei razionali, dei vicarii, dei gastaldi, tramutati in
messaggeri. Il servizio delle poste pubbliche era in mano delle
università; quello delle poste segrete in mano dei conventi. E non
poteva dirsi una distinzione, ma piuttosto una affinità di uffici,
poichè nelle università primeggiavano i frati, come maestri di teologia
e d'eloquenza, di diritto canonico e civile, di filosofia, perfino di
medicina.

Ritornati a Segovia, Bartolomeo Fiesco e il mozzo Bonito seppero
avvenuto ciò che a Siviglia avevano udito imminente. Da cinque giorni la
Corte si era trasferita a Valladolid, nell'antico reame di Leon,
lasciando nel mezzo Medina del Campo, dov'era morta Isabella, e
avvicinandosi a Burgos, la capitale antica dei conti di Castiglia, e la
patria del Cid Campeador. Burgos, a cui si avvicinava Ferdinando, era
anche la città del pericolo per lui. Di laggiù, infatti, doveva
avanzarsi Giovanna, se mai si fosse risoluta di lasciare le Fiandre e di
approdare alla costa di Biscaglia. Ma egli, da Valladolid, risalendo da
levante la gran valle del Duero, aveva nella fida Aragona la sua
ritirata strategica. Perchè egli viveva in istato di guerra, tra tutte
le apparenze della pace; ed era guerra di ambizioni personali e di
diritti dinastici tra il padre e la temuta figliuola. Pazza la dicevano
a bassa voce, e sarebbe piaciuto a lui che pazza fosse gridata a larghi
polmoni: ma più pazza era, e più si doveva temerne il troppo sollecito
arrivo. Ah quei nobili Castigliani, così superbi e così ostinati! Non
c'era dunque verso di tirarli dalla sua?

Cristoforo Colombo aveva seguitata la Corte. Il capitano Fiesco seguitò
dunque il suo viaggio, muovendo lungo il corso dell'Adarà, fino alla
pianura insalubre di Medina del Campo; di là passato il Duero, proseguì
fin dove l'Esgueva, umile tributario, si getta nel Pisurga. Era
finalmente a Valladolid, la opulenta città, che ancora non possedeva i
centomila abitanti a cui giunse sotto Carlo Quinto, ma che aveva già tre
volte e più i ventimila a cui è ridiscesa nei tempi nostri. E già allora
Valladolid era fiorente d'industrie, famosa pel suo studio di
giurisprudenza, orgogliosa del suo Campo Grande, vastissima piazza,
fiancheggiata da diciassette conventi, dove già con grande concorso di
popolo si arrostivano Mori ed Ebrei, a maggior gloria di Dio
misericordioso. Da ventisei anni era stato legalmente riconosciuto e
diffuso il Sant'Uffizio nella felicissima terra di Spagna.

Il capitano Fiesco, che pur non era di tenerissima fibra, torse gli
occhi da quella piazza che doveva costeggiare passando, e dove appunto
si stava rizzando un gran palco di legname per l'_auto da fè_ del giorno
vegnente; il mozzo Bonito rabbrividì, correndo involontariamente col
pensiero agli orrori della piazza di Xaragua, dove ottanta cacichi erano
stati bruciati sotto i suoi occhi; ed anche di un'altra piazza a San
Domingo, dove per lui era stato rizzato il palco ferale.

Avevano preso lingua per via; e non era stato facile ritrovare subito la
dimora del Vicerè delle Indie. Chi conosceva a Valladolid un vicerè
delle Indie? Per fortuna s'erano imbattuti nel servo Geronimo, che li
aveva condotti in una via fuori mano e mezzo campestre, dove sorgeva una
casa di povera apparenza, quasi una masseria di campagna, con un gran
portone pei carri, un pianterreno cieco, un piano superiore di poche
finestre non grandi, nè tutte in fila, e un secondo, che prendeva luce
più scarsa da quattro o cinque finestrini sotto i rozzi modiglioni del
tetto. In quella casa era andato ad ospizio il vicerè delle Indie,
presso un marinaio, Gil Garcìa, che, avendo riconosciuto il suo
Almirante, non aveva voluto lasciargli cercare alloggio più oltre.

--Forse lo trovereste migliore;--aveva detto il buon Garcìa;--ma
stancandovi nella ricerca. E pensate, mio signore, che se la casa è
povera, neanche a Valladolid son ricchi i cuori di chi possiede i
palazzi.

--Gil Garcìa, tutto il mondo è paese;--aveva risposto l'Almirante.--E
Valladolid è una gran capitale, se ha la tua casa per reggia.--

La fatica del viaggio non aveva troppo stancato il signor Almirante; e
il capitano Fiesco, entrandogli in camera, lo ritrovò seduto sul letto
in una di quelle alcove di cui gli Arabi avevano dato il nome e l'uso
alla Spagna, donde uso e nome passarono poscia all'altre parti di
Europa. Come già parecchi giorni innanzi, l'infermo si rianimò alla
vista dell'amico; e non sentì più i suoi dolori, udendo le nuove del
colloquio che questi aveva avuto con la marchesa di Moya.

Il Fiesco, naturalmente, non gli riferiva appuntino ogni cosa. Più che
dalla raccomandazione del segreto, si sentiva trattenuto dal timore di
rallegrar troppo il grande sventurato. Voleva, se mai, ragionarne prima
coll'Adelantado, dicendogli delle cose segrete almeno quel tanto che
fosse mestieri, per farne buon uso ad ogni opportunità. Espose in quella
vece all'Almirante come la marchesa di Moya gli fosse amica immutata ed
immutabile; vedendo poi quanta letizia si diffondesse sul volto
dell'ascoltatore, non tacque le confessioni che la nobil Beatrice di
Bovadilla gli aveva fatte così spontaneamente, senza puerile ritegno.
Impacciato si sentiva egli piuttosto a riferire quelle calde parole: ma
per fortuna il viso aveva abbastanza celato nella penombra dell'alcova,
poichè, stando seduto presso la sponda del letto, dava le spalle alla
luce; ond'ebbe più coraggio a dir tutto.

Don Cristoval appariva trasfigurato da quel tiepido soffio di buona
ventura. Gli si tingevano di vermiglio le gote; gli sfavillavano gli
occhi; un sorriso della sua balda gioventù gli sfiorava la bocca
bellissima. Qual miracolo si operava sotto gli sguardi del buon
messaggero! e qual altro maggiore non si doveva egli aspettare, dagli
sguardi della pietosa amica?

--Lasciatemi pensare;--disse l'Almirante.--È un'ora ben lieta, questa
che voi mi portate.--

E pensò, mentre quell'altro rimaneva silenzioso a contemplarlo; pensò
lungamente, sorridendo ai suoi pensieri, che tramutati in immagini
parevano sprigionarsi dalla sua fronte, sciogliendo il volo tutto
intorno e facendo risplendere come un lembo di cielo l'aria rinchiusa
della malinconica alcova. Dunque ella non l'odiava? L'ombra di quel
morto non aveva offuscata la immagine di don Cristoval nel cuore di
Beatrice? Dunque ella era sempre Bovadilla, la pietosa, la soave
Bovadilla, ogni cui detto, ogni cui gesto, anche imperioso, recava
l'impronta della bontà, perchè lo aveva informato un senso d'amore? Ah,
dolce cosa, e balsamo divino ad ogni angoscia patita! E che orribil
tormento sarebbe la vecchiaia, la turpe, la paurosa vecchiaia, se non
potessimo vivere qualche volta del nostro passato, chiamarlo a rassegna,
goderne col pensiero, anche togliendo alle cose vissute i troppo chiari
e vigorosi contorni? Il vecchio fu giovane; amò, fu amato; e quel
ricordo, che è la sua beatitudine, è ancora la sua gloria. Per
quell'amore egli compì grandi cose, o gentili, memorabili sempre; per
quell'amore si sentì fatto migliore, sorrise alla vita, fu buono alle
creature che gli stavano intorno. E passano davanti agli occhi i lampi
di quelle giornate lontane; e figure da gran tempo obliate trascorrono
in quella luce, animando la scena. La bella donna che si amò tanto
forte, si muove in quel piccolo mondo, gloriosa e serena, sorridente
della sua giovinezza; e par che non guardi, par che non veda nulla
intorno a sè; ma voi sentite l'onda magnetica del suo sguardo, che
giunge a voi, che tutto v'involge, e v'inebria. Ah, lampi maravigliosi!
spiragli divini di un dolce passato! Il quadro luminoso si scolora ad un
tratto, e la visione si spegne; ma può ancora riaccendersi, può ancora
colorirsi; e di quelle fugaci apparizioni si vive. Triste cosa, che,
morti noi, spariscano anch'esse per sempre, nè possa più altri goderne!
Attimo di eternità che dilegua; ciò che fu, ritorna nella notte delle
cose che non furono mai. Perciò qualche volta la visione lascia un senso
di dolore nell'anima. L'amaro è nel dolce; e fors'anche ha mestieri di
quel senso d'amaro, per aver vita, e coscienza di sè stesso, il piacere.

Anche il capitano Fiesco pensava. Come sono maravigliosi questi vecchi,
che serbano ancora tanta gioventù dentro l'anima! Ed ancora, che
altezza di sentire in quest'uomo! Non fa egli ricordare i bei versi di
Dante? "E se il mondo sapesse il cor ch'egli ebbe, mendicando la vita a
frusto a frusto, assai lo loda, e più lo loderebbe". Amato dalla più
bella creatura del reame di Castiglia, ha rinunziato a quell'amore, che
poteva essere il suo premio, ben superiore a tutte le fortune, a tutte
le dignità della terra. Virtù, certamente; virtù, che dobbiamo coltivare
in noi, come un fiore divino! Ma questa virtù non è dato condurla oltre
i confini della umana natura; ed egli non si salvò dalla forza
indomabile della passione se non colla fuga. Avrebbe un certo Damiano
saputo fare altrettanto, ai tempi suoi, _consule Planco_? È vero che
Damiano non era un santo; non n'ha mai avuta la stoffa, con tanti
cardinali e un paio di papi in famiglia!

L'Almirante ruppe finalmente il silenzio, e insieme con le meditazioni
sue cessarono quelle un po' meno alte del suo reduce amico.

--La marchesa verrà, mi avete detto?

--Sì, messere, e presto. Ma silenzio, per carità; non si deve sapere
prima del fatto; non si deve averne sospetto.

--E parlerà essa a Ferdinando?--

Qui il capitano Fiesco si ritrovò un pochettino impacciato a rispondere.

--Eh, lo immagino;--balbettò.--Vissuta tanto tempo a Corte, non passerà
dov'è la Corte senza rimetterci piede.

--E perchè non è venuta con voi?

--Che so io? che debbo dirvi, messere?--rispose il Fiesco, più
impacciato che mai.--Mi ha parlato vagamente di certe cose, che la
trattenevano ancora. Hanno sempre tanti impicci, le donne! e non tutte,
per cavarsi d'impicci, hanno l'arte e gli abiti del mozzo Bonito. Credo
ancora che avesse da sbrigare un negozio più grave. Ma neppur questo mi
ha detto, quantunque non fosse un segreto, poichè mi ha pregato di
lasciarle il frate scudiero. Le servirà di scorta in viaggio;--soggiunse
il capitano, felice di aver trovata una gretola, e scappando da
quella.--A mezza monaca mezzo frate, non vi pare? Badiamo, dico così per
dire; che il mio scudiero è frate, con tutti i tre voti. Ma egli pare
così poco un frate, vivendo sempre fuor di convento! Come le ha, le
dispense? non è il caso che se le pigli da sè?

--Dovreste saperne voi qualche cosa, che lo conducete pel
mondo;--osservò l'Almirante, sorridendo.--Ma non bisogna credere che
frate Alessandro manchi al precetto dell'obbedienza. Non facciamo
sospetti temerarii, e crediamo che abbia la sua brava licenza in
tasca.--

L'Almirante era allegro, e celiava, come ne' suoi giorni più belli.
Un'ondata di buona ventura entrava nella povera casa di Gil Garcìa;
bisognava approfittare del vento; e don Cristoval, che si sentiva
rinfrancato, volle vestirsi. Mentre il marinaio Geronimo lo aiutava in
quella bisogna, il capitano Fiesco scese in cortile a discorrere
coll'Adelantado. Con lui non poteva menare il can per l'aia; anche senza
dir tutto, doveva aprirsi con lui della prossima venuta della marchesa
di Moya, e del tentativo ch'ella si proponeva di fare. Per non mancare
alle promesse sue, bastava non dire che la nuova regina di Castiglia era
aspettata alla coste di Spagna. Restava, e bastava, che l'arrivo ne
fosse sperato, per giustificare il passo di donna Beatrice. Dopo tutto,
anche di quel poco che si lasciava uscir di bocca, il capitano Fiesco
raccomandava il segreto alla conosciuta prudenza dell'amico; il quale a
sua volta ne riconobbe tutta la importanza gelosa.

--Dicevo bene!--esclamò Bartolomeo Colombo.--Dicevo bene, se la marchesa
di Moya veniva proprio a parlare col re. Non è lei, l'antica dama di
palazzo della mite e generosa Isabella, che potrebbe commuover le
viscere al marito di Germana di Foix. E notate che io avevo già mulinato
il disegno di rivolgermi a questa, per chiedere il suo patrocinio. Sposa
novella, pensavo, avrà potere sul maturo consorte, e potrà usarne a
nostro vantaggio. Ma ho dovuto rinunziarci. La bionda reginetta è qui
come un pesce fuor d'acqua. Già molto è se la tollerano, questi signori
Castigliani, cedendo alle raccomandazioni del virtuoso Ximenes.

--Il confessore della morta regina!--esclamò il capitano Fiesco.

--Ma sì; lo vedete, il confessore di quella santa, costretto a
raccomandare la calma, a far mandar giù, come uno zuccherino, quella
profanazione del talamo reale? E non ha aspettato che si raffreddasse la
povera salma, il cattolico re! Appena era passato l'anno, e la nuova
regina passava i Pirenei. Ma che cosa non fa fare la maledetta cupidigia
del regno? Basta,--conchiuse lo sdegnoso Adelantado,--io non ci ho
niente da vedere, nè da spartire: il cardinal di Toledo riconosce il
male, e s'ingegna di ricavarne il bene. Signori miei, dice egli ai
nobili di Castiglia, abbiamo pazienza un po' tutti; pensiamo che
Germana di Foix, la graziosa nipote del re Cristianissimo, ci porta in
dote la rinunzia dei Francesi a tutte le terre che possedevano ancora
nel reame di Napoli.

--E che Consalvo avrebbe potuto riprendere senza sforzo;--notò il
capitano Fiesco.--Ho anche sentito dire che per quella rinunzia del
Cristianissimo, il Cattolico si obbliga di pagargli in dieci anni
settecentomila ducati d'oro.

--Vero;--rispose l'Adelantado.--Per contro restano liberi dalla
prigionia i baroni di quel regno, che avevano militato in favore del
Cattolico. E di rimpatto,--soggiunse sarcasticamente,--è levata la
confisca fatta contro coloro che avevano seguitato il partito francese.
Sicchè, vedete, non si sa bene chi più ci guadagni. Questo rimane, per
altro, che il Cattolico deve pagare settecentomila scudi d'oro, farsi
amare da una sposina francese, e tollerare dalla nobiltà castigliana.
Grattacapi non gliene mancano, adunque; ma ci pensi lui. Il guaio per
noi è questo solo, che in tanta confusione n'andiamo di sotto. Perchè,
s'intendano o non s'intendano, contro di noi sono tutti, Castigliani ed
Aragonesi, ben risoluti di non farci giustizia.

--E il virtuoso Ximenes?

--C'è la Giunta degli scarichi; così dice egli a chi gliene parla. La
Giunta degli scarichi è il suo grande argomento. L'ha inventata lui,
difatti, per le questioni di Castiglia; e gli pare che sia la man di
Dio. Con questa, egli ha scaricato anche la sua stessa coscienza.
Poveraccio, finalmente! ha tanti carichi sulle spalle, che qualche volta
mi vien voglia di compatirlo. Sapete, mio caro Fiesco, che io non l'ho
con questa gente; l'ho colla nostra cattiva stella, che ci ha condotti
qui, a piatire da vent'anni con un bugiardo, ad inghiottire ogni sorta
di amari bocconi. Il mio grande fratello non vuol che si dica; e per
rispetto a lui sto zitto. Ma qualche volta la pazienza dà di fuori, come
se fosse una pentola. Se si dava retta a me, o con Francia, o con
Inghilterra, sarebbe stato un altro paio di maniche. Ripeto e torno a
dire: poichè il male è fatto e non si muta, venga Giovanna, e sia
l'ultimo tratto di dadi. Di questo, poi, si potrà toccarne
all'Almirante, quando sia il momento. Mi pare che una lettera alla
regina dovrà scriverla anche lui. Per ora non conviene dir nulla. Quella
sua gotta, o artritide che sia (sapete che i medici non sono neanche
d'accordo sull'indole del suo male) può aggravarsi di schianto, con ogni
commozione un po' forte; tanto che io non gli ho neppur detto una cosa,
che ora mi torna a mente. Vedete che smemorato! Ma anch'io ci perdo la
testa, con tanti pensieri. E si tratta appunto di voi.

--Di me?--chiese il Fiesco.

--Sì, di voi, che il re Ferdinando ha mandato a cercare.

--A cercar me? e come sa che io dovessi arrivare?

--Cioè;--ripigliò l'Adelantado,--maravigliatevi ch'egli sapesse del
vostro arrivo a Segovia; perchè là vi ha mandato a cercare, e non qui.
Due giorni dopo ch'eravate partito per Siviglia, venne da noi il dottor
fisico Villalobos, l'Esculapio di Corte. Che degnazione, non vi pare?
Credevo che fosse stato cortesemente mandato a visitar mio fratello; ma
quello era l'ultimo pensiero del sommo Villalobos. Si contentò di
qualche domanda, e non chiese neanche di vederlo. Mi chiese invece, così
di punto in bianco: è giunto da voi altri il signor conte di Lavagna?
Sì, gli risposi, non avendo ragione di nasconder la cosa, nè parendomi
savio negarla. Sua Altezza, ripigliò, lo vedrebbe molto volentieri;
rammenta sempre di averlo ricevuto due anni fa, al suo ritorno dalla
Giamaica; è un amabile cavaliere, e Sua Altezza, che ama molto
gl'Italiani, sarà felice di riceverlo. Risposi, naturalmente, di non
poter fare così presto l'ambasciata; voi esser venuto in Ispagna per
vostre ragioni d'interesse, e solo per l'amicizia vostra col signor
Almirante aver mandata innanzi agli affari una visita a Segovia, ma
subito esser partito per Cadice, che ne sapevo io? per Granata, o per
Malaga, avendo da incontrare certi mercatanti e banchieri del vostro
paese. Infine, alla bell'e meglio ho cucite insieme le mie quattro
bugie, come un altro Ferdinando; con questa differenza, che le mie erano
molto innocenti, sicuramente meno gravi delle sue. Ho soggiunto,
s'intende, poichè n'ero richiesto, e non volevo apparire bugiardo poi,
che sareste tornato ancora, dopo sbrigate le vostre faccende, a prendere
i comandi dal vostro veneratissimo capo, e che in tale incontro vi avrei
avvertito del desiderio di Sua Altezza, tanto onorevole per voi, tanto
caro, tanto lusinghiero, e chi più n'ha ne metta.--

Il conte Fiesco cascava dalle nuvole: cascava, cascava, e non toccava
mai terra.

--Che diamine vorrà egli da me?--chiese egli, stupito.--Parlarmi
dell'Almirante, mentre lo ha qui sotto la mano?

--Oh, non credo che si tratti di ciò;--rispose l'Adelantado.--Per quanto
gli piaccia mentire, mostrandosi mondo di colpe, puro come un agnellino,
di nient'altro dolente che delle esorbitanti pretensioni del signor
Almirante Colon, egli non manda di sicuro a cercar la gente a cui
versare nel seno le sue giustificazioni.

--Allora?

--Allora, mio caro, voi siete il conte di Lavagna.

--Così poco, don Bartolomeo, così poco, che quasi non m'avviene di
ricordarmene; e qui, nella gloria del vostro immortale fratello, meno
che mai, ve lo giuro.

--Ma conte di Lavagna restate. E m'è entrato in testa che il re
Ferdinando, abbandonato da tanti gentiluomini di qui, vada in busca dei
più illustri d'ogni terra. Non siete voi anche nipote di quel Giacomo,
che mezzo secolo fa è stato vicerè di Napoli? Ferdinando li conosce, i
grandi nomi d'Italia; e vi vorrà alla sua corte.

--Io! starei fresco;--scappò detto al capitano.--Più fresco ch'io non
sia già per l'antico soprannome degli avi;--soggiunse, ridendo al
bisticcio che gli fioriva spontaneo dal labbro.

--Eppure, chi sa? da cosa nasce cosa....

--E il tempo la governa, volevate dire? Ma non è da uomini gravi
almanaccare, quando ci vuol poco a saperne l'intiero.

--Certo, bisognerà andare; e più presto andrete sarà meglio. Non
volevate già chiedere udienza, tentando di fare, come dicevate, il
vostro giuoco doppio? Ecco che l'occasione vi si presenta; anzi vi è
venuta incontro.

--Amico,--rispose il capitano Fiesco,--pensavo bene di destreggiarmi a
quel modo, avendo poca sicurezza da una parte e dall'altra. Ora, dopo il
colloquio di Siviglia, mi pareva che il meglio fosse di non far più
nulla qui, aspettando tutto di Fiandra.

--E neanche a Valladolid sarà male vedere;--ribattè l'Adelantado.--Non
foss'altro, per esser ben certi che non c'è nulla da sperare. Di nulla
infatti vi parlerà, se non gliene entrate voi stesso. Vi vuole a Corte,
credetemi; son volpe vecchia, e gioco che c'indovino.

--Io poi son volpe giovane;--disse di rimando il capitano Fiesco;--ed ho
buone gambe, per andargli lontano mille miglia. Gioiosa Guardia mi è
troppo cara, e non ci voleva meno di una lettera del signor Almirante,
per trarmene fuori. Ma questi non è un re.

--E neanche un vicerè, se i re si rimangiano la parola e la
firma;--soggiunse l'Adelantado.--Povero fratello! Io non ho la sua
dottrina, nè vedo in certe cose più in là d'una spanna. Egli pensa
all'onor suo e del suo nome, e combatte. Io, al posto suo, avrei già
mandato tutti e ogni cosa all'inferno. Aver scoperto un mondo nuovo, non
è gloria bastante? Si va magari a piantar cavoli, come fece Diocleziano,
dopo aver governato l'antico.

--Che non meritava neanche questa scesa di testa;--aggiunse il capitano,
spremendo il sugo di tutta la filosofia che aveva imparata nello Studio
pavese.

Ma sì; che ubbìa era quella del signor Almirante, di voler essere
ricompensato de' suoi servigi? di voler mantenuti i suoi titoli, i suoi
diritti, i suoi privilegi? Una bella ingratitudine patita esalta l'eroe,
più d'un premio ottenuto. Ma forse egli voleva ben ribadire la
ingratitudine di Ferdinando il Cattolico alla gogna della posterità. Nel
qual caso, bisogna credere ch'egli avesse ragione, più del fratello don
Bartolomeo, del capitano Fiesco e di noi.

Il capitano era giunto alle coste di Spagna meglio in arnese delle altre
volte. Potè dunque farsi bello di qualche eleganza, tanto da far dire
all'Adelantado: "voi volete, conte Fiesco, dar nell'occhio a Germana di
Foix". Rideva il capitano alla celia, ma rideva stentato, pensando ad
una visita che faceva di mala voglia. Rideva ancora, rideva giallo,
andando la mattina seguente al palazzo reale; rise verde senz'altro,
quando, già sicuro di esser rimandato ad altra ora, magari ad un altro
giorno, si sentì dire dal gentiluomo di camera:

--Sua Altezza il re vi aspetta, signor conte di Lavagna. Voglia Vostra
Eccellenza passare.--

Eccellenza, niente di meno! E infatti, non era egli un conte di Lavagna?
e non aveva titolo di Eccellenza l'illustre Gian Aloise? Bartolomeo
Fiesco non era neanche a Genova, dove la maggiore autorità del cugino
potesse fargli ombra colla sua luce; era in Ispagna, dove la gran luce
dell'eccelso parente poteva benissimo riverberarsi da lontano su lui.
Accettò dunque l'"eccellenza", e passò.




CAPITOLO XII.

La Sfinge regale.


Ferdinando d'Aragona non era stato in sua gioventù nè bello nè brutto.
Di carnagione più giallo che bianco; larghe le guance ed angusta la
fronte; lungo il naso e breve lo spazio tra il naso e il labbro
superiore; ombreggiato questo da due baffettini tagliati corti sulla
tumida bocca; tondo il mento e piuttosto prominente; gli occhi grossi e
sgusciati, donde aveva un'aria un po' sciocca; queste le note principali
del viso, e non tali da offrirvi una immagine di Apollo. Ma la gioventù,
quando c'era, attenuava i difetti; una folta capigliatura nera,
scendente fin quasi all'arco delle sopracciglia, ne scusava la poca
eleganza; e il giovanotto, finalmente, era re. Gli anni, poi, avevano
mutato l'aspetto di quel re, non in tutto a suo benefizio, per quanta
gravità gli aggiungessero. Spariti i baffi, appariva un tantino più
lungo il naso, e le labbra sporgevano più tumide. Gli occhi avevano
piuttosto acquistato che perso; ma l'acquisto era di due borse nel basso
delle occhiaie, e di certi pendoni sopra le palpebre, che velando quegli
occhi a mezzo non li aggraziavano punto. Portava sempre lunghi i
capelli fino all'altezza delle spalle; ma erano capelli grigi, e non
bene ravviati; nè più dalla fronte scendevano all'arco delle
sopracciglia. Ma a questo guaio rimediava il copricapo, di velluto nero,
mezzo berretta e mezzo corona, che il re Ferdinando, fattosi maturo
negli anni, non si levava mai nel cospetto della gente. La corona
appariva sul davanti del copricapo in tutta la sua maestà; spariva
presso alle tempia, sotto i capi d'una rivolta che correva tutto intorno
alla testiera. Indossava una tunica lunga oltre il ginocchio, anch'essa
di velluto nero, dal cui sparato, trattenuto con lacci di seta, appariva
il bianco della camicia pieghettata. Una giornéa di broccato cremisino,
colle rivolte di vaio, senza maniche, aperta davanti, lasciava vedere il
collare di gran mastro d'Alcántara, scendente sul petto, ma senza
abbondanza di catena. Era modesto, quel re, non amava sfoggiare il suo
grado: mezza corona e mezza berretta; detto questo, non ci sarebbe altro
da aggiungere.

Ma l'abito non fa il monaco, e Ferdinando d'Aragona sapeva ben
dissimulare il suo orgoglio di re. Lo obbligavano a ciò le stesse
circostanze tra cui esercitava il potere supremo. Era quello il tempo
che le monarchie d'Europa si venivano formando, in mezzo a difficoltà
non poche nè lievi, costretto a destreggiarsi di continuo per girare gli
ostacoli, per evitare i pericoli, per domare la superbia dei grandi
vassalli, per vincere le resistenze dell'alto clero, per procacciarsi il
favore della piccola nobiltà, per amicarsi il popolo, appagandolo con
qualche concessione, maravigliandolo con qualche esempio di giustizia.
I leoni dovevano farsi volpi, secondo l'occasione; i lupi vestirsi da
agnelli, senza rinunziare del tutto alla primitiva natura, e
ripigliandone al buon momento le forme. Così da Ottaviano Augusto a
Carlo Magno si era usato con frutto; e ognuno a suo modo imitava i
grandi esemplari. Fortunati coloro che meglio a proposito sapevano
applicare ai casi particolari le massime generali d'una tirannide intesa
a fortificare una dinastia, e in pari tempo a formare uno stato.

Quando il conte Fiesco entrò nella sala reale, don Ferdinando andava su
e giù passeggiando, senza rumore, con le sue scarpe di velluto, foderate
anch'esse di vaio. All'entrare del gentiluomo genovese si volse, fece un
bel gesto, atteggiò le grosse labbra ad un sorriso, fermandosi su due
piedi in mezzo alla stanza.

--Conte,--diss'egli,--bisogna dunque mandarvi a cercare? Si passa in
Castiglia, e non si viene a visitare il re d'Aragona?--

Era la sua regola, dopo la morte d'Isabella: aveva ripigliato il suo
titolo di re d'Aragona, e voleva farlo sentire, ripetendolo in ogni
incontro. Ostentazione di modestia, che non ingannava nessuno: ma gli
piaceva di far così; tanto più gli piaceva, in quanto che, se avesse
fatto altrimenti, gliel avrebbero apposto ad ambizione, vedendoci anche
una usurpazione non tollerabile.

--Vostra Altezza mi perdoni;--rispose il conte, inchinandosi.--Il mio
viaggio in Ispagna era per ragioni di traffico. Un debito di amicizia e
di gratitudine mi aveva consigliato il giro largo a Segovia; ma dovevo
correre a Siviglia per certi negozi, che non volevano indugio più lungo.
_Genuensis, ergo mercator_;--soggiunse egli sorridendo, per modo di
conclusione.

--Sappiamo, sappiamo;--disse il re, accennando una scranna, ed
invitandolo con gesto benigno a sedergli vicino.--E siete ritornato, e
vi terremo, non è vero?

--Ahimè, mio signore, altre ragioni mi chiamano a casa. Solo la malattia
del signor Almirante mi tratterrà qualche giorno. Speriamo che non sia
grave tanto, da impensierire chi l'ama.--

Il re lasciò cadere a vuoto l'accenno, e diede un altro giro al
discorso.

--Che novelle ci portate dall'Italia? Sapete che l'amo.

--Lo so, e da buon cittadino ne debbo esser grato a Vostra Altezza.

--Nostro zio il re Cristianissimo,--ripigliò Ferdinando,--ha buoni
amici a Genova; ed io non per altro gli porto invidia, se non perchè ne
possiede uno come Gian Aloise, potente signore, ma ancora più gentil
cavaliere.

--E buon servitore di Vostra Altezza;--soggiunse il conte.

--Questo non sarà poi così vero come il resto;--replicò
Ferdinando.--Egli non ce ne ha dato fin qui prove bastanti. Ma noi gli
perdoniamo di gran cuore, ben sapendo che non si può servire a due
padroni. Che gente maravigliosa, i Fieschi! Di antica stirpe reale, gran
vassalli dell'Impero, hanno da principio resistito virilmente alla
fortuna di Genova; attratti da lei, son riusciti a dominarla. Tutto ciò
è d'anime eccelse. Le repubbliche non possono prosperare senza gran
signori, che le aiutino di consiglio e di braccio: ma i gran signori, a
lor volta, non possono crescere di potenza, se non col favore dei re. I
Fieschi lo hanno capito. Non contenti d'aver dato tanti cardinali e due
papi alla Chiesa, hanno saputo spendersi ancora in servizio dei maggiori
principi della cristianità. Nostro zio Alfonso d'Aragona ebbe a Napoli
in Giacomo Fiesco un ammirabile vicerè.

--Bontà di Vostra Altezza lo esalta oltre il merito.

--No, no, è pretta giustizia. Amo la giustizia, io; non istimo se non
questa. E voi, conte, non vi addormentate già sugli allori degli avi?

--Io? povero a me! sono un assai piccolo uomo, e porto male un gran
nome. È già molto se come marinaio ho potuto aver la fortuna di servire
la vostra Corona in quattro viaggi di scoperta, sotto l'onorato
comando....

--Acquistando un'esperienza preziosa di uomini e di cose;--interruppe il
re, che davvero non voleva sentir finire tutti i salmi in gloria.--Non
bisogna buttarla via, ricordátelo. E se amate la nostra Corona, che
siete venuto a servire non tanto da marinaio, come da gentiluomo
d'arrembata, perchè non tornereste a noi, e per servirci in uffici e
dignità più convenienti al vostro nome? Questa Corona ha pur la sua
gloria; ed anche noi abbiamo operato cose che non saranno giudicate da
poco. Da noi sono stati cacciati i Mori, e restaurati da per tutto gli
altari di Cristo; da noi occupato stabilmente il reame di Napoli. E qui
e laggiù, dove è sempre viva la memoria del vostro nobil parente, anche
voi potrete illustrarvi con leali servigi, scambio di addormentarvi
negli ozi di Capua, o piuttosto, poichè vivete sulla riva del mare, a
sentir cantare le Sirene.

--Non ha Sirene il mar di Liguria;--notò il capitano Fiesco, tanto per
dir qualche cosa, e accompagnando con un sorriso l'osservazione
discreta.

--Ma le portate con voi, non è vero?--disse il re, sorridendo a sua
volta.--Certi paggetti, o mozzi che voglian parere.... Non dite di no,
perchè i re sono costretti a sapere ogni cosa. E vi ci ho colto, colla
soffoggiata sotto il mantello!--seguitò, ridendo ancora.--Ma badate,
conte mio; quando si possiede un tesoro, non si porta attorno, nè così
in vista, che tutti lo riconoscano.--

Il capitano Fiesco era stato colpito in pieno petto da quella bottata
improvvisa del suo interlocutore; ed anche aveva dovuto faticar molto
dentro di sè, per non dar segno d'averla ricevuta così profonda.
Guardava frattanto il re, cercando di scoprire nel volto di lui
l'intenzione riposta, che lo aveva fatto parlare in quel modo. Il re
sorrideva; forse non mirava ad altro che a fargli sentire come fosse
bene informato. Il migliore, e lì per lì anche l'unico partito da
prendere, era quello di volgere la cosa in celia, accettando la lezione
del regale maestro.

--Mio buon signore,--diss'egli, annaspando un pochino,--necessità di
viaggio. Le dame sono come gli eserciti, che non si muovono da un luogo
senza una quantità sterminata d'impicci. Ed io, dovendo fare una corsa
di pochi giorni, da marito prudente, o che pensava di essere tale....

--Sì, sì, capisco;--disse di rimando il re, non lasciandogli finire la
frase;--ma voi metterete me negli impicci. Dio guardi, se viene a
saperlo il Sant'Uffizio, che non ammette i tramutamenti da sesso a
sesso!

--Provvederò;--rispose il Fiesco, fremendo.--Non dubiti Vostra Altezza,
provvederò fin d'oggi.

--Eh, non dico per questo;--si degnò di rispondere il re.--Al mondo ci
siamo per fortuna anche noi, e dove non sia offesa volontaria ai
precetti della nostra santa religione, la nostra autorità passa innanzi
a tutte le altre, e in ogni caso può corregger anche gli effetti di uno
zelo frettoloso. Voglio dire piuttosto che se la contessa del Fiesco ha
da splendere come un bel fiore d'Italia alla Corte di Spagna, non sarà
bene che sia stata veduta prima in maschera, e fuor di stagione. Voglio
avervi, infatti; voglio avervi ad ogni costo. Il giorno che avrò un
conte di Lavagna al mio servizio, mi stimerò forte in arcione come mio
zio il re Cristianissimo.--

Al capitano Fiesco ritornava il fiato in corpo. Ma la paura era stata
grossa. E perchè non voleva incominciare allora a tremare, egli che non
si era mai sbigottito di nulla, giurò a sè stesso di non aver più paura,
e di dar passata a tutte le funebri celie di quell'uomo, che sicuramente
voleva pigliarsi spasso di lui. Anche quella ubbía d'averlo a' suoi
servigi, si poteva prenderla per buona moneta? Rispondeva per verità ad
un pronostico dell'Adelantado; ma don Bartolomeo Colombo non era poi un
profeta, e il casuale incontro di due chiacchiere non voleva già dire
che egli, Bartolomeo Fiesco, si dovesse stimare di quel buon legno,
tagliato in luna vecchia, di cui si fanno gli uomini di Stato in tutti i
paesi del mondo civile.

--Vostra Altezza,--rispose allora,--si fa una troppo buona opinione di
me. Ma io sento la mia pochezza, e, per tradurre una frase di poeta
latino, quanto possano e quanto non possano portar le mie spalle.--

Ferdinando stava per ribattere quell'eccesso di modestia; quando l'uscio
si aperse, e il gentiluomo di camera apparve nel vano.

--Avanti, Noguera;--diss'egli.--Che avete di nuovo?

--Servizio del re;--rispose il Noguera, inoltrandosi rispettosamente, e
presentando una lettera.

--Permettete;--disse allora Ferdinando, volgendosi al Fiesco, mentre si
disponeva a rompere il suggello.

Il capitano Fiesco rispose con un profondo inchino. Ferdinando lesse la
lettera, la rilesse, aggrottando le ciglia; indi ripose il foglio sulla
tavola accanto a cui stava seduto, e disse, congedando il gentiluomo di
camera:

--Sta bene, provvederemo. Voi dunque,--ripigliò, volgendosi ancora al
Fiesco, appena quell'altro fu uscito dalla stanza,--non volete venire al
servizio d'Aragona? Siete dunque coi miei nemici?

--Mio signore, perchè mi dite voi ciò?--rispose il Fiesco,
maravigliato.--E perdoni Vostra Altezza, se ardisco interrogare: ma è
così nuovo e così immeritato il rimprovero, che io sento il bisogno di
chiederne il perchè.

--Il perchè non è difficile a dirsi;--replicò Ferdinando.--Lo sapete, il
proverbio? Chi non è con me vuol esser contro di me. Ho bisogno d'avervi
al mio servizio, e voi ricusate; dunque.... cavatene voi la conseguenza,
signor conte di Lavagna.--

Il capitano Fiesco rimase un istante silenzioso, non per cavare la
conseguenza accennata dal re, ma per pesare il pro ed il contro di un
disegno che gli era venuto alla mente.

--Mio signore,--incominciò egli, dopo quell'istante di pausa,--quando un
gentiluomo prende servizio, non impegna altrimenti la sua libertà che a
certi patti, offerti a lui dal padrone, o da questo accettati. Vostra
Altezza non mi offre patti; potrei osar io di proporne?

--Osate, ve lo permetto; ve ne faccio preghiera. Non sono io stato
sincero con voi? Voglio un conte di Lavagna, vi ho detto, un conte di
Lavagna, come lo ha il mio buon zio Cristianissimo, e che tutto
s'adoperi per i miei interessi; onorati interessi, che sono pure quelli
di un gran regno. Osate dunque, siate sincero con me, parlate
liberamente.

