Monsù Tomè : racconto

By Anton Giulio Barrili

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Title: Monsù Tomè
        racconto

Author: Anton Giulio Barrili

Release date: September 10, 2025 [eBook #76855]

Language: Italian

Original publication: Milano: Treves, 1885

Credits: Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (This file was produced from images made available by the HathiTrust Digital Library)


*** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK MONSÙ TOMÈ ***


                               MONSÙ TOMÈ


                                RACCONTO

                                   DI
                          ANTON GIULIO BARRILI



                                 MILANO
                       FRATELLI TREVES, EDITORI.
                                 1885.




                         PROPRIETÀ LETTERARIA.

                  _Riservati i diritti di traduzione._




MONSÙ TOMÈ




CAPITOLO PRIMO.

La presentazione dell’eroe.


«Niente si perde, a questo mondo, e tutto viene in taglio, quando è la
sua ora.» Così dice la filosofia popolare, espressa in proverbi, e così
ripeteva spesso la mia carissima nonna, filosofando la parte sua. È poi
vera, la sentenza? Pensandoci bene, mi pare che ella debba intendersi
con qualche restrizione. Vedete, per esempio; mi viene oggi in taglio
anche il ricordo di Monsù Tomè, ma pur troppo si è perduta nell’animo
mio la memoria del suo riverito cognome. L’ho io mai saputo, del resto?
Dubito, in verità, di non aver conosciuto quell’ottimo personaggio
altrimenti che col nome di battesimo, raccorciato alla piemontese, e
nobilitato dal suo titolo accompagnativo. Comunque sia, scrivo oggi
di lui, prima che si perda anche, cancellato dalla mia memoria, il suo
nome di battesimo.

_Bartolomeo, Tomè, Monsù Tomè_, fu un nome proprio assai comune nel
secolo scorso e nei principii del secolo presente. Ora hanno preso il
sopravvento gli Ettori, gli Alessandri, i Cesari, gli Attilii, tutti
nomi d’eroi, che fanno augurar bene delle nuove generazioni. Ma anche
Monsù Tomè fu un eroe; per lui l’esperimento è fatto, e non c’è più da
temere che gli augurii si sperdano, o che le speranze vadano in fumo.

Conobbi il brav’uomo a Loano, dove, nei primi anni della mia
adolescenza, andavo spesso a passare qualche settimana, in casa d’una
mia zia. Tommaso Marchesani, il mio vecchio amico loanese, che aveva
forse trent’anni più di me, e trenta meno di Monsù Tomè, aveva i
requisiti necessari per un ottimo anello di congiunzione. Mercè sua,
io quattordicenne entrai in una certa dimestichezza con quell’uomo, che
già era a mezza strada fra i settanta e gli ottanta. Anche così avanti
negli anni, Monsù Tomè era tuttavia di buon osso. Alto ed asciutto,
leggermente curvo nelle prime vertebre, ma sostenuto in vista dalla
rigida andatura soldatesca, il viso incartapecorito, ma con la punta
del naso rosseggiante come una miniatura di vecchio antifonario sul
bianco delle basette sempre irte a guisa di stecchi, Monsù Tomè aveva
il tipo dell’antico ufficiale napoleonico; e cert’aria di malinconia
che regnava su quel volto d’altri tempi, pareva rimpiangere un lontano
periodo di cadute grandezze, di eroiche imprese, di memorabili gesta,
non più in armonia con la prosaica mediocrità del giorno presente.
Sarà forse per questo, che io, quando penso a Don Chisciotte, il
triste cavaliero della Mancia, non so figurarmelo altrimenti che con la
fisonomia di Monsù Tomè, ufficiale di sanità, o comandante di spiaggia
(il titolo non lo rammento più esattamente) nella fedelissima città di
Loano.

In quel modesto ufficio egli era stato sbalestrato, dopo i trattati del
Quindici e il ritorno dei reali di Sardegna a Torino, con rispettivo
accrescimento di territorio sulla riva del mare ligustico. Era solo,
oramai, del suo sangue; in gioventù non aveva avuto agio di prender
moglie, e a prenderla in vecchiaia non c’era più sugo; perciò viveva i
suoi ultimi anni da scapolo, aspettando il bacio nuziale della morte
e contentandosi dei servigi d’una vecchia fantesca. Parlava poco, di
solito; anzi, per sei giorni della settimana, non diceva che le parole
necessarie al disbrigo delle facende d’uffizio, le quali, in verità,
non gli davano molto travaglio. Ma egli era solo, anche in uffizio; i
registri li teneva in ordine lui, e, quando aveva segnati i suoi arrivi
e le sue partenze in libera pratica, trovava ancora il modo di riempire
con certe note storiche la colonna delle osservazioni.

Era una specie di letterato, il povero Monsù Tomè; uno scrittore andato
a’ cani. La sua prima vocazione era stata di farsi prete; perciò aveva
fatto un corso di studi classici nel seminario di Mondovì; ma la guerra
era scoppiata improvvisamente tra il Piemonte e la Repubblica Francese,
ed egli aveva barattato la tonaca e il nicchio del seminarista, con la
falda mostreggiata e la lucerna del granatiere di Monferrato. Ciò basti
a spiegarvi la letteratura di Monsù Tomè; ora torniamo alla settimana
del vecchio comandante di spiaggia. La domenica, giorno sacro al riposo
dei registri, Monsù Tomè scioglieva volontieri la lingua, se trovava
qualcheduno con cui passare un’oretta. Se non lo trovava, niente paura;
egli mostrava con l’esempio che un uomo può bastare a sè stesso. Quel
giorno di riposo, egli non lo dava più al re, lo concedeva alla propria
persona, ma cercando egualmente di far onore al re Carlo Alberto, che
egli serviva fedelmente, dopo aver servito i suoi antecessori, e lo
stesso Napoleone, ficcatosi in mezzo a loro, come una bietta enorme
nella spaccatura d’un tronco di quercia. Prima di tutto, si metteva in
gran divisa, come ne aveva il diritto per il suo grado di luogotenente;
calzoni di nanchino, uniforme di verde indugio, o di verde bottiglia,
se vi piace meglio, bottoni dorati e mostreggiature gialle, la spada
alla cintura, e sulla testa un gran casco di cuoio lucido, in forma
di pentola rovesciata, con una grossa nappa gialla che faceva capolino
dallo spigolo. Così vestito, passeggiava pomposo per le vie di Loano;
poi, ritornava a casa, nella sala da pranzo, dov’era ancora la tovaglia
sul desco, e sulla tovaglia un bel fiasco di vino, con dieci bicchieri
schierati in battaglia. Perchè dieci? Non so; forse rappresentavano
l’ultima misura di capacità del bevitore. Perchè in fila? Or ora
vedrete. Monsù Tomè li riempiva tutti, uno dopo l’altro, per non aver
da durare altra fatica; li contemplava un tratto, con occhio benevolo;
poscia si adagiava sul seggiolone, accanto alla tavola, con la spada
raccolta fra le ginocchia, e il suo casco tirato un po’ indietro
verso la nuca, come un buon guerriero che non è in mostra sulla
piazza d’armi, o in volta per le strade, e non deve più dare esempio
di perfetta compostezza agli inferiori, nè di euritmia militare ai
borghesi.

Così seduto, contemplava con aria di suprema soddisfazione i suoi dieci
bicchieri; stringeva l’occhio ammiccando; poi stendeva la mano al primo
della fila e lo sorseggiava beatamente, facendo schioccare la lingua
contro il palato, e ad ogni schioccata brontolandosi un «bene!» Quindi,
deposto sulla tavola il bicchiere vuoto, metteva mano al secondo, e
ripeteva l’operazione. Il terzo andava come il secondo e come il primo;
ma dopo il terzo incominciavano le novità, perchè Monsù Tomè sentiva
il bisogno di farsi qualche complimento in piemontese, che era la sua
lingua preferita delle grandi occasioni.

— Beva, Monsù Tomè! Beva pure liberamente! Questo è un vino generoso;
non c’è pericolo che dia alla testa.

E obbediva alla sua esortazione, e beveva il quarto.

— Coraggio, Monsù Tomè! Perchè non beve? — domandava egli, dopo
un’altra pausa di qualche minuto. — Animo, via, non pensi alle
malinconie; mandi giù quest’altro!

E tracannava il quinto, come potete immaginarvi.

Gli occhi del comandante brillavano sempre più vivi, volgendosi dai
cinque bicchieri vuoti ai cinque bicchieri pieni.

— Andiamo! Non faccia tante cerimonie! — ripigliava, dopo aver passata
quella seconda rassegna. — Si vive una volta sola, e poi... non si beve
più.

E vuotava il sesto, con serenità di filosofo.

Al settimo, ordinariamente, la voglia c’era, ma le forze scemavano; la
mano andava più lenta alla tavola e tornava un po’ più vacillante alla
bocca.

— Come? Ella trema, Monsù Tomè? Non ha vergogna? Un uomo come Lei,
che ha... operato su tutti i fiumi della Russia, avrebbe paura d’un
bicchiere di vino?

Era l’argomento achille della sua logica, lo stimolo più acuto alla
sua fibra intorpidita. Punto sul vivo, Monsù Tomè tracannava d’un fiato
l’ottavo, il nono, il decimo, vedendo confusamente, come attraverso una
nube, l’acqua paurosa, eppure dominata, di tutti i fiumi della Russia.

Ahimè! Dopo quel decimo bicchiere, Monsù Tomè andava regolarmente sotto
la tavola. Al ruzzolare della sua pentola di cuoio, al saltellare
della sua spada sul pavimento, esciva la fantesca dalla cucina, per
raccogliere i morti. Prima di tutto, da buona massaia, la Teresina (era
questo il suo nome) portava in luogo sicuro il fiasco e i bicchieri;
poi, allontanava la tavola, per iscoprire il degno comandante, gli
slacciava il cinturone, gli sbottonava la tunica, e, lavorando di fine,
lo metteva bel bello in maniche di camicia e in peduli. I calzoni di
nanchino, orgoglio estivo di Monsù Tomè, erano buttati senz’altro nella
biancheria da portare al fossato, e quel sacco d’ossa, mezz’ora dopo il
decimo bicchiere, russava pacifico nel suo letto.

La mattina seguente, sull’alba, e senza che battessero la diana,
Monsù Tomè si risvegliava, scendeva da letto, magro come un chiodo,
diritto come un i, e fresco come una rosa, ma non felice come un re,
nè contento come un papa. Era serio, accigliato, pensoso, il nostro
comandante di spiaggia. I doveri d’ufficio, i regolamenti, il servizio
del re, passavano avanti tutto; non si spianavano le rughe fino alla
domenica dopo.

Povero Monsù Tomè! dopo aver operato su tutti i fiumi della Russia e
tra tutti i fiaschi di Loano, egli ha pagato il suo tributo alla morte,
è ritornato alla gran madre antica. È proprio vero, come diceva lui,
che si vive una volta sola, nella vita!

Di tanto in tanto, a punti di luna, il bravo comandante di spiaggia
raccontava le sue battaglie. I vecchi guerrieri son tutti così, da
Nestore in poi. Il re di Pilo ripeteva sempre la sua famosa storia
dei Lapiti e dei Centauri, che non fu certamente la più piccola tra
le seccature dell’assedio di Troia. Monsù Tomè, più ricco e più vario,
narrava almeno quindici episodii delle campagne di Prussia, d’Austria e
di Russia. Per altro, bisognava saperlo interrogare. Come la misteriosa
caverna delle _Mille e una notte_, egli non si apriva che ad una certa
parola. Il mio vecchio amico Maso, che mi aveva introdotto da Monsù
Tomè, conosceva benissimo il modo di farlo parlare. Per esempio, non
gli diceva mica: «racconti la battaglia di Jena, o quella di Friedland,
di Wagram, della Moscòva.» Se egli avesse cercato di dargli la stura
in quella forma, Monsù Tomè gli avrebbe risposto senza fallo, come
rispondeva ad altri profani: «di questi racconti ne son piene le
storie.» Bisognava dirgli, invece: «Si ricorda Monsù Tomè, di quel
cosacco che le voleva dare una lanciata, a Smolensko, e Lei....»

— Ah, sì! — rispondeva subito Monsù Tomè animandosi al ricordo, come un
cavallo generoso, al primo colpo di sprone. — Ed io gliene ho levata
la voglia con un colpo di baionetta. Era l’alba; il cannone aveva
incominciato a brontolare. Marciavo alla testa della mia squadra,
quando l’imperatore passò, per andare sul punto minacciato....

E via di corsa. Il racconto era attaccato, e ne avevamo per due ore,
per tre, e magari per quattro, nelle quali il narratore dimenticava
perfino di bere, ma pronto a ricattarsene quando aveva finito. Perchè,
storia o non storia, accompagnato o solo, Monsù Tomè, nelle sere dei
giorni festivi, voleva finire sotto la tavola, da quell’uomo metodico
che era. Il metodo è la bussola dell’esistenza; e col metodo, Monsù
Tomè visse fino a novantadue anni.

Voi, qui, mi direte: come si poteva aver la chiave, per farlo parlare
di tante cose, se egli non parlava senza essere stuzzicato in un certo
modo e con certe domande? Ecco qua; un racconto ne tirava un altro; gli
ascoltatori potevano ritenere qualche particolare del fatto, qualche
accenno ad altri fatti ricordati per incidenza, e farne appiglio a
sempre nuove interrogazioni. Quando io conobbi Monsù Tomè, le chiavi
erano cinque o sei (parlo delle maggiori, di quelle che mi sono rimaste
meglio impresse nella memoria): la lanciata del cosacco di Friedland,
l’artigliere morto di Wagram, le parole dell’imperatore a Smolensko,
il cannocchiale raccattato sulla pianura di Austerlitz, la caduta nel
fosso di Eylau, i calzoni rattoppati alla vigilia di Jena. Monsù Tomè
le aveva fatte quasi tutte, le campagne napoleoniche. Lui piemontese?
Sicuro, lui piemontese! Napoleone aveva desiderato così; il granatiere
di Monferrato aveva dovuto prender servizio nel grande esercito. E la
ragione di quella preghiera, che equivaleva ad un comando, era chiara:
Monsù Tomè era stato uno tra «quei di Cosseria.» Ma non bisognava
domandargli del suo primo incontro con Napoleone, se si voleva da lui
il racconto di Cosseria. Monsù Tomè prendeva l’aire da un punto, e
non ritornava mai indietro. Per aver la difesa di Cosseria, bisognava
parlargli della vivandiera di Augereau. Ma quello era un tasto che
bisognava toccare con molta delicatezza, poichè rispondeva a quel tasto
il doppio ricordo del suo primo battesimo di fuoco e della sua prima
pena d’amore.

L’amico Maso, come vi ho detto, conosceva il modo di farlo parlare.
Una domenica, non ricordo come (ma il come importa poco al racconto),
aveva condotto il discorso sul tenero. In un paese dove le donne
hanno quasi tutte i capegli neri, ed egli stesso, da quel biondo che
era, doveva preferire le brune per amor di contrasto, Maso si mise in
testa di dar la palma alle bionde. Già, con buona pace delle brune, la
donna, la donna vera, la donna tipica, non poteva essere che bionda,
non s’intendeva, non si ammetteva che bionda. Eva, la madre del genere
umano, era escita bionda dalle mani del Creatore, bionda come il raggio
di sole che ebbe l’altissimo onore di illuminar primo quella fiorente
bellezza. Del resto, anche i colori avevano il loro significato. Il
biondo era la grazia, il nero la forza; bionda, per conseguenza, doveva
esser la donna; all’uomo i capegli neri, con la robustezza dei muscoli,
con lo scatto dai tèndini.... E andava avanti, l’amico Maso, sempre
avanti così, non dubitando neanche di gettar sassi in colombaia. Io
per allora ci capivo poco, in quelle sottigliezze, e niente affatto
in quella fissazione dell’amico, il quale, a farlo a posta, se la
voce popolare non mentiva, era in quei giorni molto addentro nelle
buone grazie d’una dama di capel nero lucente. Ma non andò molto che
indovinai, quando egli venne a stringere l’argomento. Era bionda, o
bruna, la vivandiera di Augereau, che Monsù Tomè aveva conosciuta a’
suoi tempi? — Bionda, perbacco baccone, bionda a quel Dio, d’un bel
biondo cupo, traente al cenerognolo, come sono generalmente le bionde
di Francia; ed alta, poi, svelta, aggraziata, fatta proprio a pennello.
E vedere come ci si animava, Monsù Tomè, a descrivere tutte le bellezze
di quella figura, ormai così lontana nello spazio e nel tempo! Il
povero vecchio, intirizzito dai geli dell’inverno, si riscaldava ancora
in ispirito ai fuochi allegri della sua giovinezza.

— A proposito, — disse Maso, che finalmente aveva gittata l’àncora, —
come si è incontrato con lei? A Cosseria, se non m’inganno.

Il vecchio comandante di spiaggia mise un sospiro tanto fatto, si
tirò i mustacchi grigi, mandò indietro due dita il suo casco dal sommo
della fronte, intinse le labbra nel primo dei suoi dieci bicchieri, e
finalmente rispose:

— Ecco qua.

Era questa la sua pròtasi favorita, il suo «Cantami o Diva.» Dopo
di che, il bravo Monsù Tomè prese risolutamente il largo. Statelo a
sentire, perchè, d’ora innanzi, parlerà sempre lui.




CAPITOLO II.

Lo sguardo dell’aquila.


Avevo ventidue anni; bella età che mi rincresce di avere avuta
solamente una volta. Ero stato ammesso nella seconda compagnia dei
granatieri di Monferrato, perchè mi avevano riconosciuto buon tiratore,
e, dopo sei mesi di galloni da caporale, mi avevano fatto sergente,
perchè avevo una bella mano di scritto e ci voleva uno che sapesse fare
la situazione quotidiana con un po’ di garbo e tener bene il ruolino
della compagnia. Aver fatto il mio dovere alla manovra ed al fuoco, in
quartiere ed in campo, non mi ha mai tanto giovato, come la mia mano
di scritto. Non si raccomanderà mai abbastanza la calligrafia alle
nuove generazioni. La calligrafia apre tutte le porte, conduce a tutti
gli onori. Io, poichè devo parlarvi di me, ci ho guadagnato il grado
di sergente, che mi ha posto in condizioni di farmi conoscere e di
guadagnar le spalline. Ancora un anno di fortuna per Napoleone, ed ero
capitano; ancora un altr’anno ed ero maggiore, fors’anche colonnello.
Perchè allora, nei gradi superiori, si camminava rapidamente. Quel
benedetto uomo faceva un tal consumo di generali! Ma non precorriamo
gli eventi, i quali hanno avuto il corso che dovevano avere, e
raccontiamo le cose con ordine.

Anzi se non vi spiace, daremo uno sguardo d’aquila alle cose politiche
e militari di quel tempo. Non si può intender bene ciò che io sono per
narrarvi, se non si conosce il teatro della guerra, e la collocazione
dei rispettivi pezzi sulla scacchiera d’Europa.

Si accusa il Piemonte di aver tradito in quel tempo i suoi propri
interessi, muovendo guerra alla Francia: e di questo suo torto si può
parlar oggi a mente fresca, leggendo le storie, e ricamandoci su ogni
sorta di variazioni. Ma io vi pregherò di mettervi un momento nei
panni di Vittorio Amedeo III. Egli era così poco amico dell’Austria,
che stava per l’appunto meditando una guerra in Lombardia, quando
scoppiò d’improvviso la rivoluzione Francese, la quale ebbe il suo
primo contraccolpo nella aperta ribellione della Savoia e il secondo
nella sommossa degli studenti di Torino. Il pericolo imminente, ne
converrete anche voi, doveva far dimenticare gli interessi lontani.
Nel 1791 ci fu il famoso abboccamento di Pilnitz, tra l’imperatore
d’Austria e il re di Prussia, e forse il nostro re fu troppo sollecito
ad approvare le risoluzioni bellicose dei due monarchi, perchè egli
doveva pure immaginarlo, che uno di essi, l’austriaco, non si curava
nè punto nè poco della sua intromissione. È bene che notiate questo,
perchè c’è la chiave di tutti i procedimenti del governo di Vienna,
nelle cinque campagne che seguirono, dal 1791 al 1796. L’Austria aveva
conosciuto i nostri disegni sul Milanese; l’Austria non vedeva di buon
occhio che il Piemonte rifacesse, dopo cinquant’anni di pace europea,
la propria educazione militare; l’Austria non voleva sopra tutto, anche
accettandone lo spontaneo concorso, che il nuovo e mal visto alleato
affermasse con qualche successo la sua potenza guerriera in Italia.

Ed ora andiamo avanti. Scoppia la guerra nel 1792. Austriaci e
Prussiani riportano qualche vantaggio. Vittorio Amedeo si accende,
dimezza i suoi sedicimila uomini disponibili, ne manda ottomila in
Savoia e ottomila nella contea di Nizza. Fu un errore; bisognava
mandare un piccolo corpo d’osservazione sul Varo, e gittare tutto il
nerbo delle nostre forze in Savoia, perchè quella divisione ottenesse
il suo pieno effetto. Ma lasciamo da parte questo errore strategico.
La frontiera francese era d’ogni parte sguernita. Perchè non
approfittarne, marciando da Nizza su Tolone e da Mommeliano su Lione?
A Nizza comandava il De Courten, vecchio ufficiale, consigliato e
guidato dal cavalier Pinto, vissuto qualche tempo in Prussia e stimato
in materia militare assai più di ciò che valeva. L’uno e l’altro
sciuparono l’estate sul Varo, per contrastarne il passaggio ad un
nemico che non c’era. In Savoia comandavano due, il conte Lazari e il
marchese Cordon. Avevano un’antica ruggine, e ne sofferse la condotta
dell’esercito. Il Cordon voleva tenere unite le forze in un punto;
voleva difender tutti i punti il Lazari; nessuno pensava alla utilità
di prendere l’offensiva. Il governatore della Savoia la diede vinta al
Lazari; le forze furono sparpagliate, e non si poterono raccogliere
in tempo, quando i francesi, fatto campo in sedicimila a Barreaux,
sotto gli ordini del generale Montesquiou, decisero di passare essi il
confine.

Non era possibile resistere in quelle condizioni, e un consiglio di
guerra deliberò di ritirarsi. A Torino furono colti da timor pànico,
e richiamarono anche il De Courten con la sua gente dalla sponda
sinistra del Varo, dove fronteggiava un corpo di quattromila francesi,
sotto gli ordini del generale Anselme. Questi non voleva credere a
tanta debolezza d’animo; dubitò a tutta prima di una insidia; poscia,
rassicurato da una felice esplorazione, passò il Varo, entrò in
Nizza ed occupò Villafranca. Salvò da quella parte l’onore delle armi
piemontesi il conte di Sant’Andrea, raccogliendo alcuni battaglioni
sparsi sul colle di Tenda, ed occupando le vette sopra Sospello, di
rimpetto a Saorgio, linea stretta ed eccellente per trincerarvisi.
Nè ciò bastando al valente uomo, prese tosto l’offensiva, rovesciò
il nemico, lo cacciò da Sospello, ed avanzò ancora la propria linea
occupando tutta la valle di Lantosca.

Frattanto, si era commesso l’errore di chiedere aiuto all’Austria, che
spedì ottomila uomini, coi generali Strasoldo, Colli e Provera, quindi
il barone De Wins, generale d’artiglieria, il quale fu posto a capo
di tutto l’esercito piemontese, forte di quarantamila combattenti.
Si fecero apparecchi per la campagna del 1793, volendo tenere la
difensiva su tutta la lunga linea dagli Appennini liguri fino al
Monte Bianco. Quattordicimila uomini furono mandati nella contea di
Nizza sotto gli ordini del conte di Sant’Andrea, al quale poscia si
aggiunse l’austriaco Colli. Cinquemila andarono a munire la valle
di Stura, sotto gli ordini del generale Strasoldo, ed altrettanti
seguirono il generale Provera nell’alta valle del Po. Ottomila si
raccolsero a Susa, col marchese di Cordon, per difendere i passi
del Moncenisio e della valle di Oulx; seimila in Aosta, col duca di
Monferrato; il resto nelle guarnigioni, aspettando di andare di qua
e di là secondo il bisogno. Nel mese di giugno, dopo molte lentezze e
diverse scaramucce, ventottomila francesi si rovesciarono sul conte di
Sant’Andrea e sul Colli, al campo di Brois, vincendo a fatica, con la
perdita di quattro mila uomini, ma non riuscendo a forzare la linea
di Saorgio, e lasciando il fiore dell’esercito nei vani assalti di
Raus e dell’Authion. La campagna era promettente; il nemico, in due
giornate, aveva perduto diecimila combattenti; allora Vittorio Amedeo
meditò un’impresa su Lione, che era insorta contro i repubblicani e
domandava soccorsi. L’Austria, nel disegno di farla andare a male,
propose che si tentassero due colpi simultanei, dalla parte della
Savoia e dalla parte di Nizza. Di lì una fatale spartizione di forze;
combattimenti bellissimi ed egualmente inutili; finalmente una doppia
ritirata, necessaria in Savoia, davanti all’ingrossare dell’esercito
di Kellermann, non necessaria sul Varo, dopo parecchi ed importanti
successi, ma voluta dal generale De Wins, che obbediva alle istruzioni
del governo di Vienna.

Siamo al 1794; non si è voluto ascoltare il conte di Sant’Andrea che
suggeriva di occupare il marchesato di Dolce Acqua, per coprire il
fianco della linea di Raus e dell’Authion, formidabile di fronte, ma
facilmente girabile se i francesi avessero risoluto non di rispettare
la neutralità del territorio di Genova; per colmo di sventura si è
richiamato il valoroso uomo dalla contea di Nizza, e il suo comando è
stato affidato al Colli. L’Austria è padrona ormai delle nostre sorti.
I francesi, ricacciati una volta dai passi del Cenisio, ritornano in
forze, ottengono col tradimento il piccolo San Bernardo e calano giù,
senza pagare all’ufficiale straniero le trecentomila lire pattuite per
la consegna del monte Vallaisan. Dall’altra parte, il generale Colli
perde la battaglia di Colla Ardente e della Tanarda, sgombra la contea
di Nizza, e i francesi raggiungono le sorgenti del Tanaro. Un altro
generale austriaco, il D’Argentau, accorre con alcune soldatesche,
per difendere l’importante posizione del ponte di Nava; e vi giunge
in tempo per essere solennemente battuto. Di là non curandosi di
occupare le alture, che offrivano buoni e numerosi punti di difesa,
corre a riparo fin sotto il cannone di Ceva, lasciando che il nemico
s’impossessi di Ormea, Garessio e Bagnasco. Già, non era un’aquila,
questo signor D’Argentau, e le alture non gli piacquero mai. Lo vedrete
fare il medesimo giuoco a Montenotte, dove per altro aveva incominciato
col vincere.

Il general Colli, frattanto, si era trincerato a Borgo San Dalmazzo,
tra il Gesso e la Stura, in un campo imperfettissimo, che non difendeva
nè la città di Cuneo, nè la pianura del Piemonte. Diciottomila
austriaci, acquartierati in Lombardia, vennero alla riscossa; diecimila
di essi fecero campo a Morozzo, tra Mondovì e Cuneo; i francesi
diedero indietro, o perchè non fossero in forze sufficienti, o perchè,
dopo il supplizio del Robespierre e consorti la Convenzione avesse
altro da fare che occuparsi dell’esercito suo, ancora bisognoso di
aiuti. Ma verso l’ottobre, che è che non è, i francesi riprendono
l’offensiva, non più dalle Alpi, ma dalla riviera ligustica, e da
Savona si fanno avanti per il colle d’Altare. Sono sconfitti a Dego
dal generale Wallis; ma questi, dopo la vittoria, ordina la ritirata
sopra Alessandria. La provincia d’Acqui e più di venti miglia di paese
sono abbandonate al nemico, che si concentra a Savona, e si trinciera
sulla linea del Settepani. Il re Vittorio Amedeo si lagna a Vienna;
il generale Wallis è richiamato; ritorna al comando il De Wins, e
incomincia la campagna del 1795 col disegno di cacciare il nemico
dalla riviera di Genova, e di inseguirlo fino al Varo. Ventimila
uomini, raccolti al Bosco sotto Alessandria, marciano su Acqui e
Dego; incontrano i francesi a San Giacomo, li rovesciano su Vado.
Kellermann, battuto in posizione, cacciato dal Settepani, ridotto da
dodicimila a novemila uomini, è in piena ritirata verso ponente. Ma il
De Wins non insegue; il governo austriaco vuole che egli si stabilisca
tranquillamente a Vado. Si fanno istanze presso di lui, ma egli lascia
capire che ha le mani a dirittura legate, e domanda che anche il Colli,
con l’esercito piemontese a’ suoi ordini, si disponga a fare dal canto
suo qualche cosa. E il Colli fa qualche cosa, molto male, secondo
il solito; intanto la Spagna ha fatta la sua pace con la Repubblica
francese, e si prevede che l’esercito dei Pirenei si rovescierà
sull’Italia. Il generale Scherer, succeduto al Kellermann, attacca nel
novembre su tutta la linea piemontesi ed austriaci, è respinto sulla
destra dal De Wins e sulla sinistra dal Colli, ma riesce a sfondare il
centro, dove comanda l’Argentau, e s’impadronisce della posizione di
Settepani; si rovescia su Vado e si rifà della resistenza incontrata il
giorno prima, si avanza su Dego, e il De Wins, perduti diecimila uomini
in due giorni, si ritira in fretta ad Alessandria, obbligando anche il
Colli a ripiegarsi da Garessio su Ceva.

Ed eccoci finalmente al 1796. Il De Wins, infermo e disgustato, chiede
di andarsene, ed ottiene di ritirarsi a Vienna. L’Austria sostituisce
il generale Beaulieu, vecchio, ma riputato per alcuni vantaggi ottenuti
sui francesi nei Paesi Bassi. I francesi, dal canto loro, si preparano
a tentare uno sforzo decisivo, per penetrare in Piemonte. Lo Scherer è
mandato altrove; giunge in suo luogo un giovanotto di belle speranze:
Napoleone Buonaparte.