--Ebbene, mio signore;--disse il Fiesco animandosi;--perchè io, libero,
e desideroso di quiete nel mio castello di Gioiosa Guardia, mi
acconciassi a prender servizio presso il più nobile fra i re,
bisognerebbe che l'uomo insigne col quale ho lealmente servito, e dal
quale sono stato ricompensato di affetto paterno, non gemesse più oltre,
aspettando una prova del vostro favore. Siate generoso, re Ferdinando,
e pensoso del nome che lascerete nella storia del mondo. Quell'uomo Voi
lo avevate pur creato almirante maggiore dell'Oceano, e vicerè delle
terre ch'egli avrebbe scoperte. Egli ha mantenuti i suoi patti,
scoprendo un mondo per la vostra Corona. Ed era, ed è la onestà, la
probità fatta uomo; e l'hanno ingiustamente accusato.

--Lo so;--disse il re.

--Lo hanno calunniato....

--Lo so.

--Nè mai ha pensato a tradire la Spagna, per Portogallo, per Genova, per
Inghilterra, come i suoi accaniti nemici hanno via via perfidiato....

--Lo so.

--Allora, perchè non reintegrarlo nelle sue dignità?

--Perchè.... perchè.... Voi siete, signor conte, l'uomo dei perchè. Ma
vi ho dato libertà di parlare; e così parlaste sempre, per ogni cosa,
con libertà pari a questa che usate, a favore del vostro Almirante! Il
perchè ve lo voglio dire, con la mia usata sincerità. Non l'ho
reintegrato, perchè fu un errore conferirgli le dignità che accennate.
L'errore non fu commesso da me; fu commesso, sia pure a buon fine, dalla
santa donna che mi fu trent'anni compagna di vita e di regno; ed io non
l'ho mai approvato. Nato di nessuno, il vostro Almirante; e a voi si può
dire, che siete d'una gente le cui origini illustri si perdono nella
notte dei tempi; nato di nessuno, e pieno di pretensioni inaudite!
L'ingegno, l'ardimento.... sì, ammetto queste virtù, che non sono poi
così rare com'egli si crede. Ingegno ed ardimento ne ebbero, a non
citare altri esempi, Vasco di Gama, Alonzo d'Ojeda e Pedro Alvarez
Cabral, tutti vivi e sani, e non come lui orgogliosi.

--Dell'orgoglio non so;--rispose il Fiesco, a mala pena fu passata la
raffica dell'invettiva regale;--quantunque il mio amico d'Ojeda, l'unico
ch'io conosca dei tre, non ne difetti davvero. Ma debbo anche notare che
i suoi servigi non possono entrare in paragone con quelli di Cristoforo
Colombo. E non possono entrarci nemmeno quegli degli altri. Che han
fatto finalmente costoro? Vasco di Gama ha costeggiato tutta l'Africa
meridionale, dieci anni dopo che Bartolomeo Diaz ne aveva costeggiato un
terzo da ponente fino al capo Tormentoso, settecent'anni dopo che gli
Arabi ne avean costeggiato un altro terzo da Levante, fino al capo
Guardafui, e Dio sa quanto più oltre; cosicchè non si trattava più
d'altro che di collegare i due punti, colmando l'intervallo; e questa
colmata chiamiamola pure scoperta, perchè infine non mancò l'ardimento
al Gama, come al Diaz non era mancato l'ingegno. Che ha fatto Alonzo
d'Ojeda? Era uno dei cavalieri venuti con noi nel secondo viaggio alla
Spagnuola; si è illustrato con atti di valore; scontento di noi, ha
chiesto a Vostra Altezza di poter navigare e scoprire da sè, tornando
laggiù sul medesimo solco di Cristoforo Colombo; e sette anni fa, con
Amerigo Vespucci, usando le carte delineate da Giovanni di Cosa (un
marinaio del nostro primo viaggio, non lo dimentichiamo) toccò la terra
ferma del Mondo nuovo, alla costa di Paria, che Cristoforo Colombo aveva
scoperta un anno prima, niente di meno! Che diremo noi del Cabral? Il
valentuomo ha scoperto sei anni or sono il Brasile, per caso, girando
troppo largo dalle isole di Capo Verde, e sviato ancora dalla tempesta,
con quell'armata che doveva condurre alle Indie orientali. Gente ardita,
a cui fo di berretta; ma ebbero essi l'ingegno divinatore, per muovere
verso l'ignoto e per sfidarne con altrettanta fede i pericoli?

--Sia;--disse il re, che era stato a sentire pazientemente la lezione
del conte;--il vostro Almirante ha l'ingegno divinatore. Non gli basta?
È la sua gloria; dev'essere la sua contentezza. Dio manda ad ogni tanto
uomini di questa fatta nel mondo, per adempiere un'alta missione. Non
gli basta neppur questo, che è pure il suo premio? Perchè, servito dalla
fortuna oltre ogni speranza sua, vuol egli ancora una rendita che
andrebbe, a conti fatti fin qui, a cento milioni di scudi castigliani?
Perchè vuol essere almirante maggiore, ritenendo un titolo che qui fu
portato soltanto da don Federigo Henriquez, mio nonno materno? Perchè
vuol essere vicerè delle Indie, titolo che richiede gran nobiltà
secolare, mentre non l'hanno ottenuto tante famiglie che nel corso di
dieci generazioni versarono il sangue in cento battaglie? Notate, signor
conte,--soggiunse il re, mettendo il sordino ad una musica che gli
diventava un po' troppo chiassosa,--notate che questi gran signori di
Castiglia e Leone io li amerei più modesti. Sono le braccia che
combattono, i cavalieri d'un reame; i re sono la mente che guida. Ed è
merito di tanti re avere indirizzato ad util meta il lavoro, non
dubitando di reprimere la nativa baldanza del Cid Campeador, e, se
occorresse, quella d'un Consalvo di Cordova. Questi è, per sua virtù
come per nostra fortuna, un suddito leale; ed io dico così per
istabilir chiaramente i diritti e gli uffici provvidenziali dei re. Ma
il vostro Almirante, sia pur leale come voi dite, e com'io non vi nego,
non parrà egualmente sicuro, nè degno delle alte cariche, a tutta la
nobiltà Castigliana. Il re ha cura di molti e cozzanti interessi, che
vuol tutti condurre in porto. Ci pensi, a queste cose, il vostro
Almirante, e mi giudichi. Che più? Dubitando di noi medesimi, non
abbiamo forse istituita una Giunta composta dei più venerandi
ecclesiastici, dei più reputati gentiluomini, la quale veda e
giustifichi fin dove giunga la nostra malleveria, e quella della defunta
regina, per rispetto alle ragioni di tutti? È all'opera il fiore del
reame; sappia egli aspettarne i responsi.

--È vecchio, mio signore, più vecchio che non porti l'età. I pericoli
incontrati, i travagli sofferti lo hanno ridotto così male! Ed anche la
grave malattia del secondo viaggio, che per sei mesi lo tenne in
pericolo di vita....

--E fu il gran guaio;--interruppe Ferdinando;--perchè nella colonia
incominciò lo sgoverno, colla perdita di tanti nobili cavalieri. Il
vostro Almirante è uomo da scoprir terre, avendone l'ingegno divinatore,
come voi dite; non è uomo da governarle, non avendo l'ingegno
amministrativo, come dico io, imitandovi. Ed ha offesi mortalmente i
nostri Castigliani, obbligandoli perfino a lavorare la terra. Ancor
essa, la santa Isabella, non seppe in tutto perdonargli. Disperato di
trovar oro nelle viscere dei monti, non ha egli pensato a vendere come
schiavi i poveri Indiani? Era da uomo religioso, cotesto?--

Qui, per quanto buon cavaliere egli fosse, il capitano Fiesco perdette
le staffe senz'altro.

--No, non era;--rispose;--ed io che c'ero, laggiù, debbo ringraziare
Vostra Altezza della pietà dimostrata per quei poveri Indiani. Ma è più
conforme al sentimento religioso ciò che ha fatto il gran commendatore
d'Alcántara, don Nicola Ovando, distruggendo colà, sterminandovi col
ferro e col fuoco un milione di sudditi? In mano di buoni cristiani,
nell'Andalusia, nella nuova Castiglia e nella vecchia, i naturali della
Spagnuola erano da tenersi come figli; servi, ma da potersi riscattare,
iniziandoli al misteri della nostra santa religione. Quelli che don
Nicola Ovando ha fatti sgozzare, o bruciare, non si riscattano più; non
si ritornano più in vita, per dar loro la consolazione estrema del santo
battesimo.--

L'uscio si aperse una seconda volta. Il capitano Fiesco voleva prender
commiato; ma il re lo trattenne.

--È ancora il conte di Noguera;--diss'egli.--Servizio del re; e si manda
avanti, senza che il colloquio ne soffra.--

Così prendeva un altro messaggio dalle mani del gentiluomo di camera, a
cui dava commiato, dopo aver letto e aggrottato ancora le ciglia. Non
dovevano esser piacevoli, quel giorno, le lettere del re Ferdinando.

--Dicevate....--ripigliò il re, deponendo il foglio, e tornando alla sua
calma, senza smettere del tutto il cipiglio,--dicevate del governatore
di San Domingo, non è vero? Ebbene, sappiate quel che io ne penso. Don
Nicola Ovando è un fervente cristiano. Gliene fa obbligo la religione
di Alcántara, ond'egli è un insigne ornamento. Se ha usato severità
contro gl'Indiani, bisogna dire ch'ella fosse necessaria, per la
salvezza della colonia. E ancora non n'è venuto intieramente a capo, se
son veri i ragguagli che mi giungono di laggiù, perchè molte fila di una
vasta congiura gli sono sfuggite pur troppo. Qua dentro,
vedete?--soggiunse Ferdinando, battendo della palma sopra un fascio di
carte che aveva vicine sull'orlo della tavola;--c'è un cumulo di
sospetti, che potrebbero diventar prove, e prove terribili contro chi ha
tentato ingannare la bontà di un governatore pietoso.--

Il capitano Fiesco fremette, e si sentì correre un sudor freddo alle
tempia. Ma non voleva aver paura; lo aveva giurato a sè stesso. Perciò
fece buon viso ad un discorso ambiguo, che poteva esser minaccia e non
essere.

--L'autorità sua non è rispettata abbastanza;--proseguiva il re.--Vuol
essere stabilita ad ogni costo, per la sicurezza della colonia, come per
l'onore della Corona. E frattanto il vostro Almirante pretende da noi
che don Nicola Ovando sia richiamato!

--Non lo aveva chiesto anche la santa regina, innanzi di andare alla
gloria?

--Sì;--rispose Ferdinando, non senza torcer la bocca.--Ed anche di ciò
si occuperà la Giunta degli Scarichi. Se la cosa è giusta, si farà. Ma
anche in questo caso ella vorrà dar prova di considerare anzi tutto
l'onore della Corona e l'utilità della disgraziata colonia.

--Mio signore,--rispose il capitano Fiesco con aria contrita,--io non ho
da metter bocca su ciò che riguarda così alti interessi. E non avrei
parlato, correndo il risico di dispiacere a Vostra Altezza, se non ne
avessi avuto licenza, e quasi un comando.

--Nè io mi dolgo di voi;--disse il re.--Amo parlar chiaro, che si veda
bene l'animo mio. Volete venire al nostro servizio?

--A quel patto, mio signore: sia resa giustizia al signor Almirante.--

Ferdinando non istette alle mosse, e violento rispose:

--Giustizia!... giustizia!... Liberamente ne parlate voi, signor conte
di Lavagna. E se io vi dicessi che ne ho sete? Se vi dicessi: aiutatemi
a farla? Ci sono dei fuggiti di là, degli scomparsi, che avrebbero
meritata la forca; e voi che siete stato là, non potreste dar luce? voi
che avete corsa tutta l'isola, e che la conoscete a palmo a palmo?
Eppure,--disse il re, chetando ad un tratto la furia,--non questo io
domando a voi; non in questo voglio usare il vostro ingegno, la vostra
accortezza, il vostro coraggio. Mi sarebbe caro convincervi della purità
delle mie intenzioni, come della bontà del mio cuore. Voi prima di
tutti, guardate; prima degli stessi Castigliani, che non mi sanno render
giustizia. Non tutto io posso fare, pur troppo; ma dove posso, non mi
trattengo dal fare. E veglio, veglio, perchè qui si lavora
maledettamente a guastare ciò che vi è stato fatto, e fatto da me;
voglio dire questa bella unione di Castiglia e d'Aragona, ond'era già
balzata fuori la Spagna, armata, gloriosa e vincente. A questo, che non
è più un sogno, Castiglia cieca si ribella; vuole un re tutto suo, un re
che non conosce, una regina che, poveretta, non ha intiera la sua
ragione; e ricusa colui che l'ha resa grande, facendo ancora qualche
sacrifizio per lei. Non era d'Aragona il reame di Napoli? E non siamo
stati noi che l'abbiamo dato alla Spagna? Eccovi una generosità assai
male ricompensata. Congiure su congiure; si resiste, si minaccia, si
aspetta chi rimandi noi in Aragona, contro la fede di recenti trattati.
Ci andremo, se la forza e la follìa prevarranno sulla ragione e sul buon
diritto; ci andremo, ed allora.... Dio abbia pietà della Spagna.--

Il capitano Fiesco era stato a sentire a capo chino, qua e là tremando
un pochino in cuor suo, ad onta del fermo proposito, ma poi vedendo
girare da un altro lato la bufera.

--Mio signore,--diss'egli finalmente,--io straniero non ho da veder
nulla in queste faccende....

--Eh, non so, veramente;--interruppe Ferdinando.--Voi vedete in troppe
cose; effetto del viaggiar molto che fate. Vi ho detto l'animo mio,
signor viaggiatore. La sincerità è virtù mia, della quale mi vanto.
Pensate bene a quanto vi ho detto; poi, quando avrete pensato, verrete a
dirmi il frutto delle vostre meditazioni.--

Il capitano Fiesco s'inchinò profondamente, ben risoluto di non meditar
nulla di nulla.

--Prendo congedo da Vostra Altezza con la morte nell'anima;--diss'egli,
anticipando nella frase malinconica la notizia della sua risoluzione.

--Starà in voi di mostrarvi degno della nostra grazia, e di tornare da
morte a vita;--rispose ironico il re d'Aragona.--Amico vi voglio, e non
collegato ai miei nemici.

--Io? Può credere Vostra Altezza?...

--Che ne so io? Rammentate il proverbio: chi non è con me, vuol esser
contro di me. Andate ora, e Nostro Signore v'abbia nella sua santa
guardia.--

Così dicendo, il re Ferdinando fece un gesto che parve dare al capitano
Fiesco la sua benedizione. L'udienza era finita. Lunga assai; ma in quel
punto, tanto n'era rimasto turbato, il capitano Fiesco l'avrebbe
desiderata più lunga e più chiara; rinunziando magari alla benedizione
di quel re, che non era passato mai per uno stinco di santo.




CAPITOLO XIII.

Si viene a mezza spada.


Uscì dal palazzo coll'anima in trambusto. Bene si era proposto d'esser
forte e di non sentir paura di nulla: ma troppe parole oscure aveva
proferite il re; troppe allusioni mal velate aveva fatte a certi casi di
San Domingo. Sapeva egli della sparizione improvvisa di don Garcìa dalla
capitale di Haiti? Di quella, certamente; ed anche della via che
quell'altro aveva presa, dello scampo e del rifugio che aveva trovato.
Perchè, se non fosse stato così, avrebbe il re Ferdinando detto a lui,
capitano Fiesco: potrei chiedervi di aiutarci? Era venuta, sì, qualche
frase, ad attenuare, a smorzare il pensiero; ma tardi, quando il colpo
era stato dato, e sentito. Ora, se la partenza di don Garcìa, che era
pur libero di andarsene, era stata annunziata da San Domingo al re
d'Aragona come una fuga, bisognava supporre che il governatore di San
Domingo fosse entrato in sospetto del come e del perchè l'esecutore di
giustizia della sua giurisdizione si fosse annoiato del servizio, tanto
da chiedere il suo licenziamento sui due piedi. A giustificare questo
ragionamento non si poteva anche ricordar l'allusione, che il re aveva
fatta prima d'ogni altra, al vero sesso del mozzo Bonito? Perchè quella
finta paura d'un innocente artifizio di viaggiatori, che non era poi una
novità in quel paese e a quel tempo? Proprio a lui forestiero, venuto
colla fretta del giungere e col proposito di tornarsene via, si poteva
far colpa d'un travestimento muliebre, giustificato abbastanza dalla
rapidità del viaggio e dalla opportunità di qualche precauzione
stradale?

Non aveva fatto bene, lo riconosceva benissimo allora, a contentare il
desiderio di Juana, portandola in Ispagna con sè. Quando si è fuori d'un
pericolo, non ci si torna, per quanta sicurezza se n'abbia. Sapeva
tutto, il re? o solamente una parte del vero? A buon conto, Juana
avrebbe súbito riprese le vesti femminili; e per ogni buon fine, a
cavallo quel medesimo giorno, verso la Sierra di Guadarrama, sulla via
di Catalogna, studiando anche i passi più brevi. Poteva essere una
caccia; ed egli, tra sè ed i segugi reali, voleva mettere almeno
ventiquattr'ore di spazio. Pensate, aveva detto il re, mi porterete poi
il frutto delle vostre meditazioni. Quel poi gli offriva appunto un
giorno di tempo. Lo avrebbe guadagnato; corressero pure sulle sue tracce
alguazili ed arcieri. Condotta la sua donna a Barcellona ed al largo,
sarebbe magari tornato a Valladolid: quanto a sè, non aveva timore di
nulla.

Anche per lui c'era la nuvoletta nell'aria. Non gli aveva lasciato
intendere il re di sospettarlo troppo legato ai suoi nemici? Certo, il
viaggio di Siviglia poteva dare argomento a sospetti. Ma quel viaggio si
poteva anche spiegare. Egli era andato laggiù per vedere una dama, e le
ragioni del cercato colloquio erano tutte confessabili. Non era già
andato a cospirar con nessuno! Della cospirazione, a dir vero, aveva
vedute le tracce; anch'egli, per giovare al signor Almirante, non faceva
troppo assegnamento sull'arrivo della regina Giovanna, che era il fine
di tutte le cospirazioni castigliane? Ma qui, poi, egli non era
obbligato a dir tutto. Restava soltanto ch'egli aveva chiesto aiuto a
donna Beatrice Bovadilla per Cristoforo Colombo, suo vecchio amico; e
non altro aveva dovuto cercare. L'altro era un negozio di Spagnuoli; non
ci doveva entrar egli, straniero alla terra ed alle contese dei suoi
cittadini. Così, come straniero, andava e tornava, per assistere il
signor Almirante; andava a Barcellona, ritornava a Valladolid; che c'era
egli di male?

Sì, sì; via di galoppo, quel medesimo giorno. Come spiegar la cosa al
signor Almirante? In ciò si sarebbe consigliato con l'Adelantado, mentre
si sellavano i cavalli. Fortuna, aver trattenuta una parte della sua
gente con sè. Gli mancava il frate scudiero, il suo braccio destro; gran
guaio, perchè il frate scudiero era Spagnuolo, e Catalano per l'appunto;
sarebbe stato utilissimo nel passare per le terre di Catalogna. Ma
pazienza; gli restavano quattr'uomini risoluti e fedeli; sarebbe giunto
a Barcellona, anche ammazzando qualche cavallo. Ah, galoppare, divorare
la strada, aver l'ali ai piedi, come Mercurio! e il re lo aspettasse
pure, col frutto delle sue meditazioni. Oh, la mia buona stella! diceva
egli tra sè. La mia buona stella! ripeteva, per farsi coraggio con una
frase di buon augurio. E andava svelto, facendo i passi lunghi, non
badando a nulla, non vedendo nessuno.

Ma le vie di Valladolid non erano tutte larghe ad un modo: abbondavano
anzi le strette. Ad un crocicchio gli fu mestieri rallentare il passo,
per una gran calca di gente. Perchè tutta quella gente affollata? Non
era in verità da cercare il perchè. Chi ha fretta non si ferma a
domandar le ragioni per cui una calca si ferma, intorno ad un piccolo
accidente di strada; specie in quartieri abitati dal popolino, così
facile a commuoversi per cose da nulla. Chi ha fretta cerca di passare
per quella calca, si fa piccino e sottile, va di fianco, lavora di
gomiti, insinuandosi destramente per ogni vano che trovi. Così egli,
mentre intorno a lui era un cicaleccio confuso.--Poverino! perchè l'han
preso?--Così bello! faceva pietà, coi suoi grandi occhi lagrimosi.--Che!
non piangeva; solo era un poco stravolto.--Sfido io; nelle unghie degli
arcieri!--Che cosa avrà fatto? rubato?--A quell'età, cose da
nulla.--Vestito da marinaio; non era dunque della città.--Poverino! e la
sua mamma, se l'ha!--

Un brivido era corso per l'ossa al capitano Fiesco. Voleva tornare
indietro, per domandare. Chi mai, nelle unghie degli arcieri? e giovane,
e bello, e vestito da marinaio? Ma si ricordò che non doveva aver paura.
E non sarebbe stata esagerazione di paura, tornare indietro per un
ragazzo arrestato? Ma corse più rapido avanti, sempre più lontano da
quella moltitudine. Era là, finalmente, la strada dove abitava il signor
Almirante; era là, si apriva davanti a lui, quieta, luminosa, sotto il
cielo sereno. Passava un carro, tirato da un mulo alto e solenne, che
agitava ad ogni passo una ventina di sonagli; e il carrettiere, che
veniva innanzi, di costa alla ruota, canterellava in cadenza, facendo ad
ogni tanto schioccar la sua frusta per chiasso. La scena era gaia,
tranquilla, innocente; respirava una pace d'idilio siracusano. Ed anche
la casa era là, lunga, alta, e polverosa, ma neppur brutta in quell'ora
meridiana: la coglieva il sole di sbieco, e larghe chiazze di mattoni
rosseggiavano al sole, per mezzo a frequenti sfaldature d'intonaco.
Quella casa pareva sorridere, aspettandolo; ond'egli si sentì liberato
da una grave oppressura. Che sciocco era stato! e come tutto fa paura,
quando si ha l'anima agitata! Infilò il portone, ascese rapidamente due
braccia di scala. Ah, finalmente, era in porto.

Nell'anticamera trovò l'Adelantado, grave, accigliato, silenzioso. Ma
era sempre così, quel benedetto uomo; non rideva se non in mezzo al
pericolo.

--Come va l'Almirante?--gli chiese il capitano Fiesco.

--Eh, si è voluto alzare;--rispose quell'altro.

--Tutti bene?--ripigliò il capitano, a cui quella risposta non poteva
bastare.

--Bene!... Amico mio, forse sapete?...

--Che cosa?--gridò il capitano.--Ah, sarebbe vero?...--

E cadde, così dicendo, sopra una scranna.

--Animo! animo!--gli disse l'Adelantado, con più tenerezza nella voce,
che non avesse mai dimostrata.

--Animo! animo!--ripetè macchinalmente il Fiesco.--Ne ho. Voglio
sapere.... voglio sapere.... Erano venuti gli arcieri?... o i famigli
del Sant'Uffizio?...

--No, grazie a Dio, solo quelli del re. Ma è sempre una infamia! Un tale
affronto all'Almirante! al vicerè delle Indie! Non ha dunque più
vergogna, quel tristo?--

In quel mentre appariva dall'uscio della sua camera il signor Almirante;
alto di tutta la rilevata persona, che oramai, nell'impeto dello sdegno,
non sentiva neanche più i suoi dolori aggranchirgli le membra; gli occhi
sfolgoranti, come nei momenti più gravi della sua vita, in mezzo alle
battaglie d'arrembata, o tra le marinaresche ribelli.

--Questa ancora, capitano Fiesco!--gridò egli, avanzandosi.--Questa
ancora, per colpirmi nel mezzo del cuore! Male lo stimai volpe; è una
tigre, quel re.

--Ma per qual ragione, Dio santo?--domandava il Fiesco, torcendo
convulsamente le mani, impossenti a sbranare un lontano e troppo alto
nemico.--Con quale pretesto?

--Con questo,--rispose l'Adelantado;--che il mozzo Bonito era una donna;
che si doveva sapere chi fosse, e perchè si nascondesse così. Abbiamo
risposto, non dubitate; abbiamo risposto che prendevano abbaglio; che si
trattava d'una gentildonna straniera, non soggetta alle leggi di Spagna,
e che non aveva da fare con la giustizia di questo paese. Ancora abbiamo
detto il suo nome, ma inutilmente. Il signor governatore vedrà, il
signor governatore giudicherà, rispondeva l'alguazil, ch'era venuto
cogli arcieri; se c'è errore sarà facilmente rimediato, e il mozzo
Bonito, o contessa del Fiesco che voglia essere, ritornerà a casa, senza
che gli sia torto un capello. L'Almirante s'intromise; voleva star egli
mallevadore; domandava un indugio, finchè non si appurasse ogni cosa;
credeva di averne il diritto, essendo egli il padrone di casa, e tal
uomo da non essere sospettato di poca reverenza alle leggi. Inutile!
tutto fu inutile; ed han fatto a modo loro, conducendo la contessa al
palazzo di giustizia.

--Legata!

--Eh, sì, legata;--rispose l'Adelantado, fremendo.--Erano in dieci, ed
avevano paura che fuggisse. Noi vi aspettavamo, per muoverci, per far
qualche cosa. L'Almirante vuol andar egli dal re.

--Ne vengo io;--ruggì il capitano Fiesco;--e non credo che gioverebbe.
L'ha con me, il re Ferdinando. Come ciò sia, è inutile il dire; nè si
potrebbe in poche parole. La contessa è un ostaggio ch'egli ha preso,
mentre io ero in udienza da lui. Servirlo! servirlo io? E in che cosa?
in qualche losca impresa, sicuramente. Non si prenderebbero ostaggi, se
la cosa fosse diversa. Venite, don Bartolomeo, accompagnatemi, che temo
di non arrivare dal re, di stramazzar per la strada.--

L'Almirante si avanzò, e gli pose amorevolmente le mani sugli ómeri.

--Coraggio, mio figlio!--gli disse.--E perdonatemi!--È avvenuto per
colpa mia, tutto ciò. Porto sfortuna a chi mi vuol bene.

--Oh, non dite, mio signore, non dite!--gridò il Fiesco,
intenerito.--Era il destino. Ma io mi ucciderò, se non la salvo.

--Un delitto! Non lo pensate neanche.

--Eh, io non sono un santo. Senza di lei, meglio l'inferno! E non l'ho
io già dentro l'anima?--

Scese a precipizio la scala; e don Bartolomeo Colombo lo seguiva. Giunto
a palazzo, chiese di entrare dal re. Non si poteva; impedivano il passo
i soldati; ricusava, chiamato al rumore, il gentiluomo di camera.

--Mio buon signor Noguera!--gridava il capitano Fiesco.--Non siate così
duro con me. Vogliate annunziarmi a Sua Altezza. Se non può ricevermi
subito, aspetterò. Sapete pure, signor conte; ho avuto udienza
quest'oggi, non sono ancora due ore passate; e lunga udienza, vi
ricordate?

--Appunto per ciò, non potrebbe parere bastante?--notò il conte di
Noguera.--Ci sono altri che hanno diritto. Del resto, son
gentiluomo;--soggiunse egli, accostandosi, e traendo il conte Fiesco in
disparte,--non voglio ingannare nessuno. Per quanto vi lasciassi star
qui ad aspettare, oggi Sua Altezza non vi riceverebbe.

--E perchè, di grazia? perchè?

--Non sono visibile, mi ha detto, se non per duchi e marchesi di
Castiglia e d'Aragona, per il razionale di Castiglia e per l'arcivescovo
di Toledo. Son queste,--soggiunse il Noguera,--le precise parole del re.
Voi siete escluso. Se non foste escluso, Sua Altezza, ricordando il suo
recente colloquio con voi, avrebbe aggiunto: e il signor conte di
Lavagna. Non l'ha aggiunto; ed io, con tutto il dispiacere che una
necessità come questa mi potrebbe cagionare, sarei costretto a
rimandarvi fuori. Vi prego, conte, non mi obbligate ad esser severo con
un gentiluomo come voi siete.--

Parlava da onest'uomo, il Noguera. Ma il capitano Fiesco non riusciva a
padroneggiarsi.

--V'intendo;--diss'egli, convulso;--v'intendo, e vi ringrazio. Ma
vedete, si commette una prepotenza, una ingiustizia, una iniquità, che
grida vendetta al cielo. Mia moglie, arrestata come una donna perduta;
la contessa del Fiesco, una straniera, in Castiglia, in terra di
cavalieri! e per ordine del governatore, che è come dire per ordine del
re, tratta a forza di casa, legata, in mezzo ad un drappello
d'arcieri!...

--La cosa è grave, e merita riflessione, in terra di cavalieri;--disse
il conte di Noguera, aggrottando le ciglia.--Forse si tratta di un
equivoco, e ci s'aggiunge un abuso della forza, che va represso e
castigato. Nè credo, come voi fate, che ci sia stato ordine del re.
Comunque, io vi consiglio, per venirne in chiaro, di recarvi da chi può
tutto in queste faccende, e correggere gli errori dei subalterni, o i
suoi proprii, se n'ha commessi, e consigliar clemenza al re, se si
tratta d'un ordine del re. Andate dall'arcivescovo di Toledo. Egli è ora
in udienza da Sua Altezza; ma non vorrà star molto ad uscire.

--Non posso aspettarlo qui?

--No, egli non passa di qui. Andate al palazzo di giustizia, dov'egli
risiede, e dove non tarderà a ritornare. Ma vi prego, non dite che v'ho
consigliato io. Qui, a dar consigli, si giocherebbe la carica. Siete un
gentiluomo, ed amo rendervi servizio, nella misura del poter mio; che
non è grande, pur troppo.

--Anche l'arcivescovo di Siviglia è qui?--entrò a domandare
l'Adelantado.

--Sì; come sapete, non è ancora andato ad occupare la sede.

--Bene,--concluse l'Adelantado, volgendosi al Fiesco.--Mentre s'aspetta
che Toledo ritorni al palazzo di giustizia, possiamo andare da Siviglia,
che si degni di darci una mano.

--La mano di Siviglia è potente;--disse il Noguera, sorridendo.--E potrà
certamente aiutarvi.--

Siviglia, da cui andarono subito, trovandolo nel convento di San
Domenico, era Diego di Deza; bel monaco, dall'aspetto grave, e dal
labbro pieno di bontà. Amava Cristoforo Colombo, e nel consiglio di
Salamanca era stato l'unico suo sostenitore, dispiacendo molto al
vescovo Talavera, e voltando a favore del grande navigator Genovese
l'animo buono dell'arcivescovo Mendoza. Dalla dottrina del Deza, anche
rimasta allora perdente, erano stati salvati per migliore occasione i
disegni di Cristoforo Colombo. E questi ne aveva serbato in cuore una
viva riconoscenza al sapiente domenicano; e il domenicano, dal canto
suo, sentendosi legato da quel buon ricordo al trionfo della mirabile
impresa che aveva preconizzata, ricambiava di vivissimo affetto il
signor Almirante, considerando amici quanti venissero in nome di lui.

Accolse egli a festa don Bartolomeo Colombo e il capitano Fiesco: udì la
ragione della loro venuta, ascoltò attentamente il racconto che gli
facevano, battè un pochino le labbra, e poi disse al Fiesco:

--L'arcivescovo di Toledo è un uomo virtuoso; fidate in lui, signor
conte.

--Le parole di Vostra Eccellenza mi rassicurano;--rispose il
Fiesco.--Ma, se io ho ben veduto, un certo moto delle vostre labbra mi
dovrebbe tenere in pensiero.--

Sorrise il domenicano, e ripigliò placidamente:

--Non vi maravigliate di un moto involontario, essendo un mal vezzo dei
nostri poveri nervi. Ma con voi, degni gentiluomini, si può fare a
fidanza. Il Ximenes è la virtù in persona: solamente è un po' debole,
innanzi a certi voleri, che potrebbero forse trovarlo più risoluto. Ma,
ripeto, è un sant'uomo; quello ch'egli dirà di fare, certamente farà. Ad
ogni modo, e senza saper nulla del vostro bisogno, vi presenterò io, vi
raccomanderò io a Sua Eccellenza. Siete contento?--

Il capitano Fiesco s'inchinò, ringraziandolo; e l'arcivescovo di
Siviglia si degnò di presentarlo egli stesso al primate della chiesa di
Spagna.

Francesco di Cisneros Ximenes, arcivescovo di Toledo, succeduto in
quell'alta dignità al buon cardinale Mendoza, doveva ancora aspettare un
anno il cappello cardinalizio, che ottenne poscia da Giulio II. Per
intanto, come primate della chiesa di Spagna, e già stato confessore
della regina Isabella, il degno prelato, famoso per eccellenza di
dottrina e per santità di vita, reggeva l'amministrazione politica del
reame di Castiglia. Modesto nell'alta carica, indossava sempre il suo
vecchio abito di frate francescano sotto le insegne pontificali: a
Toledo viveva in una povera cella, contigua al palazzo arcivescovile; e
per allora a Valladolid, seguendo la Corte, non aveva voluto alloggiare
nel palazzo regale, troppo fastoso per lui, contentandosi d'un
quartierino nel palazzo di giustizia.

E nessuno diceva che quella sua rinunzia ad ogni fasto fosse
ostentazione di modestia. Il Ximenes era stato sempre così. Vagheggiava
alti disegni, di cui Ferdinando rideva; ma quel sant'uomo lo serviva ad
ogni modo, per grande amore che portava alla gloria di Spagna. Di questa
sua indole generosa diè prova in tre occasioni solenni: la prima,
dichiarandosi apertamente per Ferdinando, quando Filippo d'Austria morì,
e della vedova Giovanna non si poteva sperare che con pienezza
d'intelletto e fermezza di mano tenesse le redini del governo: la
seconda, facendo e guidando egli stesso la fortunata impresa di Orano e
di Algeri, che fece strabiliare l'incredulo monarca, tanto ingrato e
sconoscente da scrivere al Navarro, comandante militare della
spedizione: "impedite al brav'uomo di tornare troppo presto in Ispagna;
bisogna lasciargli consumare, quanto più si potrà, la persona e il
denaro". La terza prova, e forse la più solenne, fu data dal Ximenes,
quando dalle Cortes riluttanti fece eleggere in fretta re di Castiglia
il poco amato e niente desiderato Carlo V, che doveva far ministro
invece di lui il fiammingo Adriano d'Utrecht, che poi fu papa col nome
di Adriano VI; ed egli, il virtuoso Ximenes, pur di giovare alla Spagna,
si rassegnò lietamente al secondo posto, bastando a tutte le gravi cure
del governo, che con tanta accortezza aveva sostenute nel primo.

Bontà non è mai troppa; e procede, se mai, da molta virtù. Ma non sempre
i Castigliani potevano menar buona tanta virtù al loro concittadino, e
ne accusavano più volentieri la debolezza; specie allora, che, viva
Giovanna e non pazza ancora agli occhi di tutti, vivo il suo bel Filippo
d'Austria, e desideroso di regnare con lei in Castiglia, il Ximenes si
mostrava troppo docile ministro dell'Aragonese, e lui desiderando
reggente, lavorava con ogni poter suo ad amicargli la riottosa nobiltà
Castigliana. Ferdinando possedeva certamente molte qualità necessarie al
regnante, specie di quei tempi; tanto che meritò le lodi del Segretario
Fiorentino. Ma le guastava tutte col difetto di probità; era ingrato,
bugiardo e mancator di parola: non contava nulla i suoi impegni, quando
trovasse il suo tornaconto a violarli. E così poco si vergognava della
sua perfidia, che se ne faceva bello quante volte gli riuscisse a bene.
Udito un giorno che Luigi XII si doleva d'esserne stato ingannato una
volta, "quell'ubbriacone ha mentito" diss'egli, "perchè l'ho ingannato
tre volte". E un principe italiano diceva di lui: "prima di far capitale
de' suoi giuramenti, vorrei sentirlo giurare per un Dio, nel quale egli
credesse".

Ferdinando il Cattolico è qui giudicato: non ci maravigliamo dunque che
non lo amasse l'arcivescovo di Siviglia, e che, per effetto della troppa
sua condiscendenza al re d'Aragona, tacciasse di debolezza il virtuoso
arcivescovo di Toledo.

Il quale, nella sua stanzetta modesta del palazzo di giustizia, accolse
amorevolmente il suo minor collega di Siviglia: ma, come seppe chi
fosse il suo compagno di visita, fece la cera un po' brusca.

--Lo raccomando a Vostra Eccellenza;--diceva il Deza,--quantunque non
sappia bene quel che gli occorra. A me è grandemente raccomandato dal
signor Adelantado, fratello del nostro glorioso Almirante maggiore, che
Iddio guardi, e Sua Altezza il re tenga caro com'egli si merita.--

Il Ximenes stette a sentire con molta rassegnazione il fervorino per
Cristoforo Colombo, che con altrettanta soddisfazione aveva proferito il
Deza. E cortesemente lo accomiatò, accompagnandolo fino all'anticamera.
Ritornò poscia nella stanza, dove il capitano Fiesco era rimasto in
attesa, sempre turbato, ed allora più che mai, pensando che da quel
colloquio dipendeva la sorte di Juana e la sua.

S'aspettava d'essere interrogato; e grande fu la sua maraviglia,
sentendosi dire dal Ximenes:

--So tutto, e non occorre, signor conte, che mi raccontiate l'arresto
avvenuto. Andiamo per la più breve, che converrà a voi come a me. Per
qual ragione non volete voi servire Sua Altezza? Perchè cospirate coi
suoi nemici?

--Io, Eccellenza?--gridò il capitano, facendo gli atti del massimo
stupore.

--Siete stato a Siviglia;--ripigliò l'arcivescovo.--E si sa dove siete
andato, in Siviglia.

--In un convento, Eccellenza; ad ossequiare la signora marchesa di Moya,
ch'io non so essere in mala vista presso la Corona; a chiederle una
grazia, che assai mi premeva, voglio dire il suo patrocinio per il
signor Almirante. Don Cristoval Colon, che la marchesa ha sempre
stimato e protetto, è in fin di vita; nè Vostra Eccellenza lo ignora.
Unica e sola, che potesse anche giovargli in un delicatissimo caso di
coscienza, era Beatrice di Bovadilla.--

Senza pensarci bene, forse operando per moto spontaneo d'ingegno avvezzo
ai pronti espedienti, Bartolomeo Fiesco aveva toccato un tasto che
doveva rendere buon suono nell'animo del virtuoso Ximenes.