Questa chiacchierata, amici miei, era necessaria, non foss’altro, per
dimostrarvi che i piemontesi si erano battuti bene, e che i francesi,
dopo essersi inutilmente provati a passare le Alpi, si disponevano
finalmente a girarle. Il concetto era dello Scherer; la esecuzione fu
del Buonaparte, del giovanotto di belle speranze. E adesso, con vostra
licenza, un sorso di vino. Coraggio, Monsù Tomè, che ora viene il
difficile!




CAPITOLO III.

Il battaglione d’acciaio.


Per girare le Alpi, l’esercito francese aveva dovuto violare la
neutralità della vecchia repubblica di Genova. Fatto il primo passo,
si poteva fare il secondo ed il terzo, e i nostri vicini non si fecero
scrupolo di marciare sulla città capitale, dove le teste incominciavano
a riscaldarsi per la libertà francese e dove i parrucconi dell’antico
governo si sentivano mancare la terra sotto i piedi. Il popolo,
amante di novità, chiedeva i liberatori; e i liberatori, che potevano
trovare a Genova una buona piazza fornita di tutto il necessario,
insieme con una buonissima base di operazione per calare nella pianura
d’Alessandria, non si fecero pregar molto. Il loro quartier generale
era a Savona; la loro avanguardia (quattromila uomini, condotti dal
Massena, che aveva sotto i suoi ordini il generale Cervoni) si spinse
per la via di levante, oltre Albissola e Varazze.

Il generale austriaco, che aveva fiutato il disegno del nemico, non
era rimasto con le mani alla cintola. Seimila uomini da Alessandria
si erano avviati alla Bocchetta, per recarsi a coprir Genova da un
assalto improvviso. Egli, col grosso dell’esercito mosse da Alessandria
ad Acqui, e di là per Dego e Sassello, col proposito di piombare
dai monti sopra Savona, e cogliere i francesi nella trappola. Ma la
volpe vecchia aveva da fare questa volta con una volpe giovane e di
malizia più fresca. L’avanguardia francese era giunta a Voltri, si era
impadronita del paese, aveva comandato diecimila razioni per il giorno
vegnente; sorpresa da quel corpo di seimila austriaci che calava dai
monti, era stata anche sbaragliata; ma questo dopo tutto, era anche un
modo di tastare il nemico. Il generale Buonaparte sapeva oramai che
il suo avversario Beaulieu aveva spiccato un bel nerbo di forze alla
difesa di Genova. Era quello il momento di penetrare in Piemonte per
la valle della Bormida, che non doveva essere guardata con una massa
sufficiente.

Anche il Beaulieu, dal canto suo, si affrettava. Giunto a Spigno,
staccava il generale Argentau, con diecimila uomini, ordinandogli
di impadronirsi della importantissima posizione di Montenotte,
sloggiandone ad ogni costo i francesi. E l’Argentau ne venne a capo,
ma senza darsi pensiero della punta più elevata del luogo, dove era
rimasto un manipolo di nemici in difesa, e commettendo lo sproposito
di scendere nella valle ad inseguire il nemico, mentre del suo esercito
non restavano, a fronteggiare i difensori di Montenotte superiore, che
poche truppe leggere.

Voi già indovinate la conseguenza. I francesi si rafforzarono in alto,
rovesciarono la schiera sottile del nemico, piombarono sull’Argentau,
lo posero in rotta. Perduti quasi tutti i suoi, e tutta la sua
artiglieria, il pover’uomo si salvò a stento per la via di Sassello, e
arrivò solo al quartier generale, dove il Beaulieu gli chiese notizie
del suo esercito, e, siccome egli non era in caso di dargliene, lo fece
legare come un malfattore e lo mandò a correr la sorte d’un consiglio
di guerra a Milano.

La giornata di Montenotte era così poco decisiva, e l’Argentau aveva
così poca ragione a fuggire in quella sconcia maniera, che il giorno
seguente, cioè a dire il 13 aprile, il colonnello Vucasovich penetrò
in quella valle combattuta, credendo che Montenotte fosse ancora tenuto
dai suoi: s’incontrò coi francesi, li battè con soli quattromila uomini
che conduceva, e riprese loro tutta l’artiglieria che avevano presa
il giorno prima al signor Argentau. Che cosa non avrebbe egli fatto,
se questo zuccone fosse rimasto al suo posto? Un altro generale, il
Roccavina, che non somigliava punto all’Argentau, quel medesimo giorno
che il Vucasovich ripigliava l’artiglieria austriaca ai francesi, si
spingeva con un corpo di truppe leggiere fino alla Madonna di Savona,
oltrepassando Montenotte di un bel tratto e minacciando di rompere
le comunicazioni dei vincitori con la loro base di operazione. Ma, lo
ripeto, fuggito l’Argentau, questi felici ardimenti tornavano inutili,
e il Roccavina e il Vucasovich dovettero ricongiungersi al generale
Beaulieu.

Noi, col generale Colli (anche questo, come vi ho detto, regalatoci
dal governo di Vienna) eravamo accampati sulle alture di Montezemolo,
guardando la strada di Ceva, e pronti a marciare dovunque bisognasse,
per sostenere l’esercito alleato. Quel general Colli! Che uomo, creato
a bella posta e messo al mondo per dimostrare che si possono fare tre
passi sopra un mattone! Amici miei, lasciatemi dire quello che penso;
Napoleone meritava sicuramente la sua grande fortuna; ma si è anche
fatto di tutto, in quell’anno, per mandargliela tra le braccia.

Dunque, eravamo a Montezemolo, e si tenevano gli avamposti con due
battaglioni di granatieri, il primo e il terzo, e col reggimento
dei Granatieri Reali. Questa somiglianza di nome tra battaglioni
e reggimento domanda una piccola spiegazione. Il Piemonte aveva un
reggimento speciale di Granatieri reali, ma ogni reggimento di fanteria
possedeva due compagnie di granatieri, uomini scelti, meglio armati e
distinti da una granata rossa, ricamata nel centro della nappina di
lana, che ornava il cappello a lucerna del soldato d’allora. Queste
compagnie scelte si riunivano all’uopo in battaglioni separati, e un
ufficiale di stato maggiore ne prendeva il comando.

Così, a comporre il terzo battaglione di granatieri, al quale
appartenevo io, entravano due compagnie del reggimento di Monferrato,
due del reggimento della Marina e due del reggimento di Susa.
All’apertura della campagna era venuto a comandarlo il colonnello
marchese Filippo Del Carretto di Camerano. Nessuno più di lui era degno
di comandare ad un manipolo di valorosi. Leonida, che arrestò alle
Termopili la marcia dei persiani invasori, non fu certamente più prode,
nè più militarmente bello di lui. Aggiungo che il marchese Filippo lo
era anche fisicamente; alto, biondo, di carnagione bianchissima, con
occhi cilestri, che spiravano dolcezza, e una bocca che pareva fatta
per dir parole d’amore; un angelo, insomma, ma un angelo terribile a
vedersi, se aveva la spada sguainata nel pugno. Non era fermezza al
fuoco la sua, ma serenità imperturbabile; una serenità consapevole
del pericolo, quando si trattava della sua gente; noncurante, ma senza
ostentazione, quando si trattava di sè. Giovane ancora, aveva raggiunto
il grado di colonnello. Mettete pure che fino a capitano ci fosse stato
sbalestrato dalle ragioni della nascita, ma non dimenticate che i gradi
superiori li aveva conquistati per merito suo, e che, dopo essere stati
una settimana sotto i suoi ordini, veniva voglia di chiedere: quanto
aspettano a farlo generale?

Lassù, in quelle valli fra il Tanaro e la Bormida, con gli occhi
rivolti al colle di Melogno e al colle di Cadibona, il marchese
Filippo era proprio come in casa sua. I Del Carretto, come saprete,
appartengono al vecchio ceppo aleramico, ed anche ora, divisi e
suddivisi in tante famiglie, distinti con tanti nomi diversi, tengono
in possesso civile una parte del territorio che possedevano un giorno
per diritto di signoria e per investitura feudale.

A Montezemolo, ove eravamo accampati, si era sentito per tutta la
giornata del 12 aprile un rumor cupo e sordo, che veniva dalla parte di
levante. Alcuni credevano che fosse brontolìo di tuono, altri che fosse
rombo di cannone. Il cielo, sulle nostre teste, appariva sereno; ma voi
sapete pure che di là dagli Appennini, con tante vette che nascondono
l’orizzonte, si può indovinare bensì, ma non è facile vedere ciò che
avviene sul mare, e le burrasche si odono rumoreggiare in distanza,
molte ore prima che il vento le porti dentro terra. Così potevano
credere parecchi che quel rumore cupo e sordo fosse di temporale
lontano; ma i più sostenevano che avesse incominciato a ragionare il
cannone, anche per una certa regolarità ritmica del discorso e per la
singolare costanza nella direzione del suono.

Verso sera nessuno credeva più al temporale. I nostri ufficiali
avevano ordine di tenersi pronti per la partenza. Dove si andava?
Non certamente verso Ceva, poichè il comando era di far viveri per
un giorno. Far viveri a Montezemolo, sulla prima linea, e dopo tanto
passaggio di soldati, era presto detto! Ed anche bisognava partir
subito. Ma per dove? per dove? Si era curiosi di saperlo; si studiavano
tutti i più sottili stratagemmi per cavare il segreto di bocca ai
nostri ufficiali, che probabilmente non ne sapevano più di noi.

A me venne in mente una luminosa idea. Non chiesi nulla al cavalier
Corte, mio capitano, nè al cavalier Bonadonna mio tenente, nè al conte
di Masino mio sottotenente; me ne andai difilato dal servitore del
colonnello, e a lui chiesi notizie.

— Ordine del quartier generale: — mi rispose Paolo Viglietti. — Si va
al castello di Cosseria.

La posizione non era distante. Dalla balza di Montezemolo si vedeva
nereggiare quel nido d’aquile sopra una vetta a levante, co’ suoi
torrioni massicci, in mezzo a cortine sfondate, ad archi infranti, a
muraglioni rovesciati. Quel medesimo giorno, mentre si stava in vedetta
sull’erta, ascoltando gli strani rumori che venivano dalla parte di
Altare, ci era avvenuto di contemplare a lungo quelle rovine stupende.
Paolo Viglietti, che era nato a Camerano, donde il colonnello suo
padrone traeva il suo titolo feudale, ci aveva raccontata brevemente
la storia della ròcca, come tutti la sapevano allora, in quei paesi
delle Langhe, già vissuti nell’obbedienza dei marchesi del Carretto.
Intorno al Novecento, il castello di Cosseria aveva già sostenuto un
assalto dei Saraceni; quattro secoli più tardi lo aveva occupato Carlo
d’Angiò, nella sua famosa calata in Italia, benedetta da un papa e
maledetta dalla storia. Preso e ripreso, nel secolo decimosesto, dalle
armi di Francia e Spagna, era stato diroccato, nel 1536, per comando
di un commissario imperiale; ma questi, riducendo in un mucchio di
rovine quella bell’opera di architettura militare, non aveva potuto
distruggere in pari tempo la importanza strategica della collina, donde
si comanda alla gola stretta e lunga che dalla Bormida di Pallare mette
alla Bormida di Millesimo, e di là, per la salita di Montezemolo, alle
pianure del Piemonte. Così avvenne che intorno a quelle rovine si
azzuffassero di sovente le soldatesche dei Duchi di Savoia e quelle
della Repubblica di Genova, che sullo scorcio del Seicento se ne
contrastassero il possesso parecchi eserciti, italiani e stranieri, e
che finalmente, nel 1744, se ne impadronissero gli Spagnuoli, mettendo
a contribuzione il paese. Quei poveri abitanti provarono più volte
che non a torto il loro castello si era chiamato da principio _Crux
ferrea_.

Diedi la notizia al mio capitano, come l’avevo ricevuta da Paolo
Viglietti. Ma ero giovane, allora, e non intendevo l’utilità di
occupare una bicocca di quella fatta, piantata sul culmine di una
montagna, dove oramai non dovevano andar più che le capre.

— È naturalissimo, invece; — mi rispose giudiziosamente il bravo
cavalier Corte, al quale avevo manifestati i miei dubbi. — Da
Cosseria, con un pugno d’uomini risoluti, si può contrastare il passo
del Piemonte, per la strada di Ceva. Il generale Beaulieu ne chiude
l’entrata dalla parte di Acqui; noi la chiuderemo da questa. È strano,
anzi, che Cosseria non l’abbiamo occupata prima. Comunque sia, se ci
mandano lassù, è segno che i francesi hanno vinto a Montenotte, o più
su, verso San Giacomo del Settepani.

— Il cannone, — osservai, — si è sentito di là, nella direzione di
Altare.

— Che cosa ti dicevo io? — ripigliò il capitano. — O hanno vinto a
Montenotte, i francesi, e scenderanno presto a Carcare: o si teme che
vincano, ricevendo rinforzi. Ad ogni modo, è bene di coprire la via di
Millesimo. —

Mentre si facevano questi ragionamenti, il capitano fu chiamato per
ordine del colonnello. Ritornò alla compagnia quindici minuti dopo.

— Presto! — diss’egli. — Bisogna mettersi in rango.

— E i viveri, capitano?

— Non ce ne sono. Ma avete ancora un tozzo di pane dell’ultima razione.
Per ora basterà quello; stanotte, poi, si troverà qualche cosa a
Millesimo. —

Anche le altre compagnie facevano i loro preparativi di partenza. Pochi
minuti più tardi, eravamo tutti schierati sulla strada, e il nostro
colonnello venne sulla fronte del battaglione, per animarci con la sua
calda parola.

— Soldati, — incominciò, — anche per noi si apre oggi la nuova campagna
di guerra. Ricordatevi che siete granatieri piemontesi, cioè gente
scelta, e che dovete far meglio di tutti; mi avete capito? Obbeditemi,
ed io vi prometto da cavaliere, che il vostro buon nome sarà mantenuto.
Se davanti al nemico mi vedeste fallire, dare indietro, perdermi
d’animo un solo momento, vi autorizzo fin d’ora a distendermi a terra
con una buona fucilata. Vi dico queste cose col rossore sul volto e
col nodo alla gola, perchè mi vergogno perfino di pensarle. Ma bisogna
preveder tutto, e far patti chiari, poichè si ha da compire insieme il
nostro dovere. Se io, poi, vedrò dare indietro qualcheduno di voi....
ve lo prometto fin d’ora, come è vero Dio, lo ucciderò con le mie
mani. Per la vita e per la morte, dunque. Andiamo contro un esercito
valoroso, e non dobbiamo esser da meno; possiamo e dobbiamo esser
da più. Ci siamo intesi, io spero; ricordate che non voglio fughe
di Pinerolo, io; sono come il Radicati, e mi faccio ammazzare sul
posto. —

Il nostro comandante alludeva ad un fatto doloroso avvenuto due
anni addietro, alla battaglia della Tanarda, nella contea di Nizza.
L’esercito aveva fatto prodigi di valore, e l’artiglieria cagionato
perdite enormi al nemico; ma ad un assalto più furioso degli altri, un
reggimento, quello di Pinerolo, colto da timor pànico inesplicabile
dopo tante ore di fuoco, aveva voltate le spalle, permettendo
ai francesi di penetrare nei trinceramenti piemontesi. Il prode
colonnello, conte Radicati di Passerano, dopo essersi invano adoperato
a trattenere i fuggenti, si era lasciato uccidere al suo posto, per non
sopravvivere all’onta del suo reggimento.