--Di coscienza?--diss'egli.--E si può sapere, senza offesa di sacre
ragioni?

--Sì, e ne giudichi la Eccellenza Vostra;--rispose il Fiesco, che aveva
avuta la buona ispirazione, e ne faceva il suo prò.--Nella maturità
della sua giovinezza, il signor Almirante aveva amata una donna di
Cordova; e di quell'amore gli era nato un pegno carissimo.

--Il giovinetto Fernando; mi par di vederlo;--notò il suo
interlocutore.--E la donna, se ben ricordo, una Enriquez de Arana.

--Per l'appunto: non più veduta dal signor Almirante, perchè a lui
diventata nemica, senza che egli mai riuscisse ad intenderne la ragione,
mentre egli avrebbe voluto riparare al suo fallo. Ma ciò che in tanti
anni non gli è stato possibile, diventa necessario ora, affinchè il
giovane Fernando non rimanga orfano insieme e notato d'illegittimità. Il
caso di coscienza è doppio, e verso la madre e verso il figliuolo.

--Come c'entra donna Beatrice di Bovadilla?--chiese il Ximenes.--Anche a
non tener conto delle ciarle del mondo, che suole inventare tutto quello
che non sa, possiamo maravigliarci che la marchesa di Moya sia ritenuta
più adatta a riunire due anime state tant'anni divise.

--Non si maravigli il savio;--rispose Bartolomeo Fiesco.--La marchesa di
Moya conosce Beatrice Enriquez. Fin dalla vigilia della partenza di
Cristoforo Colombo per il suo primo viaggio di scoperta, aveva tentato,
checchè potesse costarne al suo cuore, di ravvicinare la sdegnosa
Cordovana al padre del suo Fernando.

--Mi assicurate che questo è il vero? che siete andato a Siviglia per
ottenere i buoni uffici della marchesa di Moya nelle cose di don
Cristoval Colon? e non per altro, non per altro?

--Quali prove posso io darne a Vostra Eccellenza, io che Le sono appena
conosciuto per la presentazione di Diego di Deza? I miei leali servigi a
questa Corona furono di buon suddito, e di suddito volontario, il che
dovrebbe accrescerne il pregio. Il mio nome è d'antica stirpe di
gentiluomini e di cristiani; nè io vorrei macchiarlo con una menzogna.
Per nessun'altra ragione, fuor quella che ho detto, sono io stato a
Siviglia; lo giuro per questa croce che vi pende dal petto, e che io
bacio in ginocchio.--

Si era intenerito, il buon primate di Spagna. Posò la sua destra sul
capo del conte, come in atto di benedirlo; poi, fattolo alzare e sedere
davanti a sè, stette un istante pensoso.

--Vi credo, figliuol mio;--diss'egli poscia.--Ma vedete, qui siamo in
mezzo a continui pericoli. _Incedo per ignes suppositos cineri doloso_;
si cammina sulla cenere ingannevole, che nasconde i carboni ardenti. Si
congiura contro il re Ferdinando, contro un sovrano che cova nell'animo
grande i più vasti disegni. È dunque utile alla Spagna, alla sicurezza,
alla gloria di questa nazione a mala pena formata, ch'egli sia il
reggente di Castiglia; ed è necessario per ciò che il re Cristianissimo
gli sia intieramente amico.

--Non gliene ha dato prove bastanti?--chiese il capitano Fiesco.--Non
gli ha concessa in moglie Germana di Foix?

--Dite che il re Ferdinando l'ha voluta;--rispose il Ximenes.--E non
poteva non volerla, per tema che altri la prendesse, diventando un
pericoloso vicino. Queste cose non vogliono capirle i corti intelletti.
Come figlia a Giovanni, visconte di Narbona, come sorella a Gastone di
Foix, legittimo pretendente della Corona di Navarra, la principessa
Germana era un partito più da lui desiderato, che non dal re
Cristianissimo, sebbene per un tal matrimonio questi diventasse suo zio.
È necessario, vi ripeto, che il re Luigi, ristrettosi finora ad un
trattato riguardante le cose di Napoli, consenta ad una vera alleanza
d'interessi, per ciò che riguarda il buon vicinato. Forte d'una simile
alleanza, Ferdinando s'impone come reggente di Castiglia ai pochi ma
riottosi signori del territorio, che s'ostinano a negar la luce del
sole, ricusando di vederla.

--E l'aspettano di Fiandra;--notò il capitano Fiesco.

--Di Fiandra!--ripetè il Ximenes.--Perchè dite di Fiandra?

--Ma sì,--riprese quell'altro.--Non aspettano la principessa Giovanna e
il suo marito Filippo d'Austria? E non sono in Fiandra, i giovani
sposi?--

Il primate di Spagna non potè trattenere un sorriso, che non era tutto
di compassione.

--Come?--diss'egli.--E non sapete?... Ah, davvero, figliuol mio, non
siete andato a Siviglia per congiurare contro il re Ferdinando. Ecco una
prova della vostra innocenza, che viene a corroborare le altre. Niente,
niente!--soggiunse il virtuoso Ximenes, rispondendo ad un gesto di
stupore del capitano Fiesco.--Non domandate spiegazioni, che vi
sarebbero inutili. Vi basti sapere che vi stimo di più, ed anche sento
di potermi fidar meglio a voi. Vedo in pari tempo che i segreti del re
sono più custoditi ch'io non potessi sperare.--

Il capitano Fiesco non aveva capito come e perchè gli si potesse far
merito dall'accenno alle Fiandre: non capì che cosa significasse il
segreto del re, così ben custodito. Ma non istette a chieder ciò che il
benigno interlocutore mostrava di non volergli dire. Di ben altro era
curioso, dopo tutto; gli premeva ben altro.

--Torniamo a noi;--ripigliò il Ximenes.--Nessuno potrà meglio persuadere
il re Cristianissimo, che il vostro eccelso cugino Gian Aloise, uno dei
più potenti signori italiani, e colui che possiede l'anima e il cuore di
Luigi XII. Chi potrà persuadere Gian Aloise, se non voi, conte Fiesco? A
voi dunque; la gloria e la fortuna sono per voi.

--E per questo,--disse il capitano Fiesco,--per questo, che Sua Altezza
non mi ha neppur detto, ha presa la mia donna in ostaggio?

--Sua Altezza non vi ha detto nulla, perchè vi ha veduto riluttante a
servirla;--rispose il Ximenes;--ed anche perchè un messaggio di
Siviglia, arrivatogli mentre eravate in udienza, l'induceva a sospettare
di voi.

--Non può sospettare ancora?

--Non sospetto più io,--disse il Ximenes,--e sciolgo i sospetti del re.

--Ma l'ostaggio?... Perchè fu presa la contessa?

--Per assicurarsi di voi, suppongo;--disse l'altro, arrossendo.--Ed ora
ha il pegno in mano, perchè voi entriate al suo servizio.

--E se io ricusassi, perchè non mi sento tagliato a questi uffici? Mia
moglie non è spagnuola.

--Non nata spagnuola, concedo; ma suddita spagnuola potrebbe ben essere.

--No, non suddita spagnuola;--gridò il Fiesco, inasprito.

--Giuratelo per questa croce;--disse pacatamente il Ximenes.--Ah, non
ardite! e temete di farvi spergiuro! Ve ne lodo. Ecco una quarta prova
che m'avete detto il vero, giurando di non congiurare coi nemici del re.
Servite dunque Ferdinando, com'egli desidera, e riavrete la vostra
donna.

--Ma con quali pretesti è tenuta in carcere?

--Ragioni, figliuol mio, non pretesti. Fu presa, perchè si voleva venire
in chiaro d'un travestimento illecito, che mirava ad ingannar tutti,
compresa la giustizia. Avrei potuto ordinare l'arresto come grande
Inquisitore; e non l'ho fatto, e potete ringraziarmene. Fu in quella
vece un provvedimento della giustizia secolare, e per volere del re.
Ora, figliuol mio, considerate il caso vostro. Se rivolete la vostra
donna, dovete dar le prove al giudice che essa è veramente vostra
moglie: e ci vorrà tempo a farle venire, le prove, a farle esaminare
dagli esperti; più tempo che non ne spendereste a recarvi dal vostro
eccelso cugino e a condurvi in Parigi con lui. Neanche è da credere che
ella uscirebbe di prigione, se anche le prove fossero trovate bastanti.
Si dovrebbe anche sapere se, essendo stata suddita spagnuola prima di
esservi moglie, era egualmente libera, sciolta d'ogni obbligo verso la
giustizia spagnuola. E qui bisognerebbe aspettare l'esito di certe
indagini, che don Nicola Ovando ha già cominciate col suo solito zelo.
C'è tutto un viluppo di cose, qui sotto, e in coscienza debbo
avvertirvene, che non sarebbe punto piacevole per voi e per la povera
prigioniera. Siate savio, conte Fiesco. A voi, come italiano, può premer
poco che Ferdinando perda la reggenza di Castiglia o l'ottenga: a noi
preme che l'ottenga; e non per lui, badate, ma per salute di questa
patria, che senza di lui ricadrebbe nell'antica anarchia. Siamo
destinati alla patria celeste;--conchiuse solenne il Ximenes;--ma
dobbiamo meritarla servendo Iddio nella patria terrena, e in questa
unendo a sua gloria i cuori e le menti. Siate savio, signor conte, e
servite il re con amore. Io, frattanto, per questa croce vi giuro, che
alla prigioniera non sarà torto un capello, e che anzi ella sarà
trattata come una regina; mi capite? come una regina.--

Ahimè, sapevano ogni cosa, e non occorreva che aspettassero le nuove
indagini di don Nicola Ovando! Sapevano ogni cosa, e il capitano Fiesco
tremò tutto, dal capo alle piante.




CAPITOLO XIV.

A Laredo! a Laredo!


--Il colloquio era durato ancora, ma rotto, a pezzi e bocconi, non
sapendo il Fiesco rassegnarsi ancora a finirlo e chiedendo sempre
qualche cosa, il Ximenes strascicando le parole e mostrandogli di aver
detto abbastanza. Ma quanti dubbi restavano nell'anima del povero
capitano! E non gli si poteva almeno concedere di veder la sua donna?

--Troppo chiedete, senza averlo meritato!--rispondeva qui
l'arcivescovo.--Prenderò ordini da Sua Altezza. Quando avrete veduto il
re.... quando egli vi avrà date le sue istruzioni.... chi sa? non
dispero. Ferdinando è buono per chi lo serve con amore. Ed io, signor
conte, ho desiderio di contentarvi. Ma voi siate ragionevole; è
nell'utile vostro.--

Il capitano Fiesco baciò l'anello pastorale, e più morto che vivo si
ricondusse a casa. Era aspettato, e non potè tacere il colloquio che
aveva avuto, con un frutto così scarso per sè, con tanto danno imminente
per le speranze del suo grande concittadino. Terribil dilemma! o
tradire gl'interessi dell'Almirante, o perdere Fior d'oro.

--Figliuol mio,--disse Cristoforo Colombo,--non vi date pensiero di me.
So bene che il trionfo di Ferdinando è la perdita d'ogni speranza mia,
d'ogni fede nella giustizia degli uomini. Ma se Iddio non volesse farmi
morire contento?... Tutto quello che accade dimostra che questo è il suo
alto disegno. Sia fatta la sua volontà. Certo, ho gravi colpe da
scontare; e non è giusto che altri ne soffra per me. Andate dal re,
accettate ogni cosa. Ciò che Dio vuole sarà; ciò ch'egli non vuole non
sarà; sia benedetto il suo nome.--

Nè già l'Almirante conosceva per intiero i disegni della marchesa di
Moya, e le probabilità su cui erano fondati. Ma di tutto ciò era
informato l'Adelantado, che vedeva nella trista commissione imposta al
capitano Fiesco pericolare ogni speranza di giustizia. Era quello un
gran colpo, e forse mortale, per il suo sventurato fratello, che ad ogni
tratto, per ogni commozione un po' forte, ricadeva prostrato, bene
lasciando intendere ai suoi familiari che le fonti della vita
s'inaridivano in lui.

Tornava frattanto alla mente del Fiesco il risolino del Ximenes, quando
si era sentito accennare alle Fiandre. E se ne apriva coll'amico. Che
cosa poteva significare quel risolino dell'arcivescovo di Toledo? E che
segreto era quello del re, a proposito delle Fiandre, che l'arcivescovo
riconosceva con tanta soddisfazione essere stato così bene custodito?

--Amico mio,--rispondeva l'Adelantado,--vorrà dire che dal lato delle
Fiandre sono sicuri; che il re non ha timori, sapendo impazzita davvero
la sua figliuola e rivale; che finalmente, e questo è il peggio, da
quella parte là non c'è più da sperar nulla per noi.

--L'ho pensato ancor io;--disse il Fiesco.--Ma allora è inutile che
temano, e chiedano man forte alla Francia.

--Eh, non si sa mai;--replicava l'Adelantado.--Se Giovanna è pazza, non
è scemo il marito, e può cagionar dispiaceri, forte com'è dell'appoggio
di suo padre, l'imperatore Massimiliano d'Austria. Castiglia è poco
disposta a riconoscere l'autorità di Ferdinando d'Aragona. Non potrebbe
ella voltarglisi contro?--

Il resto della giornata passò in ansie continue per il povero capitano,
che quando non aveva l'amico a tenerlo occupato coi ragionamenti, si
lasciava andare alla disperazione, e piangeva come un bambino. E non era
un animo fiacco: ma in quella inerzia forzata, non aveva altro sfogo che
le lagrime. Nè v'hanno poi animi forti contro un dolore che terribili
incertezze rendano sempre più acuto.

Fior d'oro! povera donna cara! che sarebbe avvenuto di lei? come viveva
in quelle ore? Il ministro di Ferdinando aveva promesso che sarebbe
stata trattata bene, con tutto il rispetto dovuto ad una regina. E il
poveretto amava ad ogni tanto richiamarsi a mente le parole del Ximenes.
Certo, quell'uomo era debole, come lo aveva giudicato Diego di Deza; ma
non si poteva negare che fosse un uomo virtuoso. Debole, finalmente, era
fatto dal vivo amore di patria, che i suoi concittadini non mostravano
di intendere, e a cui uno straniero era tanto meno obbligato di render
giustizia: ma le sue intenzioni erano pure; le aveva chiarite egli
stesso, con sincerità tanto più bella, quanto più era stata spontanea.
Sì, il Ximenes avrebbe fatto ciò che prometteva. Non aveva egli anche
giurato per la sua croce? Ma questo per il tempo che il capitano Fiesco
sarebbe stato lontano. E se tornava senza aver nulla ottenuto? Cessava
la pietà del ministro, e sottentrava la durezza del re. Trattata come
una regina!... Sì; e non si poteva ricordar troppo, allora, che Fior
d'oro era stata regina, e condannata ad una morte ignominiosa?...
Orribile pensiero, che faceva fremere, raccapricciar di spavento! E
c'era intanto da piangere di disperazione, in una notte lunga, lunga,
che non voleva finire mai più.

La mattina seguente, appena gli parve ora da ciò (ed era già in volta da
un pezzo) il capitano Fiesco andò al palazzo di giustizia. L'arcivescovo
di Toledo lo ricevette senza indugio, e lo accolse con un bel sorriso
paterno.

--Ho buone notizie per voi;--gli disse subito.--È tranquilla. L'ho
veduta io medesimo.

--Stamane! già?

--Sì, stamane, signor conte. Voi venite per tempo; ma io sono stato
anche più pronto a lasciare il letto. I vecchi, figliuol mio, dormono
così poco! È tranquilla, vi ripeto, ed anche di buon animo. Le ho detto
che pensate a lei, cercando di abbreviare i termini della sua
liberazione, e correndo perciò a prender le carte comprovanti il vostro
matrimonio. Non era bene che le si parlasse d'altre imputazioni; vi
pare?

--Ringrazio Vostra Eccellenza;--mormorò il capitano Fiesco,
piangente.--È stato un buon pensiero; e mi promette cose maggiori. Non
mi sarà dato vederla?

--Non correte, non correte tanto, vi prego. E non vi ho detto or ora che
voi già dovevate correre sopra un'altra via? A quest'ora, secondo quello
che io ho detto alla contessa, voi dovreste essere molto lontano, a
Medina Celi, e forse a Calatayud, sulla strada di Saragozza. Del resto,
non avevo ottenuto nulla dal re. Per esservi largo di favori, egli vuole
la prova della vostra obbedienza.

--E gliela porto;--disse il Fiesco, sforzandosi di parer contento del
suo destino.--Si degni Vostra Eccellenza di accompagnarmi.

--No, non occorre;--rispose il Ximenes.--Sua Altezza ha voluto lasciare
a me la cura di tutto.--

Il capitano Fiesco s'inchinò. Bene intendeva che Ferdinando non si
sentisse di rivederlo, dopo il brutto colpo del giorno prima. Ed anche
per lui, forse, era meglio non vedersi davanti quella faccia di
traditore.

--Qui,--proseguiva l'arcivescovo, prendendo in mano un foglio di
carta,--è un disegno di trattato. Una semplice minuta, senza
intitolazione, senza formole di cancelleria, per ovviare ad ogni
pericolo di smarrimento. Il re Cristianissimo, del resto, conosce bene
questa mano di scritto. C'è la sostanza; quanto alla forma, parola più,
parola meno, può esser variata; e veda il vostro eccelso cugino di far
le cose per bene; Sua Altezza non tralascerà di mostrargliene il suo
gradimento. Ci sono contee e marchesati anche in Aragona, o in
Castiglia, a sua scelta, ma per il giorno che la reggenza di Castiglia
sia assicurata al re Ferdinando.

--E se Gian Aloise non accetta di recarsi in Francia?

--Come?--esclamò il Ximenes.--E perchè non accetterebbe, se voi lo
pregate.... con quelle ragioni che avete? Amerebbe egli così poco i suoi
parenti? così poco si curerebbe della loro felicità? e della propria
fortuna? Per qual ragione, poi? Egli non ha vincoli coi nostri nemici di
qui; nè può veder male che il re Cristianissimo, già amico del re
Cattolico a Napoli, gli diventi più amico ai Pirenei. Vedrete che
accetterà, e per l'utile suo, che non sarà poco, e per l'utile vostro,
che saprete ben mettergli sott'occhio. Andate dunque sicuro, e partendo
fin da quest'oggi. Avete bisogno di denaro?

--No;--rispose il Fiesco, fremendo.--Son provveduto abbastanza.--

E si congedò, per mettersi quel giorno istesso in viaggio. Spendendo del
suo, per Iddio! Non voleva denaro dai carcerieri di Fior d'oro; non
voleva denaro, per un'opera che sapeva di tradimento. Lo aveva assolto
l'Almirante; lo aveva anzi incuorato; ma era sempre un'infamia. Ed egli
si sentiva preso al laccio, preso senza rimedio, come quando lo aveva
colto il selvaggio Guatigana alle cascatelle del Verde. Ma allora era
solo, e non doveva pensare ad altri che a sè. Il soldato era stato preso
in una imboscata; eventi di guerra, a cui bisognava adattarsi. In guerra
c'è sempre la morte, alla prima svolta del sentiero; il soldato lo sa, e
ne sorride, provando un aspro diletto a sfidarla. Ma ora! Non c'era il
pericolo della morte per lui; c'era bensì, a prezzo dell'infamia sua,
la salvezza di una povera donna adorata. E gentiluomini, e cristiani,
avevano potuto meditare un'insidia così vile?

Andava, frattanto, proseguiva il suo cammino verso la casa del signor
Almirante. Le vie per cui passava si vedevano piene di gente
affaccendata, che non faceva calca, ma si spartiva in crocchi, in
capannelli, in brigate, che vociavano confusamente, alternando tra loro
domande e risposte, facendo atti di maraviglia e d'allegrezza, di
sdegno, di sconforto, secondo le opinioni e gli umori, come sempre
accade nelle popolari ragunate, quando qualche cosa bolle in pentola, e
chi la vuol cotta e chi cruda, e chi si contenta e chi no, ma tutti ad
un modo si riscaldano nel giuoco.

--Felici voi!--pensò il capitano Fiesco, passando.--Felici voi, che
gridate i vostri desiderii e le vostre passioni in piazza! Io griderei
morte e dannazione a questo mondo vigliacco, che lo inghiottisse una
volta l'abisso; e per tutta l'eternità, quanto è lunga, e per un'altra,
e un'altra ancora, si sprofondasse tutti nel vuoto!--

Nè egli sentiva pure il desiderio di rallentare il passo, per cogliere a
volo qualche frase di quei discorsi animati, per intendere di che
ragionassero tutti quei cittadini di Valladolid, che parevano morsi
dalla tarantola. Dei fatti altrui non era curioso: quanto a sè, tutto
ciò che poteva accadergli di peggio era accaduto da un giorno. E che
cosa, finalmente, potevano aver di nuovo, i cittadini di Valladolid?
Forse li metteva in festa una delle tante solennità del calendario;
forse li commoveva in vario modo uno di quei truci spettacoli che
l'Inquisizione regalava ogni settimana nel Campo Grande, a maggior
gloria di Dio e dilettazione del popolo?

Ma no, niente di questo; dovevano essere di politica, quegli animati
discorsi.--Le Cortes!...--Burgos!...--Perchè Burgos, e non Valladolid?
Queste parole, spiccando tra tante altre men chiare, giunsero a lui, e
il suo orecchio involontariamente le accolse.

--Politica!--diss'egli tra sè.--Lasciamola ad Aristotile; io ne ho piena
la testa. E le tasche;--soggiunse con amara celia, mentre si tastava il
giubbone.--Ce l'ho qui, io, buoni Castigliani, il trattato che dovrà
farvi contenti come pasque.--

E andava ancora, e giungeva in vista della meta. Ma la strada non era
così deserta e tranquilla come il giorno prima, quando gli era parsa
tanto serena, tanto innocente. Presso la casa di Gil García, e proprio
davanti al portone, si vedeva uno stuolo, quasi un drappello d'uomini,
tutti vestiti d'una foggia. Soldati? no, perchè apparivano disarmati.
Famigli, piuttosto, staffieri di grande casata, come mostrava l'assisa
uniforme, rossa e nera, dei loro mantelli e dei loro farsetti.

--Visite!--pensò il capitano Fiesco.--E di gran personaggi!--

Ma egli doveva salire, per congedarsi dall'Almirante; e passò, in mezzo
a quello sciame di staffieri. Giunto al pian di sopra, trovò ancora
l'Adelantado, che passeggiava col nipote Fernando.

--Novità;--gli disse il vecchio marinaio;--e varranno, spero, un po'
meglio delle vostre.

--Le mie,--rispose il capitano,--son quelle d'ieri. Si vuole ch'io
parta, e per servizio del re d'Aragona. Le vostre?

--È giunta la signora marchesa di Moya;--replicò l'Adelantado.--Essa è
di là, nella camera dell'Almirante.

--Già qui!--esclamò il Fiesco.--Ma non ho veduto il frate scudiero,
salendo.

--E non potevate vederlo, perchè non è venuto. Lo ha lasciato a
Siviglia, o mandato altrove, che bene non ricordo. Egli dovrà capitare
fra due o tre giorni. Ma entrate; la marchesa vi aspetta.--

Il signor Almirante era seduto su d'un seggiolone accanto alla finestra,
appoggiato le spalle e il capo ad un alto guanciale; bianco, cereo la
fronte e le guance, ma sfavillanti i grandi occhi cerulei, e vermiglio
le bellissime labbra, come nei giorni migliori della sua vita. Non era
quello da annoverare tra i più belli che mai avesse vissuti il
grand'uomo? Beatrice di Bovadilla era là, seduta accanto a lui,
tenendone una mano tra le sue, e guardandolo amorosamente negli occhi.
Piangeva, la bellissima[tn249] donna; ma tra le lagrime brillavano le
ciglia, e sorridevano le labbra, dicendo la contentezza di quell'ora
solenne.

Temeva di giungere importuno, il capitano Fiesco; ma fu accolto come
persona desiderata. Ed anche l'arrivo suo metteva fine ad una scena di
gran commozione, che non voleva essere prolungata.

Beatrice di Bovadilla si mosse alquanto sulla vita, e stese una mano al
conte Fiesco, mentre l'altra non abbandonava la mano del signor
Almirante.

--Amico,--diss'ella,--eccomi qua, come avevo promesso, e prima ancora
che voi non mi doveste aspettare. Ma si fan presto le cose che si fanno
volentieri; ed anche altre ragioni che saprete mi hanno messe le ali. E
giungo in tempo per molte cose;--soggiunse, stringendo la mano del nuovo
venuto.

Bartolomeo Fiesco s'inchinò, rispose con una stretta più forte alla
stretta di donna Beatrice; ma non seppe che dirle. Era confuso, ed
aspettava di sapere dell'altro.

--Ebbene,--domandò l'Almirante,--che cosa vi han detto laggiù?

--Che debbo partire. Ed io,--soggiunse il Fiesco, sospirando,--avendo la
vostra licenza, obbedirò.

--Ma che! non obbedirete affatto;--interruppe la marchesa di Moya, col
suo piglio imperioso.--So tutto. In poche parole mi ha informata il
signor Adelantado di tutto. E per servizio d'Aragona non occorre più
niente.--

Il capitano Fiesco era rimasto sconcertato, guardando Beatrice di
Bovadilla, poi l'Adelantado, che era entrato dietro a lui nella stanza.

--Non chiedete perchè m'abbiano informata;--ripigliò la marchesa.--Non
potevano già tacermi l'infamia che è stata commessa a danno vostro. E
poi, ci sono forse più segreti tra noi? Nè io li tradirò, buon amico, e
leal servitore di don Cristoval. E voi, e l'Almirante, e suo fratello,
serberete anche un segreto, che non è intieramente il mio, ma di tutta
Castiglia. Vengo con molti, e precedo moltissimi, un vero esercito di
gentiluomini. Veramente, dovevo venire con altra compagnia, che voi ben
sapevate, signor conte: ma che volete? gli eventi son corsi più rapidi
dei miei disegni, ed io sono stata travolta dagli eventi. I segnali,
benedetti segnali di fiamma, hanno scompigliato ogni cosa.

--I segnali!--ripetè il Fiesco, che non riusciva ad intendere.

--Già, le belle fiammate, che secondo una certa intesa dovevano
divampare sulle vette dei monti, dalle Asturie alla nuova Castiglia, per
tutto il confine del Portogallo, hanno dato un ben lieto annunzio alla
nobiltà Castigliana. Ed eccoci qua. Ho dovuto correre, colla mia gente,
lasciando a Siviglia il vostro scudiero, con una lettera mia, che terrà
luogo delle parole. Egli verrà; accompagnato o solo, non importa; ma
verrà, e voi lo riavrete.--

Questo importava poco, per allora, anche al capitano Fiesco. Egli capiva
così ad occhio e croce che lo stato delle cose si mutava stranamente per
tutti. Ma quei segnali di fiamma, quell'esercito di gentiluomini,
quell'arrivo anticipato di donna Beatrice, quella sua stessa aria di
trionfo, volevano una spiegazione.

--Dobbiamo custodire un segreto, e sia;--diss'egli di rimando.--Ma
almeno vogliate confidarcelo intero.

--Non lo avete indovinato? Quello che io ve ne avevo lasciato trapelare
in Santa Chiara, non bastava a mettervi sull'orma? La Nuova Castiglia si
rovescia sulla Vecchia, per darle man forte; tutt'e due s'imporranno
alla ostinazione del re Ferdinando, con la convocazione delle Cortes
nella città di Burgos.--

Il capitano Fiesco ricordò allora i discorsi che aveva sentiti per via.
La Nuova Castiglia, arrivando, spandeva già il gran segreto alle turbe.

--Il re d'Aragona ha giuocato una grossa posta;--continuava frattanto la
marchesa di Moya.--E l'ha perduta; tanto peggio per lui. Gli premeva di
nascondere il vero in Segovia, di nasconderlo a Valladolid, come lo
avrebbe nascosto a Burgos, dove sarebbe andato a far capo, accostandosi
al confine minacciato, andandoci come la biscia all'incanto. Giovanna e
Filippo non dovevano da principio lasciare le Fiandre; questa la
certezza ch'egli voleva istillare negli animi di Castiglia. E non
dovevano averle lasciate, nemmeno quando si erano imbarcati, e il vento
li cacciò sulle coste d'Inghilterra. Egli intanto mandava a Londra i
suoi messaggeri, che tentassero la fede ospitale di Arrigo VII. Questo
abbiamo saputo noi, come sapevamo già il resto; ed abbiamo voluto
lasciarci credere ignari di tutto, inerti, discordi, ingannati da lui.
Ora egli non sa ancora una cosa, che a noi è stata annunziata da quelle
belle fiammate sui monti; Giovanna e Filippo hanno lasciata
l'Inghilterra; saranno domani in vista di Laredo, nel golfo di
Biscaglia. Capite, ora? capite perchè siamo qua noi? Dico noi, così per
dire;--soggiunse la marchesa, sorridendo, ed anche arrossendo un
pochino;--che io, veramente, se un'altra più potente cagione non mi
avesse chiamata su questa via, avrei potuto assistere al trionfo della
buona causa dal mio modesto ritiro, nel convento di Santa Chiara, ove le
anime tristi covano meglio la loro tristezza che altrove. Comunque sia,
eccomi qui, imbrancata, come una nuova Bradamante, nel grande esercito
dei cavalieri di Castiglia; l'ho anzi preceduto, con una e bella e
fiorita avanguardia. Giudicatene voi: Ossuna e Gandia, Carmona, Ubeda e
Montilla, duchi; Avila, Lucena, San Felipe, Valdepeña, Almagro,
Albacete, marchesi; Almanza, Andujar, Cabriel, Huete, Velez Rubio, e via
discorrendo, non so più bene se una ventina o una trentina di conti. Li
raccattavamo per via; quanti erano pronti, venivano con noi; tutti gli
altri verranno in giornata, o domattina; e tutti avviati a Burgos, con
una parola d'ordine, le Cortes, le Cortes di Castiglia, per Giovanna e
Filippo. E voglia o non voglia il re d'Aragona, si convocheranno a
Burgos, dove Lerma, Aranda, Soría, Alar, Espinosa, Miranda, Zamora,
Medina Rio Seco, Alba de Tormes, tutti i più grandi nomi della vecchia
Castiglia ci attendono.

--E Ferdinando non ha fumo di tutto ciò?--disse il Fiesco.--Oggi, in
Valladolid, si deve già saperne qualche cosa.

--Oggi, sicuramente; se hanno occhi, egli e i suoi cortigiani, debbono
averci veduti arrivare. Ma ieri non dovevano sapere ancor nulla, perchè
lungo la strada altro non abbiamo incontrato che popolo in festa, e
nessuna faccia proibita d'esploratori reali. Castiglia ha fatte le cose
per bene; tutti volevano venire incontro a Giovanna, e nessuno ha
tradito il segreto.

--Pure,--notò il capitano Fiesco,--si era saputo che io ero venuto a
Siviglia, e nel convento di Santa Chiara.... a cospirare con voi.

--Bella forza!--esclamò la marchesa.--Non vi ha mica tradito Siviglia.
Vi hanno seguitato da Segovia, dove il vostro arrivo sarà parso
sospetto. Odiano l'Almirante del mare Oceáno, come odiano noi; hanno
voluto sapere dove andaste, mettendovi in cammino appena arrivato; e
l'hanno saputo, tenendovi dietro. Quanto alle cospirazioni, è naturale
che ne sospettassero. Le sentivano nell'aria. Ma che non sapessero fin
dove potessimo giungere, ve lo dimostri l'esser noi giunti senz'ombra di
ostacoli.

--Non avranno osato;--disse il capitano Fiesco.

--E ben per loro!--replicò la marchesa.--Questa non è cospirazione di
pochi signori; è cospirazione di tutti. Anzi, non è nemmeno
cospirazione; è volontà d'un popolo intiero. Le Cortes, a Burgos, per
Giovanna e Filippo! Ed ora, vedrete quel che avverrà. Posso predirvelo,
senza avere il dono della profezia. Andremo a Burgos, e il re Ferdinando
verrà a Burgos; sempre come la biscia all'incanto; verrà a Burgos, coi
suoi gentiluomini Aragonesi. Dico gli Aragonesi, perchè i Casigliani
della sua Corte l'avranno già abbandonato, prima che tramonti il sole,
per unirsi ai loro[tn254] compagni.

--Anche l'arcivescovo di Toledo?

--Ah, il sant'uomo? No, egli non verrà con noi; ma si accosterà, per
metter parole di pace. Virtuoso Ximenes! Lo rispettano tutti, e lo
ascolteranno con riverenza, non potendo obbedirlo; poi gli faranno
cerchio, e gli diranno: a Laredo, signor primate di Spagna, a Laredo,
per ossequiare la vostra regina, la figlia della grande Isabella, la
erede legittima, venuta ad occupare il suo trono. A Laredo! a Laredo!

--Perchè non posso io seguirvi laggiù!-disse l'Almirante,
sospirando.--Se ancora mi potessi reggere in sella!...

--Giovanna verrà da voi, se ama la gloria del suo regno;--rispose
Beatrice di Bovadilla, col suo bell'accento ispirato.--Con me, intanto,
verrà il signor Adelantado, se voi lo permettete; e porterà una lettera
vostra, e la presenterà alla regina.

--In tanta rèssa di cortigiani!--notò l'Adelantado.--Sarà difficile.

--C'è Bovadilla;--replicò la marchesa.--E la lettera di don Cristoval
Colon sarà aperta e letta dalla regina, appena ella avrà toccato il
suolo di Spagna.--

Un cavaliere, giunto allora in anticamera, chiedeva di parlare alla
marchesa di Moya. Donna Beatrice, chiesta licenza a don Cristoval, lo
fece entrare. Era il marchese di Lucena.

--Signora,--diss'egli, dopo aver fatto riverenza al signor
Almirante,--il duca di Ossuna vi chiede consiglio. La città è tutta con
noi; prega che siano qui convocate le Cortes. Che si risponde?

--Ecco Bradamante nel consiglio dei paladini;--gridò Beatrice di
Bovadilla, ridendo.--Dite al duca di Ossuna che la risposta è facile.
Non si può far torto a Burgos, città del Cid Campeador, e capitale della
Vecchia Castiglia. Inoltre, prima di risolvere questa od altra
questione, dobbiamo prendere i comandi della regina. E per noi,
frattanto, l'essenziale è di giungere a Laredo.--

Il marchese di Lucena s'inchinò, salutò l'Almirante, e partì. Ma la
conversazione aveva appena potuto riprendere il suo corso, che un altro
cavaliere giungeva; e questo, senza farsi annunziare, entrava nella
stanza, precipitandosi tosto nelle braccia del signor Almirante.

Era il figliuol suo, don Diego Colon, gentiluomo della corte di
Ferdinando. Si odiava il padre, e si teneva a corte il figliuolo; per un
resto di pudore, forse, o piuttosto per salvar le apparenze. Nè
l'Almirante, sebbene ferito in tanti modi, nella sua dignità come nei
suoi più sacri interessi, aveva mai permesso che il suo Diego lasciasse
il servizio del re. Gli pareva l'ultimo anello che ancora congiungesse
ai reali di Spagna il vicerè delle Indie, e non voleva spezzarlo.

--Non ti aspettavo, quest'oggi;--disse l'Almirante, dopo aver
ripetutamente baciato ed abbracciato il suo primogenito.

--Nè io avrei potuto venire da voi, padre mio, prima di domani, essendo
oggi di servizio. Ma ho avuto licenza, per prender commiato da voi, se
restate a Valladolid. La Corte, domattina, si trasferisce a Burgos.--

Beatrice di Bovadilla volse un'occhiata in giro, come per far intendere
all'Adelantado e al conte Fiesco:

--Che cosa vi dicevo io? Senza avere il dono della profezia, non vi
pronosticavo quel che doveva accadere?--

All'occhiata della marchesa di Moya, il capitano Fiesco rispose con un
inchino, che voleva dire: avevate ragione. Ma fece ancora un gesto di
preghiera, che voleva aggiungere: ed io, come rimango, se partite? come
rimarrà una povera prigioniera, se i carcerieri maggiori l'abbandonano
all'arbitrio dei minori?

Tutte queste cose non capì la nobil signora ad un tratto. Ma intese che
il capitano Fiesco aveva bisogno di lei.

--Signor Almirante,--diss'ella,--vi lascio per qualche momento col
vostro don Diego. Ripasserò a salutarvi, prima di partire da Valladolid,
ove ad ogni modo ritornerò per far più lunga dimora, se pure non
seguirete la Corte anche voi. Ora, se permettete, vi rubo per una
mezz'ora il conte di Lavagna.--

Così prese commiato. E uscendo dalla stanza col capitano Fiesco, che la
seguiva tutto trepidante, gli disse colla sua bella voce che incantava
la gente, e col suo bell'accento sicuro che ridava la vita:

--Pensiamo ora al mozzo Bonito. Sapete che lo amo, e che abbiamo fatto
una sacra alleanza tra noi. Come sono contenta di esser venuta incontro
ad una regina, per mettermi ai servigi di un'altra!

--Sapete già?...--chiese egli confuso.

--So tutto, signor conte. Ero giunta dall'Almirante mezz'ora prima di
voi. Molte cose si possono dire e sapere in mezz'ora. E adesso, a
noi.--




CAPITOLO XV.

Il ragno e la sua tela.


La mattina del 7 maggio, dell'anno 1506, gli abitanti di Laredo, gran
pescatori e salatori di pesce nel cospetto di Dio, ebbero il magno
spettacolo d'una armatetta navale che s'accostava con buon vento al loro
porto, forse il più vasto, ma per allora il più sabbioso di tutta la
costa di Biscaglia. Essi non avevano da temere uno sbarco di nemici,
poichè le navi battevano bandiera castigliana; e del resto, fin dalla
sera innanzi, troppa gente li aveva avvertiti, accorrendo a Laredo;
troppa più gente che non potesse albergare la piccola città marinara;
tanto che, rimpinzate le case, si era dato, od era stato preso alloggio
nei magazzini, nelle scale, nei portoni, sotto gli archivolti, dovunque
fosse un po' di riparo; e molti poi s'erano adattati all'albergo della
bella Luna, battendo i denti dal freddo. Ma per amore non si sente
dolore: ed era amore quello che aveva tirate tante migliaia di grandi e
piccoli gentiluomini a Laredo, per assistere all'arrivo di Giovanna di
Castiglia, l'aspettata, l'invocata, l'adorata regina.