— No, no! — gridammo tutti ad una voce: — Nessuno di noi darà indietro
d’un passo. Ci faremo ammazzare dal primo fino all’ultimo, ma non si
dirà dei granatieri piemontesi che sono scappati davanti al nemico.

— Alla Tanarda, — aggiunse il cavalier Corte, mio capitano, — il
reggimento di Monferrato si è fatto decimare sulla trincea. Se il
general Colli non comandava la ritirata, ci facevamo tagliare a pezzi,
piuttosto che cedere un palmo di terreno.

— Lo so, lo so; — rispose il colonnello. — Vi ho parlato così; perchè
voglio farvi sicuri di me, come io devo esser sicuro di voi. Non so
ancora che cosa faremo, nè quando faremo qualche cosa di grande. Questo
solo è certo, che noi, domani, fronteggeremo il nemico, avremo l’onore
di coprire le posizioni dell’esercito del re; perciò dobbiamo far tutti
il nostro dovere, ed essere un battaglione d’acciaio. Mi avete capito?
Un battaglione di acciaio.

— Viva il re! Viva il colonnello Del Carretto! — furono le grida di
tutto il battaglione.

— In marcia, dunque! — ripigliò il colonnello. — Cavaliere Alberione e
cavalier Corte, le due compagnie di granatieri di Monferrato andranno
in avanguardia. Io seguirò con le due del reggimento della Marina e con
le due del reggimento di Susa. Faremo un piccolo alto a Millesimo, per
vedere di trovar viveri; se non ce ne saranno, vedremo dai contadini
di Cosseria. L’essenziale è di non perder tempo, e di trovarci all’alba
sul posto assegnato. —

Mezz’ora dopo aver ricevuto il comando del quartier generale, il terzo
battaglione di granatieri scendeva dall’erta di Montezemolo. Formavano
l’avanguardia, secondo l’ordine dato dal colonnello, le due compagnie
di Monferrato; seguivano, a breve distanza, le due della Marina; quelle
di Susa chiudevano la marcia.

Si tratta di valorosi, e voi mi perdonerete se mi fermerò un poco,
a ricordare i nomi di tutti i miei superiori e compagni d’armi
d’allora. Quei nomi non li troverete nelle storie, ed è giusto che io
li rammenti, perchè qualcheduno possa registrarli, tramandarli alla
memoria dei posteri. Ecco, dunque: la prima compagnia di Monferrato
aveva per ufficiali, il capitano cavaliere Augusto Alberione, il
luogotenente cavalier Luigi Cavasanti e il sottotenente Fava. La
seconda, quella a cui appartenevo io, aveva il capitano cavalier Corte,
il luogotenente cavalier Buonadonna e il sottotenente conte Masino
di Reaglie. Veniamo ora alle due della Marina. Comandava la prima
il bravo capitano cavalier Giovanni Tibaldè, dei conti di Rolasco,
che aveva per luogotenenti il cavalier Nicolò Galateri e Vincenzo
Gianolio, e per sottotenente il cavalier Carlo Birago, dei marchesi
di Vische. Comandava la seconda il cavalier Vincenzo Lomellini, dei
conti di Cerniago, consanguinei dei Lomellini di Genova, che aveva
per luogotenente il cavalier Carlo Tibaldè, fratello al capitano
sopraddetto, e per sottotenenti i signori Sebastiano Cornaglia e
Giovanni Alberga. Restano le due compagnie del reggimento di Susa.
La prima aveva per comandante il capitano Giovanni Calleri, per
luogotenente il conte Giovanni Ollignani, per sottotenente il signor
Antonio Arrò; la seconda non aveva che il luogotenente Filippo Nerand
e il sottotenente Leonardo Bessano. Il suo comandante, capitano Morozzo
di Bianzè, ottimo soldato, era assente per ragioni di servizio, e a lui
si poteva dire due giorni dopo quel che scrisse Enrico IV ad uno dei
suoi generali, dopo la giornata d’Ivry: «_Pends-toi, brave Crillon: on
s’est battu, et tu n’y étais pas._»

Vi ho detti i nomi degli ufficiali, ed anche, quando li ricordavo,
i nomi di battesimo e i titoli. La forza del battaglione era di
cinquecento quarantotto tra sott’ufficiali e soldati. Aggiungete i
diciannove ufficiali, mettete sopra a tutti il colonnello Del Carretto
e il cavalier Rubin, capitano di stato maggiore, che era stato posto
al suo fianco, e avrete cinquecento sessantanove uomini mandati ad
occupare le rovine di Cosseria, coprire l’esercito del re, difendere la
stretta di Millesimo, ed impedire la marcia del nemico su Ceva. È vero
bensì che li comandava Filippo Del Carretto e che il terzo granatieri
aveva ricevuto allora allora uno stupendo battesimo; si chiamava il
battaglione d’acciaio.




CAPITOLO IV.

«Avanti Monferrato!»


La notte era alta, quando si giunse alle prime case di Millesimo. Il
borgo era immerso nel sonno, ma fu presto risvegliato dall’abbaiar dei
cani, dal calpestìo della gente e dal fragore delle armi. Quei buoni
abitanti ci accolsero a festa, offrendoci tutto quello che avevano.
Disgraziatamente non era molto, quello che avevano; e non bastava ad
assicurarci i viveri per un giorno. Prendemmo il poco pane avanzato del
giorno innanzi; frattanto, il forno avrebbe lavorato per noi, e quella
brava gente si sarebbe affrettata a mandarci un carico di pan fresco
nelle prime ore del giorno. La cosa piacque al colonnello, che tosto
comandò di riprender cammino. Del resto, qualche cosa si sarebbe potuto
trovare nei casali sparsi di Cosseria; e d’altra parte il quartier
generale, sapendo dove eravamo, doveva pensare a provvederci, nè
solamente di pane. Poichè il soldato, in guerra, non vive soltanto di
munizioni da bocca; ma anche, e sopra tutto, di munizioni da fuoco.

Si era bevuto il bicchiere della staffa, amorevolmente offerto da
quei di Millesimo. I più previdenti avevano badato a riempir le
fiaschette di vino e d’acqua, secondo i gusti, e verso le quattro del
mattino si esciva dal borgo, incamminati per la via in salita, che
va nella direzione di Plodio. Noi, per altro, non avevamo da correre
fin là; ad un certo punto, dov’è il colmo della salita, dovevamo far
conversione a sinistra, per un sentiero abbastanza ripido, scavato
nei tufo dagli uomini, ma più dalle acque invernali, e inerpicarci
sulla vetta. La montagna di Cosseria nereggiava per l’appunto davanti
a noi, mentre ne costeggiavamo le falde, e lassù, nel cielo turchino,
si disegnavano i fantastici profili del castello diroccato, che doveva
ospitarci. Quella vista ci aveva messi di buon umore, e, salendo a
passi misurati per l’erta, intuonavamo la canzone del soldato. La
chiamo così, perchè infatti era una sola a quei tempi. In materia di
canzoni, e specialmente di canzoni di marcia, il soldato piemontese non
ha mai fatto prova di genio inventivo. Doveva per esempio, recarsi in
guarnigione a Novara? E lui a cantare, con la sua solita flemma:

    Novara, Novara,
    ’Na bella città!
    Si mangia, si beve,
    Allegri si sta.

Era il suo ritornello di tutte le marce. Qualche volta si trattava di
un paese che aveva il nome più lungo, e quel nome, introdotto nella
misura, ci si faceva stare per forza. Se poi si trattava d’un semplice
villaggio, niente paura, il villaggio era innalzato alla dignità
cittadinesca, senza mestieri di un regio decreto. Così avvenne che si
cantasse, quella notte:

    Cosseria, Cosseria,
    ’Na bella città!
    Si mangia, si beve,
    Allegri si sta.

— Alto! — gridò tutto ad un tratto il cavalier Corte, interrompendoci
nel medesimo tempo il passo e la canzone. — Vedete la prima, che si è
fermata. —

Difatti la prima compagnia aveva fatto alto improvvisamente. Noi,
obbedendo al comando del capitano, la imitammo subito, non senza
chiederci a vicenda che impedimenti avessero potuto trovare sul loro
cammino i nostri compagni, mentre si era così vicini al colmo della
salita.

Il cavalier Corte si fece avanti otto o dieci passi, verso il
comandante della prima.

— Alberione, che cos’è stato? — dimandò.

— Non so ancora; — rispose il cavaliere Alberione. — La mia avanguardia
ha fatto alto, e non sarà certamente per trovare la strada. Ah, ecco un
messo che ci mandano. —

La prima compagnia, come avrete capito, si faceva precedere, secondo
le norme elementari della prudenza, da una sua squadra, comandata da un
sottotenente; e questa squadra, marciando un centinaio di metri innanzi
alla propria compagnia, diventava l’avanguardia dell’avanguardia.
Fermandosi quella, doveva fermarsi quest’altra.

Il messo, che il capitano Alberione aveva veduto spiccarsi dalla
squadra, giunse correndo alla testa della colonna.

— Che cos’è stato? — domandò alla sua volta il comandante della prima.

— Signor capitano, — rispose il granatiere, — si sente un rumore
confuso, laggiù dalla parte di Plodio. Il signor sottotenente Fossa
crede di distinguere il calpestìo d’una colonna in marcia.

— Non ci sarebbe da stupirne; — mormorò il cavaliere Alberione. — È più
probabile questo, che una distribuzione di viveri per domattina. —

Così dicendo, il bravo comandante della prima s’inginocchiava sulla
strada, per metter l’orecchio a terra. Il cavalier Corte fece lo
stesso, e molti granatieri, per ispirito d’imitazione, seguirono
l’esempio.

Il rumore confuso si sentiva anche da noi, come di gente che camminasse
vociando. Ma forse era un’illusione, prodotta dal vento, che fischiava
nelle gole dei monti. Ad uno dei nostri parve di sentire dell’altro,
come a dire il cigolìo delle ruote d’un carro.

— Saranno i viveri; — disse ridendo un granatiere, a cui egli aveva
comunicato il suo dubbio.

— Viveri in contanti; — soggiunse un altro.

— Ma da sfondar le tasche col peso; — notò un terzo, sul medesimo tono
canzonatorio.

— Se non si trattasse che delle tasche! — esclamò il secondo. — Tutto
consiste nel sapere come ci faranno la distribuzione. —

Frattanto il cavaliere Alberione parlava al messaggero:

— Va, e di’ al sottotenente che si avanzi fino a Montecàla, dove noi lo
raggiungeremo subito.

Il granatiere battè con la palma della mano sulla seconda fascetta
del fucile che portava al braccio, fece fronte indietro e andò via di
galoppo.

— E tu, Corte, manda uno dei tuoi uomini ad avvertire il colonnello di
quello che avviene; — ripigliò il capitano della prima, volgendosi al
nostro comandante.

— Mando un sergente; — disse il cavaliere Corte.

E venne diritto da me, per darmi le sue istruzioni. Io non avevo
bisogno di molte parole, perchè oramai sapevo ogni cosa che importasse
di riferire al colonnello, e lavorai di gambe per far l’ambasciata
al più presto. Non ebbi per altro da correr molto. Cento passi sotto
a noi, veniva il nostro colonnello, col grosso del battaglione, e
cavalcava al suo fianco il capitano Rubin, dello stato maggiore.

— Ben fatto! — esclamò il signor marchese Del Carretto, quando io
ebbi finito di dirgli ciò che aveva operato la nostra avanguardia.
— Capitano Tibaldè, faccia serrare il passo; bisogna raggiungere più
presto che si può la testa di colonna a Montecàla. E voi, sergente,
andate alla vostra compagnia. —

Obbedii, ma, per quanto corressi, avevo sempre il colonnello alle
calcagna.

Mentre egli affretta il passo per giungere ai primi posti, lasciatemi
fare una piccola spiegazione strategica. Montecàla deriva il suo nome
dal mutar di pendenza che fa la strada, ad un certo punto, tra il
monte di Cosseria, di cui sfiora le falde, e la Colla, che sorge di
rimpetto. Poco più giù da Montecàla due strade discendono nella valle
di Carcare; la prima, più diritta, costeggia il torrentello, detto per
l’appunto il Montecàla, che poi, raccolte le acque di un altro fossato,
prende il nome di Anta e va a scaricarsi nella Bormida; la seconda,
piegando a levante, entra fra la Colla e Montenudo nella gola di
Plodio, e riesce a Carcare anch’essa. Ma la prima era a’ miei tempi un
sentiero campestre, erto e sassoso, donde poteva venire al più qualche
drappello di truppa leggiera; la seconda, invece, essendo rotabile,
era anche la sola per cui potesse avanzarsi una colonna formata, con
artiglieria e munizioni. Il castello di Cosseria, rincalzato dalla
sua piccola balza, conosciuta ancora col nome significativo di Spia,
comandava ad ambedue le strade, che sboccavano là, sotto il tiro de’
suoi moschetti. Da quella parte, la salita al castello era sommamente
difficile, e ad una certa altezza a dirittura impossibile, se non si
prendeva la viottola serpeggiante sul fianco occidentale del monte; ma
questo sentiero, assai ripido, poteva essere facilmente difeso con poca
gente risoluta. Più agevole era l’approccio del castello dalla parte di
tramontana, dove il monte spingeva innanzi due lunghi sproni, verso la
Rocchetta del Cengio. Sul più settentrionale dei due, che collega anche
il castello all’abitato del borgo, s’inerpicava la strada feudale,
sicuramente anteriore al Mille, come appare dai lastroni irregolari,
ma piani e saldamente commessi, giusta la vecchia usanza romana, che si
vedono ancora per lunghi tratti aderire al terreno.

Appena fummo giunti al colmo della salita, dov’era la nostra
avanguardia, il colonnello riconobbe in un batter d’occhio la posizione
sua e quella del nemico. Ai primi barlumi dell’alba, che rischiaravano
il cielo dietro ai vertici di Montenudo, si vedeva nereggiare d’uomini
in marcia la vicina stretta di Plodio, e d’altra gente il sentiero che
costeggiava il rigagnolo. L’avanguardia nemica aveva già occupato il
punto di collegamento delle due strade; ci vedeva allora allora, e si
disponeva all’attacco, mentre qualche palla incominciava a fischiarci
agli orecchi.

— Siamo arrivati a tempo! — disse, passandoci accanto, il capitano
Rubin.

— Chi sa? — mormorò il colonnello. — Ecco dell’altra gente a
sinistra. —

E guardava frattanto verso l’erta di Cosseria, dove si vedevano
brulicare parecchie centinaia di uomini, intenti a guadagnare la vetta.