Le navi avevano ammainate le vele e gittata l'áncora fuori del porto;
segno che non si fidavan troppo del suo fondo, o che abbastanza lo
conoscevano. Subito dopo si spiccò dalla capitana un palischermo, a cui
altri due se n'aggiunsero, fiancheggiandolo, ma rimanendo
rispettosamente indietro due o tre palate di remi. E via via dalle altre
navi si spiccarono altre imbarcazioni, venendo a formare sull'acqua una
specie di falange macedone, la cui punta era il palischermo anzidetto,
che portava a poppa lo stendardo regale, di rosso al castello d'oro, che
era di Castiglia, ma partito di Leone, cioè d'argento al leone di rosso.
Come il palischermo fu presso alla calata del porto, in mezzo alle grida
e agli evviva della moltitudine affollata, si levò dal sedile di poppa
una donna vestita di bianco, che portava sul capo, trattenuta fra le
ciocche dei capelli nerissimi, una piccola corona d'oro. A lei volevano
dare il passo i gentiluomini che le erano venuti compagni; ma ella,
mentre un alfiere spiccava il vessillo dalla poppa, si trasse indietro
verso un giovane cavaliere, a cui disse con accento di tenerezza:

--Filippo, siate voi il primo a toccare il suolo di Castiglia, che vi
appartiene, come io vi appartengo.--

Pareva una bella cortesia di regina al suo compagno di reame; ma era un
grido dell'anima, e Giovanna di Castiglia amava pazzamente quell'uomo.

Filippo d'Austria meritava egli un amor così forte? Per la bellezza, sì,
certo. Giovane, che ancora non aveva toccati i ventotto; biondo dorato i
capegli; bianco rosato la carnagione, e così fine la pelle, che contro
la luce del sole pareva di vederci correre il sangue di sotto; d'una
maravigliosa delicatezza i lineamenti del viso; snello di membra,
elegantissimo in ogni movenza, dava l'immagine di tutte le perfezioni
raccolte in un tipo esemplare di umana bellezza; con molta propensione,
s'intende, alla grazia femminile, anzi che alla energia mascolina. Ma
queste, che sarebbero inezie in ogni caso, non potevano neanche venire
alla mente, guardando quel miracolo di principe. Tutti, in Europa, lo
chiamavano Filippo il Bello, e con assai più di ragione che non si
decorasse d'ugual soprannome un altro Filippo, di due secoli innanzi, e
di Francia. Le donne, poi, specie se avevano la fortuna di vederlo da
vicino, lo chiamavano l'arcangelo Gabriele; non sappiamo con quanta
verità, ma certo con gran dispetto della regina Giovanna. E questo non
forse per la irriverenza usata all'arcangelo, di compararlo ad un
personaggio mortale, ma certamente perchè quell'ardito paragone le
pareva ispirato da sentimenti troppo più arditi. Ammirassero da lontano,
e tacessero; questo avrebbe voluto Giovanna. Erano già tante le sue
paure! Così bello, da passare in proverbio, e sapendo che il sorridere
gli stava bene a viso, mettendo in mostra un vero scrigno di perle,
Filippo sorrideva spesso alla gente; e quando si trovava alla presenza
di belle donne, fossero dame od ancelle, gli sfolgoravano gli occhi, e
le dolci paroline gli fiorivano sul corallo tenero delle labbra
stupende. E Giovanna ne soffriva, quantunque non avesse vere ragioni, o
non gliene fossero venute sott'occhio, di lagnarsi del suo maritino.
Sposata a lui nel 1490, ne aveva già avuti cinque figliuoli, Carlo,
Ferdinando, Eleonora, Elisabetta, Maria: un sesto rampollo, Caterina,
era ancora di là da venire; in viaggio, come si dice ai bambini curiosi.

Giovanna di Castiglia non si poteva dir brutta, perchè non era deforme;
ma non si poteva dir bella, perchè non era piacente. Nata in un grado
sociale più umile, non sarebbe stata osservata, nè per un verso, nè per
l'altro, restando in quella mediocrità che solo può tornar gradita ai
filosofi. Avrebbero potuto nondimeno piacere in lei due grandi occhi
neri pensosi, ma troppo spesso velati, Dio buono, come smarriti in
estatiche contemplazioni; le quali non erano infrequenti, ed occorrevano
lì per lì, dovunque ella fosse, e in qual si fosse più numerosa brigata,
solo che fosse lasciata un istante a sè stessa. S'incantava, allora; e
quei grandi occhi, fissi in un punto dello spazio, perdevano la
lucentezza insieme con la mobilità; onde appariva ch'ella non guardasse
fuori e lontano, ma dentro di sè. Vedeva allora Filippo, il suo bel
Filippo; e a volte gli sorrideva, a volte torceva la bocca, si
sbigottiva, e usciva allora in rotte parole. Oh Filippo, no, no! Che ti
ha mai fatto, questa povera Giovanna? Chiamata di schianto, ritornava in
sè stessa, sorrideva malinconicamente, e si scusava del suo vaneggiare,
dicendo:

--O sire Iddio, che sogno spaventoso ho mai fatto!--

Nè mai, per pregarla che si facesse, voleva dire che sogno fosse. Onde
già intorno a lei si sussurrava che fosse un po' matta; mentre al padre
di lei sarebbe stato caro (e ne sappiamo oramai la cagione) che fosse
matta del tutto.

Il voto di quel padre amoroso doveva essere esaudito, pur troppo; ma non
per allora. Per allora, la nuova regina di Castiglia, senza darne avviso
a nessuno, senza riconoscer reggenti volontarii, nè amministratori del
regno, approdava a Laredo, per venire ad occupare il suo trono. E mentre
l'accolgono a festa i cavalieri di tutta Castiglia, scodelliamo qui
alcune notizie genealogiche di lei e dei suoi. Non saranno molte; appena
quel tanto che basti a far intender le cose che dobbiamo descrivere.

Giovanna era nata la seconda di quattro figliuole della grande Isabella.
La prima, pur essa di nome Isabella, e la terza chiamata Maria, erano
state successivamente maritate ad Emanuele il Fortunato, re di
Portogallo; il quale, per verità, non si chiamò Fortunato perchè la
prima moglie spagnuola gli fosse morta (che anzi n'avrebbe avuto, se
viva, il diritto alla corona di Castiglia; onde Dio sa quante cose
mutate nel mondo!), nè perchè la seconda fosse più bella e più cara, ma
perchè in un regno di ventisei anni come fu il suo, la potenza
portoghese era giunta al suo colmo, colla voltata del capo di Buona
Speranza, colla fortuita scoperta del Brasile, con una serie di guerre
felici e di utili conquiste nell'Asia, nell'Africa, nelle Indie
occidentali. La quarta figliuola, Caterina, era andata sposa in
Inghilterra, da prima al principe Arturo, erede del trono, e poscia, lui
morto, al principe Arrigo, che fu Arrigo VIII, l'uomo delle sei mogli:
due ripudiate, due decapitate, una morta per miracolo nel suo letto,
un'altra per miracolo anche maggiore riuscita a sopravvivergli. Non
dimentichiamo di dire che la prima delle sei, Caterina, fu tra le
ripudiate: strana sorte, dopo che a forza l'avevano voluta tenere. Il
suocero suo, Enrico VII, era chiamato il Salomone dell'Inghilterra; per
la sua molta saviezza, certamente, non già per la sua magnificenza.
Aveva ricevuto dalla Spagna dugento mila scudi d'oro per la dote, che
per quei tempi era un gran fatto. Morto il principe Arturo, quel savio
babbo avrebbe dovuto rimandar la sposa e la dote. Per la prima, niente
di male; ma restituir la dote pesava al Salomone d'Inghilterra: ond'egli
aveva fatto il savio proposito di dar la vedova del primo figliuolo in
isposa al secondo. Ferdinando e Isabella se n'erano contentati; papa
Giulio II aveva mandate le necessarie dispense.

Innanzi alle quattro principesse d'Aragona, com'erano chiamate dal
titolo regio del padre, era nato un principe, don Giovanni; ma da alcuni
anni era morto per una caduta da cavallo. Delle tre principesse
superstiti, adunque, una era regina del Portogallo; l'altra principessa
di Galles in Inghilterra; la terza, e prima per ragione di età, erede
del trono di Castiglia, poichè fu morta la madre. Questa la regina che
approdava la mattina del 7 maggio a Laredo. Moglie ad un arciduca
d'Austria, portava in casa d'Austria la corona di Spagna; e le era già
nato da sei anni quel Carlo, che, primo del nome in Ispagna, doveva poi
essere Carlo V nell'Impero di Germania, così potente, anzi prepotente
nella storia d'Europa.

Col suo bel Filippo era partita Giovanna da Brusselles; si era con lui
imbarcata il giorno 8 di novembre dell'anno 1505, avviata alle coste di
Biscaglia. Ma il vento e il mare cospiravano quella volta con Ferdinando
d'Aragona, e il naviglio combattuto dagli elementi ebbe per gran sorte
di poter appoggiare alle coste d'Inghilterra. Arrigo VII ebbe ospiti i
giovani sovrani, e si può credere che con tutta la sua avarizia
rallentasse un pochino i cordoni della sua borsa per trattarli a dovere.
Ferdinando, che stava alle vedette, a mala pena ebbe fumo
dell'appoggiata, mandò messaggi ad Arrigo, ed esortazioni e preghiere,
perchè volesse trattenere quei due ragazzi, per suo avviso incapaci di
regnare. Arrigo VII, il Salomone d'Inghilterra, non fu mai tanto
Salomone come in quella circostanza difficile. Tenne a bada i suoi
giovani ospiti più che potè, con le feste e le cacce, così mostrando di
esaudire l'Aragonese; ma come gli parve che il giuoco durasse troppo, nè
si potessero trovare altre scuse agli indugi, pensò che i due ospiti, se
volevano andarsene, gli dovessero pagare lo scotto. Il suo regno era
stato lungamente turbato da pretendenti di varia derivazione: li aveva
sbaragliati tutti, presi tutti, salvo uno, Edmondo Pole, conte di
Suffolk, riparato nelle Fiandre. Glielo poteva consegnare il suo ospite
Filippo? Non gli avrebbe torto un capello: ma gli sarebbe stato caro di
averlo sotto la sua vigilanza. Filippo glielo consegnò, e non fu bella
cosa: nè certamente se ne vantò, sebbene il Tudor gli mantenesse la
parola di non levar la vita all'ultimo dei suoi disgraziati rivali;
grata cura che si prese parecchi anni dopo l'ottavo Arrigo, il Roboamo
di quel Salomone. Così pagato lo scotto, uscivano dal Tamigi i sovrani
di Castiglia, dopo tre mesi e più di quell'ozio forzato, a cui era stata
buona scusa la stagione, cattiva oltre ogni termine, ed oltre ogni
pronostico. E il Salomone dell'Inghilterra usava ai giovani ospiti la
cortesia prelibata di non avvisare il re d'Aragona del non averli potuti
trattenere di più. Di che si poteva lagnare il re Ferdinando? Per i fini
di lui, per il tempo che gli occorreva a suscitar loro qualche ostacolo
in casa, non erano stati trattenuti abbastanza? Il fare di più sarebbe
stato come un venir meno agli obblighi sacri della cortesia, un tener
prigionieri i suoi ospiti, un trattarli da nemici; cose tutte che le
potevano fare un Procuste, un Licaone, un Litiersa, ed altri re birboni
dell'antichità leggendaria; ed egli era il Salomone dell'Inghilterra,
per bacco!

Non si lagnò Ferdinando. Oltre che sarebbe stato tardi, per potersi
lagnare utilmente, egli era un esemplare di pazienza. Avvezzo ad
ingannare, non si doleva troppo di essere ingannato, mettendo il guaio
sul conto della sua poca prudenza, e promettendo a sè stesso di far
meglio un'altra volta. Colla filosofica costanza del ragno a cui sia
stata distrutta la sua tela, che si rimpiatta nel buco finchè non veda
passato il pericolo di peggio, e poi riprende animoso a distendere le
sue fila maestre, il re Ferdinando chinava il capo a quella buriana
improvvisa, che dalla nuova Castiglia si rovesciava sulla vecchia. Come
avessero quelle migliaia di signori avuto notizia della partenza di
Giovanna e di Filippo dalla foce del Tamigi, mentre egli non n'era stato
avvertito, non occorreva per allora indagare. Volevano la convocazione
delle Cortes; era quello il grido, con cui si animavano a vicenda.
Ebbene, facessero a lor posta. Egli, poveraccio, aveva lavorato fino
allora per l'onore e per la grandezza della Spagna; vedessero loro di
fare altrettanto, o almeno almeno di non guastare il già fatto. Se ne
volevano andare i gentiluomini castigliani della sua Corte, per
accorrere da Giovanna? Andassero pure; facevano bene, come sudditi di
Castiglia; si ricordassero poi d'essere Spagnuoli.

In questa forma, con questi sentimenti, parlava per lui il Ximenes; con
sincerità d'animo, questi, che in ogni evento restava il primate di
Spagna, e da cose mutate, o rimaste com'erano, non aveva da guadagnare
nè da perdere. E il re, per non parere stizzito della burla patita, il
ministro per parer largo con tutti, prudentemente deliberarono di
muovere a Burgos, ove del resto un giorno o l'altro sarebbero
trasportate le tende.

Burgos, vasta città irregolare, piantata a semicerchio sul pendio
d'un'alta collina, non aveva ancora perduto del tutto lo splendore di
quei tempi che vi risiedevano i conti, poi re di Castiglia. Come quasi
tutte le città medievali, era corsa da vie strette, tortuose e
malinconiche: ma le sue piazze ornate di severi edifizi e di fontane, le
davano una bell'aria di capitale antica. E si gloriava anch'essa d'una
cattedrale gotica, del secolo XIII; ma più assai era orgogliosa della
sua _Calle Alta_, dove ancora sorgevano le case di Rodrigo di Bivar,
detto il Cid Campeador, e di Fernando Gonzales, primo conte di
Castiglia. Salamanca, Valladolid, Medina del Campo, Segovia, tutte a
vicenda residenze reali dei re di Castiglia, avevan fatto un po' di
torto a Burgos, il cui clima si riteneva troppo umido e freddo. Ma a
Burgos, capitale antica, si erano tenute in momenti solenni le Cortes,
segnatamente nel 1188, le prime in cui alla nobiltà ed al clero si
aggiungessero i procuratori, o deputati delle città e dei borghi, che
furono appunto in numero di cinquanta; bel principio e pronta fioritura
di libertà comunali, che l'autorità regia aveva dovuto riconoscere, o
forse trovato utile di mettere a fronte dei due corpi privilegiati, per
tenerli in rispetto con quel nuovo elemento.

La Corte di Castiglia, recandosi a Burgos, non aveva da scegliere la sua
residenza, essendo ancora in piedi l'antico palazzo di Fernando Gonzales
nella Calle Alta. Non era vasto, il palazzo; non potevano trovarci
alloggio due corti, se non a patto di starci pigiate. Le persone che si
amano scambievolmente stanno di buon grado a disagio, pur d'essere
insieme; non così quelle che stanno un po' grosse, vedendosi volentieri
come cani mastini.

Con quest'animo era corso a Burgos il re Ferdinando, e si piantava nel
palazzo di Fernando Gonzales, destinato ad accoglier sovrani: per allora
il solo sovrano era ancor lui, e gli altri erano di là da venire. "Li
aspetterò alla Calle Alta, diceva; li riceverò io, e vedremo che cosa ne
nascerà".

Perchè non andar loro incontro fino al porto di Laredo? Ah, no, fin
laggiù: non lo avevano avvisato dell'arrivo, e l'andarli a cercare, ad
aspettare all'approdo, sarebbe stato ufficio di vassallo che volesse
farsi ricevere in grazia. A Burgos era in luogo decente, in condizione
regale. Sarebbero venuti a lui; li avrebbe accolti con ogni
dimostrazione di affetto paterno; e magari, prendendo norma dalle
circostanze, avrebbe rimessa loro ogni autorità sulla Castiglia, o
l'avrebbe ritenuta in nome loro, per utilità del regno, per quell'onore
e per quella grandezza di Spagna, che il re Ferdinando aveva spesso
sulla bocca, come il suo ministro Ximenes l'aveva sempre nel cuore.

Ma coloro che avevano guidata così vittoriosamente la congiura di
Castiglia non erano meno accorti del re d'Aragona. Burgos accolse la
comitiva trionfale, che da Laredo era venuta alle sue nobili mura;
ammirò il bellissimo re, che magnifico in sella cavalcava al fianco di
Giovanna, seduta con molta eleganza su d'una bianca chinéa; applaudì,
gridò l'amor suo con tutte le frasi più calde; gittò alla coppia gentile
dei suoi sovrani le prime rose della stagione; ma non vide salire fino
alla Calle Alta il regale cortéo. Parve cortesia profumata il volersi
fermare al palazzo di città, quasi come ospiti dei sudditi loro. E i
buoni sudditi di Burgos, con nuovi applausi, con grida insistenti,
chiamarono tante volte al balcone del palazzo i sovrani, quante furono
necessarie a contentare della loro vista i quarantamila abitanti della
nobil città. E parve finalmente ricambio di cortesia lasciarli riposare
un tratto, e prender ristoro, essendosi sparsa la voce che accettavano
la refezione di rito presso il preposto del comune. La refezione, con
tutte le cerimonie concomitanti, voleva andar per le lunghe; si
sarebbero mossi verso sera, i sovrani, per salire alla Calle Alta;
c'era tempo per tutti di andare al pasto quotidiano, di farci la siesta
consueta, e poi ritornare in tempo a tutte le novità di quella bella
giornata.

La prima novità fu questa, che l'araldo regale andò attorno per tutte le
piazze di Burgos, con le trombe, e con un drappello d'arcieri. Su tutte
le piazze, dopo una suonata di trombe, il nobile personaggio, ben ritto
sulla sella del suo cavallo bianco, e con una voce squillante quasi come
le sue trombe, lèsse al popolo la parola sovrana:

     "Don Filippo e donna Giovanna, per la grazia di Dio re e regina di
     Castiglia, di Leon, di Granata, di Toledo, di Valenza, di Gallizia,
     di Maiorca, di Siviglia, ecc. ecc., ai reggenti, assistenti,
     alcaldi, alguazili ed altri giustizieri quali si vogliano di tutte
     le città, ville e luoghi dei nostri regni e dominii, salute e
     grazia!

     "Sappiate che essendo noi deliberati di visitare tutte le terre del
     nostro regno, e perciò sul punto di partire da questa amata città,
     per rispetto alle antiche consuetudini ond'essa è privilegiata,
     come per dimostrazione del nostro vivissimo affetto, abbiamo
     ordinato che in Burgos siano convocate le Cortes di Castiglia e
     Leon, dove noi saremo ritornati, a Dio piacendo, prima del 20
     giugno. Siano dunque avvertiti di ritrovarsi per quel giorno in
     Burgos i tre _estamentos_ di Castiglia, del clero, dei nobili, dei
     procuratori delle città e borghi regali, a cui è concesso il
     diritto di partecipazione, per far le leggi nuove e riformare le
     antiche, per istabilire con equità i pubblici carichi, reprimere
     gli abusi, far ragione a tutti coloro che a noi si richiameranno
     di violata giustizia. Tale essendo il nostro piacere, conforme agli
     obblighi verso Dio e verso il buon popolo di Castiglia.

     "Dato nella nostra antica città di Burgos, il giorno 8 di maggio,
     l'anno della natività del nostro Salvatore Gesù Cristo 1506.

        "_Io il Re. Io la Regina._"

Era quello un colpo maestro del buon Tellez Giron de Sandoval, duca di
Ossuna, che primeggiava nei consigli dei nuovi sovrani. Ma la prima
spinta era data da Beatrice di Bovadilla, che aveva preso assai
facilmente presso la regina Giovanna il posto tenuto presso la grande
Isabella. Ricordate che a Valladolid era venuto a cercare donna Beatrice
il giovane marchese di Lucena, per riferirle in nome dell'Ossuna i
desiderii del popolo; e come donna Beatrice consigliasse di rispondere
in modo da contentare Valladolid senza offesa ai diritti di Burgos.
L'occasione di appagare i voti dell'una e dell'altra città si era
offerta più presto che Bovadilla non si potesse immaginare: fin da
quando era giunto don Diego Colon a prender commiato dal padre,
l'accorta signora aveva meditato quel colpo che doveva sgominare tutti i
disegni faticosi del re d'Aragona. Così, fatta a Burgos una sosta di tre
ore, con una certa promessa di ritorno, Giovanna e Filippo si
rimettevano in via, pellegrini d'amore e banditori della propria
sovranità per le terre di Castiglia. Quanto a visitarle tutte, non c'era
impegno che potesse durare contro la stanchezza di un lungo viaggio. Ma
si andava, come se il pellegrinaggio dovesse giungere fino alle rive del
Mediterraneo e a quelle dell'Atlantico. L'essenziale era di lasciare il
re Ferdinando colle mani in mano, nella Calle Alta di Burgos, dandosi
pensiero di lui, che aspettava, come se fosse stato cento miglia
lontano.

Nella Calle Alta l'editto regale fu letto quando Giovanna e Filippo
erano già usciti dal palazzo di città, e le grida di saluto ai sovrani
salivano al cielo. Il re Ferdinando sentì quelle grida nello stesso
tempo che giungeva a lui qualche frase dell'editto, recitata a voce più
alta dall'araldo, o non coperta dai rumori della moltitudine ascoltante.
Partivano, dunque? partivano da Burgos, dov'egli si era venuto a
piantare, per metterli nell'impaccio; e ce lo lasciavano lui,
ignorandolo, non mostrando di sapere che fosse ancora tra i vivi.

Per una volta tanto, il pazientissimo re si morse le labbra dal
dispetto. Questa poi non se l'aspettava. E voleva sfogarsene col fido
Ximenes; ma il Ximenes non c'era. Non già perchè lo avesse abbandonato
anche lui, come tutti i suoi gentiluomini di Castiglia; ma perchè era
andato a parlamentare con gli avversarii. Come nato in Castiglia e
arcivescovo d'una città di Castiglia, il Ximenes aveva fatto ossequio ai
nuovi sovrani. Ed essi avevano mostrato di gradir molto la visita; e
Giovanna in particolar modo si era mostrata affabilissima al confessore
di sua madre. Ma a lei non aveva osato dir nulla, nè far preghiere, nè
dar consigli non chiesti, specie vedendola così ben circondata,
custodita e difesa.

Al duca d'Ossuna, piuttosto, e agli altri cortigiani maggiori, si aperse
liberamente il virtuoso Ximenes. Perchè quella partenza improvvisa?
senza dare un po' di riposo alla regina? senza permetterle di vedere il
re d'Aragona, che stava lassù ad aspettarla? Infine, quello era suo
padre; ed era d'un padre aspettare i suoi figli.

--Vostra Eccellenza non dimentica che donna Giovanna è la regina di
Castiglia, e che qui siamo, se Dio vuole, in Castiglia;--rispondeva con
molta calma il duca d'Ossuna.--Vostra Eccellenza non ignora che non ci
son più padri nè figli, dov'è in giuoco la dignità della Corona. Tutto
ciò che Vostra Eccellenza ci fa notare col suo gran senno, con la sua
grande pietà, con la sua grande prudenza, è stato attentamente
considerato da noi. Non abbiamo obbedito a rancori, a puntigli, a
dispetti; solo ci siamo studiati di non consigliar debolezze. Giovanna e
Filippo son venuti qua in casa loro; ricevono visite, non vanno a
farne.--

L'argomento era senza replica. Ma l'arcivescovo di Toledo, non potendo
attaccarlo di fronte, si provò a scalzarlo di fianco.

--Intendo, intendo;--diss'egli.--E le ragioni son buone, come le
intenzioni son pure. Ma non si potrà forse impedire che il popolo di
Burgos faccia i suoi giudizi su questo caso spiacevole.

--Saranno giudizi temerarii;--rispose più placido che mai il duca di
Ossuna;--saranno giudizi temerarii, se vorranno trovare un cattivo
sentimento dove non era altro che l'obbligo sacro di mantenere nella sua
integrità il buon diritto della Corona. Un altro giudizio, e più savio,
vorrà fare il popolo di Burgos, pensando che il re d'Aragona, trovatosi
qui mentre i reali di Castiglia giungevano in casa loro, non si è
neanche degnato di andarli a ricevere alle porte, per offrir loro la
casa, che teneva preparata per essi.

--Ah signori! signori!--esclamò il buon Ximenes.--E non son puntigli,
questi?

--Ragioni di dignità, ragioni imprescindibili: e Vostra Eccellenza si
dorrebbe a buon dritto, non per sè, ma per l'alto suo ministero, se
Palencia o Siviglia mancassero di rispetto a Toledo.

--Ma pensate, signori,--insisteva il Ximenes, senza ribattere
quell'argomento ad hominem,--pensate che molte cose con un po' di buon
volere dall'una parte e dall'altra s'aggiustano. Castiglia ed Aragona,
finalmente, che sono? Non forse la Spagna? la Spagna antica, che le
discordie avevano disfatta, aprendone la via al Moro infedele? la Spagna
nuova, che dobbiamo saldar meglio nelle leggi e nei cuori? Chi, più del
re Ferdinando, s'è adoperato per questa nobile Spagna? Non ha egli
condotta a termine la cacciata del Moro? Non ha egli ceduto alla Spagna
i particolari diritti d'Aragona sul reame di Napoli? e ancora non
combatte per assicurarne il dominio alla Spagna?--

Il duca d'Ossuna aveva chinato più volte il capo alla progressione
oratoria dell'arcivescovo di Toledo. E pareva che approvasse: ma non
faceva altro che accompagnare col gesto quella enumerazione di meriti.
Infatti, come quell'altro ebbe finito, così egli parlò, ribattendo:

--Molte cose si potrebbero rispondere alla Eccellenza Vostra. Poche ne
diremo, stretti come siamo dal tempo. Si ricordi quanta parte abbia
avuta nella gloria del regno la grande Isabella; e solo può dimenticar
la regina, chi ha mostrato di dimenticare la donna. Aragona ha ceduto
Napoli alla Spagna, non potendo tenerlo per sè, con dinastia separata e
con forze troppo inferiori al bisogno. Che io dica il vero, lo dimostra
il fatto che il re d'Aragona, dovunque non vide la pronta utilità
dell'impresa, lasciò avaramente in ballo Castiglia.

--E dove?

--In una certa spedizione da Palos, donde venne alla Spagna l'acquisto
di tante terre nel nuovo Mondo, e tanta gloria nel vecchio.

--Bravo, Ossuna!--gridò una voce femminile.

--Aggiungo,--riprese l'Ossuna, dopo aver risposto con un cavalleresco
inchino a quel grido,--aggiungo poi, per quanto risguarda il combattere,
che la grande Isabella ci ha guadagnata l'infermità donde fu tratta alla
tomba, povera e santa guerriera! Aggiungo ancora che non Ferdinando ha
preso Granata, ma Consalvo di Cordova; nè Ferdinando, ma Consalvo di
Cordova combatte ancora in Italia; e Ferdinando non l'ama, Ferdinando
l'ha in ira, forse più che in sospetto. Pure, è gloria di Spagna,
Consalvo. E la gloria di Spagna, dopo tutto, noi la vogliamo sulla punta
della nostra spada, non nel consigliar debolezze verso l'uomo che fino a
ieri ha impedito (e ne abbiamo le prove) che la Castiglia ricevesse i
suoi re.--

Neanche qui c'era da replicare; e il virtuoso Ximenes si contentò di
mandar fuori un sospiro. Sentiva anch'egli che il suo re Ferdinando, con
una buona causa alle mani, si era adoperato fin allora con indegni
artifizi, come se l'avesse cattiva?

Pochi momenti dopo, la coppia regale era in moto, per uscire da Burgos,
non dimenticando di lasciarci ufficiali suoi ed un nerbo di gente per
custodirvi il buon dritto di Castiglia. Non ce ne sarebbe stato bisogno,
tanto era l'ardore di quel popolo. Giovanna era adorata da ogni ordine
di cittadini; Filippo, dal canto suo, aveva conquistate le padrone di
tutti quei cittadini. Ah perchè i doveri del trono allontanavano da
Burgos quel fior di bellezza? "Appena vidi il sol che ne fui privo"
avrebbe potuto gridare il gentil sesso di Burgos.

Non dubitate, o belle; ritornerà presto, il giovine Apollo di casa
d'Austria. E qui, il 25 settembre, come a dire prima che passino i
cinque mesi, egli morrà di morte improvvisa. E Giovanna ne perderà la
ragione del tutto, e non concederà il cadavere alla vostra certosa di
Miraflores, se non dopo averlo portato più settimane attorno, per città
e campagne, aprendo ad ogni tratto la bara, per contemplarlo ancora, e
nutrirsi del suo pazzo dolore, e farne spettacolo lagrimoso alle genti.
Soltanto allora il re Ferdinando avrà conseguito il suo fine. Ragno
paziente, rifatta la sua tela, e la pace coi nobili di Castiglia,
otterrà una reggenza, che gli permetta di adoperarsi liberamente alla
grandezza del regno. Causa buona, certamente; ma lasciata in cattive
mani. Perchè?




CAPITOLO XVI.

Grazia, giustizia, e un granellin di follìa.


Ma per ora, vittoria. Giovanna e Filippo sono entrati a Valladolid. Le
accoglienze sono maravigliose; l'allegrezza della città non si descrive;
essa è tanto più grande, quanto più lontana era in lei la speranza di
avere tra le sue mura i sovrani. Nè solamente per un giorno, come è
toccato a Burgos. Valladolid li riterrà per parecchi, meglio prestandosi
per una lunga dimora l'ampiezza del palazzo reale, e il non averci
l'incomodo di un'altra corte, sempre molesta vicina, per quanto
l'abbiano scemata di numero le diserzioni sollecite di tutti, o quasi
tutti i gentiluomini Castigliani. Se poi l'altra corte volesse scendere
anch'essa in Valladolid, non avrebbe a far altro che a prendere esempio
da ciò ch'è avvenuto in Burgos, dov'ella si era già collocata, e i nuovi
venuti erano smontati al palazzo di città. Venga pure a Valladolid, e
smonti dove le pare; magari al palazzo di giustizia, dove abitava il
Ximenes: l'essenziale è che non trovi alloggio al palazzo reale, che è
proprietà di Castiglia e Leon, mentre Castiglia e Leon appartengono ai
due giovani principi, ai sovrani adorati, che tutto il paese ha così
prontamente riconosciuti, passando sopra alle minute formalità, alle
vane cerimonie d'una trasmissione di poteri. Tutta roba, questa, a cui
si potrà dar sesto in processo di tempo: per ora Valladolid non ha da
curarsi di ciò; Valladolid è in festa, e sarà in festa finchè i giovani
sovrani staranno tra le sue mura.

Beatrice di Bovadilla trionfa; quando passa lei per le vie, tutti i
cittadini si scoprono il capo, le fan riverenze, l'acclamano. Si sa che
il consiglio di scender subito a Valladolid è venuto da lei. Si vede che
i duchi e tutti gli altri gran signori del cortéo regale, abbondando
volentieri nelle belle forme della cavalleria spagnuola, si mostrano
pieni di ossequio per lei; ed anche il popolo impara a riverirla, ad
amarla. La regina Giovanna la vuol sempre al suo fianco; il re Filippo
la colma di delicate attenzioni.

Troppe attenzioni, ahimè, quelle di Filippo il Bello, e troppo delicate!
Giovanna ammette le cortesie, non riprova le garbatezze; ma ci vorrebbe
più riguardo, più misura, più parsimonia. È gelosa, e la gelosia non
ragiona; è gelosa, e ne soffre doppiamente questa volta, perchè la
gelosia ha un argomento visibile su cui esercitarsi, e perchè infine
ella ama la marchesa di Moya, e non vorrebbe privarsi di lei.

--Dio, come sei bella!--le disse al secondo giorno dell'entrata in
Valladolid, non potendo più reggere alla sua pena.--Sei troppo bella,
Bovadilla!--

Donna Beatrice diede in uno scoppio di risa, che mostrava tutta la sua
bell'indole, ma ancora più i suoi bellissimi denti.

--Alla mia età,--rispose poscia,--non mi aspettavo più un simile
discorso. È anche vero che Vostra Altezza ha il più bel cuore della
cristianità.

--Oh, non è il mio cuore, quello che parla; sono i miei occhi;--replicò
Giovanna, abbracciandola con tenerezza, come se volesse in quell'atto
premunirsi contro la cattiveria del sentimento da cui si sentiva già
invadere.--Tu hai bevuto alla fontana di giovinezza, che i maghi
moreschi hanno fatta scaturire in qualche parte della Spagna. Dimmi
dov'è, tu che lo sai; e dov'è la fontana della bellezza miracolosa.
Perchè anche di questa ne hai bevuto, Bovadilla. Negalo, se puoi! C'è
qualcheduno che ti vede troppo di buon occhio; ed io non voglio,
Bovadilla, non voglio.

--Vostra Altezza si rassicuri anche contro le illusioni degli
occhi;--rispose Beatrice di Bovadilla, mettendosi sul grave.--Io voglio
farle qui una bella confessione.

--Ah sì, sentiamo, Bovadilla!--gridò la regina, battendo le palme dalla
gioia.--Tu hai pure un certo modo originale di dir le cose più fini!

--Ringrazio Vostra Altezza, e incomincio con una domanda, ch'ella vorrà
perdonarmi. Che cosa ho fatto, io, che cosa ho detto io alla mia regina,
appena ella è smontata sulla spiaggia di Laredo?

--Non so più bene;--rispose Giovanna, sconcertata da quel modo di
cominciare, che veramente era più originale di quanto ella potesse
aspettarsi.--Ricordo che mi hai presentato don Bartolomeo Colon.

--Con una lettera, non è vero?

--Sì, con una lettera di ossequio, di suo fratello l'Almirante.

--Almirante maggiore del mare Oceáno;--aggiunse a mo' di glossa in
margine la marchesa di Moya, badando anche a batter bene l'accento sulla
penultima di Oceáno, com'ella soleva.--E la lettera diceva, oltre le
parole di ossequio? Non forse che l'Almirante aspettava giustizia dai
nuovi sovrani?

--Sì, è vero; e la faremo. Ma che vuoi tu dire con ciò?

--Questo, mia buona regina: che anch'io, dopo l'ossequio dovuto a Vostra
Altezza, non vedevo più altro fuorchè don Cristoval Colon, il
grand'uomo, il luminare del mondo.

--Come ne parli!--esclamò Giovanna, guardandola fissamente negli,
occhi.--E non temi, dandogli questo titolo, di far torto ad Apollo, il
dio della luce?

--Non ho da render conto agli Dei; amo quell'uomo. Scendesse Apollo in
terra, Apollo che è pure il dio della bellezza, della poesia e
dell'arte, egli non avrebbe uno sguardo da me: non lo avrebbe avuto
quand'ero ancor giovine, e bella davvero (posso oggi parlarne senza
incorrere la taccia di superbia) e già amavo don Cristoval.

--Lo hai amato.... e lo ami sempre....--disse Giovanna, seguendo a modo
suo il filo di quello strano discorso.--Bella cosa, amar sempre.... ed
essere amata! Perchè non lo sposi?

--Non posso;--rispose Beatrice Bovadilla, con accento di profonda
tristezza.

--Non puoi? E chi lo impedisce? Posso io esserti utile?

--No, mia signora;--mormorò Beatrice sospirando.--C'è un triste segreto
di mezzo, il segreto di Cordova!

--Posso io saperlo? Vuoi dirmelo?--

La marchesa di Moya non poteva ricusare alla innocente curiosità della
pietosa regina il resto di una confessione, ch'ella stessa si era
proposta di fare. Ed anche le pareva di sfogare la piena del suo dolore,
narrandone ancora una volta le tristi cagioni. Narrò dunque, svelò
intieramente il segreto di Cordova.

--E quella donna?--domandò la regina.--Se è libera, come tu dici, non
darà la sua mano a don Cristoval?

--Non vuol saperne;--rispose Beatrice di Bovadilla.

--Non vuol saperne? e perchè, dopo il suo fallo? ed essendo questo
l'unico modo di ripararlo?

--Non lo so;--disse Beatrice.--Pare che le sia entrata nel cuore una
avversione invincibile contro il padre del suo Fernando, anche prima che
questi nascesse. Misteri della povera carne! Ed io non cercherò di
approfondirli. Pure ho tentato di ricondurla alla ragione, quella donna
ostinata; e tanti anni fa, ed ancora in questi ultimi tempi. Dio mi è
testimone che ho fatto ogni mio potere per convincerla. Non trovandola
io, ed essendo chiamata dal segnale dei fuochi d'allegrezza a Laredo, ho
posto sulle sue tracce una fidata persona, che l'ha ritrovata finalmente
a Granata, consegnandole una lettera mia. Frate Alessandro, un buon
francescano, che era il mio messaggero, è tornato iersera da me, senza
aver nulla ottenuto. Le ha parlato da religioso e da cavaliere ad un
tempo, ma senza alcun frutto. Gli ha risposto che è contenta così, e che
vuol vivere in pace. Ma forse io m'inganno, sulla avversione
inesplicabile di lei. Se don Cristoval fosse in auge, parlerebbe ella
ancora così? Certo, non amerà esser la moglie di un povero abbandonato.

--E se io lo rimettessi in onore?--disse Giovanna.--Se io gli rendessi,
unita col mio Filippo, tutti i suoi titoli, i suoi diritti, i suoi
privilegi?...

--Chi sa? forse allora si muterebbe il suo cuore.

--E tu ne saresti contenta?--

Beatrice di Bovadilla stette dubbiosa un istante: ma si pose una mano
sul cuore, come per reprimerne le voci ribelli, e rispose con accento
sicuro:

--Sì, perchè mi parrebbe di avere adempiuto l'obbligo mio.

--Ami tu in questo modo?

--Ma sì, mia dolce signora. Ognuna di noi ama in un suo modo
particolare. Il mio non rifugge dal sacrifizio.

--Povera Bovadilla, come devi soffrire! Ed è sempre bello, il tuo
Almirante? bello, come io l'ho veduto bambina, alto, maestoso, sereno,
con quei grandi occhi azzurri e quelle labbra che facevano anche più
bello il sorriso?

--Sempre!--rispose Bovadilla, chiudendo gli occhi con atto
religioso;--sempre tale io lo vedo, attraverso la nebbia degli anni. Ed
è bello come un dio antico, sul cui capo sia passato il dolore,
lasciandogli i suoi segni augusti nel viso. I travagli della vita lo
hanno estenuato; gli tremano le membra, e spesso ricusano di sostenerlo;
ma i suoi alti servigi ne han colpa. La fronte, ampia e serena, è campo
di celesti pensieri, di cui si vorrebb'essere a parte; gli occhi
scintillano, dardeggiano, e passano i cuori; le labbra.... ha detto bene
Vostra Altezza.... le labbra son tali da fare anche più bello il
sorriso, la cosa più bella, forse l'unica bella sulla faccia dell'uomo.
L'aureola dei suoi patimenti raddoppia quella delle sue imprese
immortali; essa fa di lui il più grande fra gli uomini.

--Che ardore!--esclamò la regina.--Ma quando si ama, si pensa così.
Niente val più del nostro amore; niente val più dell'uomo che amiamo.--

Giovanna era sul punto di cadere in una delle sue estasi frequenti,
donde tornava poi tanto difficile richiamarla alle cure volgari della
vita.

--Ed io non abbandonerò più quell'uomo;--ripigliò la marchesa, alzando
la voce, come per trattenere lo spirito vagabondo della regina.--Anzi,
mi ascolti Vostra Altezza, io dovrò pregarla ben presto di darmi
licenza. Alla mia regina ho portato l'omaggio di un cuore devoto; ma
ella non avrà più bisogno di me; resterò a Valladolid.--

Un moto involontario d'allegrezza agitò il cuore e tinse d'una fiamma
fugace le pallide guance della gelosa regina. Ma la gelosa era buona, ed
amava la sua Bovadilla; perciò represse a forza quel senso importuno di
gioia, che sarebbe anche parso di brutta ingratitudine.

--Mia cara!--diss'ella.--Ciò che vuoi fare a Valladolid non si accorda
troppo bene con ciò che speri di ottener da Granata. Ma speriamo che
Granata persista nel suo rifiuto; non ti rifiuterò io ciò che domandi
per il tuo Almirante. Lascia che si compongano queste difficoltà con mio
padre, e che io sia libera di dar corso ai voti del mio cuore, ed io
penserò a don Cristoval Colon in modo da farti contenta. Sarà questo il
mio primo atto di regno.

--Faccia la mia signora che sia soltanto il secondo;--rispose la
marchesa di Moya.

--Come?--gridò la regina.--C'è altro, che ti preme di più?

--Non già che mi prema di più, ma che può farsi prima, che può farsi fin
d'oggi.

--Che cosa? Sentiamo.

--Una visita al palazzo di giustizia, o, per dire più veramente, alle
carceri attigue.

--Per che fare?

--Per liberare una povera donna, che molto mi sta a cuore, come sta a
cuore del signor Almirante, essendo essa la moglie di un degno
gentiluomo, suo concittadino e fedele servitore.

--Che cosa ha fatto questa donna? ha commesso un delitto?

--Sì, e gravissimo; è moglie ad un uomo che non voleva prestarsi ad un
tradimento contro Giovanna e Filippo, legittimi sovrani di Castiglia.--

Così avendo incominciato, Beatrice di Bovadilla narrò tutta la storia
del conte Fiesco e della contessa Juana. L'anima mite della regina si
turbò grandemente al racconto di quella prepotenza inaudita, che,
com'ella disse, gridava vendetta a Dio.

--E giustizia ai suoi ministri in terra;--conchiuse la marchesa di
Moya.--Così si è messo il coltello alla gola d'un povero gentiluomo,
straniero di nascita, ma vissuto parecchi anni ai servizi di Castiglia.
E si aspetta da San Domingo la prova che la contessa di Lavagna non sia
stata suddita Spagnuola. E si aspetta da Genova la prova che sia
veramente la moglie del conte Fiesco. Se poi il conte Fiesco si decide a
far firmare questo trattato dal re Cristianissimo, non c'è più mestieri
di prove da Genova, non c'è più mestieri di prove da San Domingo, e la
prigioniera è restituita al povero conte.--

Così dicendo, la marchesa di Moya aveva cavato un foglio dalla sua borsa
di velluto, e lo metteva sotto gli occhi della regina.

Giovanna lèsse, e strinse convulsamente le labbra.

--Pazienza per me, che sono sua figlia;--diss'ella.--Ma contro i diritti
di Filippo! È orribile, sai? Son pazza.... pazza io, perchè amo! Così
avess'egli veramente amata mia madre, che non vedrei sul trono di
Aragona la sua Germana di Foix! Ed è della sua cancelleria, lo
scritto;--soggiunse, guardando ancora il foglio malaugurato.--Conosco la
mano del suo segretario Fernando Alvarez di Toledo; un Castigliano che
non abbiamo ancor veduto alla nostra corte! Meglio così, dopo tutto; che
io non lo vedrei di buon occhio. Mi lasci questo foglio?

--È commesso alla mia fede, signora. Questo posso giurare, che non
andrà, per le mani d'un Fiesco, a Parigi.

--Ripiglialo, Bovadilla. Tanto, mi scotterebbe le mani. E mi dicevi che
le carceri sono attigue al palazzo di Giustizia?

--Sì, e se Vostra Altezza ama davvero la sua Bovadilla....

--E la mia Bovadilla, e la giustizia del mio regno;--rispose con nobile
accento la regina.--Andiamo senza perdere un istante. Dov'è Filippo? Si
cerchi del re.--

Filippo non era a palazzo. Mezz'ora prima era montato a cavallo, in
compagnia del duca di Ossuna. Per dove? Non si sapeva; ma certamente non
poteva andare lontano, non avendo accennato ad una lunga assenza. Era
andato a passeggio; non si trattava dunque se non di una delle solite
scappate mattutine, per veder la città. Il giovane re era come uno
scolaretto, a cui pesino troppo le sue ore di studio, sotto gli occhi e
la sferza del pedagogo.

Giovanna si addolorò di quella passeggiata, che si faceva senza di lei,
e senza pure avvertirla. Ah, le belle di Valladolid! volevano farla
disperare, come quelle di Brusselles, come quelle di Londra!

--Mia signora,--disse Beatrice, che non voleva altri indugi,--se il re
Filippo non è a palazzo, lo troveremo fuori, facendo un giro per la
città. E del resto, si fa presto a trovarlo.--

Era in anticamera il marchese di Lucena; la marchesa lo chiamò, e in
presenza della regina gli disse:

--Lucena, siate oggi, con licenza[tn285] di Sua Altezza, il mio
aiutante. Uscite e cercate del re don Filippo; ditegli che la regina è
andata fino al palazzo di giustizia, per visitare le carceri, e lo
attende colà.

--Lo desidera;--corrèsse la regina.

--Vostra Altezza sarà obbedita;--rispose il marchese di Lucena,
muovendosi tosto per partire.

--E veduto il re,--aggiunse la marchesa,--cercate del conte Fiesco. Lo
troverete probabilmente in casa del signor Almirante Colon. Ditegli, vi
prego, di venirmi a trovare alle carceri. Il ritrovo non sarà
bello,--soggiunse ella ridendo,--ma non l'ho inventato io, e bisogna
prender le cose del mondo come vengono.--

Il marchese di Lucena s'inchinò, e partì come una freccia.

Mezz'ora dopo, la regina Giovanna, seguita dalla sua dama di palazzo, da
due cavalieri d'onore e da un drappello d'arcieri, si presentava
all'ingresso delle carceri, detto il palazzo di giustizia.

--Sua Altezza la regina di Castiglia! aprite!--intimò il capo degli
arcieri.

Il cancello si aperse, e la regina entrò in un cortile di vecchio
convento, diventato prigione. Il prevosto delle carceri non tardò ad
apparire dall'alto di una scala, e tutto confuso da quella visita
inaspettata scese a precipizio, rischiando un paio di volte di
fiaccarcisi il collo.

--Agli ordini di Vostra Altezza;--balbettò egli, piegandosi in
due;--agli ordini di Vostra Altezza.

--Voglio visitare le carceri;--disse la regina, con piglio
severo.--Precedimi.--

Il prevosto non osava passare avanti: ma Beatrice di Bovadilla gli fece
notare che dove Sua Altezza ordinava, il cerimoniale portava di
obbedire. E il prevosto si piegò in due una seconda volta, precedendo
la comitiva fino al piano superiore del chiostro.

--Non aspettavate di rivedermi così presto?--gli disse a mezza voce la
marchesa di Moya, mentre la regina si affacciava nell'intercolonnio, a
guardare di sotto e d'intorno.

--Signora.... sa Iddio se avrei voluto contentarvi l'altro giorno; ma ho
comandi superiori.... sono schiavo del dovere....

--Il vostro dovere lo vedremo quest'oggi;--ribattè la marchesa.--E
preparatevi a farlo bene.

--Che cosa gli dici?--domandò la regina, avvicinandosi.

--Che si disponga a liberare il mozzo Bonito, secondo gli ordini di
Vostra Altezza;--rispose la marchesa di Moya.

--Tale è infatti il nostro piacere;--disse la regina.--Dov'è egli?

--È là, al numero sette, voltato quell'angolo del corridoio;--rispose il
prevosto, più confuso che mai.--Ma.... voglia perdonarmi Vostra
Altezza.... So bene che Vostra Altezza comanda.... Tutta Valladolid lo
dice; ma io, povero vecchio soldato, schiavo del mio dovere....

--Vuoi dire che non hai libertà di obbedirmi? Colpa di chi non te lo ha
fatto sapere in tempo;--replicò la regina, con più asseveranza che non
fosse dato aspettare da lei.--Apri quell'uscio, e metti fuori il
prigioniero, a cui faccio grazia, se forse non è meglio dire gli rendo
giustizia.--

Il povero prevosto nicchiava. L'aspetto imperioso della regina egli lo
vedeva, e ne tremava tutto: ma aveva anche agli occhi le immagini del
re Ferdinando e del suo potente ministro Ximenes.

--Mia signora....--balbettò egli.--Se almeno avessi un ordine in
iscritto!

--Non c'è altra difficoltà?--disse la marchesa di Moya.--Portate qua
penna e calamaio con un foglio di carta, e l'ordine è presto fatto.

--Capisco.... sì, capisco bene. Ma gli ordini, forse, andrebbero meglio
se firmati da due.... dalla regina e dal re. Il re e la regina sono
inseparabili.--

La marchesa di Moya stava già per rispondergli. Ma la regina fu colpita
dalle parole dello scrupoloso carceriere.

--Hai ragione, buon servo della corona di Castiglia;--diss'ella,
intenerita.--Tu pensi che Filippo debba esser sempre accanto a Giovanna?
Ricordami queste tue parole, quando avrai qualche cosa da chiedermi, e
ti sarà concessa, te lo prometto fin d'ora.--

Ciò detto rimase estatica, pensando e guardando fissamente davanti a sè.
Era uno dei momenti pericolosi, per chiunque aspettasse qualche cosa da
lei. La povera estatica non era più capace di nulla.

--Possiamo almeno entrare, a visitare il prigioniero;--disse la
marchesa, alzando la voce.--Apriteci, signor prevosto. E Vostra Altezza
si degni di entrare,--soggiunse, premendo con devota amorevolezza il
braccio della regina.--La contessa Juana del Fiesco aspetta una buona
parola dal bel labbro regale.

--Bel labbro!...--mormorò la regina.--Bel labbro!... Come sei originale,
Bovadilla! Andiamo dunque;--soggiunse, alzando a sua volta la voce;--e
portiamo la buona parola. Bel labbro!--tornò a ripetere
sommessamente.--Bel labbro! Così parlasse Filippo!--

La regina voleva visitare il prigioniero; era nel suo diritto, e
adempiva anche uno dei precetti della santa madre Chiesa. Il prevosto
non ebbe argomenti da opporre, e mise mano alle chiavi. La cella del
numero sette fu aperta, e la regina passò.

Il mozzo Bonito era là, nel vano dell'unica finestra onde prendeva luce
la cella; e stava con la fronte appoggiata alle sbarre d'una inferriata,
per sentire il fresco del metallo, e per bere un soffio d'aria, della
buona aria del cielo, della eterna libera, che forse ignora la sua
grande fortuna. Non si era volto, all'aprirsi dell'uscio, pensando che
si trattasse d'una delle solite visite de' suoi carcerieri; ma si volse
al fruscío delle vesti femminili, e ad una ondata d'insolita fragranza
che penetrava in quel chiuso. Vide allora le dame, riconobbe la marchesa
di Moya, e si gettò nelle braccia che essa gli tendeva in quel punto.

--Ecco la regina, mozzo Bonito;--fu pronta a dire la marchesa di
Moya;--la regina Giovanna, che vi fa la grazia di venirvi a vedere.--

Il mozzo Bonito guardò quella dama dal malinconico aspetto e dai grandi
occhi buoni; si chinò, le prese la mano, baciandola divotamente, e ruppe
in uno scoppio di pianto. Erano le prime lagrime che Fior d'oro avesse
versate là dentro.

--Mozzo Bonito! mozzo Bonito!--esclamò la regina, commuovendosi.--O
piuttosto, contessa del Fiesco.... Sappiamo tutto: non piangete; siamo
qua noi. Dio!--soggiunse, volgendosi alla marchesa.--Come è bella! Se
avesse i capelli biondi, non si direbbe?...

--La regina vi fa giustizia;--prese a dire la marchesa, cercando di
rompere il corso dei pensieri regali.--Essa abomina una odiosa
prepotenza, a cui il suo governo è straniero. La regina vi ama, e vi
conduce a respirare un'aria più sana. Venite, contessa, e ringraziate la
regina fuori da questa orribile stanza.

--Ci sa di rinchiuso;--aggiunse la regina, muovendosi.--E come è brutta
la prigione!--

Uscita dalla triste stanzetta, la comitiva svoltò l'angolo del
corridoio, avviandosi a quella parte dond'era venuta. Il signor prevosto
delle carceri si trovò male a quella vista, e fu per cacciarsi le mani
nei capelli. Come richiamar dentro il prigioniero, senza offendere la
regina, che andava oltre, tenendogli per dimostrazione di benevolenza
una mano sugli ómeri? La marchesa di Moya, che veniva dopo di loro a
pochi passi di distanza, vide il comico agitarsi del disgraziato; ma non
si diè cura delle sue smanie, e seguitò imperturbata un esodo che le
pareva troppo bene avviato. Ma egli non la intendeva così; e fattosi
animo, afferrò la marchesa per una manica ricadente della sua
sopravveste di broccato.

--Signora marchesa.... mia buona signora marchesa....--ansimava egli con
voce soffocata.--È un tradimento.... Sono un uomo rovinato....

--Che cosa vi avevo detto io, signor prevosto?--ribattè la marchesa,
traendo a sè la sua manica.--Carta, penna e calamaio, e vi si fa
l'ordine di scarcerazione.

--Ma senza la firma del re?

--Ecco, voi non siete ragionevole nei vostri desiderii. La regina vi ha
detto: ripetimi le tue belle parole, quando avrai qualche cosa da
chiedermi, e sarai contentato. Avete voi chiesto allora che il re
autenticasse la parola di lei? E non andrete un giorno o l'altro a
chiedere un posto migliore, anche senza avere la firma del re?

--Ma ancora non è detto che io l'ottenga!--rispose il prevosto.

--E il modo vostro è cattivo, se mai, per ottenere qualche
cosa;--ribattè la marchesa.--Credete voi che fugga Giovanna stasera, e
sia qui domani da capo il re d'Aragona? Ah, per buona sorte, e per
rimettervi il fiato in corpo,--soggiunse ella, ridendo,--eccolo qua un
re, signor prevosto, e migliore di quello che volevate servire. Animo!
carta, penna e calamaio, se non volete che il re e la regina vadano via,
senza lasciarvi due righe di biglietto.--

Il marchese di Lucena aveva fatte le cose per bene. Filippo,
accompagnato dal buon duca d'Ossuna, era giunto allora nel chiostro, e
stava a colloquio colla regina. Egli ebbe notizia di ciò che Giovanna
aveva fatto, e stava rivolgendo qualche frase benevola al prigioniero
liberato, quando la marchesa di Moya si avanzò per dargli spiegazioni
più minute.

--Bene! egregiamente!--disse Filippo, a cui poco bastava, e che lì per
lì si sarebbe anche contentato di niente.--Facciamo dunque un po' di
giustizia? Mi par d'andare a nozze una seconda volta. Ma sì!--aggiunse
lesto, vedendo oscurarsi la fronte di Giovanna.--Con la giustizia, oggi,
come già ci andai con la grazia.--

Il prevosto aveva fatto portare uno scrittoio, con la carta, il
calamaio e la penna. Gli fu steso l'ordine di scarcerazione, e Filippo
si avvicinò allo scrittoio per apporre la firma: _Yo el Rey_.

--È la prima che faccio, in Valladolid; ed ora, mia cara Giovanna, a
voi.--

Giovanna sussultò a quel dolcissimo aggiunto; e tutto il suo essere
palpitava, radiava incontro a quell'uomo biondo e bello come un giovane
iddio. Guardando a mala pena la carta, e subito levando gli occhi verso
Filippo, scrisse accanto alla firma di lui: _Yo la Reyna_.

--Basta così, per voi?--chiese la marchesa di Moya al prevosto.

--Sì, signora marchesa;--rispose egli, chinando il capo più in giù delle
spalle.

--Ma ancora non basta a me;--ripigliò la signora.--Questo scrittoio può
servire a qualche altro po' di giustizia, se Sua Altezza permette.
Ossuna, volete voi scrivere un salvacondotto per don Bartolomeo Fiesco,
conte di Lavagna, per la contessa sua moglie, e per ogni altra persona
che fosse con lui in terra di Castiglia e Leon, che nessuno li possa mai
molestare nè imprigionare?

--Il re e la regina permettono;--disse il buon duca di Ossuna, vedendo
sorridere i sovrani e far segno di assenso.--Dettate voi, marchesa, che
sapete i nomi e i titoli, e il bisogno del conte.--

La marchesa dettò; Filippo e Giovanna firmarono ancora, l'uno di costa
all'altro, e il duca d'Ossuna v'aggiunse il suo nome, entrando così in
carica di segretario.

--Due buone azioni, e fatte insieme;--disse la regina.--Sono contenta,
Filippo.--

Ma Filippo s'era messo e dire troppe garbatezze al mozzo Bonito, e già
pareva non avesse più occhi se non per lui. Onde la regina strinse il
braccio di Bovadilla, su cui s'era appoggiata per scender la scala; e
stringendo il braccio, le disse all'orecchio:

--Odio il mozzo Bonito. È troppo bello; portalo via.

--Lo manderò, piuttosto; perchè vedo là in fondo allo scalone il conte
di Lavagna, che sarà più felice di accompagnarlo. Se pure,--aggiunse la
marchesa,--Vostra Altezza non vuol liberarsi di me.

--No, no, rimani; son pazza;--mormorò Giovanna, stringendosi a lei.--Son
pazza! son pazza!--seguitava sommessamente.--Lo ha detto anche mio
padre.

--Pazza d'amore;--le sussurrò Beatrice di Bovadilla all'orecchio.--Ed è
bello, in una donna, esser pazza così.

--Anche tu, non è vero, Bovadilla? Accompagnami a palazzo; non son
gelosa di te. Ma oggi, piuttosto, per avere il tuo premio, o per darlo
altrui con la tua dolce presenza, andrai dagli amici tuoi che
t'aspetteranno, e dirai a don Cristoval che Giovanna di Castiglia farà
giustizia anche a lui. Come è bello far giustizia! Piace anche a
Filippo; ed è più bello ancora scrivere il proprio nome accanto al suo.
Inseparabili! inseparabili nella vita! Ma bisognerebbe anche esser tali
nella morte; non credi?--




CAPITOLO XVII.

Sposi novelli.


Dicono che l'uomo non intenda pienamente il suo bene, se non quando gli
sia accaduto di perderlo, e che non sia maggior dolore del ricordarsene
senza speranza, nè maggiore felicità del ricuperarlo dopo tanto
sconforto. Ma il capitano Fiesco, per intendere il suo, non aveva
mestieri di vederselo rapire a quel modo. Il doloroso esperimento, se
mai, lo aveva già fatto una volta a San Domingo; e in verità non c'era
bisogno d'insegnargli più nulla con un nuovo pericolo. E il pericolo era
stato assai grave, ad onta delle speranze che gli faceva balenare
davanti agli occhi il ministro Ximenes. Come sperare che Gian Aloise si
mettesse per il suo disgraziato parente in una lunga peregrinazione e in
uno spinoso negozio, se quel suo parente gli aveva poco prima ricusato
di muoversi per lui a più breve viaggio e a più facile impresa? E se
pure Gian Aloise si fosse lasciato persuadere per amor di Juana, da lui
tenuta al fonte battesimale, da lui accompagnata all'ara nuziale, era da
credere che sarebbe egualmente venuto a capo di una trattazione, che
doveva essere tanto più malagevole, quanto più pareva premere al re
Ferdinando? Se i negoziati fallivano a Parigi, addio speranze di
Valladolid. E il capitano Fiesco si sarebbe ucciso, non potendo
sopravvivere a Fior d'oro, irremissibilmente perduta. Triste chiusa al
poema! Ed era questo il suo pensiero dominante, l'unico che lo tenesse
in vita.

Un raggio di speranza lo aveva portato con sè la marchesa di Moya. Si
era sentito rinascere all'annunzio che i nuovi sovrani di Castiglia
sarebbero giunti a Laredo, togliendo al perfido Aragonese
l'amministrazione del regno. Ma anche un animoso tentativo della
generosa Beatrice di Bovadilla era andato a vuoto. Il prevosto delle
carceri, pregato, minacciato da lei, aveva resistito a preghiere, a
minacce; e donna Beatrice era partita per Burgos, promettendo molto al
povero conte, animandolo a sperare da capo, ma neanche lei ben certa di
promettere utilmente, di dargli speranze efficaci. E i giorni passavano,
ed erano giorni d'angoscia terribile. Ferdinando era andato a Burgos,
incontro ai nuovi sovrani. Accorto com'era, non avrebbe acquistato
sovr'essi un ascendente che già gli poteva assicurare la sua condizione
di padre? Ma no; i giovani sovrani avevano lasciato Burgos, per scendere
a Valladolid. Quel padre astuto non aveva vinto ancora. Per contro,
venuta a Valladolid con la regina Giovanna, la marchesa di Moya non si
era lasciata vedere in casa dell'Almirante. Che voleva dir ciò? Una cosa
sola: che la dama di palazzo non aveva potuto, nei primi momenti
dell'arrivo in Valladolid, allontanarsi dal fianco della regina; che se
avesse potuto farlo, non lo avrebbe neanche voluto, amando meglio
restar là, a vigilare, a spiar le occasioni, a cogliere il buon momento
per tentare un gran colpo. La marchesa di Moya non era donna da
dimenticare gli amici, nè da lasciarli in angustie.

Che gioia, quando il marchese di Lucena, comparso improvvisamente nella
casa di Gil García, ebbe detto al Fiesco: "signor conte, andate subito
alle carceri del palazzo di giustizia; la marchesa di Moya vi aspetta
colà!" E che bella giornata era quella! com'era sereno il cielo!
com'erano liete le strade, per cui egli passava, non andando, non
correndo, volando!

C'era folla, sulla piazzetta delle carceri, e gli arcieri stentavano a
contenerla. Gli si fece largo, nondimeno: era un gentiluomo, doveva
appartenere al séguito dei sovrani di Castiglia, che erano andati là
dentro, per compiere un atto di grazia, di giustizia, di clemenza
regale. Sì, c'era un po' di tutto questo, nell'atto, e non bisognava
perdere il tempo ad almanaccarci su. Il capitano Fiesco sentiva le
benedizioni, e il cuore gli si allargava in petto, mentre la persona si
faceva sottile ed elastica, per scivolare in mezzo alla calca.

Entrò nel portico del chiostro, mentre la comitiva regale scendeva lo
scalone. Si trasse indietro per darle il passo, e il cuore gli balzò in
petto più forte, poichè vide in quella comitiva il mozzo Bonito. Anche
il mozzo Bonito avea visto lui, e rizzando la sua bella testina in mezzo
a quel barbaglio d'oro e di seta che scendeva con lui dagli ultimi
scalini, si era recato la mano alle labbra; col sommo delle dita gli
gittava il suo bacio, con un lampo degli occhi gl'illuminava quel
bacio.

Dalla marchesa di Moya fu presentato alla regina; fece un profondo
inchino, balbettò poche frasi rotte dalla confusione del momento; ma in
quella confusione gli venne bene di poter salutare in lei "l'angelo di
Castiglia." Angelo per la bontà, si capisce; ma gli angeli sono anche
belli. E il complimento, fiorito così naturalmente sulle labbra del
cavaliere, doveva tornar sommamente gradito al cuore della regina.

--Signor conte di Lavagna,--diss'ella amabilmente,--noi vi rendiamo un
tesoro. Andate, e custoditelo, per vostra fortuna e sua. Se mai vi
accada di abbisognare del nostro appoggio, contate su noi, che saremo
sempre felici di rivedervi.--

Ciò detto, e baciato sulle guance il bel mozzo Bonito, congedò
graziosamente gli sposi, che rimasero lì, contro il muro, per lasciarla
passare. Ma ella volle che passasse prima Filippo; indi, tra gli
applausi e le acclamazioni della folla, entrò nella sua lettiga, che
tosto si mosse, per ricondurla al palazzo reale.

La marchesa di Moya aveva trovato il tempo di consegnare un foglio al
conte Fiesco.

--Eccovi un salvacondotto, che abbiamo potuto aggiungere ad un biglietto
di scarcerazione;--diss'ella.--Dov'è il più, non conta il meno: pure,
sarà sempre bene tenerlo. Andate; ci rivedremo dall'Almirante,
stasera.--

La folla si assiepava intorno ai sovrani, non badava più ad altro, e
lasciava libero il passo rasente al muro dell'edifizio. Il capitano
Fiesco, preso il mozzo Bonito sotto il patrocinio d'un braccio amoroso,
scivolò destramente da quel vano in una viuzza laterale.

Andavano, andavano muti e palpitanti d'allegrezza profonda; andavano
senza saper dove, felici di andare e d'essere insieme. Quante cose
avevano a dirsi! ma tutte inutili, davanti alla gioia di trovarsi
ricongiunti, ricuperati l'un l'altro, come rinati insieme ad un medesimo
soffio di vita. Le strade tortuose, lunghe, malinconiche, erano sentieri
di paradiso per essi; e lembi di cielo azzurro non ridevano dall'alto,
tra le grondaie dei tetti? La gente guardava un po' troppo i due
viandanti felici; ed essi, per quanto andassero spensierati, non
potevano sempre esser tanto distratti, da non vedere quegli sguardi
curiosi. Gente indiscreta! E non si dava mica pensiero delle coppie di
colombi, che svolazzavano di continuo da una casa all'altra, venendo a
grugare, a bezzicarsi sulle sponde dei cornicioni, sui davanzali delle
finestre, sugli sporti dei tetti! Perchè pigliarsi cura di due felici
mortali, che se ne andavano allegramente pei fatti loro, non dando noia
a nessuno? Adagio, a non dar noia! L'uomo felice ne dà sempre un pochino
al suo prossimo. E i nostri felici non istettero molto a capirlo, perchè
bel bello, senza dirselo, un po' vergognosi, ma anche un po' sorridendo,
si spiccarono l'uno dall'altro, muovendo il passo più svelto, e girando
con tacito consenso verso le vie più deserte, finchè riuscirono sulla
spianata delle mura di Valladolid. Ah, benedetto il cielo, che per
intanto si vedeva più largo! e con molta campagna davanti agli occhi, e
senza curiosi indiscreti dattorno, con un po' di giardini lungo la
strada solitaria, e qualche modesta casetta qua e là. Bel luogo
campestre, tanto più bello quanto era più lontana l'ora dei vespri
rumorosi del popolino! E come invitava bene un'insegna di _posada_, su
cui era scritto in grosse lettere: _a la Gaita Zamorana!_

--Dovrebb'essere una piva, la gaita;--notò il capitano Fiesco.--A casa
nostra, quando va a male un'impresa, si dice che l'uomo ritorna con le
pive nel sacco. Mi par di vedere il re Ferdinando, e il suo ministro
Ximenes. E non ti pare un'insegna di buon augurio, Fior d'oro? Non hai
sete? non hai fame?

--Un po' di verde e un po' di pace!--esclamò Fior d'oro, traendo un
lungo sospiro.

--Questo prima di tutto;--riprese il capitano Fiesco.--Ma io ritorno
anche al desiderio di vivere. E sarà, se tu vuoi, il primo boccone che
dopo tanti giorni d'angoscia non m'andrà di traverso.--

Fior d'oro si strinse amorosamente al fianco del suo cavaliere. E tutt'e
due entrarono nella _posada_ della Gaita Zamorana. Due minuti dopo erano
nel giardino attiguo, seduti sotto un pergolato di vigna, che
incominciava a vestirsi di pampini.

Qui, mentre l'ostessa andava e veniva col meglio della sua cucina,
scusandosi di non poter fare di più a cagione dell'ora bruciata, i suoi
due forestieri si scambiavano le prime parole un poco ordinate, i primi
pensieri un po' riposati, riandando i giorni dolorosi della loro
separazione.

--Che orrore, Fior d'oro! E che angoscia, la mia, pensando a quello che
tu dovevi soffrire! Come avrai pianto, mia povera bella!

--No, sai? Per te, mi sono afflitta; per me, non ho versato neanche una
lagrima. Ero tranquilla. Come ciò fosse non so; ma dopo il primo momento
di sdegno per la infamia del re Ferdinando, una gran pace si era fatta
nell'animo mio, per effetto di una profonda sicurezza. Ti sentivo
presente, Damiano, ti sentivo molto vicino a me, ed ero tranquilla.
Vedevo tutti i tuoi passi, udivo quasi le tue parole. Tu hai parlato
anche al re.

--Come lo sai?

--Ti ho veduto, ti ho seguito con gli occhi del cuore. Non ho bene
inteso tutto; ma tu parlavi alto, come sai, come ti consigliava l'amor
tuo per Fior d'oro. Anch'io col Ximenes....

--Ah, sì, egli è venuto infatti da te;--interruppe il capitano.

--Col miele sulle labbra, e non dicendomi il vero;--riprese Fior
d'oro.--Mi avevano arrestata, perchè in ispoglie virili; che pretesti
infantili! Lo avevo ben inteso io, che il mio delitto era più grave;
d'essere Anacoana, la regina di Xaragua, e d'essere fuggita al loro
capestro. Come l'hanno scoperto? o come l'hanno sospettato? Ma io, non
dubitare, ho accolto per buono il loro pretesto, che mi toglieva dalla
dolorosa alternativa di mentire davanti ad anima nata, o di nuocere a te
con la mia sincerità.

--Dio!--esclamò il Fiesco, atterrito al solo pensarci.--E come avresti
potuto tener fermo alle loro minacce?

--Avrei mentito a mezzo, tacendo. Conosci i figli d'Itiba, o Damiano,
come siano saldi ai tormenti. Il cielo non ha consentito loro altra
difesa che questa! Ma per me non fu necessario, e la mia povera persona
non sarà tanto orgogliosa da ricusare la sua gratitudine alla giustizia
del re. Avevo anche indovinato dalle parole del Ximenes che qualche cosa
mancava ai miei carcerieri, e che quella cosa si voleva da te, o dal
signor Almirante.

--Da me, da me;--rispose il capitano.--Io dovevo ottenere da Gian Aloise
che andasse in Francia, per un trattato d'alleanza, onde fosse a
Giovanna e a Filippo impedito di regnare in Castiglia.

--E per questo partivi, come annunziava il Ximenes?

--Sì, per salvarti. Anche il signor Almirante mi esortava a far ciò, per
quanto danno gliene potesse venire. Scusami, Fior d'oro, ma io, per
eccesso d'amore, son meno forte di te. Accetterei tutti i tormenti; non
saprei rassegnarmi al rischio di perderti. Ah, gran fortuna, o
provvidenza del cielo, l'arrivo della marchesa di Moya! E l'arrivo
inatteso di Giovanna! e gli eventi precipitati, con tutto quello che tu
hai veduto stamane!

--Beatrice di Bovadilla è una donna incomparabile;--disse Fior
d'oro.--Che forza sugli uomini e sulle cose avrebbe avuta il Giocomina,
con quella donna al fianco! Una donna,--soggiunse Fior d'oro, con un
sorrisetto malizioso,--è spesso un impiccio, pei cavalieri in viaggio;
ma è pure un grande aiuto, se ha cuore ed ingegno; non credi?

--Se lo credo! Ma mi fai pensare agli impicci, adorata creatura. Mi fai
pensare che bisognerà rinunziare a quello dei tuoi abiti maschili. Buoni
laggiù, sulla costa di Maima, e sulla coperta d'un naviglio, con la
giunta della pece e della fuliggine che vi faceva parere un diavoletto
nero; non potevano andar più in Europa, tra gente più o meno civile,
dove bisogna levarsi le croste d'attorno, e mettere in mostra la più
bella faccia del mondo nuovo e del vecchio. E vedi, cara, come anche
l'ostessa, quando ti viene davanti, non sa più spiccar gli occhi da te.

--Ma sì, ho ben veduto; e m'annoia. Dio sa che cosa s'immagina; che voi,
per esempio, bel conte, abbiate piantata laggiù sull'Entella una povera
castellana a struggersi in pianti e sospiri, per venire qua a rubar
cuori in Castiglia, e portarveli attorno travestiti da scolaretti.

--Ella non vorrà far questa offesa alla contessa Juana del Fiesco, che,
se Dio vuole, non è a pianger laggiù;--rispose il capitano, mettendosi
volentieri sul medesimo tono.--Venite qua, padrona;--soggiunse,
volgendosi all'ostessa, che non era lontana;--vi piace il mozzo Bonito,
come gli fa comodo di chiamarsi in viaggio?

--Se mi piace?--esclamò la donna sincera, giungendo le palme ed
accostandole al viso.--Per sant'Jago di Compostella, lo mangerei dai
baci.

--Alla larga, dunque, e paghiamo lo scotto;--disse il capitano, ridendo
di cuore.--Perchè, vedete, padrona? com'è vero che il mozzo Bonito è mia
moglie, e si chiama la contessa di Lavagna, voi potreste essere sotto
spoglie femminili un bel garzone invaghito di lei, e si dovrebbe far qui
alle coltellate.--

L'ostessa della Gaita Zamorana parve molto felice della confidenza che
quel gran signore si compiaceva di farle. Perchè aveva capito benissimo
di servire un gran signore, che non dissimulava punto il suo essere, e
una bella donna sotto mentite spoglie. Quella bella donna era per giunta
una gran dama? Tanto meglio, quantunque a lei non glien'entrasse niente
in tasca: è poi sempre piacevole di aver da fare con persone di conto;
con dame, anzi che con pedine.

--Signor conte,--rispose l'ostessa, inchinandosi;--l'avevo ben capito
io, che era una donna. Se la signora mi permetterà, le bacerò la mano,
che è bella come il viso.

--Ma, niente divorare, mi raccomando;--gridò il capitano.

--E scusino, le Vostre Eccellenze;--ripigliò l'ostessa, animata:--siete
sposi novelli?

--O giù di lì; ma fate conto che ci serbiamo tali per tutta la vita. Due
creature che si amano, sono sempre nel dì delle nozze.

--Cavaliero,--esclamò l'ostessa,--voi parlate come un angelo.

--E non vorrete mica divorarlo dai baci anche lui!--scappò detto a Fior
d'oro.

--Eh, signora contessa, che dirvi?--rispose l'ostessa.--Si esprime in un
certo modo, che tutte le donne dovrebbero volergli un gran bene.

--Ma non dirglielo;--replicò Fior d'oro.--Venite qua, baciate me, e
facciamo la pace.

--Con che gusto, signora!--

Così dicendo, l'ostessa della Gaita Zamorana saltò al collo del mozzo
Bonito, e gli stampò due bacioni, uno per guancia. Avrebbe
ricominciato, se non fosse stata fermata da una osservazione del
cavaliere.

--Ponete mente, padrona;--diceva egli;--avete baciate due guance, su cui
oggi appunto si sono posate le labbra della vostra regina.

--Signore Iddio! è vero questo?

--Come è vero che qui c'è un castigliano per lo scotto.

--Vi rifaccio il resto, signor conte.

--No, cara; anzi, eccone qui un altro, per fargli compagnia. I
castigliani si annoiano, da soli. Quanto a noi, abbiamo passate due
belle ore in pace nel vostro giardino; e valgono certamente di più.

--Tornateci, allora.

--Se si potrà: ma temo di no.

--E allora, siate benedetti da Dio; e vi accompagnino tutti i santi del
cielo.--

La povera ostessa non capiva più nella pelle. Li accompagnò fino
sull'uscio della posada, e aveva le lagrime agli occhi, nel vederli
partire.

--Signore! Signore!--balbettava, seguendoli degli occhi, finchè non
disparvero dietro una svolta della strada solitaria.--Tanta fortuna,
alla Gaita Zamorana! chi l'avrebbe mai detto? Una al giorno, di queste
coppie benedette, e in capo a un anno ci ho da comprarmi un poderuccio a
Zamora.--

Il poderuccio! il sogno di tutti coloro che non l'hanno. Sarebbero poi
più felici, quando l'avessero? Felici, no; ma certamente meglio
provveduti, e più tranquilli, per aspettare il gran giorno che tutte le
noie finiscano.

--Ma sai, amico mio, che sei matto!--disse Fior d'oro al marito, mentre
camminava al suo fianco.--Butti via i castigliani, come se fossero
maravedis.

--Ah, lasciami fare, lasciami sfogare!--rispose egli;--Son tanto felice!
Questa giornata vale tutto l'oro di Veragua. Ed io, non potendo di più,
ci butterei tutto un viaggio del _Paradiso_, che ho portato saviamente
con me, scambio di collocarlo in San Giorgio. Ma anche tu, cara, butti
via i baci, come se fossero bucce di limoni. Baci alle regine, baci alle
dame di palazzo, baci alle ostesse; io solo, poveraccio, resterò a bocca
asciutta.--

Fior d'oro s'accostò a lui, guardandolo in viso.

--Qui, vuoi?--gli disse.