— Sono cacciatori croati; — disse allora il sottotenente Fava. —
Avevano già presa la montagna, quando noi giungevamo al posto, e devono
essere stati respinti in disordine quassù dalla medesima truppa che ora
si avanza sulla nostra sinistra.

— E ci hanno tre ufficiali superiori; — notò il capitano Rubin,
osservando tre cavalieri, appiedati per la necessità dell’aspra salita,
che conducevano per le redini le loro cavalcature.

Quei cacciatori, che s’inerpicavano su per la costa del monte, erano
veramente croati, come diceva il sottotenente Fava. Riconoscemmo più
tardi che erano due compagnie, con sette ufficiali; ma da principio,
e non badando che al numero, credemmo di vedere un battaglione. Forse
le due compagnie, già fitte di per sè, avevano raccolti gli avanzi di
altre decimate a Montenotte, e perciò presentavano nel complesso un
forza di cinquecento uomini. Era con esse il conte Provera, pavese,
vecchio generale al servizio dell’Austria, seguito dal suo aiutante,
di cui non rammento il nome, e dal conte Martonix, ufficiale di stato
maggiore, che in quel giorno doveva buscarsi una gloriosa ferita.

Come mai si trovava lassù quella truppa? Erano forse sbandati del
corpo del generale Argentau, che avevano scambiata la via di Dego con
quella di Millesimo? O forse il generale Beaulieu, non credendo ancora
perduta la giornata di Montenotte, e ignorando la fulminea discesa
del Buonaparte nella valle di Carcare, aveva mandato in ricognizione
il Provera, e questi, tagliato fuori dall’esercito francese, si era
ripiegato sulla linea piemontese, non isperando più di raggiungere
l’austriaca? Non saprei dirvelo. Il soldato, in campo, ignora molte
cose, anche di quelle che accadono vicino a lui, e quasi sotto i suoi
occhi. Aggiungete che di questi particolari minuti delle grandi guerre
non si tien conto a cose fatte e a relazioni compiute. Dunque, io non
lo so, e nessuno l’ha scritto; restiamo nel buio.

I francesi, come vi ho detto, ci avevano veduti e salutati con qualche
fucilata; ma poco dopo si avanzarono rapidamente, levando alte grida,
quasi volessero prenderci col terrore delle voci, come gli Ebrei di
Giosuè avevano preso Gerico a suono di trombe.

— Alberione, Corte, miei buoni amici, ecco il momento; — disse il
colonnello, snudando la spada. — Attaccate alla baionetta, e vivamente!

Un fremito corse per le due compagnie di Monferrato, a quelle parole
del comandante.

— Per il re e per la patria! — gridò il cavaliere Alberione, dei conti
di Rorà. — Avanti, Monferrato!

— Monferrato, avanti! — gridò il cavalier Corte, dei conti di
Bonvicino. — Susa e la Marina ci guardano.

Le compagnie si mossero con le baionette spianate, presero il passo
accelerato, indi la corsa vertiginosa, rovesciandosi addosso al nemico.
Un grido solo, un urlo, rompeva dai petti: «avanti, Monferrato!» Il
nome della patria, il nome della famiglia militare, a cui rispondevano
due immagini egualmente care, il luccichio delle baionette assiepate
davanti a noi, avviate a gara, prorompenti come lingue di fuoco, la
sensazione calda dell’urto imminente, l’odore acre della mischia,
raddoppiavano, centuplicavano l’ardimento, inebbriavano i cuori.
Ci accolsero a schioppettate, i francesi? Lo immagino, ma non ne
ho conservato il ricordo. So che li vidi via via più vicini, quindi
mi parve che dessero volta e la nostra schiera li inseguisse con le
baionette alle reni. Bella cosa, quell’impeto e quella fuga, veduti
come in un lampo! Tutti gli uomini sono fratelli! Ecco in verità un
consolante pensiero. Ma nessuna idea sulla fratellanza umana varrà
nella memoria del soldato questo acerbo contatto del ferro lucido con
la carne palpitante, quando si difende casa sua, la bandiera e l’onore
del proprio paese. L’orgoglio indomabile della vostra medesima razza vi
lampeggia sugli occhi; il sangue, il buon sangue di tante generazioni
che vogliono emulazione o vendetta, vi martella alle tempia, vi fuma
alle nari, vi caccia avanti, all’emulazione, alla vendetta, alla
strage. Rovinate, massa animata, col peso moltiplicato della massa
inerte, sulla muraglia vivente che vi contrasta la via, e il cozzo
delle due forze, delle due somme di sdegni e di furori scatenati, dà
fumo e scintille. Siete ferito? Non lo sentite, in quel punto supremo;
cercate il petto del nemico, lo tempestate di colpi. Davanti a voi
sparisce ogni cosa; ogni immagine si offusca e si perde; non vive altro
pensiero, non risplende altro affetto, non arde altra passione, fuorchè
l’ira vostra, raddoppiata, inasprita dall’ira di quanti combattono con
voi, o contro di voi. La morte aleggia su tutti, si ficca in mezzo,
dirige ella i colpi. Può cogliere anche voi; ma che importa? È bella,
è luminosa, è felice, la morte del soldato, nell’urto feroce di due
battaglioni, e vale cento vite di filosofi umanitarii, con tutti i loro
libracci per giunta alla derrata.

Si erano scompigliate le ordinanze nemiche; gli assalitori, respinti
a furia, si ripiegavano sul grosso dell’esercito. Ma gli ufficiali
facevano quanto potevano per arrestare la lor gente; esortazioni,
piattonate, tutto era buono, per raggiungere il fine. Così, rannodando
gli uomini di buona volontà, sbarrando la strada ai timidi, riuscivano
ancora a far testa.

— _Sacrebleu!_ — gridavano. — _La face à l’ennemi! Allons, enfants de
la patrie_....

E a quelle parole, che prendevano facilmente il ritmo musicale, si
rifacevano i manipoli. Il gran numero dei feriti che ingombravano
la strada, rallentando la marcia a noi, dava tempo al nemico di
riordinarsi più lungi, di ritornare alla carica.

— Staremo noi a sentirli cantare? — gridò il cavaliere Alberione. —
Avanti, Monferrato! Per la patria, per il re! —

E dentro da capo. Era una lotta a corpo a corpo, una lotta disperata;
ma anche questa finì con la peggio del nemico, che diede volta ancora,
incalzato da noi, bersagliato dai fuochi della collina.

Perchè ora dovete sapere ciò che avveniva alle nostre spalle, o
meglio, ciò che aveva fatto il colonnello Del Carretto, intanto che
noi si marciava ripetutamente all’assalto. Non era ancora venuto per
lui il momento di caricare, come ne aveva voglia di certo. Con un
sangue freddo ammirabile, mentre Monferrato correva alla baionetta,
egli prendeva la Marina e Susa, comandava per fila a sinistra e faceva
andare le quattro compagnie sull’erta di Cosseria. Di lassù, le prime
squadriglie, con tiri aggiustati sulla seconda linea dei francesi, ne
ammorzavano l’audacia, aiutando l’impeto nostro nella loro avanguardia.
Frattanto il colonnello guadagnava terreno, muovendo la sua gente a
scaglioni, come se fosse in piazza d’armi, e non davanti al nemico,
lungo la costa di un monte.

Il giorno sorgeva, illuminando quella stupenda evoluzione. Ma il
giorno, pur troppo, illuminava anche la povertà delle nostre forze.
Eravamo stati in cento ottanta a dar dentro, ed avevamo parecchi
dei nostri fuori di combattimento. L’avanguardia nemica, respinta
in disordine per la seconda volta, non si riordinò che alla stretta
di Plodio, sulla testa di colonna dell’esercito francese. Ma laggiù
riprendeva lena ed ardire; un uomo a cavallo, certamente un generale,
assumeva il comando, la guidava alla riscossa, agitando il cappello
piumato sulla punta della spada. La schiera ostinata si cacciò sotto un
terza volta; ma noi, come fu a venti passi, le facemmo addosso un fuoco
così vivo, che ella fu costretta ad arrestarsi. Un’altra carica la
rimandò di là dal torrente.

In quello scontro ci riuscì di fare un prigioniero. Era un soldato
caduto, che non aveva avuto tempo di ritirarsi con gli altri. Il
cavalier Corte lo interrogò, secondo l’uso.

— A che corpo appartenete?

— Augereau; — rispose brevemente il soldato.

— Quanti siete?

— Dodicimila, per ora; ma il resto è in marcia. La difesa che fate, mio
comandante, non può condurvi a nulla; vi consiglio di arrendervi.

— Ecco un prigioniero che fa il parlamentario; — notò il cavalier
Corte, ridendo. — Andate, _mon brave_, e dite al vostro generale
che noi siamo in meno, ma che qui dietro c’è tutto l’esercito
piemontese. —

Il francese salutò, recando la mano al cappello, e si allontanò
zoppicando.

— Mi sono forse affrettato un po’ troppo a presentare il general Colli
in battaglia; — soggiunse il cavalier Corte, volgendosi al collega
Alberione. — Ma forse anche lui mi ha raddoppiato il numero dei suoi.
Esagerazione per esagerazione. —

Il comandante della prima sorrise ed approvò.

— E valga la buona intenzione! — diss’egli. — È bene che sappiano,
laggiù, che non abbiamo paura di loro. Per intanto, questa prima
partita l’abbiamo vinta noi. —

E per intanto seguitava il fuoco vivo da una parte e dall’altra della
valle. I nemici si disponevano ad un nuovo e più poderoso attacco,
quando giunse a noi il capitano Rubin, con l’ordine di farci ripiegare
sul grosso del battaglione. Ci ritirammo con calma, ben sostenuti
dalle due compagnie di Susa, che si erano a bella posta avanzate sul
ciglio della balza. Ma il capitano Rubin, che aveva recato l’ordine del
colonnello, prese una palla in petto e cadde bocconi. Accorremmo per
rialzarlo, e lo portammo semivivo sulle nostre braccia, fin sotto ai
torrioni della ròcca.

— Povero Rubin! Per mia colpa! — esclamò il colonnello, quando lo vide
giungere in quello stato.

— Qualcheduno doveva andare; — mormorò il capitano. — E questa volta
tocca a me. Buona fortuna, mio colonnello! —

Furono le ultime parole del capitano Rubin. Filippo Del Carretto lo
abbracciò, con le lagrime agli occhi, e si tolse di là, per andare dove
lo chiamava il dovere. Ecco una brutta cosa, nella vita del soldato! Si
vede morire un amico, e non si può restar lì, a confortarlo ne’ suoi
ultimi momenti. Basta, beviamo un sorso. È una storia così lunga! Ma
voi altri l’avete voluta, e dovete ascoltarla dal principio alla fine.




CAPITOLO V.

Chi comanda, a Cosseria?


Lassù, dove ci eravamo inerpicati, era un castello in rovina. Mostrava,
per altro, di essere stato saldamente costrutto, perchè si vedeva ritta
ancora, e in alcune parti incolume, la sua forte ossatura. Le mine
del 1536 avevano fatto crollare il mastio, che, rompendosi in quattro
enormi rocchi di malta e di pietre, si era rovesciato sulla chiesuola
del castello e sopra la facciata del palazzo feudale. Ma esso aveva
anche fatto di peggio per noi, tardi ospiti di quelle rovine, poichè
nel suo crollo si era sfondato il serbatoio dell’acqua, la cui vòlta
robusta girava a fior di terra sotto la piazzetta, davanti alla chiesa.
Là dentro si raccoglievano le acque piovane e le nevi, di cui erano
liberali i lunghi inverni delle Langhe; nè in altro modo, per l’altezza
solitaria del monte, si poteva aver acqua nei calori dell’estate.

Il castello aveva una sola cinta dalla parte di levante e mezzogiorno;
ma di là, anche i resti dell’antico muro bastavano a custodire il
passaggio, poichè il declivio era ripido oltremodo, e pochi uomini
di guardia potevano impedire la salita a centinaia e centinaia di
assalitori pazzi. Due cinte a semicerchio proteggevano la ròcca da
ponente e da tramontana. L’interna, e più alta, non era più che un
monte di rottami su cui verdeggiava una folta macchia di nocciuòli.
La esterna, assai larga di giro, era diroccata in gran parte, specie
davanti al più dolce pendìo, per cui la montagna si collegava ai
due sproni, o contrafforti, che ho già ricordati, e che voi pure non
dovrete perder di vista. Sull’ultimo lembo della doppia cinta, verso
levante, sorgevano ancora tre lati delle mura maestre del vecchio
palazzo a due piani, e un romantico verone, su cui Berta di Cosseria
avrà passate Dio sa quante ore del giorno, meditando, con gli occhi
rivolti alle verdi colline del Monferrato. Chi era questa Berta di
Cosseria? Lo ignoro. È un nome che mi è rimasto nella memoria, ma senza
contorno di fatti. Non vi aspettate dunque la sua storia da me. Non so
nulla di lei; non so neppure in che secolo sia vissuta, questa gentile
signora.

Salito lassù, e data una rapida scorsa alla cinta esterna, il
colonnello Del Carretto riconobbe subito il lato debole della
posizione. Di là, dove il muro appariva più guasto, e dove, per i
due contrafforti che sapete, era da prevedersi più facile l’attacco,
ordinò subito un’abbattuta d’alberi e un riparo di sassi, dietro a
cui potevano stare appostati i combattenti di prima linea. Si lavorò
tutti a gran furia, e in capo a mezz’ora avevamo un principio di
trinceramento, bastante alle prime necessità della difesa. Frattanto,
uno strepito d’armi, di voci alte e di passi affrettati, si udiva sotto
di noi, nelle forre. Anche il nemico aveva compiuto il suo giro attorno
alla montagna, e di là dovevamo vederlo comparire all’assalto.

La seconda compagnia di Monferrato era di servizio fuori della cinta,
sull’estrema destra del castello. Ma io, mentre si conduceva a termine
il lavoro delle trincee, avevo dovuto andare a mettere in ordine ogni
cosa per i nostri feriti, ed anche, pur troppo, a raccogliere gli
ultimi desiderii dei morenti. Ero il calligrafo, lo ricordate, lo
scrivano, il letterato del battaglione. Ma facevo anche l’infermiere,
in quel punto, e dopo aver collocati quei poveretti al sicuro, sotto
l’abside, mezzo sepolto tra le macerie dell’antica chiesuola, ero
andato a frugare tra i macigni e i rottami che colmavano la grande
cisterna, e avevo trovato qualche goccia d’acqua piovana, nascosta tra
i sassi. Non era un gran soccorso, e non sarebbe durato molto; ma si
poteva almeno bagnar le labbra dei feriti, senza privare i combattenti
del poco liquido che serbavano ancora nelle loro fiaschette.