--No, per carità!--esclamò egli.--Siamo nell'abitato, e a Valladolid,
che è città dentro terra. Se fossimo in un porto di mare, potrebbe
correr liscia, la cosa; si crederebbe che accompagnassi a bordo un
ragazzo discolo, e non mi potessi trattenere da una ripresa di tenerezza
paterna.--

Così folleggiavano, come due scolaretti in festa. E muovendo per le vie
nella direzione del Campo Grande, che era il loro punto d'orientamento
per ritrovar la via di casa, andavano col naso in aria, guardando le
insegne. Cercavano una _sastreria_, una bottega di _costurera_, o
qualche cosa di simile, da pigliar lingua, almeno, e trovare il fatto
loro. Nelle vicinanze del Campo Grande s'imbatterono invece nel frate
scudiero; proprio la mano di Dio.

Frate Alessandro, quel giorno più scudiero che mai (del resto, in quel
viaggio di Spagna non aveva indossata la tonaca se non una volta, a
Granata), fece festa al suo capitano, e più ancora alla contessa Juana.
Sapeva già della liberazione di lei, essendo andato a girandolare
intorno al palazzo di giustizia, e avendo avuto dalla gente del vicinato
una descrizione del piccolo marinaio, bello come un angelo, levato di là
dentro dalla regina Giovanna. Ma a casa non erano tornati; ed egli
andava aliando di qua e di là, sperando sempre d'incontrarli.

--M'hai detto d'essere stato altre volte a Valladolid;--gli disse il
capitano Fiesco.--Mi troverai dunque una bottega da sarta. La contessa
non deve più oltre vestire da mozzo; un travestimento che non inganna
nessuno, ed ha il guaio di attirar troppo l'attenzione della gente.

--Niente sarta da donna;--rispose il frate scudiero.--Ho il fatto
vostro, se il vecchio Abner non è ancora andato a ricoverarsi nel seno
di Abramo.

--Un rigattiere?

--Che! un drappiere, un banchiere, tutto quel che vorrete. Nella casa di
Abner c'è un po' di tutto; perfino un lembo della casacca di Saul.

--Della quale non saprei proprio che farmi;--disse il capitano Fiesco.

--Eh, dico così per farvi intendere che in casa di Abner non manca la
stoffa.

--E tagliata ad abito di donna?

--Anche tagliata ad abito di donna, e debitamente cucita.

--Dunque un rigattiere?

--Ma che rigattiere, se mai! Venite, la piazza del Mercadero è qui
presso.--

Seguirono il frate scudiero, per due traverse di strada, e sboccarono
nella piazza ch'egli diceva, tutta fiancheggiata di portici. Entrarono
dietro a lui in un androne, che mandava odor di pannine il che non era
da rigattieri, e conciliò l'animo del capitano con Abner, e perfino con
la casacca di Saul.

Giunto in fondo all'androne, il frate scudiero levò la faccia in alto,
verso una scala, e gridò:

--È qui il degno amico mio Abner Ben Meir Aben Ezra?

--Chi mi chiama amico?--rispose una voce nasale.--Son qua. Datevi la
briga di salire; non più di venti scalini.

--Ma alti come i piuoli della scala di Giacobbe;--disse sotto voce il
frate scudiero.--Madonna, vi faccio strada.

--Sei forte d'ebraico;--notò il capitano.

--Eh, si fa quel che si può;--rispose umilmente quell'altro.--Del resto,
qui non ci sono difficoltà. Abner, figlio di Meir, nipote di Esdra;
tutti nomi di brave persone dell'antico Testamento. Abner, da non
confondere col generale di Saul, discende, a sentirlo, da un gran
rabbino di Toledo, che fiorì nel dodicesimo secolo. È dunque carico di
gloria; ma più ancora di roba. E se vive, e gli è cresciuta debitamente
una bella bambina, che egli aveva dieci anni fa, vedrete che bocciuolo
di rosa.

--E san Francesco permette di badare a queste cose?--disse il capitano,
battendo della mano sulla spalla al frate scudiero.--E di bazzicare col
leone di Giuda?

--Il glorioso san Francesco non dubitava di andar dai lebbrosi;--notò il
frate scudiero.--E vedere, e giudicare quel che si vede, non ha egli
proibito a nessuno. Aggiungete che il vecchio Abner fu sempre un grande
amico dei Francescani, a cui fece sempre elemosina.

--Di bene in meglio;--conchiuse il capitano.--Andiamo a vedere questa
fenice d'Israele.--

Il vecchio Abner non riconobbe alle prime l'amico, che con tal nome lo
aveva apostrofato dal fondo della scala, e frate Alessandro fu costretto
a rinfrescargli la memoria. Del resto, il frate conduceva un buon
avventore, di cui gli recitava nome, cognome, titoli, patria, e vita e
miracoli; tutta roba da farlo diventare morbido e pieghevole come una
pelle di guanto.

Per quel nobilissimo avventore, il vecchio Abner Ben Meir Aben Ezra ci
aveva di tutto, e dell'altro ancora, com'egli si compiaceva di dire. Le
sue stanze erano piene di banchi, e di scaffali, che andavano fino ai
cornicioni delle vôlte Apriva cassetti, apriva forzieri, scopriva e
metteva in mostra ogni ben di Dio; stoffe in pezza, d'ogni tessuto e
d'ogni colore, damaschi e damaschetti, broccati e broccatelli, pannolani
e pannolini, scarlatti, ferrandine, zendadi, camellotti, e via
discorrendo. Ma il conte Fiesco voleva un abito da donna già fatto, che
s'attagliasse alla sua signora, non avendo tempo da perdere. E il
vecchio Abner lo fece passare in un altro stanzone, tutto forzieri,
casse intagliate e ferrate, stipi, scrigni e bacheche. Era quello il
_sancta sanctorum_ del suo tabernacolo, dove, insieme con ori e gioie
d'ogni specie, dormivano nello spigo nardo e nella polvere di giaggiólo
intieri corredi da sposa, da gran dame, da maritate e da vedove.
Parecchie di quelle vesti erano già state indossate, ed Abner sapeva la
storia di tutte. Sciorinò per esempio sotto gli occhi del conte Fiesco
una veste di broccato d'oro, nuova fiammante, che pur risaliva a
quarant'anni addietro, o poco meno, e l'aveva indossata appena una volta
la duchessa di Truxillo, alle nozze d'Isabella di Castiglia.
Quell'altra, nera, di velluto a opera, era stata portata dalla contessa
di Fuentes, dama d'onore di Giovanna di Portogallo, moglie ad Enrico IV
di Castiglia, ed era stata ammirata per severa eleganza come abito da
viaggio, nell'anno 1463, quando la sfarzosa corte di Castiglia era
andata ad incontrare il misero cortéo del gretto e trasandato Luigi XI
di Francia sulle rive della Bidassóa. Queste e tante altre ricchezze di
vestiario, come si trovavano là dentro a dormire? In tempi più tardi si
sarebbe potuto ascrivere il fatto ai capricci della moda, e alla noia
che dovevano sentire le dame per un abito di gala portato due volte. Ma
allora? Ahimè, grandezze umane, assai più mutevoli dei capricci della
moda! Non pure le fortune dei gran signori, ma quelle istesse dei re, in
una età di rivolgimenti continui, andavano spesso a soqquadro; per ogni
guerra da intraprendere, per ogni pericolo da scongiurare, si metteva in
pegno il vasellame, le gioie, le vesti sfarzose, ogni cosa di prezzo. E
non sempre, salvati o perduti i dominii, si riscattavano le cose
impegnate.

Gli occhi del mozzo Bonito (chiamiamolo ancora una volta così) furono
attratti da una gran veste di rascia fine, che tosto diventò nella
parlantina di Abner il capo più elegante del suo magazzino. E bisognava
notare che quella veste non era stata indossata mai; era nuova di
trinca. La dama che l'aveva ordinata non era più venuta a ritirarla.
Quella lì, con un mantello nero, di seta o di ferrandina, doveva andare
a pennello, formare un vestimento senza rivali, severo e ricco ad un
tempo.

--Severo sì, ricco no;--disse il frate scudiero.--E poi, sarà vero che
la veste sia nuova, non portata mai?

--Oh, per la barba....

--Di' pure, per la barba di Aronne....

--Ma sì, vi assicuro, frate Alessandro. Vedete la fodera, che è candida
come la neve, ed intatta. Guardate l'orlo della balza!... Se non è nuova
fiammante, e non mai escita dalla casa di Abner, possa io non veder più
la mia figliuola Noemi!

--Ah, la piccola Noemi! Si sarà fatta grande, e bella come un occhio di
sole.

--È tutta sua madre;--mormorò Abner, con un sospiro di reminiscenza.

--Meno male!--esclamò il frate scudiero.--Povera a lei, se somigliava al
babbo!

--Frate Alessandro! frate Alessandro! Voi avete sempre voglia di
scherzare.--

Mentre i due amici, l'uno del vecchio e l'altro del nuovo Testamento, si
bisticciavano così allegramente, Juana fermò la sua scelta sulla veste
di rascia. Per la statura le andava, ed anche doveva andarle per il
taglio. In quel tempo il taglio delle vesti non offriva le dotte
complicazioni, e non richiedeva i più dotti cincischiamenti dei secoli
più tardi. Ancora non si assassinavano impunemente a colpi di forbice
teli di drappo finissimo, che costava un occhio del capo.

--Ma ci vorrà biancheria;--disse il frate scudiero.--La signora
contessa, venuta in abito da marinaio per la poca sicurezza delle nostre
strade, non ha portato biancheria da donna.

--C'è tutto, qui, e dell'altro ancora;--rispose Abner colla sua vanteria
di bottegaio.--Noemi! Noemi!--

Una bella fanciulla sui vent'anni apparve dal vano di un uscio; bianco
dorata la carnagione, i capegli neri e ricciuti, gli occhi grandi,
profondi ed accesi della sua schiatta.

Noemi aiutò il babbo a sciorinar biancheria, aprendo a sua volta
forzieri e ceste. Juana scelse tutto ciò che poteva convenirle. E già il
vecchio Abner preparava un canestro lungo, in cui collocare ogni cosa.

--Ma, veramente, non si vorrebbe portare a casa tutta questa
roba;--disse il frate scudiero.--Non ci sarebbe modo d'indossarla qui?

--Ma sì, ma sì, caro amico, si può tutto, e dell'altro ancora;--rispose
il vecchio Abner.--Noemi, conduci la signora contessa nella tua camera.
Dico la signora contessa; e non ti stupire, se hai davanti agli occhi il
più bel mozzo che mai si sia visto in Ispagna.--

Mentre le donne uscivano dalla stanza, per salire al piano superiore, il
conte Fiesco mise mano alla borsa. Il vecchio Abner capì che poteva
calcare sui prezzi. Non si mandava la moglie a vestirsi di tutta quella
roba, se si aveva intenzione di lesinare sui prezzi, col risico di
rimandarla a spogliarsi, per la differenza di pochi castigliani. Fece i
suoi conti con molta diligenza, tirò la somma, e mise il foglio sotto
gli occhi dell'avventore. Ma anche il frate scudiero ci volle dare la
sua sbirciatina.

--Cinquanta castigliani!--gridò.--Ah furfante! Meriteresti d'esser
trattato come quei due tuoi antecessori in Israele furono trattati dal
Cid Campeador, che Dio l'abbia in gloria. Vuoi che te la canti io, la
romanza?

--Lo so, frate Alessandro, non vi scomodate per così poco;--rispose il
vecchio Abner, senza scomporsi.--Ed anche voi non riconoscete che quella
non fu la più bella impresa del vostro eroe? Quanto a me, giuro che ho
fatti i prezzi più onesti. Nessuno si è mai lagnato di me. E il signor
conte, che conosce il prezzo delle cose, giudicherà da pari suo.

--Giudicherò....--disse il capitano Fiesco, pacatamente.--Giudicherò
quando la contessa ci sarà venuta davanti nelle nuove spoglie. Se starà
bene così rimpannucciata, non leverò un maravedis.

--Mio signore!...--gridò il vecchio Abner, sgranando gli occhi.--Oh mio
signore! Voi siete magnifico, da vero Italiano, da vero Genovese. Io son
sicuro di avere i miei cinquanta castigliani. Così ne avessi chiesti
sessanta, frate Alessandro, che mi fate gli occhiacci! La signora
contessa parrà una regina, se anche avesse indossato una veste di saia.
Con quella persona! con quella faccia! Rachele e la Sulamite ci
scapiterebbero al paragone.

--O Abner, sapientissimo vecchio!--disse il Fiesco, ridendo.--Prega Dio
che non ti sentano Giacobbe e Salomone. Quanto a me, tu hai la mia
amicizia. E l'abbia in te la tua schiatta. Siete infine il popolo re.

--Fummo, signor mio, fummo;--rispose il vecchio Abner, abbassando la
fronte.

--A buon conto, avete la storia più antica del mondo. La tua nobiltà,
Ben Meir e.... il resto che non ricordo, va due mill'anni almeno più su
della mia. Che siamo noi, conti e marchesi, al vostro paragone, o
liberati d'Egitto? In Ispagna si fa molto, quando si rimonta agli ultimi
dei Goti; più su sta monna Luna. In Italia si fa molto, quando si
rimonta agli ultimi dei Longobardi, o ai primi dei Franchi; stirpe di
soldatacci, di scorridori, di tagliacantoni, che Iddio ne scampi ogni
fedel cristiano. Voi altri venite giù netti, diritti come spade, da
Abramo. La vecchia religione con le sue benedizioni vi aveva tenuti
fuori d'ogni contatto; la nuova, con le sue maledizioni, vi ha
preservati da ogni miscela. Capisco, c'è l'odio, che qualche volta
annoia. Ma gli odiatori prendono volentieri il vostro denaro ad
imprestito. E voi arricchite. Un giorno o l'altro, io lo prevedo, sarete
i padroni del mondo. Il nuovo Israele corre alla religione del vitello
d'oro; e voi dal Sinai detterete la legge.

--Possa tu dire il vero!--mormorò il vecchio Abner, mentre sotto le
ispide sopracciglia gli brillavano gli occhi d'insolita luce.--E vorrei
che lo conosceste, il Sinai;--soggiunse ad alta voce, facendo bocca da
ridere.--Ci ho di là ancora qualche bottiglia d'un vino, che ridarebbe
la vita ai morti; ed è stato spremuto sulla montagna sacra.

--No, grazie, vecchio Abner; non ho voglia di bere.

--Ma l'ho io, Ben Meir Aben Ezra;--disse il frate scudiero.--Sia questo
almeno per la mancia, a chi t'ha condotto un così generoso avventore.

--Che è pronto a darti i cinquanta castigliani;--aggiunse il Fiesco,
rimettendo mano alla borsa.--Dio santo! li hai ben guadagnati.--

La contessa Juana era apparsa sulla soglia, splendente di bellezza e di
grazia, nella sua lunga veste di rascia finissima, e involta la testa e
le spalle nelle morbide pieghe del suo manto di ferrandina. Entrò
ridente, la bella, e con un rapido moto della snella persona venne a
gittarsi nelle braccia dell'amante marito.

--Damiano!--gli bisbigliò tra due baci, che non la regina Giovanna, non
la marchesa di Moya, nè l'ostessa della Gaita Zamorana ne avevano
sentiti i più ardenti.

Abner Ben Meir, e tutto il resto, aveva finito di contare i suoi
cinquanta castigliani, e si voltava a guardare, dopo aver sentite quelle
vivaci dimostrazioni d'affetto.

--Sposi novelli, capisco;--diss'egli, ammiccando.

--Ecco la seconda volta che ce lo sentiamo dire in un giorno;--esclamò
il capitano Fiesco.--E l'abbiamo per una benedizione in tutte le forme,
del nuovo Testamento e del vecchio.--

Ad un cenno del padre, la buona Noemi era andata a prendere quella tal
bottiglia di vino del Sinai. Panciuta, per non distaccarsi ancora dal
tipo dell'anfora antica, polverosa e non senza avanzi di ragnateli, la
sacra bottiglia portava il suggello della sua autenticità in una
piastra di ceralacca, segnata dall'impronta d'un convento di frati.

--Alla gloria di santa Caterina dell'Oreb!--disse il frate scudiero,
quando ebbe pieno il suo calice.--Ed alla felicità degli sposi
novelli!--

I quali, indi a pochi minuti, salutato Abner Ben Meir Aben Ezra e la sua
bella figliuola Noemi, uscivano finalmente di là, l'uno, o l'una, al
braccio dell'altro. Il frate scudiero, per non perder l'usanza dei
fardelli, aveva fatto un involto degli abiti del mozzo Bonito, e se li
portava sotto il braccio, come tante altre volte la sua tonaca
francescana.




CAPITOLO XVIII.

In manus tuas, Domine....


La liberazione di Fior d'oro aveva recato un gran sollievo allo spirito
dell'Almirante, che si accusava (e non sapeva darsene pace) d'essere
stato cagione d'un guaio così grave agli amici suoi, invitando il
capitano Fiesco in Ispagna. Egli sorrise al vedere la contessa vestita
finalmente in modo conveniente al suo sesso e al suo grado, e gli parve
d'intendere la ragione per cui la coppia gentile aveva tanto indugiato a
prendere la via della casa: ma più sorrise del suo proprio errore, che
era pur tanto naturale, quando seppe che i due "sposi novelli" avevano
trovato il modo d'indugiarsi dell'altro a far le scorribande campestri,
come scolaretti in festa. Poveri amici! e si capiva che dopo tanti
giorni di pena non badassero ad altro che a prendere una boccata d'aria
e d'allegrezza all'aperto.

--Siete contessa, signora mia, ma siete sempre una regina; ed anche tale
da illuminare una corte del vecchio Mondo;--diss'egli a Fior d'oro, con
quel suo bel sorriso, che gli rischiarava il volto, trasfigurandolo.

Per quel resto di giornata non parve sentir più i suoi dolori, che pure
coll'inoltrarsi della primavera s'erano fatti più acerbi. A compir
l'opera giungeva sul tardi la marchesa di Moya.

--Voi siete il nostro buon angelo;--le disse, volendo ad ogni costo
baciarle la mano.--Quanto vi dobbiamo, marchesa! e quanto vi debbo io
particolarmente! Voi sola, infine, avete pagato il mio debito a questi
"sposi novelli" che hanno dovuto soffrir tanto per la disgrazia di
essermi amici.--

La serata passò in lieti ragionamenti. Non pareva di essere al letto di
un infermo, bensì di un convalescente alla vigilia della sua partenza
per un pellegrinaggio di ringraziamento a qualche famoso santuario.
L'Almirante parlò lungamente di Genova, riandando tutte le memorie della
sua infanzia lontana. E da Genova si spingeva volentieri più in là, fino
alla Gioiosa Guardia, che aveva in animo di visitare.

--Andremo, donna Beatrice;--diceva.--Perchè voi non mi farete il torto
di lasciarmi andar solo, a visitare i nostri amici nel loro maraviglioso
castello. E dicono che il nostro capitano n'abbia fatto un luogo di
delizie, come ai tempi suoi Lancillotto del Lago, quando ebbe occupata
la Dolorosa Guardia, e mutatole il nome. Son graziosi, questi
cambiamenti di nome; e pare che allarghino il cuore. Chi si spaventa più
del capo Tormentoso, del capo delle Tempeste, dopo che Bartolomeo Diaz
lo ha girato, imponendogli il nome di Buona speranza? Nel castello di
Gioiosa Guardia passeremo una settimana piacevolissima; anche due, se ci
vorrete, amico Fiesco. E voi sarete anche tanto cortese da farmi
capitare lassù tutti i vecchi marinai di Chiavari, di Lavagna, di
Zoagli, di Rapallo, di Santa Margherita, di Portofino, perchè io possa
ragionare con tutti, a modo nostro, parlando un poco la madre lingua di
Lanzerotto Maluccello e di Ugolino Vivaldi, nostri precursori
nobilissimi sulla marina d'Atlante. Ho ancora negli occhi le immagini
d'una bella giornata nel golfo Tigulio, col suo specchio d'acque
tranquille, e quelle tre punte verdi del promontorio là in fondo. E
l'abbazia di San Fruttuoso a Capodimonte! Che pace, là dentro, sotto le
arcate di quei portici, dove non c'erano neanche più i frati d'una
volta! Ricordo che contemplando quel po' di mare turchino, chiuso tra
due scogliere, e quasi senza orizzonte, non avrei voluto andarmene più
via. Si stava così bene, non pensando a nulla, non desiderando più
nulla! È vero che non avrei scoperte le nuove terre di là
dall'Atlantico, restando in contemplazione laggiù.

--Meglio dunque aver lasciata la vita contemplativa per l'attiva;--disse
il capitano Fiesco.

--Chi sa?--riprese l'Almirante.--Lo spirito umano non ha pur esso
qualche diritto alla pace? Ed anche altre creature, a migliaia di
migliaia, avrebbero avuto pace, se io fossi rimasto colà, nella vecchia
abbazia, a conversare con le ombre dei Doria. Ma ecco, senza volerlo,
incappo in un brutto pensiero.... quasi in una eresía. Se io rimanevo
laggiù, come si sarebbero aperte tante regioni al Vangelo, e condotti
tanti popoli alla conoscenza del Dio vero? Aggiungiamo che la vita è
milizia, e che l'uomo è soldato. Il soldato ha diritto di posare un
istante sulla sponda del ruscello, per prender l'acqua nel cavo della
mano e ristorarsene. Ma niente più di così; Gedeone, forza demolitrice,
li chiama, e bisogna saltare in piedi, precipitarsi nella notte, colla
fiaccola e con la spada, sopra la gente di Madian.--

Così parlava quell'uomo semplice e grande, anima di guerriero e di
poeta; e gli fioriva naturalmente sul labbro la immagine biblica, che è
della più alta poesia onde sia stata mai rallegrata la terra. Ma fu
l'ultimo giorno lieto di quell'uomo, che sopraffatto dal suo male,
nutrendosi sempre più scarsamente, era diventato cereo, diafano, quasi
l'ombra di sè stesso, non vivendo altrimenti che per gli occhi, animati
tuttavia del raggio divino, e per le labbra, su cui si veniva spegnendo
il vermiglio, ma donde spiravano sempre in calde parole gli elevati
pensieri.

Beatrice di Bovadilla fu ancora un giorno presso la regina, che era
ritornata da una visita a Medina del Campo e alla tomba di sua madre.
Sperava di persuaderla a visitare l'Almirante, o almeno ad occuparsi di
lui, come ella aveva promesso; ma Giovanna, tutta al suo Filippo, non
aveva tempo da ciò. Si era anche sempre in negoziati col Ximenes, per
riamicare i giovani sovrani col re Ferdinando; nè l'amministrazione di
Castiglia, per essere ancora in mano al Ximenes, poteva dirsi
abbandonata da Ferdinando, più attaccato che mai alla sua preda. Così la
Corte, scambio di scendere nella nuova Castiglia, ritornava a Burgos,
capitale della vecchia. E la marchesa di Moya, non volendo per un verso
allontanarsi dall'Almirante, seccandosi per l'altro delle strane gelosie
di Giovanna, non accompagnò la regina a Burgos, lasciando volentieri ad
altre dame di Castiglia gli onori e le noie di una illustre servitù. Per
tenere i nuovi sovrani in guardia contro gli artifizi di Ferdinando
c'erano i nobili castigliani, coi quali Beatrice di Bovadilla era andata
fino a Laredo; per ottenere il riconoscimento dei diritti di don
Cristoval e la sua reintegrazione nelle pristine dignità, non bisognava
neanche essere tutti i giorni a intronar le orecchie regali. E poi,
l'Almirante deperiva ad occhi veggenti; gli assalti del suo male si
facevano anche di giorno in giorno più spessi. Restando sola qualche
volta al capezzale di lui, Beatrice di Bovadilla guardava con tenerezza
e sgomento quel suo viso smunto; e gli parlava, sforzandosi d'esser
tranquilla, sorridendo perfino, quando i vividi sguardi dell'infermo si
volgevano a lei, con quella intensità che forse era desiderio di non
perder nulla delle ore fuggenti, e che a lei aveva l'aria d'una paurosa
interrogazione. L'ammalato pareva calmarsi a grado a grado nella
vicinanza di donna Beatrice; specie quando ella posava la sua mano su
quelle di lui, rattrappite dalla gotta, ma calde, scottanti di febbre.

Il medico appariva due volte ogni giorno; ma non sapeva che consigliare
di nuovo. Citava di Galeno il poco che questi aveva scritto intorno a
quel male; ricordava le opinioni d'Ippocrate e di Areteo sull'artritide;
ma non sapeva neanche lui se si trattasse d'un catarro stillante a
goccia a goccia nelle articolazioni, e cagionante dolori e gonfiezza,
come il primo aveva creduto, o d'una infiammazione delle articolazioni,
come avevano sentenziato quegli altri. Calma, molta calma, emollienti,
torpenti, e sperare in Dio; ma certo ci sarebbe voluta la gioventù, e
una macchina meno maltrattata da tanti travagli e burrasche.

L'infermo aveva spesso la visione del passaggio imminente. Guardava
davanti a sè nello spazio, con gli occhi sbarrati, dolendosi di non
vedere più nulla.

--Gran nebbia!--mormorava.--Gran nebbia, che si muterà presto in tenebre
fitte! Doloroso, il morire! E non ho mai temuta la morte; ed anche oggi
l'avrò per una liberazione. Ma avrei voluto lasciar sicuro e degno uno
stato ai miei figli. Donna Beatrice, vi prego, aprite quello stipo; c'è
il mio ultimo testamento; voglio che lo leggiate, per dirmene il vostro
parere, prima che io lo consegni al notaio.--

Un primo testamento lo aveva fatto l'Almirante otto anni prima, e
appunto il 22 febbraio del 1498, innanzi di partire per il suo terzo
viaggio di scoperta, istituendo un maggiorasco nella sua famiglia, e
lasciando a Genova, sua città natale, il decimo delle sue rendite per
isgravio dei dazi sul grano, sul vino, sulle grasce, e sull'altre
vettovaglie. Arrivato poi dalla Spagnuola, dopo la sofferta prigionía, e
ritornato in isperanza di cose maggiori, n'aveva scritto súbito a
Genova, al Magistrato di San Giorgio, avendo anche fatto disegno che
tutte le rendite sue fossero a mano a mano investite in quel banco. Ma
alla sua lettera non si erano fatti vivi i magnifici Signori di San
Giorgio; ond'egli, tornato dal quarto viaggio, scriveva il 27 dicembre
1504 a messer Nicolò Oderigo, amico suo genovese; ".... fu discortesia
di cotesti Signori di San Giorgio, il non aver dato risposta; nè con ciò
hanno accresciuta l'azienda; lo che dà ragione a dire che chi serve al
comune non serve a nessuno". Veramente, dovevano aver risposto; perchè
tra le carte del Banco si trovò poi la minuta della lettera loro,
onorevole documento di patria riconoscenza. Ma certo non giunse a lui
quella lettera; e fu cagione che un nuovo testamento lasciasse fuori il
generoso legato.

Quello che Beatrice di Bovadilla era chiamata a leggere, era un
codicillo, scritto dall'Almirante fin dal 25 agosto dell'anno 1505. In
quella scrittura, egli chiariva e confermava le sue volontà per rispetto
al maggiorasco, e a tutte le persone del suo nome, figli, fratello ed
eredi. E lèsse tutto, la buona marchesa di Moya, anche un paragrafo che
non le doveva piacere per le memorie che le suscitava, ma ch'ella poteva
nondimeno ammirare come una bella testimonianza di delicatezza d'animo.
Il paragrafo era questo:

"Dico e comando a don Diego mio figlio, o a chi erediterà, di pagare
ogni debito di cui lascio qui espresso un memoriale, e tutti gli altri
che sembreranno giustamente miei. Gli lego inoltre di avere special cura
di Beatrice Enriquez, madre di don Ferdinando mio figlio, di provvederla
affinchè possa vivere onestamente, siccome persona a cui sono di tanto
aggravio. E questo si faccia a scarico mio di coscienza, perchè ciò
molto mi pesa per riguardo dell'anima. La ragione di ciò non è lecito
scriverla qui."

--Era obbligo mio, non credete?--mormorò l'infermo, come la vide giunta
al fine della pagina.

--Sì;--rispose Beatrice di Bovadilla.--Povera donna! E Dio sa come io
l'ho scongiurata di venire a voi!

--Lo so, generosa amica, lo so.--

Nè altro disse egli più, su quel tema doloroso; e Dio solo seppe quante
altre cose rivolgesse nell'anima. Nè la più amante delle due Beatrici,
che altamente sentiva, volle turbare con indiscrete parole la santità di
quell'ora.

Per cacciare i tristi pensieri, la pietosa signora lèsse il memoriale
dei piccoli obblighi che l'Almirante aveva ricordati con tanta
diligenza, e insieme con tanto candore, dai centonovantacinque ducati
complessivamente dovuti a parecchi suoi concittadini, come Luigi
Centurione Scotto, Paolo Di Negro, e Battista Spinola del ramo di
Luccoli e dei signori di Ronco, fino al mezzo marco d'argento ad un
ebreino di cui non rammentava il nome, ma che indicava minutamente, come
quello che soggiornava, vent'anni prima, alla porta della _Juiveria_, in
Lisbona.

--Quanti vecchi debiti!--diss'egli, con un mesto sorriso.--E tutti di
Lisbona, vedete? L'Almirante maggiore del mare Oceáno ebbe in principio
da pensare a mettere la parte sua nelle spedizioni navali; quando ne
poteva trar redditi, la Corona, sua partenevole, non si è curata di
farglieli pagare. E fondo maggioraschi, e muoio nella miseria!

--Anche questa povertà ci voleva, per comporvi l'aureola;--notò Beatrice
di Bovadilla, sollevando colla nobiltà della frase l'umiltà
dell'argomento su cui era caduto il discorso.--Quanto al morire, ci sarà
tempo. Vogliamo ancora veder succedere molte cose, e molta giustizia
esser resa.--

L'infermo tentennò il capo sull'origliere.

--Sento che non avrò tempo di aspettarla. Che giorno abbiamo?

--È martedì,--rispose donna Beatrice,--diciotto di maggio. Doman
l'altro, festa solenne; e speriamo che possiate scendere un pochino dal
letto, per celebrarla con noi.

--Scendere, no; salire piuttosto;--diss'egli.--Non sarà l'Ascensione? il
giorno che nostro Signore è salito al cielo, dopo aver tanto patito per
la redenzione degli uomini? Vedrete.... morrò io, doman l'altro.

--Che pensieri son questi? Siate sempre il mio cavaliere, don Cristoval,
e obbeditemi, cacciando i brutti pensieri. Volete proprio farmi paura?--

Fremeva, la povera donna, e parlava con tono risoluto, quasi ilare, come
se non temesse di nulla.

Il medico ritornò quella sera, nell'ora che tornava più forte la febbre.
Anch'egli fingeva d'esser tranquillo; ma, voltata la faccia alle persone
della famiglia, batteva le labbra. Anzi, uscito dalla stretta
dell'alcova, e andato nel vano della finestra a discorrere col capitano
Fiesco, gli mormorò qualche cosa all'orecchio. Notò l'atto l'infermo, e
coll'udito finissimo che sogliono avere in certe occasioni i malati,
colse a volo le parole del medico.

--Che cosa consiglia il savio?--domandò egli, sollevandosi sulla
vita.--Che Iddio venga a visitarmi? Ma io lo desidero, con tutte le
forze dell'anima.

--Lo credo, lo credo;--rispose il medico, tornando prontamente verso
l'alcova.--Parlavo d'altro, io; dicevo di voler provare un nuovo
rimedio, per calmare la febbre. Ma la visita del gran consolatore si può
ricevere ad ogni ora; e sia domani, o doman l'altro, come Vostra
Eccellenza vorrà.

--Sì, doman l'altro;--disse l'infermo.--Sono avvertito di poterlo
aspettare; e mi piace che sia il giorno dell'Ascensione;--soggiunse, con
un accento che andò come una pugnalata al cuore di donna
Beatrice.--Domani, intanto, vorrei pensare alle cose della terra, che
sono pure a scarico della coscienza. Conte Fiesco, mio buon amico,
vorrei per domattina un notaio.--

Il desiderio suo fu appagato. La mattina del 19 era chiamato al suo
letto don Pedro de Hinojedo, "scrivano di camera delle Altezze Loro,
scrivano provinciale nella loro Corte e Cancelleria, e loro scrivano e
notaro pubblico in tutti i loro regni e signorie". Ricevette egli e
trascrisse nel suo rogito il foglio consegnato a lui dall'illustre
infermo; ed erano "testimoni presenti, chiamati e pregati, il
baccelliere Andrea Mirmena e Gaspare della Misericordia, abitanti di
questa città di Valladolid, e Bartolomeo Fiesco, Alvaro Perez, Giovanni
d'Espinosa, Andrea e Fernando Vargas, Francesco Manuel, e Fernando
Martinez, servitori del signor Almirante".

Partito il notaio, seguì una giornata di tregua.

L'infermo sentiva ancora i suoi dolori, e ne dava cenno, ma ad
intervalli, con un tenue rammarichìo. Come altre volte, notavano i suoi
familiari; come altre volte, che gli assalti del male si erano fatti a
grado a grado men forti, ed egli aveva superate le crisi più minacciose.
A giustificare queste rinate speranze, nel pomeriggio il signor
Almirante aveva preso un po' di brodo, mostrando di trovarlo gustoso; si
era un po' sollevato sulla vita, e aveva sorriso amabilmente a tutti,
riconoscendo i più umili, e ringraziandoli della loro assistenza.
Chiedeva anche dell'Adelantado, che da due giorni non aveva più visto, e
gli si dovette rispondere che il suo degno fratello era andato a Burgos,
per presentarsi alla regina Giovanna e ricordarle una certa promessa
fatta una settimana innanzi alla marchesa di Moya.

Veramente, don Bartolomeo Colombo era andato con altro proposito a
Burgos, vedendo la necessità di avvertire il nipote don Diego dello
stato di suo padre, che destava tante inquietudini, e ottenergli dalla
corte un congedo, perchè potesse recarsi al capezzale dell'infermo. Ma
nella stessa occasione il signor Adelantado voleva anche presentarsi
alla regina Giovanna, che già una volta a Laredo aveva trovata così
affabile e piena di buone intenzioni a favore del signor Almirante.--Se
potessi portare con me quattro righe di scritto;--esclamava don
Bartolomeo Colombo,--sarebbe per mio fratello un rimedio più efficace di
quanti n'abbia inventati la medicina, da Esculapio fino al dottor
Villalobos.--

L'annunzio del viaggio[tn326] di suo fratello a Burgos fu accolto da
don Cristoval con un mesto sorriso.

--Torni presto, il mio buon fratello, il mio fido compagno di
pericoli;--diss'egli:--ma notizie di Corte io non ne aspetto più.

--Perchè? non è da disperare ancora;--notò la marchesa.--Dopo ciò che la
regina mi ha detto!

--E non fatto!--replicò l'Almirante.--E dove non avete ottenuto voi, chi
altri può sperar di ottenere? Del resto, Bovadilla,--soggiunse egli,
chiamandola per la prima volta con quel nome, che a lei suonò dolce come
una carezza,--alla vigilia di appressarmi a Dio, non voglio più
accoglier pensieri di grandezze umane. Le ho sepolte nel mio testamento,
per coloro che saranno dopo di me. Io aspetto giustizia da chi mi può
usare misericordia. Non più dignità, non più onori; Cristoforo Colombo,
pei miei concittadini.... Cristoval Colon, per chi m'ama ancora, in
questa patria d'adozione; ecco ciò che deve restare di me. Non piangete,
vi prego. Non piango io, Bovadilla! son calmo e sereno; sento una pace,
qui dentro, che mi maraviglia.... e mi piace.--

Poco dopo reclinò la fronte, e si addormentò, d'un sonno leggero e
dolce, come un bambino. Ah, se quel sonno avesse potuto ristorarne le
forze!

Ma quel discorso aveva profondamente contristati gli amici. Che
significava quel senso di rinunzia a tutto ciò che fino allora aveva
animato, quasi tenuto in vita il signor Almirante? Non forse l'istessa
rinunzia alla vita?

--Triste!--esclamò il capitano Fiesco, in un di quei brevi colloquii
ch'egli e Fior d'oro avevano ad intervalli con la marchesa di
Moya.--Anche la speranza l'ha abbandonato.

--È vero; e lo pensavo ancor io;--disse donna Beatrice.--È un brutto
indizio. Ma se ha da morire,--riprese ella, con voce piena di sdegno e
di lagrime,--è bene che muoia così, col sentimento della ingratitudine
dei grandi. Giovanna è incapace di star due ore in un pensiero, che non
sia la sciocca bellezza del suo sciocco marito; Ferdinando è perfido; e
l'una e l'altra Corte proseguono le loro particolari ambizioni; chi può
pensar oggi allo scopritore di un mondo?

--Gran macchia sarà per la Spagna, se egli muore così trascurato,
vilipeso, senza aver ottenuto giustizia;--conchiuse Bartolomeo Fiesco,
fremendo.

--No, conte, non dite ciò;--rispose la marchesa.--Rimorso, sì, e non per
sè stessa, ma per coloro che l'hanno in governo; macchia no, macchia no.
La Spagna è più pura e più tersa che mai. Alla mente più eletta che
Iddio mandasse in terra a glorificare il suo nome, la Spagna ha già reso
giustizia. Pei suoi monarchi, vi basti Isabella. Per la sua nobiltà,
vorrete dimenticare i Medina, i Quintanilla, i Santangel? Per gli uomini
suoi di pietà e di dottrina, non ricorderete Giovanni Perez Marchena,
Diego di Deza, il cardinale Mendoza? Quanto al suo popolo, rammentatelo,
vedetelo tutto accalcato sul passaggio dello scopritore, del messo di
Dio, da Cadice a Barcellona: fu mai nell'antica Roma trionfo più grande
di quello? E vedetelo, il popolo spagnuolo, ammiratelo ancora con me,
in questo povero Gil García, che senza sapere di guerre, d'ingiustizie,
di viltà dei potenti, paga per tutti il debito della riconoscenza e
dell'amore, ospitando l'Almirante in sua casa. È modesta, la casa; ma
erano più modesti ancora i primi templi innalzati alla gloria del Dio
vero. E voi lo vedete, il vecchio marinaio, quante volte passate per
l'anticamera; fermo là, che non osa entrare dal suo comandante, che non
osa chieder notizie, per timore di averle cattive, ed ha sempre gli
occhi pieni di lagrime. Questa è la Spagna, amico, e tutto il resto che
sapete, lo potreste anche ignorare con me. Finalmente,--conchiuse la
marchesa con accento di nobile alterezza,--se nessun altri qui, tra i
Pirenei e l'Atlantico, avesse fatto il debito suo per quell'uomo, ci
sarei sempre io, Bovadilla; e penso che potrei bastare, agli occhi della
posterità. Vi lascio, amici; sento ch'egli mi cerca.--

E strette con moto convulso le mani del Fiesco e della contessa Juana,
si avviò verso la camera dell'Almirante, asciugando in fretta le sue
lagrime. Anch'ella, come Gil García, n'aveva sempre gonfie le palpebre.
E doveva rattenerle, al capezzale del caro infermo; e la più parte del
tempo doveva esser là, con aspetto tranquillo. Quando non c'era, sentiva
d'esser cercata; nè mai s'ingannava, e ne aveva la conferma nelle parole
di lui, negli atti del viso, nel lampo degli occhi. Conferisce questi
doni di seconda vista l'amore.

--Come soffre!--mormorò Fior d'oro.--Ed ha la virtù di sorridere, quando
è vicina a lui.

--Per questo,--disse il Fiesco,--non ci siete se non voi, donne, che
sapete vincer l'affanno, e mostrare il volto sereno.--

La notte del signor Almirante fu quieta, con pochissima febbre.
L'infermo aveva potuto dormire, a parecchie riprese, un paio d'ore. I
cuori si riaprivano alla speranza; anche quello di Bovadilla, che vide
apparire l'alba del 20 senza troppo terrore. Ma come la prima luce del
giorno penetrò nella stanza, il signor Almirante volle la visita di Dio.

--Non vi ho detto che lo desidero?--disse egli, a chi mostrava di non
vedere la necessità della cerimonia religiosa.

Frate Alessandro andò tosto al vicino convento di San Francesco, e tornò
col priore, che già aveva visitato don Cristoval durante il suo
soggiorno in Valladolid. La confessione fu breve; ricevendo
l'assoluzione, il signor Almirante espresse il desiderio che la sua
salma fosse depositata nel chiostro del convento, per divozione al
poverello d'Assisi, la cui vita terrena era stata tutta amore,
sacrifizio, e glorificazione delle opere di Dio.

Poi venne col viatico il parroco di Santa Maria l'Antigoa, sotto la cui
giurisdizione ecclesiastica era la casa di Gil García. Tra le preghiere
degli astanti genuflessi, a cui rispondeva con ferma voce l'Almirante,
levato sui guanciali il capo e le spalle, gli occhi scintillanti di viva
luce, e giunte le scarne mani sul petto, la cerimonia fu commovente;
cerimonia paurosa per istrazio interiore a quanti ancor pieni di vita
sono costretti a pensare una volta l'orribil momento che dovranno
lasciarla; cerimonia solenne d'insegnamenti a chi vede in essa la
chiusa del dramma oscuro dell'esistenza, il punto fatale che tutte le
ambizioni soddisfatte vanno in dileguo sulla medesima china delle
speranze deluse, e piacere e dolore, e bene e male delle nostre
passioni, nobili o ree, ma tutte egualmente fumose, si estinguono
nell'eterno silenzio, mentre un arcano conforto di promesse celesti
entra nell'anima per quelle medesime labbra che si torceranno nello
spasimo della morte terrena. Dio, il consolatore invisibile, è là: si
sente giungere, appressarsi, discendere, con la parola augusta che gli
angeli hanno insegnata alle povere lingue degli uomini.

Partitosi di là il religioso cortéo, al morire delle voci oranti sulla
via, l'Almirante si assopì. Ma furono pochi minuti di tregua, che oramai
non ingannavano più nessuno dei suoi familiari. Era grave, affannoso il
respiro; apparivano contratti i muscoli della bocca, infossate le
occhiaie; ardevano i polsi, battuti dalla febbre; la fronte e le tempie
s'imperlavano di sudore gelato. Ad un tratto aperse le palpebre, e mosse
gli occhi lentamente in giro, considerando l'uno dopo l'altro i
presenti.

--Diego?--chiese egli poscia.--L'Adelantado? Non sono ancora arrivati?
Poveretti!...--

E pareva volesse soggiungere: non mi vedranno più vivo.

Stette alquanto in silenzio; poi, volgendo lo sguardo al figliuolo
Fernando, lo chiamò più vicino.

--Sei qui per tutti?--mormorò.--Sian tutti in te benedetti.--

Il giovane si era abbandonato, singhiozzando, sotto la carezza delle
mani paterne.

--Perchè piangi?--riprese il morente.--È la legge. Obbedisci alla legge.
Felice chi la intende da giovane, e ad essa conforma tutti i suoi atti,
dominando tutte le sue passioni, perdonando, ed amando.... Va, sii
forte, figliuolo;--riprese, dopo un istante di pausa.--Anche il tuo capo
amato mi pesa.... Aprite, aprite quella finestra, ch'io respiri ancora
una volta quell'aria... che tanti felici respirano.--

Ringagliardiva la febbre; ed egli ansimava, si agitava irrequieto, si
levava sui fianchi, agitando le braccia, come se cercasse di aggrapparsi
a qualche cosa.

--Povera creta!--esclamò egli.--A che ti affanni? Vuoi tu vivere per
forza?--

Frate Alessandro gli si accostò amorevolmente, bisbigliandogli qualche
parola di conforto.

--Fidate in Dio, signor Almirante. Egli, padre misericordioso e giusto,
vorrà operare un prodigio per voi.... e per noi.--

Gli occhi del morente mandarono lampi d'insolita luce, alle amorevoli
parole del frate scudiero.

--Dio!--gridò egli.--Dio! L'ho sentito sull'Oceano, dominare con la sua
voce il fragore delle tempeste. Dio m'ha assistito, Dio ha voluto
conservar la mia fama nel sale dell'amarezza. Dio la mia forza, Dio la
mia gloria. A lui tutto; senza di lui non sarei nulla. E son passato
nella vita ancor io, amato assai più ch'io non meritassi. Fu grazia di
Dio che mi amassero a gara tutte le nobili creature di Spagna; il buon
padre Marchena, il Quintanilla, il Santangel, consolatori benigni; Diego
di Deza, mia spada; il santo Mendoza, mio scudo; Beatrice di Bovadilla,
angelo mio tutelare; Isabella, onore del trono. Perchè vissuta,
Isabella? Non forse perchè si schiudesse mercè sua un nuovo mondo alla
legge di Dio, alla legge d'amore?... Ah, l'odio! l'odio livido e nero!
ah, la sete dell'oro, sete inestinguibile, sete crudele!... Questo sanno
far gli uomini, dei doni di Dio! Si muoverà dunque alla grande concordia
della famiglia umana, passando per la strage e pel sangue? I poveri
Indiani! i disgraziati innocenti, scannati senza pietà da uno stuolo di
belve. Schiavi!... non più schiavi, sotto la legge di Cristo!... Pure,
entravano nelle case del ricco; servi, facevano parte della famiglia
cristiana, recitando insieme col padrone la preghiera che eleva, la
preghiera che purifica, la preghiera che per un'ora fa tutti fratelli i
nati d'un medesimo seme. Ma no, non più schiavi: è cosa iniqua, la
schiavitù. Nobili cuori! E li lasciate liberi, voi; liberi di faticare
al sole rovente, nelle vostre piantagioni; liberi di morire nel solco
inondato del loro sudore; liberi di ricevere la nerbata, se le stanche
membra rifiutano per un istante l'immane fatica; liberi di fuggire, per
esser rincorsi tra le selve, addentati, lacerati dai vostri cani di
Corsica: liberi di morire fra i tormenti, sui palchi infami, sui roghi,
dove stride la fiamma e la carne.

--E Dio permette!--mormorò il capitano Fiesco, che stava ritto, immobile
a piè del letto, ascoltando e fremendo, e stringendosi i pugni alla gola
per non dare in singhiozzi.

--Sì, amico mio, sì....--rispose il morente, che ancor riconobbe alla
voce il suo vecchio ufficiale.--Dio ha un fine, che noi non possiamo
intendere; Dio ordisce una tela immensa, di cui non vediamo altro che un
tratto. Non dubitate.... E non vi sembri argomentazione di piccolo
intelletto. Ha pure la sua grandezza il vedere in questo modo la
giustizia di Dio; mentre non ne ha nessuna il negare ogni cosa, e il
disegno e l'artefice. Egli vede e provvede, nell'arcano del suo
pensiero; egli dà le mercedi. Trascura i buoni, che sicuri lo aspettano;
ma invigila i tristi e le opere loro.--

Così parlando, si era stranamente animato. Inutile il tentare di
calmarlo. Gli fiammeggiavano le guance; gli scintillavano gli occhi; ma
in quella gran luce, ond'erano accesi, egli già più non discerneva
nessuno. E incominciava a vaneggiare; e più confuse gli si offrivano le
immagini delle cose; più rotte gli uscivano di bocca le frasi.

--Sono legione, i malvagi! E tutti contro il guerriero di Dio. La mia
spada, conte Fiesco! dov'è la mia spada? Ch'io li assalga! ch'io li
disperda! Roldano, che ho sempre beneficato, anche voi? Guevara, Porras,
gente malnata! Aguado, Ovando, anime nere.... Don Francisco di Bov....
No, no; via la spada! L'uomo perdoni, e Dio giudichi. Ed egli viene....
egli viene.... incalza, in un gran cerchio di luce. Cieco, cieco chi non
ti vede, gran luce dell'anima! O Signore, in cui ho sempre sperato, o
Signore in cui ho sempre confidato!... I vostri santi, avvocati miei,
dove sono? Ah, ecco, nella vostra gloria confusi, sorridono....
accennano.... chiamano.--

Ansava, e le parole si facevano più rade, più inintelligibili. Un moto
convulso, veloce, turbinoso, gli agitava il sommo del petto, come se il
cuore, ad un tratto impazzito, sventolasse là sotto, tentando fuggir dal
suo carcere. E fece uno sforzo ancora, il morente, uno sforzo sovrumano,
per proferire le sue ultime parole.

--A voi, Signore.... a voi.... _In manus tuas, Domine, commendo spiritum
meum._--

Seguì un rantolo sordo; e un altro ancora, in cui le labbra si torsero.
Gli erano tutti intorno, piangenti; Bovadilla innanzi a tutti, con la
mano sulla fronte di lui, stillante il gelido sudore della morte. E le
scoppiava il cuore, e avrebbe voluto dargli l'anima sua. La vide egli?
la vide un'ultima volta, mentre alzava le palpebre, e le pupille
stravolte cercavano ancora la luce? Si richiusero le palpebre, si
ricomposero le labbra, cessò la danza spaventosa del cuore; l'anima
grande di Cristoforo Colombo era volata incontro al suo Dio.

Un grido straziante ruppe dai petti; labbra avide cercarono la fronte
marmorea e le fredde mani dell'estinto: baci si avvicendarono con
lagrime su quella povera carne, che aveva cessato di patire. Poi,
s'inginocchiarono tutti intorno al letto; e pregarono, lungamente, in
silenzio.




CAPITOLO XIX.

Quel che s'incontra per via.


Mentre il suo grande cittadino moriva negletto, quasi ignorato, nella
terra straniera che gli era divenuta seconda patria, ed egualmente
ingrata, Genova seguitava a patire delle sue secolari discordie, ad
esaltarsene, ad infiammarsene sempre più; pari in questo all'infermo,
che si consuma dalla febbre, e nella febbre non avverte più il male onde
sarà tratto al sepolcro.

Il male di Genova era antico; e le varie forme di governo con cui, dando
volta nel suo letto di dolore, l'inferma aveva sperato di schermirsi,
ora coi consoli, ora coi podestà, poscia coi capitani del popolo e coi
dogi a vita, finalmente colle dominazioni angioine di Napoli dopo le
tedesche, e le francesi dopo le viscontée di Milano, non erano state
altrimenti che fasi progressive e crisi violente di quel male. Nobili
della schiatta viscontile di Polcevera e nobili d'altre terre di
Riviera, alleati coi vescovi, avevano fatto da principio un governo in
famiglia, indi costituita una oligarchia prepotente, che escludeva dalle
prime magistrature i popolari, tutti mercanti ed artefici. Questi,
crescendo di numero, di forze e di credito, avevano ottenuto a forza
alcune cariche importanti, senza che per ciò fosse stabilito e
riconosciuto nella lor classe un diritto alla partecipazione del
governo; e frattanto, quelli di loro che avevano smessi i traffichi e
l'arte, ottenendo titolo di cittadini egregi, si stimavano uguali ai
nobili possessori di feudi; con alcuni dei quali, aiutando le ricchezze
accumulate, riuscivano anche ad imparentarsi. Ma erano sempre tenuti per
"tetti appesi", come a dir case appoggiatesi alle vecchie torri di una
gente più antica. Fra questi "tetti appesi" alcune case più cresciute in
potenza, e più ancora in audacia, avevano preso a contendersi il ducato,
a palleggiarselo tra loro per quasi dugent'anni; ed erano quattro, dette
dei Cappellacci per la loro preminenza, cioè a dire Fregosi, Adorni,
Guarchi e Montaldi. A lungo andare sopraffatti i due ultimi nomi, erano
rimasti in auge i due primi, forti abbastanza per sovvertire con le loro
eterne rivalità la repubblica, senza che l'uno riuscisse poi a liberarsi
dall'altro. E forse, ai nobili antichi, testimoni della gara e in una
certa misura partecipi, non metteva conto che una parte vincesse l'altra
del tutto, per farsi poi arbitra e padrona di tutti. Così durarono le
lotte dei Cappellacci, con gran danno dello Stato, costretto a cadere in
soggezione dei Visconti di Milano, poscia del re di Francia. Il quale,
nel patto di dedizione conchiuso in Milano, si obbligava cortesemente
alla condizione "che tutti gli onori, benefizi, ed uffici dello stato
fossero conferiti ai Genovesi dal governatore e dagli anziani, tenuto
conto della varietà dei colori."

I colori, bianco e nero, valevano più poco sulla fine del Quattrocento;
anzi, non valevano più affatto come tinta politica di ghibellini e di
guelfi. C'erano bianchi e neri tra i nobili; bianchi e neri tra i
mercanti e gli artefici, confusi oramai nella denominazione di popolari;
ma i nomi di bianchi e di neri significavano piuttosto un certo numero
di famiglie già usate al governo, e non disposte ad esserne escluse; e
volevano dire che quelle famiglie non dovevano essere dimenticate, nella
assegnazione delle cariche. A provar poi che guelfi e ghibellini, e neri
e bianchi, non erano più considerati come parti politiche, basti notare
che Doria e Spinola, antichi ghibellini, erano pane e cacio sul
principio del Cinquecento coi Fieschi e i Grimaldi, antichi, guelfi; e
Gian Aloise Fiesco, progenie di Guelfi, e primeggiante allora nella
nobiltà genovese, sovveniva del suo danaro le imprese navali di Andrea
Doria, nuovo rampollo onegliese della potente casata ghibellina. Nel
fatto, con denominazioni vecchie conservate senza ragione politica,
durava una lotta antica tra nobili feudali e popolo grasso. E i nobili
avevano dimenticate le antiche dissensioni per far causa comune contro i
popolari; e questi, non volendo saperne delle loro antiche denominazioni
di mercanti ed artefici, si sdegnavano d'esser considerati inferiori a
quegli altri, in una città dove oramai avevano esercitate le prime
cariche ed ottenute singolari benemerenze.

Frattanto, accadeva di peggio. Violando i patti di Milano, il
governatore francese proteggeva i nobili a danno dei popolari; li
favoriva in tal guisa, che non più un terzo, ma già la metà dei
pubblici onori ed ufizi erano ad essi assegnati. E qui, ápriti cielo!
dalle mormorazioni si passava ai lagni; da questi alle invettive. A
giustificare il loro diritto, i nobili allegavano i meriti dei lor
maggiori, che nel periodo consolare avevano governata la repubblica
senza compagnia di popolari. Ma i popolari pronti a ritorcere
l'argomento, dicendo che appunto per ciò erano stati cacciati i nobili
dal governo; nè più si doveva tornare ad una ingiustizia, tollerata
soltanto finchè il popolo non aveva avuto vita civile, Genova essendo
come un feudo del vescovo e del suo parentado viscontile, già collegati
dal comune interesse per liberarsi dall'autorità dei conti della marca
di Liguria. Quanto a nobiltà vera di sangue, in che superiori i nobili?
o progenie di barbari invasori, o piccola gente oscura, che ad essi era
venuta abbarbicandosi, senz'altro merito che la cieca servitù! I
popolari nati in casa, antico sangue romano, cresciuti nell'operose
industrie del mare, educati nelle armi in difesa della patria; onde le
grandi imprese, dentro e fuori della repubblica, specie dopo il 1339,
col ducato di Simone Boccanegra, erano quasi tutte dovute al valore dei
popolari.

Il governatore francese, messer Filippo di Cleves, signore di
Ravenstein, tenendo pei nobili antichi, faceva orecchio da mercante;
anzi, per non aver da sentire i popolari, se ne andava tranquillamente
in Asti. E come avviene spesso negli uffici amministrativi, che quando
esce il principale per prendere una boccata d'aria, guizza via il
segretario per prenderne due, anche il suo luogotenente Roccabertino
colse la buona occasione, per portare un suo reuma in Acqui, a quelle
terme salutari. Ma l'acqua bollente ch'egli andava a cercare laggiù,
stava per dar di fuori in Genova, dove le due parti si guardavano in
cagnesco, e dall'una e dall'altra si faceva gente, per non esser colti
alla sprovveduta. Ai popolari si accostava la plebe, gente in gran parte
calata dalle ville della Polcevera ai mestieri e alle piccole industrie
della città. E i motti pungenti fioccavano; più acerbi ai popolari, che
per l'aiuto cercato nelle ville erano chiamati a dispregio i villani. I
giovani della nobiltà, che già alcuni anni prima per certa croce degli
Zaccaria portata in processione avevano leticato aspramente coi giovani
del partito contrario, s'erano fatti fare certi coltelli che portavano
con ostentazione alla cintola; e quei coltelli avevano incisa sulla lama
una frase minacciosa: "Castiga villani". Nè quei coltelli erano rimasti
a lungo inoperosi. Ai motti pungenti succedevano gli scontri, e le
stoccate andavano via come il pepe. La città era ogni momento sossopra;
i buoni gemevano invano, tra le provocazioni scambievoli e le zuffe
continue; la vita di Genova era diventata un inferno.

Poteva egli portarvi rimedio il _Paradiso_, che giungeva a mezzo luglio
nel porto? Ne scese il capitano Fiesco accompagnato dalla contessa Juana
e dal frate scudiero; e tutti e tre si recarono ad alloggio dal Passano,
che stava appunto in una casa del Fiesco, nella contrada di San Lorenzo.
Di là, dopo un breve soggiorno, avrebbero proseguito per la Gioiosa
Guardia, meta desiderata e riposo al triste viaggio di Spagna. Il
capitano Fiesco voleva anche dar sesto a tutte le cose sue, facendo
disegno di non spiccarsi più per un pezzo dalle rive del poetico
Entella; desiderava inoltre di vedere il magnifico dottore messer
Nicolao Oderigo, che del grande Almirante era stato amicissimo, e che
certamente avrebbe graditi gli ultimi saluti di lui e udite con profondo
rammarico le notizie della sua fine immatura.

Messer Nicolao, famoso dottore di leggi, aveva meritato per la sua
dottrina di andar già due volte ambasciatore, la prima nel 1496 al re di
Francia, la seconda nel 1501, ai sovrani di Spagna; e in quella
occasione aveva conosciuto Cristoforo Colombo, stringendosi a lui di
sincera amicizia. In Genova non aveva mai parteggiato. La sua famiglia,
di Carminata in Polcevera, era d'artefici, quali ghibellini, quali
guelfi in processo di tempo, la più parte speziali e medici, nè mai
disposti a servire, sposando le passioni dei potenti del giorno. Egli
stesso era stato amicissimo al capo riconosciuto dei nobili, Gian Aloise
Fiesco; e ciò non tolse ch'egli andasse in quell'anno 1506 ambasciatore
dei popolari a Luigi XII, come più tardi, nel 1515 e nel 1517 a
Francesco I, altro signore invocato dalle miserie di Genova. Era un
galantuomo, amante della patria sopra ogni cosa; della patria si
occupava continuamente, e ne piangeva i mali insanabili; della patria
parlava ancora a messer Bartolomeo Fiesco, dopo aver pianto con lui
sulla morte del loro grande concittadino Colombo.

--Povera Genova!--diceva egli.--Povera città così nobile e ricca, così
popolosa e forte e gloriosa, condannata a non aver pace mai, neanche
sotto le labarde straniere che ha dovuto chiamare per assicurarsi
contro le sue stesse follìe! E siamo oramai ad uno dei maggiori pericoli
che Genova abbia corsi mai, di sfasciarsi, di andare in perdizione. Non
per colpa dei Cappellacci, questa volta, che pare impossibile; per colpa
dei nobili! Un mese fa, il 18 di giugno, poco mancò non andasse a
soqquadro ogni cosa, per l'alterco in piazza de' Banchi, dove il notaio
Emanuele Canale, che richiedeva il fatto suo ad un nobile, n'ebbe in
pagamento male parole e percosse; onde fu gran rumore, si chiusero le
botteghe, e tutti correvano all'armi. Vedete quanta poca scintilla basti
oramai a far scoppiare un incendio! La prudenza del podestà, messer
Oberto del Solaro, ha potuto sedare questa commozione, col mandare in
bando parecchi dei nobili ed uno dei popolari. Ma potrà sempre, il savio
Astigiano, contenere questi umori maledetti, più pronti a bollire che
non sia il vino del suo paese? E non c'è qualcheduno, nelle nostre mura,
che quanto siede più alto tanto più avrebbe obbligo di gittar acqua sul
fuoco? Voi indovinate di chi voglio parlare, messer Bartolomeo. Andate
voi da Gian Aloise, e ditegli che abbia compassione della sua patria;
egli che ha intelletto da conoscere i mali, voglia aver carità da
procurare i rimedii. È una fortuna, che siate qui voi. Venuto di fuori,
potete dire una parola di cittadino imparziale. Qui ogni giorno si va di
male in peggio; e il peggio volgerà anche a danno suo, perchè delle cose
turbate non hanno vantaggio coloro che vivono nel quieto possesso della
loro autorità: mentre vantaggio verrebbe a lui, se tutti lo vedessero
lavorare per la concordia; onde crescerebbe la sua fama di savio,
insieme con la sua sicurezza di principe.--

Il consiglio era buono; e per seguirlo, messer Bartolomeo salì quel
giorno l'ampia scaléa di Vialata. Trovò raccolti lassù tutti i Fieschi,
come in un altro giorno solenne di tre mesi innanzi; ma più accigliati,
più torbidi, più inveleniti che mai. Nondimeno, fecero il debito col
parente, che ritornava di lontano; e Gian Aloise stette ad udire con
molta attenzione le tristi nuove di Valladolid.

--Mi duole;--diss'egli;--mi duole nel profondo dell'anima. Povero signor
Almirante! E morire così, senza vedersi restituite le sue sostanze e il
suo grado! Ma che cosa poteva aspettarsi di bene da un re come
Ferdinando il Cattolico? Gran colpa ha costui, e il mondo ne darà ben
severo giudizio.

--Verissimo;--rispose messer Bartolomeo.--Ma per il nostro concittadino
Colombo non siamo in colpa un po' tutti? e noi Genovesi prima degli
altri? Se questa repubblica fosse stata in pace e padrona di sè, non
avrebbe potuto far essa l'impresa della grande scoperta, ritraendone
essa i benefizi? Sarebbe stata ancor essa ingrata con lui; ma dalla
patria sua avrebbe egli potuto sopportare anche l'ingratitudine d'un
giorno, sicuro della riverenza e della riconoscenza dei secoli. Ma noi
eravamo impotenti ad assisterlo; noi sempre in guerra tra noi, e senza
speranza di far giudizio mai più. Sento infatti che la pace è fuggita da
capo, e che si torna a scivolare nel sangue.

--Ma!...--esclamò Gian Aloise, crollando il capo e stringendosi nelle
spalle.--Qui, poi, non è anche un po' vostra la colpa, cugino? Se voi
andavate a Pisa, tutto questo non succedeva.--

Bartolomeo Fiesco ebbe l'aria di cascar dalle nuvole.

--Che c'entra Pisa?--diss'egli, stupito.

--C'entra sicuro. Il gran delitto che ci appongono i villani è di non
averla noi voluta soccorrere.

--Ma noi,--replicò il capitano Fiesco,--la soccorrevamo, se mai, per
divorarla; e non vedo come di questo potessero stimarsi contenti i
popolari.... o i villani, come mi pare dalle vostre parole che si debba
dire oramai. Si sta tre mesi fuori,--soggiunse egli, ridendo,--ed ecco
che al ritorno si trova cangiata perfino la lingua.

--Fermo, fermo!--gridò Gian Aloise.--Anzi torniamo indietro, fino a quel
verbo divorare, che non sarà di lingua nuova, ma certamente parrà
insolito in bocca ad un Fiesco. Se credete, bel cugino, di pungerci,
v'ingannate a partito.

--E non avevo questa intenzione;--rispose il capitano.--Ho detto
"divorare" per "occupare a nostro vantaggio". Non era egli per vantaggio
della nostra casata, che voi volevate mandarmi a Pisa?

--Sicuramente,--replicò Gian Aloise.--Oh vedete il gran male, se chi
possiede tutta la riviera di Levante, dall'Appennino al mare, e della
Scrivia alla Magra, possedesse anche Pisa! Volevate voi che Pisa fosse
posta in balía della nostra eccelsa repubblica, la quale oggi è di Tizio
e domani di Sempronio? E non vi parrà giusto che una famiglia da
quattrocent'anni intesa a mantenersi uno stato conforme alla sua
dignità, cerchi di avere maggior sicurezza del sudato ed insidiato
dominio? Andate là, bel cugino! ce l'avete fatta grossa, ricusando un
ufficio, per il quale (ve lo abbiamo pur confessato, rendendovi
giustizia) non c'eravate se non voi. E ci venite oggi a piangere sui
mali di cui siete stato la prima cagione? E ci domandate probabilmente
di andare in piazza de' Banchi, o sulla scalinata di San Lorenzo, a
picchiarci il petto, ad offrir pace, a chieder perdonanza ai nostri
nemici? E siete un Fiesco, voi?--

La botta era forte; e messer Bartolomeo balenò un poco, ricevendola.
Ancora strinse i pugni, e più i denti, per non dar fuori con troppo
amare parole. Dopo un istante di pausa, che parve lungo a tutti, ma che
a lui era necessario per vincersi, pacatamente rispose:

--S'io sono un Fiesco, domandate? Per tutt'altri che ne volesse dubitare
avrei pronte le prove. A voi, Gian Aloise, tanto più vecchio di me, non
ne bisogna nessuna; e voi già, umano e cortese signore, vi pentite in
cuor vostro d'avermi fatto ingiuria. Per essere un Fiesco, bisognerebbe
dunque non sentir altro che ira di parte? e d'una città che crebbe a
grandezza per la santa concordia della _compagna_ giurata, voler fare un
patrimonio esclusivo di nobili? Che cosa io pensi dei nobili, e dei
popolari, vorrei poterlo dire alle due parti congregate, sulla scalinata
di San Lorenzo, dove non c'è da chieder perdonanza a nessuno, ma da dire
a tutti la verità. Nobili e popolari, siam pure i gran sciocchi. Un
giorno, stanchi e rifiniti, saremo tutti pari nell'impotenza davanti ad
una plebe qual si sia, che troverà gusto a sbranarci. Oggi letichiamo
per diversità di sangue. Ma che? Essi e noi discendiamo da un barbaro
soldato, franco o longobardo, unghero o goto, oppure da un liberto
figlio di schiava greca o siriaca, che piacque un'ora al padrone.
Nessuno, nè qui nè altrove, nessuno, sia pure il più antico nelle
cronache, può collegarsi a quella nobiltà romana che prima ha stampato
della sua orma il paese. La quale, finalmente, nella sua folle ambizione
si mostrava più accorta di noi, non volendo altro alle sue origini che
dèi o dee, Marte, Venere, Ercole. I Greci, poi, tutti da Giove; onde fu
necessario fare del padre degli Dei un grande scapestrato. Gli antichi,
come vedete, avevano modo di nobilitare il sangue, facendolo di qualità
diversa dalla comune degli[tn346] uomini. Noi no; tutti di sangue rosso,
mortale, di pari composizione; al più al più (lasciatelo dire ad un
Fiesco, che ha studiato medicina a Pavia) guastato da qualche umore
maligno, per effetto di troppe unioni in famiglia. Ma torniamo al fatto.
Quando saranno qui tutti nobili al governo, e i popolari distrutti, o
mandati al remo, o legati alla gleba, non avranno i Fieschi da fare i
conti coi pari loro, con gli Spinola, ad esempio, coi Grimaldi, coi
Doria? E dove andrà allora il bel sogno di una vasta signoría? Vorranno
i tre emuli restare amici a noi, come son oggi per necessità, di contro
a dugento cinquanta famiglie della fazione popolare? Non troveranno man
forte in quella ventina di famiglie nobili della prima classe, o in
quell'altra ventina della seconda, per costringerci un giorno o l'altro
a lasciare il troppo largo dominio? e non solamente quello che voi
possedete per autorità di vicario, ma ancora quello che possedete per
diritto feudale? Una cosa potrebbe pure tirar l'altra, cadendo, e tutte
rovesciarsi ad un modo. Nè vi parrebbe più saggio che una famiglia,
giunta per fortuna al colmo della potenza, regnasse invidiata e sicura
nella mediocrità forzata di trecento, fra maggiori e minori, di nobili,
di mercanti, d'artefici, tutti ammessi alle medesime cariche, uffici ed
onori? Ma questo appartiene all'arte di governo, ed io non ne sono
maestro. Perdonate, eccelso cugino, la mia intemerata. Non lo farò più,
come è vero che sono un Fiesco. E da Fiesco d'onore vi prometto che fin
dove giunga il mio braccio, saprò far rispettare questo nome onorato,
che ho comune con voi.

--Abbiatelo forte, quel braccio!--ribattè Gian Aloise, con accento
sarcastico.--Abbiatelo tanto più forte, quanto più volete esser solo,
mentre spira un'aria così poco favorevole ai nostri, in questa
disgraziata città. È l'augurio d'un parente che vi ama, ad onta delle
vostre.... Come chiamarle?... Mi lascerete dir bizzarríe?

--Dite pure stravaganze;--rispose il capitano Fiesco.--Tutto sopporterò
di buon grado, fuorchè la taccia di debolezza e viltà.--

Salutò, detto questo, e se ne andò invelenito; tanto invelenito, che non
chiese nemmeno licenza di andare ad ossequiare madonna Caterina.

Uscito dal palazzo, e fatti in un minuto i cento gradini della cordonata
famosa, voltò a manca, per non dover risalire da Rivalta a porta
Soprana, luogo troppo affollato. Più libera la via verso quel tratto
della spiaggia che gli eruditi del tempo avevano già incominciata a
chiamare il seno di Giano; liberissima e tranquilla sotto i suoi occhi
la distesa del mare turchino, su cui sonnecchiava col capo un po'
inclinato a levante il maestoso scoglio Campana, vecchio testimone di
tante sfilate trionfali del naviglio genovese, dallo _stolo_ di
Terrasanta ai ritorni della Meloria, di Portolongo e di Ponza. Lo
scoglio Campana era un suo grande amico, fin dagli anni lontani della
sua adolescenza; col quale, o davanti al quale, era uso meditare sulle
passate grandezze della patria; e quella volta il capitano Fiesco,
masticando male una frase del suo eccelso cugino Gian Alvise, non degnò
il vecchio amico neppure d'uno sguardo fuggevole, mentre saliva per
Campo Pisano all'erta di Sarzano. Sempre borbottando e sbuffando, dai
fianchi dell'antico Castello, sede e baluardo del municipio Genuate, già
da un pezzo convertito in un ceppo di conventi e di chiese, calò verso
le case degli Embriaci, donde, girando attorno a quelle dei Giustiniani,
voleva difilarsi a San Lorenzo, dove sorgevano quelle dei Fieschi.

Gran gente fin allora non aveva incontrato: fra conventi, chiese e
palazzi che parevano fortezze, in un quartiere alto, donde la città era
presto calata a distendersi nel piano verso ponente, non era il caso di
trovar banchi o botteghe, nè per conseguenza la calca delle strade
operose. Un po' di animazione incominciava dai Giustiniani; il brulichio
della folla lo aspettava nella contrada e nella piazza del duomo di San
Lorenzo. Colà si accoglieva in gran parte la vita cittadina; colà nei
primi secoli dopo il Mille si adunava il popolo a parlamento; colà il
Cintraco, venendo dal Palazzo del Comune, che sorgeva alle spalle del
Duomo, veniva a leggere i bandi dei consoli. E colà, cessati gli uffici
politici della storica piazza, si adunavano ancora i cittadini a
conversare, magari a far baccano, sommosse e principio di rivoluzioni;
colà, finalmente, come è sempre avvenuto intorno alla casa di Dio, fin
dai tempi di Cristo, si teneva un po' di mercato.

In quella calca doveva cacciarsi il capitano Fiesco per riuscire a casa
sua. La pazienza non era il suo forte, a dir vero; ma egli, in momenti
quieti e ad animo riposato, sapeva dominarsi col raziocinio, che gli
suggeriva le frasi della cortesia non ancora stizzita: "vi prego.... con
licenza, cittadini.... scusate, amico", e lo aiutava a passare. Ma i
momenti non erano quieti, per allora, nè egli aveva l'animo riposato; ed
egli e quel popolo, tra cui si cacciava, erano in uno dei loro giorni
più cattivi; e mal volentieri si scomodava la folla per lasciarlo
passare; ed egli, coll'amaro in corpo, non si sentiva di far bocca
dolce.

Frattanto, correvano intorno a lui certi discorsi, che non erano fatti
per rabbonirlo.--Fallatutti, ci siamo?--È giusta di sale.--Bisogna
scodellarla.--Magari! è ora di finirla.--Vedremo al friggere, se saran
pesci o anguille.--Giù dalle gronde, i gatti, e vivano le cappette.--

Il gatto era emblema araldico dei Fieschi, insieme col drago, detto
anche basilisco. E per l'ora corrente, essendo i Fieschi a capo della
nobiltà, l'accennare al gatto era un intendere tutta la genía dei
nobili. Quanto alle cappette, si alludeva con questo nome al popolino.
"Erano poverissima gente (lasciò scritto negli _Annali di Genova_
monsignor Giustiniani), artigiani e servitori di artigiani mal vestiti,
con le calze di tela e con una stretta e cattiva cappa; perciò furono
nominati cappette".

Più in là era un crocchio di ragionatori più sodi, ma non meno
sediziosi.--Ve l'ho a dire, cittadini? La va come sulle galere. Si può
disputare del più e del meno finchè il nemico è lontano: ma quando il
cómito ha gridato arme in coperta, non c'è più da discorrere; da poppa e
da prora, all'arrembata e all'impavesata, ogni uomo prende il suo posto
di combattimento. E non si parli di pace, mentre siamo venuti a mezza
lama. O loro o noi, qualcheduno ha da andare di sotto.

--Bravo!--pensò il Fiesco.--Questo si chiama ragionare; ed anche insegna
a sragionare.--

Frattanto lavorava di gomiti, per avanzare di qualche passo verso il suo
tratto di strada. Ma intoppò in due che gli voltavano le spalle, e non
si davano per intesi delle sue sollecitazioni. Si rammentò allora d'un
bel giuoco, che gli era tante volte riuscito con amici per via. Toccò
leggermente uno di quei due sulla spalla sinistra, e l'altro sulla
spalla destra. Si voltarono ambedue, ognuno dalla parte dove si sentiva
toccato; così, senza volerlo, gli fecero posto, ed egli guizzò
lestamente nel mezzo. S'intende che avvedutisi dell'artifizio, non
volevano tollerare la celia.

--Fate largo! è qua lui!--gridarono, con accento di scherno donde
trapelava la collera.

--Lui! chi, lui?--gridò egli a sua volta, fermandosi a guardarli.

S'era voltato a deboli avversarii, o mal preparati all'attacco. Non
rifiatarono; anzi, pareva che non dicesse a loro. Ond'egli era già per
ripigliar cammino, quando all'orlo della gradinata di San Lorenzo, e
sotto alla famosa statua che porta il nome dell'Arrotino, vide un
omaccione dalle spalle quadre e dal collo erculeo, che lo guardava a
squarciasacco. Ed anche lo udì, che diceva ad un vicino: "bisogna
insegnargli, a questi prepotenti". La guardata, l'atteggiamento, le
parole di quell'uomo, gli dettero noia. E forse non era da farne caso,
potendo quelle parole non esser dette per lui; ma egli, come attratto
dal pericolo, si avvicinò d'un passo, per sentire dell'altro. Frattanto,
eccogli tra' piedi un contadino della Polcevera, che mettendogli sotto
il naso un canestro di ceppatelli di macchia, gli grida coll'accento
largo e spaccato della sua valle:

--Vitella di bosco! vitella di bosco!--

Fece un gesto di persona seccata, torcendo il capo, ma ancora tendendo
l'orecchio per sentire quell'altro. E il contadino ripigliava,
insistente come un moscone:

--Ma li guardi, come son belli! non par che dicano: mangiami?--

Non sapendo come liberarsene, domandò il prezzo: ma ancora e sempre
guardava il suo nonno.

--Per Vostra Signoria, quattro soldi la libbra.--

Quattro soldi! Facciamo ad intenderci. Il soldo era la ventesima parte
della lira: ma la lira genovese d'allora valeva tre lire e quattro
centesimi della nostra moneta d'oggidì; il soldo valeva dunque un po'
più di quindici centesimi dei nostri; e ciò senza contare il ragguaglio
diverso fra la derrata e la moneta d'allora.

--Troppo cari;--notò il capitano.

--Eh, per lor signori!...

--Troppo cari, grazie!

--Grazie!--ripetè il contadino.--E ci ho perso il mio fiato, per un
grazie della sua bella bocca. Vedete un po' voi, Ghiglione!--proseguì,
volgendosi all'omaccione dalla torva guardatura.--Ma già, con questi
signori morti di fame non c'è altro da aspettarsi.