Fatta la scoperta, non ebbi altro pensiero che quello di andarla
a comunicare al marchese Del Carretto. Egli era poco distante, sul
terrapieno della cinta interna, a colloquio col generale Provera.
I due uomini di guerra, giovane l’uno e pieno di vita, l’altro già
molto avanti negli anni, si erano conosciuti altrove, nel corso della
campagna antecedente, e quella mattina, sul colmo di Cosseria, avevano
ricambiato la stretta di mano delle vecchie conoscenze. Ma il nostro
colonnello, che aveva pratica del luogo, essendo quelle rovine e tutta
la montagna appartenute a’ suoi maggiori, era corso ad ordinare i
preparativi della difesa. Soltanto allora aveva potuto ritornare presso
il conte Provera, e per la prima volta stava ragionando liberamente con
lui. Non era quello il buon momento per farmi avanti con la mia piccola
notizia, e rimasi, un po’ senza volerlo, un po’, ve lo confesso,
per istinto di curiosità, nascosto nella macchia dei nocciuòli, ad
ascoltare la loro conversazione. Si trattava alla fin fine degli
interessi di tutti noi, e chi, trovandosi in un caso simile, non ha mai
ascoltato agli usci, mi scagli pure la prima pietra.

— Ma qui non c’è nulla di nulla; — diceva il conte di Provera. —
Nemmeno un fil d’acqua. —

Il marchese Filippo fece una mossa di labbra, che pareva voler dire:
non è poi colpa mia.

— Facciamo una rassegna delle nostre forze; — continuò il Provera. —
Voi avete cinquecento uomini.

— Siamo ancora cinquecento cinquanta, tra ufficiali e soldati, senza
contare i feriti che abbiamo potato trasportare nella rocca; — rispose
il colonnello.

— Bene; ed io ho cinquecento uomini sani, con sette ufficiali.
Aggiungete me e i due dello stato maggiore, che mi accompagnano.

— Mille sessanta; — rispose il colonnello, tirando la somma.

— Le vostre munizioni? — ripigliò il Provera.

— Da venticinque a trenta cartucce per uomo.

— Come noi.

— Son dunque trentamila colpi disponibili; — conchiuse il marchese
Filippo.

— Diciamo pure trentamila; — replicò il conte Provera. — Ma voi
m’insegnate, colonnello, che, anco a farli tutti, quei trentamila
colpi, ne avremo solo un migliaio di utili. Un battaglione, come ogni
altro corpo di soldatesche impegnato, fa già molto a metter fuori di
combattimento l’equivalente del proprio effettivo.

— In aperta campagna, lo credo anch’io, — rispose il marchese Filippo,
— perchè un partito finisca sempre col soverchiare l’altro, o per
forza di baionetta, o per buon esito di movimenti giranti. Ma in una
posizione fortificata, e difendendosi fino all’ultima cartuccia, quel
corpo può fare assai più.

— Bene, concedo il doppio, — disse il vecchio generale, — quantunque
un fatto simile non si sia visto mai, dacchè si usano armi da fuoco.
E poi? si potrà egli tenere fino all’ultimo, senza munizioni di bocca?
Quanto al pane, mi avete risposto: «gli avanzi della razione di ieri»;
per l’acqua e il vino, mi avete risposto: «quel che rimane entro
le fiaschette dei soldati, riempite questa notte a Millesimo». Sono
minuzie volgari, lo so, e stonano coi generosi ardori del guerriero;
ma bisogna anche metterli in conto, quando si ha da misurare il grado
di resistenza possibile. Aggiungete, marchese, che avete dei feriti, e
che, insieme con l’acqua, vi mancano ancora uffiziali di sanità.

— I nostri feriti soffriranno nobilmente, per il re e per la patria; —
rispose il colonnello.

Io non vedevo il conte Provera, ma indovinai dal suo silenzio che egli
doveva inchinarsi, da vecchio gentiluomo, a quella bella risposta.

— Veniamo alle speranze; — soggiunse egli, dopo una breve pausa. — Il
generale Beaulieu sarà oggi impegnato a Dego, a Spigno, o in qualche
punto della strada di Acqui, che egli deve coprire ad ogni costo.

— Il generale Colli ha promesso di sostenerci; — rispose Filippo del
Carretto. — Noi siamo il suo posto avanzato. Per intanto, aspetto
munizioni. Questa notte gli ho spedito un corriere, per avvisarlo che
a Millesimo non avevamo potuto far viveri; ed egli, se ha sentite le
fucilate di Montecàla, deve anche immaginare che non avremo tempo di
cercarne a Cosseria.

— Il Colli.... — disse quell’altro, mendicando le parole, — il Colli
dovrà ritirarsi su Ceva.

— Lo credete voi, generale? — gridò Filippo del Carretto.

— Ma!... È questa una mia opinione.... fondata sul dovere di ogni
prudente capitano, che voglia salvare il proprio esercito.

— Senza aver combattuto, generale?

— Infine, — disse il vecchio Provera, che in quel momento mi parve
molto seccato di tante domande, — non è qui che si salvano le sorti
della campagna. Una grande battaglia, vinta nella valle del Po,
rimanda i francesi di là dal Settepani, assai meglio che tanti piccoli
combattimenti in queste gole.

— Sia pur questo il concetto del generale Beaulieu; — ribattè il
marchese del Carretto. — Ma il generale Colli comanda l’esercito
piemontese, e l’esercito piemontese, per intanto, ha da difendere casa
sua.

— Dopo Montenotte?

— Appunto per ciò. A Montenotte, i francesi avranno ottenuto il
grande risultato di poter mantenere le loro posizioni sul passo di
Cadibona; ma restano sempre, contro di loro, la stretta di Dego per gli
austriaci, e la stretta di Millesimo per noi.

— E sia; — rispose il Provera. — Mettiamo pure che il Colli venga
in sostegno. Quando? Qui, a detta di un vostro ufficiale, che l’ha
saputo da un soldato francese, abbiamo da fare con tutto il corpo
dell’Augereau; dodici mila uomini. E il Buonaparte non è lontano; ne
avrà ventimila.

— Gliene concedo trenta, e tutti i miracoli dell’audacia, e tutti
quelli della fortuna, che, come dicono, ama i giovani; — replicò il
marchese Filippo, animandosi. — Ma neanche il generale Buonaparte
può far qui il suo sforzo maggiore, se prima non ha assaggiato il
Beaulieu. Noi, dunque, non avremo sulle braccia che i dodicimila uomini
dell’Augereau. Ora, la posizione nostra, su questo nido di aquile, e
per un giorno che dovremo aspettare i movimenti del generale Colli,
vale undicimila uomini. Siamo mille, quassù; i conti si pareggiano.

— Marchese del Carretto, voi avete una fede maravigliosa! — esclamò
il generale Provera. — Ed è una bella cosa, nel soldato; bella come la
gioventù. —

Volevo escire dal mio nascondiglio, perchè la conversazione mi pareva
finita. Ma in quel punto capitò sul terrapieno il cavaliere Alberione.

— Colonnello, — diss’egli, — abbiamo un parlamentario.

— Ah! — esclamò il marchese Filippo.

— È un generale; — riprese il capitano Alberione. — È venuto col
trombettiere, che portava il fazzoletto bianco sulla punta della
baionetta.

— Lo avete bendato?

— Sì, e lo abbiamo condotto dentro. Egli ha chiesto chi comanda a
Cosseria, per intimargli la resa. —

Io allungai il collo tra i rami. Premeva anche a me di saperlo, chi
comandasse a Cosseria, dopo la conversazione che avevo sentita.

Il marchese Del Carretto aveva fatto un gesto di ossequio, e il
generale Provera si muoveva già per andare; ma dopo quel gesto,
e veduta la mossa del generale, il nostro colonnello fu pronto a
soggiungere:

— Signor conte, Ella è maggiore di grado e di esperienza. Ma io ardisco
pregarla di por mente ad una cosa.

— Quale?

— Che noi siamo risoluti di difenderci, e che ne abbiamo anche
l’obbligo.

— Potendo, sicuramente; — rispose l’austriaco.

— È giusto; — replicò il marchese Filippo. — Ma a me, iersera, è stato
detto; andate, e difendete Cosseria. È un ordine positivo.

— E che cosa contate di fare? Di non ascoltar nemmeno se i patti del
nemico sono onorevoli?

— Fossero i più onorevoli che un pugno di uomini potesse ottenere da
un intiero esercito, se essi ci fanno sgombrare la posizione, ci fanno
tradire il mandato. Ella non ha ordini pari ai nostri, signor conte; si
ritiri Lei, noi resteremo. —

Il vecchio Provera rimase un istante sovra pensiero, poi nobilmente
rispose:

— Non farò questo, io. Ella ha detto poc’anzi che la fortuna ama i
giovani. Orbene, io invito la dea su queste rovine e cedo il comando al
colonnello Del Carretto. Se la mia vecchia esperienza può valer qualche
cosa, la metto a sua disposizione fin d’ora. Signor comandante, a Lei!

— Grazie, signor conte! — gridò il marchese Filippo. — Ed ora,
Alberione, fa venire il parlamentario. Conduci anche il cavalier
Tibaldè. È il capitano più anziano, e desidero che assista al
colloquio. —

Il parlamentario fu introdotto nella seconda cinta, e sbendato dal
cavaliere Alberione.

— D’ordine del generale in capo dell’esercito francese, — diss’egli,
levando la fronte, e col sorriso sulle labbra, — chi comanda a
Cosseria?

— Io, marchese Filippo Del Carretto di Camerano, colonnello dello stato
maggiore generale di Sua Maestà il re di Sardegna; — rispose solenne il
nostro comandante. — Con chi ho l’onore di parlare?

— Il mio nome è molto più breve; — ripigliò quell’altro. — Cervoni,
generale della Repubblica francese.

— Ah! — esclamò il marchese del Carretto, che aveva fiutata in
quelle parole l’intenzione sarcastica, ed era uomo da rendere pan per
focaccia. — Il comandante dell’avanguardia a Voltri? —

Ricorderete che pochi giorni prima i francesi si erano spinti fino
a Voltri, ma ne erano stati cacciati a furia da un corpo di seimila
uomini, calato improvviso dai monti.

La botta era resa, e il labbro del marchese Filippo si ricompose tosto
al suo consueto sorriso.

— Vincitori a Montenotte, padroni della valle della Bormida, — ribattè
il generale Cervoni, felice di mettere quel glorioso copertoio sui
cenci di Voltri, — proseguiamo la nostra marcia vittoriosa. Intimo la
resa alla guarnigione di Cosseria, in nome del generale Buonaparte.

— Non comanda il generale Augereau? — chiese il colonnello Del Carretto.

— La sua divisione avrà l’onore di muover prima all’assalto, se vi
ostinerete a resistere; — rispose il Cervoni. — Ma qui è presente
il generale in capo. La posizione è accerchiata da tutto l’esercito.
Occupiamo Millesimo, Pian dei Giaschi e il monte Cavallo; la vostra
condizione è disperata; arrendetevi a discrezione.

— A discrezione! — ripetè il nostro comandante.

— Buonaparte è generoso; — replicò il parlamentario.

— Grazie, generale Cervoni! — disse allora il marchese Del Carretto.
— Vogliate riferire al generale Buonaparte, altro nome italiano che
ripeto con grata meraviglia in questa occasione, che noi non disputiamo
sulle condizioni strategiche e tattiche in cui possiamo trovarci, ed
egli intenderà le ragioni di questo nostro riserbo. Sappia egli, per
bocca vostra, che a Cosseria ha da fare con granatieri piemontesi, e
che i granatieri piemontesi non si arrendono mai[1].

— Così farò; — rispose il Cervoni; — e sarò felice, se potrò venire io
primo, a salutare questi valorosi, con la spada alla mano.

— Sempre lieto d’incontrarvi, generale; e senza rancore, per quell’ora!
— aggiunse il marchese Filippo, stendendo la mano al nemico.

Il parlamentario francese fu bendato da capo, e ricondotto con tutti
gli onori, a suon di tamburo, fino al fondo della salita.

Ero escito dalla macchia, ed avanzandomi verso il colonnello, gli
annunziai la mia piccola scoperta.

Egli se ne mostrò molto contento, e, volgendosi al vecchio Provera, gli
disse:

— Vedete, generale? Un angelo è apparso, e ci ha additata una fonte.
Poca cosa, pur troppo, ma ai feriti basterà. Sergente, — riprese,
voltandosi a me, — andate pure alla vostra piccola infermeria.

— Colonnello, — risposi, mettendo la mano alla fronte, — se permette
vado al mio posto, con la seconda di Monferrato.

— E lasciate i feriti? — mi chiese.

— La seconda non ha che tre sergenti; — risposi.

— Bravo! va; — diss’egli allora, dandomi amorevolmente del tu.

E mi pose anche la mano sulla spalla, e il mio cuore n’ebbe un sussulto
di gioia.

Avete pensato mai che ci sono delle mani dotate di una virtù
miracolosa? Altro che il magnetismo! Son mani divine, che derivano la
loro potenza dalla purezza dell’anima, dalla nobiltà del carattere.
Si sa, o si sente, che quelle mani non si sono macchiate mai di una
azione malvagia, o solamente dubbia. Si stringono con venerazione; si
vorrebbe baciarle; dovunque toccano, lasciano il sigillo, la fragranza
dell’onore, della virtù, della grandezza morale.

Quel giorno e per la prima volta, io, oscuro sergente, qui sopra
all’omero sinistro, sentii l’impronta dello spallino, che non avevo
ancor meritato.




CAPITOLO VI.

Giornata calda.


Filippo Del Carretto discese rapidamente dalla macìa che si stendeva in
largo declivio sotto la breccia della cinta esterna, e percorse tutta
la fronte di difesa, volendo vedere ogni cosa da sè. Passando davanti
alla sua gente, salutava amorevolmente ufficiali e soldati, alternava
comandi e parole di lode, comunicava a tutti lo spirito marziale che
lampeggiava dalle sue pupille azzurre.

Egli aveva collocato nel centro, e poco sotto alla breccia che vi ho
detto, le due compagnie della Marina, sostenute da cento uomini del
generale Provera. Questa volta toccava ai granatieri della Marina
il posto d’onore, poichè Monferrato aveva già avuto il suo, poche
ore innanzi, al passo di Montecàla. Inoltre, le due compagnie della
Marina avevano completo il numero dei loro ufficiali, e abbondavano di
sott’ufficiali, mentre le due di Susa non avevano che due ufficiali
per ciascheduna, e la seconda di esse era comandata da un semplice
luogotenente.

Queste due erano invece collocate sull’estrema sinistra, e sostenute
anch’esse da un centinaio di Croati. Ma laggiù era un posto
importantissimo, poichè da quella estremità si partiva il contrafforte
occidentale della montagna, e su quel contrafforte saliva una delle
due strade che conducevano alla rocca, anzi quella che le girava
attorno, dalla parte di Millesimo, per imboccare la porta castellana.
Laggiù, adunque, dov’era da temersi un altro attacco, il colonnello
Del Carretto pose a sostegno la prima di Monferrato, col cavaliere
Alberione.

Un altro centinaio di Croati erano distribuiti sull’estrema destra,
dov’eravamo noi della seconda di Monferrato, sotto gli ordini immediati
del cavalier Corte. Da quella parte, avevamo a destra una costiera
assai ripida, che sarebbe stata a dirittura impraticabile, senza una
piantata di castagni giovani, che potevano dar ansa a qualche manipolo
più svelto e più temerario d’inerpicarsi lassù e di attaccarci di
fianco. Sulla nostra fronte era un declivio abbastanza largo, che in
parte andava a congiungersi con quello del centro, in parte spariva,
entro una forra, a cinquanta passi da noi. Di quella fronte dovevamo
occuparci, ed anche partecipare coi nostri fuochi a respingere gli
assalti che fossero dati sul centro della posizione. Il nostro fianco
destro e le spalle erano guardati, così per noi, come per tutto il
presidio, da altri duecento Croati, alla cui vigilanza dava il soccorso
della sua grande esperienza e della sua bella calma il generale
Provera.

Aggiungo che tutta la fronte di difesa, a tramontana, cioè verso
la Rocchetta del Cengio, poteva esser lunga un duecento passi. Su
tutta la linea, più folto ai lati e con una larga radura nel centro,
era un bosco di castagni; ma eravamo a mezzo aprile, e le piante
mettevano appena i primi germogli. Più là dal bosco, e dal suo pendìo
verdeggiante di borraccina e di felci, la montagna staccava i due
sproni, o contrafforti che sapete, l’occidentale verso il bosco
della Guardia e il pian dei Giaschi, l’orientale verso San Rocco e
l’abitato di Cosseria. Sovra ambedue, ve l’ho detto, serpeggiavano
strade, l’occidentale più moderna, ma anche più guasta, l’orientale
antichissima e meglio conservata, per la medesima saldezza della sua
costruzione.

A quest’ultima, finalmente, veniva ad allacciarsi una viottola
campestre, che poco si vedeva, anzi nulla dal nostro poggiuolo, poichè
ascendeva al coperto tra i ciglioni e gli scoscendimenti della forra.
Si vedeva in quella vece benissimo, e per lungo tratto, la strada
maggiore, che a cento cinquanta passi da noi risaliva una piccola
eminenza, e poi seguitava bianca bianca tra i roveri e i ginepri fino
al bosco del Cavallo.

Là, dove la strada faceva quel po’ di risalto, si notava qualche
movimento dei nemici. Si avanzavano più nascosti che potevano, dietro
ai ginepri e agli sterpi, ond’era rivestito quel dorso di galestro,
e pareva che proprio in quel punto volessero attendere a qualche
misterioso lavoro. Noi credemmo a tutta prima che di là ci preparassero
l’attacco; ma il colonnello ci disingannò facilmente.

— Non vorranno mica esporsi per così lungo tratto di sentiero allo
scoperto; — diss’egli — Vedrete che pianteranno una batteria di
campagna.

— Vuol esser musica, dunque? — esclamò il cavalier Corte, che non
perdeva mai il suo buon umore.

— Tocca a loro di regalarcela, che hanno gl’istrumenti; — rispose
il marchese Filippo, accogliendo volentieri la celia. — Ma quando
arriveranno i nostri di laggiù, felice notte, suonatori! —

E guardava con desiderio a sinistra, verso i monti oltre la Bormida di
Millesimo, dove si vedeva biancheggiare la salita di Montezemolo.

S’ingannava, fidando nel soccorso del Colli; ma non s’ingannava
altrimenti, argomentando i disegni del nemico. Su quel risalto della
strada era venuto, come si seppe più tardi, il generale Buonaparte
in persona, e aveva dato ordine di costrurre una batteria. Senonchè,
dovendo quel lavoro esser fatto di giorno e a così breve distanza da
noi, il parapetto si innalzava un po’ indietro, per non tenere gli
zappatori esposti al tiro dei nostri moschetti. Ne derivò, come potete
immaginare, un piccolo difetto di posizione, che non permise ai cannoni
francesi il tiro ficcante nei nostri lavori avanzati.

Regnava frattanto sull’erta un silenzio di tomba. L’aria odorava
d’insidie. Ricordo che sorridemmo malinconicamente vedendo passare
svolazzando davanti a noi una farfalletta bianca, forse la prima della
stagione. In un bel luogo, e per il suo primo giorno di vita, era
venuta a ficcarsi!

Un rullo di tamburo si udì nella forra sottoposta, che metteva
all’abitato di Cosseria; un altro rullo rispose dalla valletta che era
davanti a noi, sotto il bosco della Guardia. Due assalti simultanei ci
erano in quella forma annunziati.

— Finalmente! — gridò il marchese Del Carretto. — Granatieri, qui
daremo una buona lezione ai nemici della patria e del re. Lasciateli
avanzare, senza fare un colpo. Rinforzi e munizioni non ci mancheranno,
in giornata; intanto, da buoni soldati, dobbiamo risparmiare le nostre
cartucce. Non fate fuoco se non quando il nemico sarà a venti passi, e
ognuno di voi si scelga il suo uomo. Del resto, il fuoco lo comanderò
io, e vedrò dalla vostra calma se siete vecchi soldati. —

Osservate lo strano effetto che doveva fare su noi l’accorto discorso
del colonnello. Si aspettava di veder comparire il nemico dal ciglio
della collina, e una simile aspettativa è sempre tale da meritare un
certo riguardo, magari anche un pochino d’ansietà, perchè i timidi
ci sono sempre, e incominciano di lì anche coloro che alla prima
circostanza si tramuteranno in eroi, e perchè d’altra parte i più
valorosi, i più esercitati, i più calmi, temono sempre di non poter
fare abbastanza bene il loro dovere. Ma il colonnello Del Carretto, con
le sue magiche parole, ci trasformò d’improvviso quella ansietà nella
mente. Oramai non temevano più l’apparizione delle colonne d’attacco;
temevano di sparar troppo presto, di non parere più a lui quelli che
volevamo essere, cioè vecchi soldati.

I tamburi del nemico suonavano furiosamente la carica. Il rumore si
avvicinava sempre più, da una parte e dall’altra; si udiva il calpestìo
concitato dei fantaccini che serravano il passo lungo i sentieri
nascosti, ond’era cinta la montagna a pochi metri dal colmo; ad un
certo punto il rumore dei passi mutò, divenne sordo, ma più frequente,
come di un gran numero di persone che si affrettino camminando
sull’erba, e a noi parve fin anco di sentire il respiro affannoso degli
assalitori, che guadagnavano l’erta. Ci apparvero, infine, ci apparvero
alla vista i neri cappelli dalla tesa arrovesciata sull’orecchio, e
fermata da una coccarda tricolore. Stettero un momento in forse, da
prima cercando i nostri ridotti, poi la cagione del nostro silenzio; ma
non potevano rimanere più a lungo così, dovevano risolversi, far posto
ai compagni che volevano afferrare anch’essi il ciglio del prato, e che
incominciavano a sbucare dai lati.

— _En avant, soldats de la République!_ — tuonò allora una voce, che io
riconobbi per quella del generale Cervoni.

Era egli, difatti; veniva primo all’assalto, come aveva promesso; e
mi dava noia e mi faceva piacere che quel primo assalitore avesse un
nome italiano. Avevo già spianato il fucile, in attesa del comando,
e aggiustavo la mira su quell’uomo dal cappello piumato e dalla gran
sciarpa tricolore; poi dissi: «no, ci penserà un altro, a costui,» e
sviai di due o tre linee la canna.

Alla sua voce e all’esempio, i soldati si mossero, levando grida
feroci; vennero da prima strisciando, come gatti che hanno adocchiata
la preda, e finalmente si avventarono a passo di corsa.

Da noi era sempre un grande silenzio; non si sentiva volare una mosca.
La farfalletta bianca aleggiava tuttavia fra i due campi.

Il colonnello Del Carretto stava fieramente piantato, con la sua spada
nuda e fiammeggiante, sopra un largo macigno, dominando di quattro o
cinque spanne la sua fronte di battaglia. Mi pare di vederlo ancora,
su quella pietra predestinata, ritto, imperterrito, minaccioso, come
dovrebbero raffigurarcelo un giorno, quando paresse utile di eternare
nel marmo o nel bronzo qualche bell’esempio del valore italiano.

— Fuoco! — gridò egli, con voce che fischiò come la folgore, appena gli
assalitori furono a tiro di pistola.

Una scarica generale succedette al comando. I vecchi soldati avevano
mantenuto il loro buon nome. Ognuno aveva mirato il suo uomo; e quando
la nuvola si sciolse, fu visto il campo seminato di morti. Le prime
linee erano atterrate, le seconde indietreggiarono istintivamente.
Ma, incalzate dai nuovi venuti, incitate dalle grida dei comandanti,
ritornarono tosto all’assalto, e fu allora da parte nostra un fuoco di
fila, rapido, serrato, rabbioso. Crepitavano, fischiavano, guaivano
le palle, ed atterravano sempre; parecchi, più audaci, vennero a
stramazzare sui trinceramenti, davanti alla Marina, che faceva prodigi.
Noi, dalla destra, aiutavamo, cogliendo la colonna di sbieco. Più e più
volte vennero alla riscossa, ma furono sempre ricacciati. Il campo, per
lungo tratto davanti a noi, era diventato un carnaio.

Non fu più visto il Cervoni, morto o ferito che fosse. Un altro
generale guidava, che sapemmo poi essere il Bonel, anch’egli
animosissimo, col cappello levato sulla punta della spada, secondo
la gloriosa costumanza d’allora. Si avanzò alcuni passi, correndo, e
molti, ufficiali e soldati, gli si erano serrati intorno a manipolo.
Ma cadde anch’egli trafitto da più colpi, e disparve quel vessillo
di piume che incuorava la sua gente all’attacco. Un grido di gioia,
partito da tutti i nostri ridotti, ne salutò la caduta, e un urlo di
rabbia disperata rispose dalla rotta falange, che, levato il morto
sulle braccia, lo trafugò sotto il ciglio della collina. Noi incalzammo
il fuoco sulla schiera fuggente. Oramai davano indietro su tutta la
linea, investiti, rincorsi dalle palle, rovesciati, travolti.

Si poteva finalmente ricogliere il fiato. Bevemmo un sorso delle nostre
fiaschette, nient’altro che un sorso, perchè la provvista era scarsa, e
fra non molto saremmo rimasti all’asciutto. Avevamo vinto; questo era
l’essenziale, per allora. I morti e i feriti giacevano a centinaia,
sanguinosi trofei della nostra vittoria, lungo la fronte di battaglia.
Noi avevamo avuto pochi uomini fuori combattimento, colpiti da una
squadra di tiratori, appostati tra i cespugli, sui margini della strada
alta, dove il colonnello argomentava che si stesse collocando una
batteria.

— Vedete? — diceva egli, percorrendo i trinceramenti e distribuendo
sorrisi e strette di mano. — Calma vuol essere: non bisogna sparar
prima del tempo. Seguitiamo così e la vittoria sarà nostra. —

Eravamo caldi, infiammati, pieni di desiderio: avremmo voluto combatter
di nuovo. E l’occasione non si fece aspettar molto. I francesi
tornarono mezz’ora dopo all’assalto. I loro tamburi suonarono la
carica più furiosamente che mai. E venivano in tre colonne, una contro
il cavalier Corte, sulla destra della posizione, salendo dalla forra
laterale; una al centro, dov’era il colonnello coi capitani Tibaldè e
Lomellini; la terza sulla nostra sinistra, dove comandavano i capitani
Alberione e Calieri e il luogotenente Nerand.

Da quella parte era più facile venire fino al tiro, perchè la strada,
riuscendo ad una specie di sella che partiva gli approcci del castello
dal bosco della Guardia, diventava di dolce salita per un centinaio
di passi; ma poi era altrettanto difficile guadagnare la posizione,
perchè ivi la collina offriva una grossa sporgenza, e quasi un bastione
naturale. Forse in quel punto il terreno erboso dissimulava gli avanzi
di uno sprone della vecchia strada, che girava intorno al fosso della
ròcca.

Le colonne d’attacco si presentarono come la prima volta, senza
far colpo, sperando di sbigottirci con la grandezza sterminata del
numero; ma furono anche questa volta scompaginate, ributtate indietro
da un fuoco micidiale, e con una perdita doppia. Anche noi perdemmo
molti uomini, perchè i tiratori appostati sulla strada alta erano
cresciuti di numero, ed anche di audacia, dopo che aveva incominciato
a parlare il cannone. Era entrata in azione la batteria di campagna, e
bersagliava a tiro accelerato il muro di cinta a cui erano addossate le
nostre difese.

Il colonnello aveva l’occhio a tutto. Anche persuaso che l’artiglieria
del nemico poteva far poco guasto nel suo centro, lasciò solamente
guernita la trincea, e raccolse i sostegni sui lati, dove i tronchi dei
castagni impedivano la visuale ai puntatori. E sui lati l’artiglieria
prese anche a tirare alla cieca. Fioccavano le palle, sgretolavano
le pietre, scalcinavano la muraglia, rimbalzavano, ruzzolavano nel
trinceramento, accolte dalle risa e dalle solite arguzie dei soldati.
Allora incominciò per me quel disprezzo del cannone, in cui dovevo
fortificarmi dopo essere entrato nello stesso esercito napoleonico.
Gran fracasso, il cannone, e poco danno; ma è grande, invece, il suo
effetto morale. Napoleone, che conosceva gli uomini, ne usò molto
anche lui, ma nei momenti decisivi, concentrando i suoi fuochi sulla
posizione che voleva occupare.

Protetti dal cannone, come credevano, ritornarono più volte i francesi
e fecero attacchi su attacchi; ma sempre inutilmente. La sinistra
era di ferro; il centro era d’acciaio senz’altro. Quanto a noi,
della destra, non fo per dire, ma si era lì. Ad ogni modo, anche noi
respingemmo tutti gli assalti e mandammo di molta gente ruzzoloni.

Ci eravamo assuefatti a quel giuoco, e qualche volta escivamo anche
dalla trincea, che del resto si scavalcava assai facilmente, per
allungare il collo sullo scrimolo della forra, e vedere dove andassero
a finire i nostri nemici.

In una di quelle esplorazioni, e quando già pareva che gli assalitori
avessero perduto la voglia di ritentare l’impresa, mi occorse di vedere
un gruppo di soldati che stavano rannicchiati sotto la sporgenza di un
masso, come a riparo, ed aspettando una nuova occasione di salire.

Mi parvero temerarii, a voler rimanere così vicini, a venti passi da
noi, e pensai di mandar loro un ricordo salutare. Avevo ancora cinque o
sei cartucce, e una, di certo, era spesa bene in quel crocchio. Perciò,
volendo trovare un buon posto donde prender la mira, feci alcuni passi
avanti, tra i giovani castagni che orlavano la balza.

Udirono il rumore; fors’anche qualche pietra smossa andò a battere
accanto a loro nella forra; fatto sta che si sporsero in fuori, con
gli occhi in alto, per vedere che diavolo fosse. Il più maravigliato di
tutti fui io, perchè mi vidi sotto una testa di donna.

Di donna, laggiù? Era strano, lo so, tanto strano, che rimasi di
stucco, e non pensai più, come potete immaginarvi, a far uso del
fucile.