--No, caro, c'è dell'altro!--rispose il Fiesco, non vedendoci più lume.

E voltatosi di schianto, gli sferrò a pugno chiuso un tal colpo sul
mostaccio, che lo mandò rovescioni sull'orlo della gradinata.

Fu un putiferio. Quell'altro, levatosi con la faccia tutta sanguinante,
a gridare: così trattano i signori, spalleggiati dal re di Francia! E
l'omaccione dal canto suo: già bella prodezza, contro la povera gente!
ma non son chi sono, se non gli metto le budella al collo!

E brandiva uno spiedo, che portava appeso alla cintola. Un macellaio!
Fosse pure; ma non aveva per quella volta un agnello da scannare, nè un
bue da accoppare.

--Bravo, Ghiglione! Dàlli, al gatto! dàlli!--

Il capitano Fiesco aveva pronto e sicuro il sentimento delle grandi
occasioni. Era in ballo, voleva ballar bene. Per intanto, con un calcio
poderoso cacciò indietro parecchi, facendosi largo quanto bastasse per
isguainare la spada. Come l'ebbe in pugno, la menò attorno con forza; e
chi ne toccasse, suo danno.

--Questa val più del tuo spiedo!--gridò, tirandone un colpo al
minaccioso avversario, a cui cadde l'arma dal pugno.

--Popolo! popolo!--si vociava d'ogni parte.--È un nobile che fa il
prepotente. Dàlli al gatto! morte al gatto!

--Che gatto?--si rispondeva.--Che morte? E non è ancor preso, il gatto!
e lavora assai bene con l'unghie! A noi! a noi!--

Queste voci venivano dall'alto della strada. E colle voci i ferri; e
davanti ai ferri si apriva la calca, bestemmiando, piangendo, urlando,
gridando misericordia.

Messer Bartolomeo s'era fatto intorno un gran cerchio. La sua spada, non
tagliando più, per aver perso il filo, lacerava e ammaccava. E mentre
lavorava così di puntate e manrovesci, stava coll'occhio attento ad ogni
moto della folla; e a chi, col coltello nel pugno, strisciando a terra
s'ingegnava di venirgli sotto, allungava pedate, più forti ancora dei
colpi di spada.

--Eccolo qui, il gatto! prendetelo, se vi riesce, mascalzoni!--gridava.

E giù fendenti, giù manrovesci e puntate, quello che gli veniva meglio,
facendo fronte da tutti i lati, con le mani e coi piedi. Certo, non
poteva durar lungamente così. Ma durò tanto, che il soccorso gli venne.
Da tutte le case vicine avevano veduto il tafferuglio: erano case di
nobili, e in gran parte della gente dei Fieschi. Tutti quei cavalieri
avevano afferrate le armi, scendevano sulla strada, e ancora il capitano
Fiesco non aveva toccato altro che qualche scalfittura, quando gli
giunse man forte, e primo fra tutti il frate scudiero, che per far più
svelto aveva scalato una doppia fila di spalle, trattandole come spaldi
nemici; dond'era balzato nel vallo con la spada sguainata. Altro che
gatto! quello era stato peggio d'una tigre.

--Ben venuto in refettorio!--gli disse il capitano, ripigliando il suo
buon umore.--Ce n'è ancora una scodella per te, frate Alessandro.

--Che! arrivo tardi;--rispose il frate scudiero.--Non vedete come
scappano?

--Per andar fuori del tiro, sì; ma ora voleranno sassi, mio caro.

--E allora sotto, prima che pensino a farci fare la fine di Golía.

--Sì, sotto, sotto!--gridarono i cavalieri venuti in soccorso.--Ma da
che parte si comincia?

--Di qua!--rispose il capitano, additando verso il coro della
chiesa.--Si faticherà di più, risalendo la strada; ma avremo libere le
case nostre, e ci saremo anche accostati al palazzo del governatore.
Messer Roccabertino non vorrà mica starsene con le mani alla cintola.--

Consigliava bene, il capitano Fiesco. E la caccia, incominciata di là,
ebbe l'effetto di spinger la folla sotto gli arcieri della guardia, già
usciti dal palazzo al rumore della zuffa. Messer Roccabertino (ritornato
da Acqui, manco male!) occupò con la sua gente il campo di battaglia.
Non c'erano morti; ma i feriti abbondavano. E furono rimandati alle case
loro quei che potevano andarci; gli altri portati a braccia, aiutando
gli stessi cittadini, che per tal modo si levarono più presto di lì.
Mezz'ora dopo, tranne le chiazze di sangue che imbrattavano il selciato,
si vedeva piazza pulita.

Sciolto l'assembramento, e chetate alla meglio le ire cittadine, venne
la volta di una severa inchiesta. L'inchiesta, si sa, è sempre severa.
Il capitano Fiesco, eroe della giornata, non aveva nulla da nascondere;
narrò tutto per filo e per segno. Nè dal suo racconto dissentì troppo
quello che narrava il Ghiglione, mostrando il suo braccio affettato. Il
naso rotto del Polceverasco era andato a farsi ristagnare il sangue alla
fontana di Soziglia, nè fu il caso di chiamarlo in giudizio. Degli altri
feriti la prudenza del luogotenente aveva anticipatamente sottratti a
quel sommario processo i guasti e le querele. La giornata era tutta a
vantaggio dei Fieschi; e i Fieschi, amici del governo di Francia, non si
potevano trattar troppo male; tanto più ch'erano stati provocati. Anche
l'eccelso Gian Aloise, avvertito in fretta dell'accaduto, era sceso
dalla sua ròcca di Vialata con un drappello di cavalieri, e portava a
palazzo il peso della sua autorità. Raccomandava anch'egli concordia;
voleva anch'egli giustizia; ma sopra tutto che si levasse ogni argomento
di nuove dissensioni in città, insegnando a tutti il rispetto delle
leggi. Intanto lodava il cugino, che non si era lasciato sopraffare,
mostrando come i Fieschi si sapessero guardare da sè contro le violenze
dei mascalzoni.

--Per avventura, cugino Bartolomeo,--diceva egli sottovoce al valoroso
parente, mettendogli l'eccelsa mano sulla spalla,--sono stato io, con
certe parole un po' matte, che vi ho fatto saltar la mosca al naso? E
non mi pento di averle dette, se mai. Per opera vostra sapranno i
villani che a toccare i Fieschi ci si scottan le dita.--

Il capitano Fiesco sorrise, pensando che proprio a lui, nemico giurato
d'ogni discordia, era toccato di dare il mal esempio alle turbe. Ma in
verità, lo avevano tirato pei capelli.

A proposito di esempi, ce ne voleva uno, e terribile. Il luogotenente
Roccabertino non ebbe ritegno a darlo, sbandendo dalla città il conte
Bartolomeo Fiesco e il macellaio Ghiglione. Era la giustizia, sebbene
attenuata di molto, del cadì d'Alicante, di burlesca memoria, che
sentiva attentamente le ragioni dell'ebreo e quelle del cristiano; poi,
chiunque avesse ragione dei due, faceva somministrar loro venticinque
legnate per uno. Il Roccabertino, sangue spagnuolo, non arabo,
sopprimeva le legnate, contentandosi di bandir le due parti. Per altro,
non si fidassero troppo della sua grande bontà; a chi rompesse il bando
era minacciata la morte. E con ragione; che i banditi del mese innanzi
rientravano tutte le sere in città, e la giustizia n'aveva avuto uno
smacco.

--Intendiamoci, dunque;--diceva il signor luogotenente, nell'atto di
scendere dal suo tribunale.--Chi rompe paga; e a chi rompe il bando, è
pena la testa.

--Per quel che mi risguarda, non dubitate;--rispose il capitano
Fiesco.--Parto oggi stesso, e vado lontano, molto lontano, a condir con
le lagrime il duro pane dell'esule.

--Sta bene, sta bene;--borbottò il Roccabertino, passandogli accanto
accigliato.

Ma sotto voce aggiungeva:

--A Gioiosa Guardia, non è vero? Così potessi seguirvi!--




CAPITOLO XX.

Raggio di Dio.


Gioiosa Guardia! Gioiosa Guardia! E voi stavate là, bella ròcca dalle
cinque torri e dall'alta bandiera sventolante nel sereno, tra il
Graveglia e l'Entella, aspettando i vostri signori, ed annoiandovi
parecchio, nè più nè meno di don García, vostro grigio ed allampanato
custode. Ma quando la nobile coppia fu annunziata dal frate scudiero,
che faceva da battistrada, quando ella giunse alla vista delle cinque
torri, che gazzarra di falconetti dai vostri bastioni! che allegro
scampanío dal battifredo, e che gaio andirivieni di sagola, lunghesso
l'asta della bandiera, per dare ai ritornanti il triplice saluto del
drago nascente e del gatto sedente, affrontati sullo scudo bandeggiato
d'azzurro e d'argento!

La veneranda madonna Bianchinetta strinse lungamente al seno i suoi
figli, baciandoli e ribaciandoli. "Mi ridate dieci anni di vita"
esclamava la nobil signora, piangente di gioia. Nè a lei raccontarono
tutto ciò che avevano sofferto in quei tre mesi di assenza. Perchè
turbar la sua pace col racconto dei pericoli incontrati? Alla
vecchiezza adorata, che abbellisce la nostra casa dopo averla fatta
prosperare, noi non dobbiamo offrir altro che immagini ridenti, in
tributo di devozione, in ricambio di benefizi. Un soave tramonto è così
caro compenso alle nostre faticose giornate!

Ma del passato doloroso si ricordavano ben essi, che tanto ne avevano
sofferto. E si guardavano in viso, quasi per assicurarsi scambievolmente
della loro felicità. "Siamo noi?" dicevano. "Proprio noi, qui, nella
nostra pace, che è stata messa a così grave rischio laggiù? Tu l'hai
sopportato con animo forte, o Fior d'oro! E tu l'hai scongiurato con
ogni poter tuo, o Damiano, che non avresti saputo sopravvivermi! Ma
confessiamo, giunti alla riva, d'esserne scampati per un vero miracolo.
Anima del mio cuore, come dicono così bene di là dai Pirenei! anima
dell'anima mia!"

Nè solamente pensavano a sè stessi, come fanno nel loro egoismo tante
coppie felici. Si rattristavano ancora, e spesso, pensando al signor
Almirante, anima grande su tutte, raggio di Dio, così dolorosamente
sparito dalla faccia del mondo.

--Io gli ergerò un tempio nel mio cuore;--diceva Juana.--Egli ha data
la sua vita per benefizio del genere umano; ma a nessuna creatura
mortale è stato più cortese dispensatore che a me. Se egli non era, se
l'ingegno suo non divinava un mondo di là dai mari sconosciuti e
terribili, se la sua costanza non vinceva ogni difficoltà, se non
superava ogni ostacolo, ti avrei conosciuto io, bel conte? Un po' matto,
non è vero?--soggiungeva la bellissima donna, ridendo di quel suo bel
riso che invitava ai baci.--Ma io ti amo così. Troppo gravi e severi, vi
fanno santi, e andate ad abitar nelle nuvole. Anch'egli, il Giocomina,
di cui forse noi soli in Haiti abbiamo inteso il carattere divinamente
paterno, anch'egli ha amato, come ogni mortale; e felice tra tutti,
nella medesima grandezza delle sue sventure, ha meritato l'amore d'una
Beatrice di Bovadilla.--

Povera Bovadilla! meritava bene di non essere dimenticata, da due cuori
amanti, da due anime elette. Le avevano detto, innanzi di lasciare la
Spagna: "marchesa, venite con noi; parleremo ogni giorno di lui." Ed
ella aveva tristemente risposto: "no, amici, no; la mia vita è infranta.
Laggiù, nel mio monastero di Siviglia, raccolta nell'ombra, parlerò di
lui ogni giorno con Dio; con Dio che riceve i cuori afflitti, e nel
dolore li affina, per renderli degni di quell'amor vero e profondo, che,
non senza il suo consiglio, era nato e cresciuto."

Dal suo convento di Santa Chiara la dolente signora scriveva
nell'ottobre di quell'anno ai suoi buoni amici di Gioiosa Guardia:

"Penso che davvero non vi vedrò più in Ispagna. Il re Ferdinando
trionfa: chi l'avrebbe mai detto? Sapete che dopo un colloquio con
Filippo suo genero, colloquio dal quale non era uscito senza vergogna,
egli aveva presa la via d'Aragona, lasciando ogni sua pretensione alla
reggenza di Castiglia. Di là, s'era imbarcato per Napoli, volendo pagare
Consalvo di Cordova della stessa gratitudine onde aveva pagato il nostro
immortale Colombo. Ma ecco, mentre il generoso Ferdinando è in viaggio,
il 25 settembre, muore a Burgos il re Filippo; Giovanna impazzisce del
tutto, la poveretta! e il virtuoso Ximenes persuade i miei Castigliani a
riconciliarsi col re d'Aragona, unico che possa prender le redini dello
Stato. Sicuro; e si è giunti a questo, di richiamar Ferdinando. Questi,
come vi ho detto, era in viaggio; i venti contrarii avevano obbligato il
suo naviglio a cercare un rifugio in un punto della spiaggia di Liguria,
che dovrebb'essere molto vicino a voi, e che si chiama Portofino.
Avvisato laggiù, non si degna di rispondere; vuole dar tempo al tempo,
il gran furbo. Arriva a Napoli, dove lo raggiungono altre preghiere; fa
il sordo; ma fino a quando? Io son sicura che al terzo scongiuro si
commuoverà la grande anima sua, e noi riavremo quella gioia di re."--

Quello che non poteva ancor dire la marchesa di Moya, scrivendo
nell'ottobre del 1506, soggiungeremo noi ora. Il re Ferdinando si fece
ancor pregare e scongiurare dell'altro, dando tempo al Ximenes di
avvezzare i Castigliani alla nuova reggenza, e di fargliela perfino
proporre dalla figliuola Giovanna; la quale, nei lucidi intervalli della
sua ragione, vedeva pur troppo di non reggere al peso della corona. Ed
egli non si mosse da Napoli, se non il 4 giugno dell'anno seguente.
Anche qui i venti contrarii lo molestarono nel suo tragitto; di guisa
che egli e la regina Germana presero terra a Genova. Era anche nei
disegni del re Cattolico di avere un colloquio con suo zio il re
Cristianissimo, che aveva allora allora ripigliato Genova, dopo la sua
ribellione e il tragico dogato di Paolo da Novi. Il re Luigi era già in
moto per ripassare le Alpi: saputo il desiderio del nipote (un nipote
che aveva dieci anni più dello zio) gli diè la posta a Savona, dov'egli
si volse per terra, e dove Ferdinando andò per mare a raggiungerlo, il
28 di giugno. Vi fu ricevuto con grandissima pompa, e non ci stette
senza sospetto, nè senza le opportune cautele, facendo calare a terra
quanta gente più potè dalle navi. Stettero i due re quattro giorni in
istretti e segreti ragionamenti; parvero dimenticare le ruggini antiche,
e certamente lavorarono di buzzo buono a ribadire ognuno dei due la sua
parte di catene ai piedi e alle mani della povera Italia.

Ferdinando s'era condotto dietro Consalvo di Cordova, il vero
conquistatore del reame di Napoli. E gliene aveva levato il comando,
promettendogli in Ispagna il gran maestrato dell'ordine di Sant'Iago,
che poi con la solita fede, si guardò bene di dargli. Avendolo con sè,
dovette presentarlo al re Cristianissimo: il quale, pur ricordando di
aver perduto Napoli pel valore del Gran Capitano, non si saziava di
contemplare un tant'uomo, e con la sua bella cortesia francese impetrò
dall'ospite l'onore di aver Consalvo alla loro mensa, unico suddito,
messo alla pari con una regina e due re. Fu l'ultimo giorno della gloria
di Consalvo, che in Ispagna non fu più adoperato dal suo signore, nè per
opere, nè per consigli; e rimase ott'anni a sfiorire nell'ombra, per
morire il 2 dicembre 1515. Allora, poi, scoppiò per Consalvo la
gratitudine del re Ferdinando, com'era scoppiata per Cristoforo Colombo,
le cui reliquie, tolte nel 1513 dal chiostro di San Francesco in
Valladolid e trasferite a quello dei Certosini _de las Cuevas_ di
Siviglia, ebbero per concessione regale l'onor della scritta:

    _Por Castilla y por Leon
    Nuevo mundo halló Colon._

Era un distico fiorito sulle labbra della riconoscente Isabella, e
passato in proverbio nel popolo, prima che fosse inciso nel marmo. Ad un
morto, del resto, si poteva render giustizia, purchè fosse ben morto; e
sette anni erano sicuramente bastati a darne certezza. Figurarsi! Era
così morto, anche nella memoria degli uomini, che il _nuevo mundo_ da
lui _hallado_, ossia ritrovato, non da lui prendeva nome, ma da un altro
italiano, che ne aveva delineati i contorni, mettendo la sua
riveritissima firma a' piedi del foglio. _Sic vos non vobis._ Dicono che
lo sbaglio di prendere per iscopritore del nuovo continente il modesto
disegnatore d'una carta da navigare, sia stato commesso da una società
di dotti. Possibilissimo; è dei dotti l'errare, come degli ignoranti
l'andare sull'orma.

Abbiamo accennato di Luigi XII, che aveva ripreso Genova, ribellata al
suo alto dominio; e dobbiamo dir brevemente come fosse andata la
ribellione. Al tumulto del luglio, ove il capitano Fiesco, andando a
casa sua col miglior proposito del mondo, aveva fatto uno
sproposito[tn362] madornale, altri n'erano seguiti, non più potuti
sedare dal luogotenente Roccabertino, nè dal governatore di Ravenstein;
i quali, lasciato Galeazzo di Salazar con un buon presidio nel
Castelletto, dominante la città, andarono altrove ad attendere le
risoluzioni del re; mentre i nobili si ritiravano nelle loro castella, e
con essi la più parte dei popolari, poichè le Cappette avean presa la
mano, fatto nuova magistratura di tribuni ed eletto un doge dei loro,
che a tutto provvedesse, a restaurare l'autorità della repubblica nelle
riviere, da Sarzana a Monaco, e a preparare la resistenza contro le armi
di Francia. Troppa carne al fuoco; e mentre si perdevano in un vano
assedio sotto Monaco, che era di Luciano Grimaldi, e in minacciose
scorreríe da Rapallo a Sarzana, per abbattere la potenza di Gian Aloise
Fiesco, non si rafforzavano abbastanza in città, per contenere gli
assalti del re Cristianissimo. Il quale si calò nell'aprile del 1507 dal
Giogo, e posto quartiere in Rivarolo, spinse tosto le sue avanguardie,
coi signori di Chaumont e di La Palisse, sulla vetta di Promontorio,
ch'era certamente il punto più debole della difesa di Genova. Fu
accanita la resistenza del popolo, e il La Palisse ricacciato con gran
perdite, egli stesso gravemente ferito d'un verrettone alla gola; ma al
signore di Chaumont, dopo un primo rovescio, venne pur fatto di
collocare in buona postura due cannoni, che coglievano di fianco i
difensori del colle. Cedettero questi; e con essi, per tema d'esser
tagliati fuori, anche i defensori del bastione si ritrassero verso il
Castellaccio, lasciando sguarnito il passo di Promontorio, donde il
nemico si mostrò minaccioso alla città costernata. Si venne agli
accordi, e per la città trattarono i popolari, la cui partecipazione
alla rivolta era andata meno oltre; ma i patti furono durissimi, e il 28
aprile il re Cristianissimo, entrato per la porta di San Tommaso in
città, levando la spada, potè gridare con voce alta e minacciosa:
"Genova superba, ti ho domata coll'armi". Si rizzarono le forche in più
luoghi; parecchi della plebe vi furono impiccati, ed uno dei popolari,
Demetrio Giustiniano. Molti furono proscritti: si tornò il governo
all'antica forma, metà degli onori ai nobili, metà ai popolari, che più
non rifiatavano; onde ne facevan le grasse risa i vincitori.

Stette in Genova il re Luigi fino al 14 maggio, sfoggiatamente ricevuto
e banchettato in Vialata dall'eccelso Gian Aloise Fiesco, reduce dal suo
castello di Montobbio. Nè gli mancò l'omaggio delle dame, nel convito
offertogli da madonna Battistina vedova di Giovanni Ceba Grimaldi, la
quale avea pure un suo parente nel novero dei proscritti. Ricevuto il
giuramento di fedeltà dagli anziani sulla piazza del pubblico palazzo,
decretò che si mutasse il conio della moneta; e laddove era scolpito
_Cunradus rex Romanorum_, in memoria dell'antico privilegio imperiale
del 1138, fu sostituita la leggenda: _Ludovicus XII rex Francorum Januae
dux_, con lo scudo dei tre gigli e la corona, in luogo dell'antica
croce. La quale comparve bensì nel rovescio, aggiunta sull'antico
castello; ma la scritta non fu più _Janua_ come era prima, a significare
la città signora di sè, ma _Comunitas Januae_, per dire che un comune si
riconosceva, non più una città dominante, un capo di repubblica.

Tacciamo della fortezza innalzata allora a Capo di Faro, e chiamata a
scherno la Briglia; di Paolo da Novi, tintore e doge, accenniamo
brevemente che andato a Pisa, e imbarcato su d'un brigantino per Roma,
fu riconosciuto dal capitano della nave, un Corso già stato suo soldato,
e da lui venduto per ottocento ducati ai Francesi. Condotto a Genova il
primo di giugno, e rinchiuso nella fortezza del Castelletto, fu il
quindici di luglio condotto al patibolo, rizzato per lui sulla piazza
del pubblico palazzo. Nobili e popolari assistevano al legale
assassinio. Morì da eroe; il capo troncato messo in cima d'una lancia
sulla torre del palazzo; del corpo fatte quattro parti, ed appese sulle
porte della città. Bene ispirato sul palco, innanzi di dare il collo
alla mannaia, aveva egli esortati i suoi cittadini a non fidarsi dei
grandi, qualunque fosse la classe loro, di nobili, o di popolo grasso,
di tetti appesi, o di cappellacci; mentre egli, per fidarsi
generosamente di essi, era condotto a quel termine.

Ed anche meglio ispirato il capitano Fiesco, che si era tappato nella
sua Gioiosa Guardia, nè per preghiere, nè per larghi partiti che gli
facessero, voleva più spiccarsi di là. Passavano i congiunti, e li
accoglieva a festa; ma non isperassero di tirarlo nei loro
armeggiamenti. Che cosa aveva egli a vedere nelle ambizioni di
quell'ottima gente del suo casato, egli rifatto dentro e fuori,
ribattezzato e riconfermato in altre ambizioni più alte, nel nome e
nella fede di Cristoforo Colombo? Più largo orizzonte vedeva egli,
quantunque paresse chiuso in quel fondo di valle.

Era capitato tra gli altri messer Filippino. Il giovanotto s'era coperto
di gloria in una fazione presso la Spezia, combattendo contro le forze
dei commissarii mandati dal governo popolare a sommuovere la riviera di
Levante. Carico di allori, non aveva saputo resistere alla tentazione di
fare una visita alla Gioiosa Guardia. Il capitano Fiesco lo avrebbe
tanto volentieri fatto ritornare sopra i suoi passi, e per via più
spedita, come a dire per una delle grandi finestre, che davano luce alla
sua caminata. Ma la contessa Juana osservò giustamente che quello non
sarebbe stato un tratto da ospiti. Messer Filippino era un seccatore; ne
conveniva anche lei. Ma forse era diventato tale, perchè non gli si era
mai parlato chiaro; e del parlargli chiaro non c'era mai stata
l'occasione.

--Mi lasci sola una mezz'ora con lui?--chiese ella al marito.--Egli
parla, ed io gli rispondo.

--Che cosa gli dirai?

--Ecco il geloso!

--No, sai? non è per questo. Di' piuttosto il curioso.

--E al curioso non posso dir niente fin d'ora. Una risposta, per esser
calzante, deve conformarsi alla domanda; non ti pare?

--È giusto;--conchiuse il capitano Fiesco.--E il curioso, poichè il
geloso non c'è, ti lascia libero il campo.--

Messer Filippino ebbe così il destro di parlare, e la disgrazia di dar
nella pania. Amava disperatamente; voleva compiere imprese mirabili per
la donna amata, come un altro Lancillotto del Lago; si sarebbe ucciso,
se la nuova regina Ginevra non gli avesse dato la sua mano a baciare. La
contessa Juana, che di tornar regina non voleva saperne, ribattè punto
per punto, senza andare in collera, il pazzo ragionamento di messer
Filippino. Baciarle la mano? Lo poteva sempre, in solenni occasioni,
davanti alla corte congregata, e nel cospetto di Artù. Far grandi
imprese, incontrar pericoli strani per lei? Non n'era più il caso; e
quando c'era stato, non lui, Filippino, ma un altro Fiesco ci aveva
messa la vita, compiendo tali prodezze, che a narrarle sarebbero parse
incredibili. Ed ella amava quel prode. Quanto all'uccidersi, perchè? Non
valeva niente la sua vita? E se non valeva niente, perchè l'offriva a
lei? Facesse meglio, il buon cugino; vivesse per l'utile della sua
patria, e per la gloria del proprio nome; fosse cavaliere con la sua
parente, come ella voleva esser tenuta da tutti; e a lei ne dèsse una
prova solenne, rispettandola un poco.

Il bel Filippino chinò la fronte, umiliato e contrito. Risanò del suo
male, perchè era giovane, e la gioventù abbonda di forze riparatrici. Nè
con questo si vuol negare che altri risanino, perchè son vecchi; ma in
questo caso è forse da conchiudere che la vecchiaia non abbia più forze
bastanti da nutrire a lungo i suoi mali. Del resto, giovani o vecchi,
che vuol dire? È degli amori come dei semi della parabola: hanno bisogno
anch'essi del terreno propizio; gittati sulla strada, non hanno tempo a
metter le barbe; nei sassi non durano; nelle spine si affogano.

L'ospite rimase poco alla Gioiosa Guardia, quel giorno. Forse gli pareva
che la ròcca non meritasse punto il suo nome. Aveva anche tanto da fare,
il giovinotto! Di restare a cena neanche parlarne, poichè doveva
ritrovarsi quella sera a Rapallo. Il capitano Fiesco lo lasciò andare,
con quelle vuote parole che si smozzicano tra i denti quando non si ha
niente da dire, e con quell'aria un po' melensa, che gli uomini accorti
san prendere così bene ad imprestito dagli sciocchi, quando a mostrarsi
accorti non c'è nè gusto nè grazia. E se ne andò in giardino, dove la
contessa non tardò molto a raggiungerlo.

--Se Dio vuole,--diss'ella, sedendo accanto a lui sopra un bel sedile di
quella pietra che la vicina Lavagna mandava così gentilmente lavorata ai
suoi conti,--questa volta è finita. Gran cosa, poter parlare con
libertà! Filippino non torna più a far sonetti.

--Vorrai dire che non tornerà più a recitarne, del Petrarca, nè
d'altri;--rispose il capitano Fiesco, che non era geloso, ma non sapeva
perdonare a Filippino le sue smanie amorose.--Non è nato poeta, quel
poveraccio; e ti sarà anche riuscito un cattivo oratore. Ah, non mi dir
nulla; non voglio fare il curioso; mi basta d'esserne fuori. Pensiamo ad
altro, Fior d'oro. Vedi che tramonto di sole! che bellezza! che gloria!
Chi non sarebbe poeta, davanti ad uno spettacolo come questo? Ah, se la
mia bella amica volesse!...

--Che cosa?

--Prendere il suo _maguey_, che dorme nella sua camera, appeso
all'arpione, e improvvisare un bel canto, nella dolce lingua di Haiti,
come due anni fa sulla spiaggia di Cahonana!--

A quel ricordo si commosse Fior d'oro, e si strinse fremendo al petto di
lui.

--Ahimè!--mormorò ella.--Non ricordi, Damiano, come diceva l'_areyto_?

    Triste, il sento, è questa pace,
    Se il bel sol d'Haiti fu;
      L'augel de' boschi tace,
      Non canta in servitù.

--Vero;--rispose Damiano;--ma l'_areyto_ non prometteva di tacere per
sempre. Il canto morrà sul labbro, dicevi allora, ma starà sepolto nel
cuore che l'amò tanto.

    Dolce al par d'una carezza
    Dell'amor, qui poserà....
      Se il cor non mi si spezza,
      Rivivere potrà.

Fior d'oro rimase un istante pensosa, più stretta che mai la persona al
petto del suo Damiano, e la testa mollemente inchinata sulla guancia di
lui. Tutto ad un tratto si alzò, spiccandosi dall'amato, e mettendosi un
dito sul labbro, come per esortarlo a star cheto; poi, rapida si dileguò
tra i roseti, andando verso le sue stanze. Perchè? Damiano sperò di
averlo indovinato, il perchè; e la sua speranza si mutò in una lieta
certezza, quando vide Anacoana tornare a lui col tamburello haitiano.

--Adorata!--gridò, abbracciandola forte.

--Giù le mani!--diss'ella, con accento e con gesto che volevano parer
molto severi.--Così si rispettano i poeti?--

Damiano, gran fanciullone un po' viziato dalle carezze, ma cavaliere
nell'anima e buon servitore della sua dolce regina, non solamente si
chetò, ma si chiuse in religioso silenzio. La dolce regina, seduta
daccanto a lui, stava guardando il sole, che volgeva superbo all'occaso,
sotto un gran padiglione di porpora, onde frangiava i lembi d'un bel
color d'oro paglierino, rutilante e vibrante come cosa viva. Scendeva il
bell'astro, lento e glorioso, mandando un raggio obliquo sulla marina,
la cui superficie, tinta d'azzurro carico, luccicava interrottamente per
lunghe e tremule chiazze di rosso cremisi, balenando, fremendo,
rabbrividendo, sotto la luminosa carezza del suo vincitore. Per le
intente pupille accogliendo quella gran luce, pensava la bellissima
Anacoana, mentre col sommo delle dita veniva percuotendo la pelle
squammosa del _maguey_; pensava, e canticchiava sommessamente,
ricercando insieme, alla guisa degli antichi trovieri, il suono ed il
motto.

L'ispirazione era giunta; lo dissero ad un tratto il baldo sorriso delle
labbra e il lampo trionfale degli occhi. E così prese a dire improvviso
la Corinna di Haiti, per una volta ancora cantando nell'idioma della
patria lontana; dolce e triste idioma, che doveva morire con lei!

    Il sole, bel sole, discende
      Al bacio dell'onda marina:
      La bella le braccia gli stende,
      E palpita, freme, s'inchina.
        Di lividi mostri alla caccia,
      Gigante, finisti il tuo dì;
      Ti schiude le cerule braccia,
      Ti stringe ella sempre così.
            Schiere di spiriti rosei
            Vigili stanno su te;
            Oro sul capo ti piovono,
            Perle ti spargono ai piè.

    Tu pure bel raggio di Dio,
      Nocchier che gran notte vincesti!
      Tu giusto, tu mite, tu pio,
      Tu degno dei doni celesti!
        Fu dura la lunga giornata,
      Gran rischio a men salde virtù!
      E pace la morte invocata,
      E gloria la tomba ti fu;
            Mentre ripensa la vergine
            Terra il tuo bacio e la fè,
            Quando, già domo l'Oceano,
            Lieta la festi di te.

    Gran luce, su quante del mondo
      Arrisero all'aspro viaggio!
      Gran luce, e fu gaudio profondo
      Scaldarsi al divino tuo raggio.
        Così dentro spera di sole
      Un nembo di vite passò;
      Felice tra guizzi e carole
      In gloria di luce nuotò.
            Gloria sul fido manipolo
            Ch'ebbe sua luce da te!
            Mute dilagan le tenebre
            Sopra le corti dei re.

    Bel sole! nei vortici oscuri
      Lo incalza de' mostri lo sdegno:
      Nell'ombra gli spiriti impuri
      Anelano un'ora di regno.
        Ma lui nella pompa primiera
      Il novo mattino vedrà:
      Nei putridi stagni la schiera
      Dei mostri notturni cadrà.
            Te, divin raggio, più limpide
            Sfere richiamano a sè:
            Questa, che l'odio contamina,
            Degna non era di te.


FINE.




INDICE.


      I.--Un bel sogno avverato                       Pag.   1
     II.--Ambasciator non porta pena                   "    19
    III.--I commentarii di Cesare                      "    37
     IV.--L'epistolario di Cicerone                    "    58
      V.--Al soccorso di Pisa                          "    75
     VI.--Filemone e Bauci                             "    93
    VII.--"Dove amore non è, più nulla è il resto"     "   111
   VIII.--Dolenti note                                 "   131
     IX.--Spera di sole                                "   148
      X.--_Soy Bovadilla_                              "   166
     XI.--Invito a palazzo                             "   187
    XII.--La Sfinge regale                             "   203
   XIII.--Si viene a mezza spada                       "   221
    XIV.--A Laredo! a Laredo!                          "   241
     XV.--Il ragno e la sua tela                       "   258
    XVI.--Grazia, giustizia, e un granellin di follìa  "   276
   XVII.--Sposi novelli                                "   294
  XVIII.--_In manus tuas, Domine....._                 "   316
    XIX.--Quel che s'incontra per via                  "   336
     XX.--Raggio di Dio                                "   357




      *      *      *      *      *      *




NOTA DEL TRASCRITTORE


L'ortografia e la punteggiatura originali sono state mantenute.

Sono state effettuate le seguenti correzioni [testo corretto tra
parentesi]:

  grande in che vivemo del vostro consisiglio [consiglio]

  contratte in uno spasimo d'agoscia [d'angoscia] profonda.

  La marchesa di Maya [Moya] rimase un istante sovra

  interlecutore [interlocutore].--E la donna, se ben ricordo,

  negli occhi. Piangeva, la belissima [bellissima] donna;

  il sole, per unirsi ai lore [loro] compagni.

  --Lucena, siate oggi, con iicenza [licenza] di Sua Altezza,

  L'annunzio del viagggio [viaggio] di suo fratello a Burgos

  di qualità diversa dalla comune dagli [degli] uomini.

  proposito del mondo, aveva fatto uno spoposito [sproposito]


Grafie alternative mantenute:

  García/Garcìa
  pazzie/pazzìe
  prigionìa/prigionía/prigionia
  rocca/ròcca
  signoría/signorìa/signoria



***END OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK RAGGIO DI DIO***


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work, (b) alteration, modification, or additions or deletions to any
Project Gutenberg-tm work, and (c) any Defect you cause.


Section  2.  Information about the Mission of Project Gutenberg-tm

Project Gutenberg-tm is synonymous with the free distribution of
electronic works in formats readable by the widest variety of computers
including obsolete, old, middle-aged and new computers.  It exists
because of the efforts of hundreds of volunteers and donations from
people in all walks of life.

Volunteers and financial support to provide volunteers with the
assistance they need are critical to reaching Project Gutenberg-tm's
goals and ensuring that the Project Gutenberg-tm collection will
remain freely available for generations to come.  In 2001, the Project
Gutenberg Literary Archive Foundation was created to provide a secure
and permanent future for Project Gutenberg-tm and future generations.
To learn more about the Project Gutenberg Literary Archive Foundation
and how your efforts and donations can help, see Sections 3 and 4
and the Foundation web page at http://www.gutenberg.org/fundraising/pglaf.


Section 3.  Information about the Project Gutenberg Literary Archive
Foundation

The Project Gutenberg Literary Archive Foundation is a non profit
501(c)(3) educational corporation organized under the laws of the
state of Mississippi and granted tax exempt status by the Internal
Revenue Service.  The Foundation's EIN or federal tax identification
number is 64-6221541.  Contributions to the Project Gutenberg
Literary Archive Foundation are tax deductible to the full extent
permitted by U.S. federal laws and your state's laws.

The Foundation's principal office is located at 4557 Melan Dr. S.
Fairbanks, AK, 99712., but its volunteers and employees are scattered
throughout numerous locations.  Its business office is located at
809 North 1500 West, Salt Lake City, UT 84116, (801) 596-1887, email
[email protected].  Email contact links and up to date contact
information can be found at the Foundation's web site and official
page at http://www.gutenberg.org/about/contact

For additional contact information:
     Dr. Gregory B. Newby
     Chief Executive and Director
     [email protected]

Section 4.  Information about Donations to the Project Gutenberg
Literary Archive Foundation

Project Gutenberg-tm depends upon and cannot survive without wide
spread public support and donations to carry out its mission of
increasing the number of public domain and licensed works that can be
freely distributed in machine readable form accessible by the widest
array of equipment including outdated equipment.  Many small donations
($1 to $5,000) are particularly important to maintaining tax exempt
status with the IRS.

The Foundation is committed to complying with the laws regulating
charities and charitable donations in all 50 states of the United
States.  Compliance requirements are not uniform and it takes a
considerable effort, much paperwork and many fees to meet and keep up
with these requirements.  We do not solicit donations in locations
where we have not received written confirmation of compliance.  To
SEND DONATIONS or determine the status of compliance for any
particular state visit http://www.gutenberg.org/fundraising/donate

While we cannot and do not solicit contributions from states where we
have not met the solicitation requirements, we know of no prohibition
against accepting unsolicited donations from donors in such states who
approach us with offers to donate.

International donations are gratefully accepted, but we cannot make
any statements concerning tax treatment of donations received from
outside the United States.  U.S. laws alone swamp our small staff.

Please check the Project Gutenberg Web pages for current donation
methods and addresses.  Donations are accepted in a number of other
ways including checks, online payments and credit card donations.
To donate, please visit:
http://www.gutenberg.org/fundraising/donate


Section 5.  General Information About Project Gutenberg-tm electronic
works.

Professor Michael S. Hart is the originator of the Project Gutenberg-tm
concept of a library of electronic works that could be freely shared
with anyone.  For thirty years, he produced and distributed Project
Gutenberg-tm eBooks with only a loose network of volunteer support.

Project Gutenberg-tm eBooks are often created from several printed
editions, all of which are confirmed as Public Domain in the U.S.
unless a copyright notice is included.  Thus, we do not necessarily
keep eBooks in compliance with any particular paper edition.

Most people start at our Web site which has the main PG search facility:

     http://www.gutenberg.org

This Web site includes information about Project Gutenberg-tm,
including how to make donations to the Project Gutenberg Literary
Archive Foundation, how to help produce our new eBooks, and how to
subscribe to our email newsletter to hear about new eBooks.