Quella donna aveva coraggio per quattro, perchè, mentre i suoi compagni
sgambettavano lesti per correre a riparo sotto un altro ripiano della
discesa, ella si trasse fuori con tutta la persona e mi piantò addosso
due occhioni curiosi, che mi rimescolarono il sangue nelle vene. Son
fatto così, io.... Cioè, mi correggo, ero fatto così, cinquant’anni
addietro, e quando una bella donna mi guardava a quel modo, il cuore mi
dava sempre le battute doppie.

Ella, dunque, mi contemplò per parecchi secondi, e poi mi disse....
Ma scusate, bevo, perchè in fede mia non ne posso più, e mi pare di
essere a Cosseria in quel giorno, con tanto di lingua fuori. E poi,
cari amici, la narrazione è al punto difficile, e bisogna chiamare i
pensieri a capitolo. Dunque, alla vostra salute!




CAPITOLO VII.

La vergine del reggimento.


Ella, dunque, mi contemplò per alcuni minuti secondi, con una cert’aria
tutta sua, tra impertinente e curiosa; poscia, socchiudendo gli occhi e
facendomi una smusata in faccia, mi domandò:

— _Qu’est ce que tu regardes, à present?_ —

Intendevo la sua lingua come ogni buon piemontese d’allora, ma non la
parlavo con molta franchezza. Cionondimeno mi provai, sapendo benissimo
che non c’era altro modo di farmi capire da quella diavola laggiù. I
nostri vicini hanno sempre avuto il difetto di studiar poco la lingua
degli altri popoli; per contro, hanno la virtù di non ridere, quando si
assassina la loro, e vi tengono conto della buona intenzione.

Risposi dunque in francese, ma asciutto, come è naturale che faccia
chi si ritrova impastoiato dalle regole di una grammatica nuova e dalla
povertà del suo vocabolario tascabile.

— _Je fais mon devoir, madame._

— _Tiens!_ — gridò ella. — _Tu parles français? Ç’est charmant de ta
part._

— _Charmant!_ — brontolai. — _Allez-vous-en; ce n’est pas ici la place
des femmes._

— _Qui te l’a dit, blanc-bec? Monsieur le curé de ta paroisse?_ —

E rise, scagliandomi quel frizzo, e mi mostrò intiere due file di
bianchissimi denti.

Aveva una bella testina, la mia strana interlocutrice, una di quelle
teste rotonde, ricche di capegli, notevoli per i lineamenti larghi
e finamente contornati, dalle quali i nostri vicini hanno preso
l’immagine della loro repubblica una e indivisibile, certamente
preferibile a quei medaglioni adiposi di Borboni e di Orléans, che
decorarono prima e dopo i loro scudi da cinque lire. Dei denti vi ho
già detto che li aveva tutti e bianchissimi; ma il momento e il modo di
farmeli vedere, mi diedero noia; perciò gridai, indispettito:

— Andate indietro! —

Ella non doveva essere molto avvezza ad obbedire, quantunque
appartenesse alla milizia, e, cacciando un po’ indietro la sua
berrettina a tetto di capanna, in guisa da mostrarmi scoperta la sua
fronte bianca e i primi ciuffi dei suoi capegli biondi, mi ribattè con
aria di sfida:

— E se mi piacesse di venire avanti?

— Indietro, o faccio fuoco; — replicai, levando il fucile.

— Ah, per esempio!... — diss’ella. — _Allons voir ça!_ —

E venne avanti, quella gran diavola, venne avanti come aveva
minacciato di fare. Salì con piglio risoluto per la viottola,
facendomi ballonzolare davanti agli occhi il suo guarnello turchino
di vivandiera, filettato di rosso, e venne a piantarsi a cinque o sei
passi da me.

Io avevo il fucile già ritto all’altezza della guancia e facevo una
figura abbastanza ridicola. Come? Un granatiere piemontese vedrà una
donna venir leggiera e confidente verso di lui, e non troverà altra
cortesia da farle, che quella di spianarle addosso la canna d’un
fucile? Questo pensiero, passato veloce attraverso le nebbie del
mio intelletto, mi fece fremere e rabbrividire ad un tempo. Trassi
indietro il fucile e mi parve di essere ritornato un altr’uomo; lo
accostai al braccio e gli detti sulla seconda fascetta il colpo voluto
dai regolamenti; poi, con molta destrezza, lo feci saltare davanti
al petto, gli detti un altro colpo di palma sulla cassa, e presentai
l’arma, ridendo.

— Alla buon’ora! — esclamò la mia bionda vicina. — Lo dicevo bene, io,
che ti sarebbe mancato il coraggio!

— Sì, quel che volete; — risposi; — ma andate via subito, madama! —

Capirete che tutto questo discorso, che io vi rendo in italiano, era
fatto in francese. Il mio «_madame_» dette probabilmente sui nervi
ai soldati che avevano accompagnata la vivandiera nella forra, e che
stavano allora appiattati dietro una ceppaia di castagno, che sporgeva
le negre radici dal ciglio della strada.

— _Dis-lui mademoiselle, sacrebleu!_ — gridò uno di essi. — _Sais-tu
bien à qui tu parles? C’est la vierge du régiment._

— _Taisez-vous là-bas!_ — diss’ella, con voce alta e con accento di
rimprovero, probabilmente seccata di quella presentazione fatta a
distanza.

Poi, rivolgendosi a me, soggiunse:

— Scendi: ragioneremo.

— Ah! scendere, poi, è un altro paio di maniche.

— Hai paura, _blanc-bec_? —

Il sospetto mi offendeva; ma alle donne si può lasciar dire ciò che non
si potrebbe tollerare da un uomo.

— Il mio dovere mi tiene quassù; — le risposi.

— Anche durante una sospensione d’armi? — diss’ella.

— Eh, se ci fosse davvero una sospensione d’armi, vi confesso,
madamigella, che scenderei volentieri.

— Guarda laggiù; — riprese la mia interlocutrice, accennando col dito
verso la strada alta.

Mi volsi a guardare dov’ella indicava, e vidi avanzarsi un
parlamentario, con la bandieruola bianca, preceduto dal solito
trombettiere.

— Avete ragione; — dissi allora. — Possiamo chiacchierare per qualche
minuto. —

E spiccato un salto, fui tosto nella viottola, accanto alla mia strana
visitatrice.

Che era bella, ve l’ho già detto; aggiungerò brevemente che era
alta di statura e molto elegante di forme. Se fosse stata vestita di
bianco, se, scambio di quella berrettina a tetto di capanna, piantata
capricciosamente sul capo, avesse portato un velo e una corona di
verbena, avrei creduto di essere al cospetto di una giovane druidessa,
di quelle che accompagnavano in guerra gli antichi Galli, cantando
dall’alto dei carri l’inno della battaglia. Aveva gli occhi grigi,
quasi bianchi, ma vivissimi, che mettevano lampi ad ogni batter di
ciglia, e sosteneva con un piglio trionfale, non senza un certo che di
canzonatorio, le mie guardate curiose. Per altro, non doveva essere
scontenta di me, osservando che la mia ispezione volgeva chiaramente
all’omaggio. Se è debito, per un galantuomo, render giustizia a tutti,
anche ai nemici, immaginate con che piacere si adempia quest’obbligo
sacro con le donne dei nostri nemici.

— Veniamo a quel che preme di più; — mi disse ella, finalmente. — Hai
tu da bere?

— Ahimè! — risposi. — La mia fiaschetta è vuota, e non ho nulla da
offrirvi.

— Son ricca io; fàtti avanti e prendi la tua razione; — rispose ella,
mettendo mano alla barletta che portava a tracolla.

— Grazie! — mormorai, mentre ella versava nella mia fiaschetta la sua
acquavite allungata.

— Di che? Tra soldati, è dovere.

— Ma io sono un nemico.

— Lo credi? Per tua norma, un uomo e una donna non sono mai nemici, se
non quando l’uomo è ineducato, o la donna noiosa. —

In quel mentre, mi vennero udite parecchie voci dall’alto. Guardai
verso il ciglio della strada e vidi alcuni dei miei granatieri
affacciati.

— Sergente, si beve, eh? — mi domandarono.

— Che cosa gridate voi altri? — disse la mia bella vicina. — Avete sete?

— E fame; — rispose uno più ardito.

— Luigi! — diss’ella, volgendosi al basso della viottola, e rinforzando
la voce. — Fatevi in qua! Date da mangiare a questi bravi granatieri.
Tra voi e i vostri compagni, avrete in tasca qualche cosa.

— Delle castagne, — rispose un soldato francese, uscendo fuori dal suo
riparo. — Ma sono castagne storiche, oramai; castagne di Montenotte.

— Benissimo! Datele ai vostri nemici di Cosseria. Ed anche un po’ da
bere, se non avete asciugate le vostre fiaschette. Io ve le riempirò,
appena saremo tornati al posto. —

Il soldato obbedì all’esortazione della vivandiera, come avrebbe
obbedito ad un comando del suo capitano. Ed altri compagni suoi,
sbucati dalla forra, si arrampicarono tra i cespugli, per offrire ai
nostri granatieri le loro castagne, il loro pane, qualche sorsata di
vino, o d’acquavite. Qualcheduno discese nel fossato, alle falde del
monte, dov’era una piccola fontana, e tornò con due bottiglie d’acqua,
che offerse fraternamente «_pour les citoyens officiers_.»

— _Prenez, prenez!_ — dicevano. — _Vous êtes des braves! Ah, et des
autrichiens aussi?_ — soggiungevano, vedendo la divisa dei croati. —
_Prenez tout-de-même! Ce n’est pas de la confiture, vraiment; mais,
vous savez, la plus belle fille du monde ne peut donner que ce qu’elle
a._ —

Così celiavano, offrendo le loro castagne, i vincitori di Montenotte.
I nostri rispondevano timidi, perchè dovevano accettare i doni, senza
poterli contraccambiare.

Frattanto, la mia bella interlocutrice si era tirata in disparte.

— Siedi, e discorriamo; — diss’ella.

— Discorriamo; — risposi, prendendo posto al suo fianco. — Ma la
sospensione d’armi non vorrà durar molto.

— Cogliamo i fiori che l’occasione semina sotto i nostri piedi;
— replicò ella, in tuono di madrigale. — Per intanto, vedo che si
raccolgono i morti e i feriti. Ne avremo per una mezz’ora almeno; _je
connais ça_. Vuoi mangiare? Eccoti un pezzo di pane. Non ho di meglio
da offrirti.

— No, grazie, non ho fame.

— Se lo dici per fierezza, hai torto.

— No, non è per fierezza; ho pure accettata la tua acquavite.

— È vero, biondino, è vero. Vediamo un po’, che grado hai
nell’esercito? — diss’ella, guardandomi le spalle, e dalle spalle
scendendo a guardarmi le braccia, su cui luccicavano i miei modesti
galloni di sergente. — Come? così giovane, e non sei almeno colonnello?

— La carriera del soldato è lunga, in Piemonte; — risposi io, non
potendo trattenere un sorriso, a quella strana forma di ragionamento.

— Bonaparte ha ventisei anni, ed è generale in capo; — osservò
ella, rispondendo in una alle mie parole e al sorriso da cui erano
accompagnate. — Vieni con noi.

— Fai presto a dire: vieni con noi! Il soldato non ha che una patria.

— Ecco una massima! — diss’ella. — Ma eccone un’altra, che vale la tua.
La patria è la libertà.

— In Francia e per i francesi, capisco; ma qui siamo in Piemonte. La
terra dove il piemontese è nato, vale la libertà, l’eguaglianza e la
fraternità messe insieme. Del resto, meglio star male in casa propria,
che bene in casa d’altri.

— Sei un filosofo, ma della vecchia scuola; — mi replicò la bella
vivandiera. — Non hai studiati gli Enciclopedisti; eppure mi piaci.

— Anche tu a me, bella nemica! — mormorai.

— Vero? — chiese ella, fissandomi con que’ suoi occhi bianchi, che
lampeggiavano come faccette di diamante, ed avvicinando così il
suo viso al mio, che io sentii l’alito della sua bocca sfiorarmi la
guancia.

— Perdio! — risposi. — Sono innamorato. —

E mi tremava la voce, proferendo la frase di rito.

— _Déjà?_ — esclamò ella ridendo. — È dunque più facile conquistar te,
che la ròcca di Cosseria?

— Cosseria, — risposi gravemente, — non è cinta d’assedio da mille
donne come te. Agli uomini serbiamo polvere e piombo; alle donne omaggi
e servitù.

— Andiamo, via, è cosa combinata; — ripigliò la mia interlocutrice. —
Tu meriti di esser francese. Guadagnami.

— In che modo?

— In un modo facilissimo; — rispose ella, abbassando la voce. —
Lasciami passare con una compagnia, appena sarà finita la tregua.

— Lasciarti passare?... — esclamai, sconcertato da quella inattesa
proposta.

Ella non voleva lasciarmi il tempo di riflettere. Avvicinatasi a me, a
capo chino, co’ suoi capegli biondi contro la mia guancia infiammata,
sottovoce, quasi parlando alle mie mani che stringevano istintivamente
le sue, la bella maliarda soggiunse:

— Ascoltami, bel granatiere! Hai udito poc’anzi come mi chiamano. Sono
la vergine del reggimento, e merito il nome che mi dànno i soldati
dell’Augereau. Son nata viscontessa; i filosofi mi hanno tenuta
in braccio bambina; per la santa libertà, redentrice del mondo, ho
rinunziato alla mia corona di perle, non alla nobiltà del mio sangue,
e vado, come una nuova Amazzone, portando fieramente per i campi
di battaglia i miei ventidue anni e la mia virtù. Ti parrà strano,
eppure è così. «_Sans crainte hasard et peine_» era il motto dei
miei antenati. Una donna è ciò che vuole, dovunque ella sia. Orbene,
— mormorò ella, accostandosi ancora e quasi alitandomi le parole
all’orecchio, — lasciami passare di lì, tra i cespugli, senza avvederti
di nulla, e sarò tua. —

Il caldo soffio delle sue labbra mi bruciava le guance, mi penetrava
nel sangue; strani bagliori mi guizzavano davanti agli occhi; mi
sentivo confuso, vicino a perdere il lume della ragione.

— Tua, — ripeteva ella frattanto, — mi capisci? E chiederò per te gli
spallini al generale Augereau.

— Hai tanto potere su lui? Lo ami forse? — domandai.

Dovevo essermi fatto bianco in viso, parlando così.

— Il bel granatiere è geloso! — diss’ella, ridendo. — E se mi piacesse
di amarlo?... È un valoroso, ed è anche il più fedele alla causa della
divina libertà, fra tutti i generali dell’esercito d’Italia. —

Sudavo freddo, ascoltandola. Avrei voluto essere io quell’uomo, che
meritava tante lodi da quella bocca bellissima. Non essendolo, era
naturale che lo odiassi.

— Ma non lo amo; — ripigliò la vergine del reggimento. — Amerò te, se
mi lasci passare.... se rallenti la tua vigilanza da questa parte.

— Grazie! — risposi, tutto tremante, e facendo uno sforzo supremo per
sottrarmi al fascino di quella donna. — Non posso.

— Non puoi? E poc’anzi hai detto di amarmi!

— Ti amo, sì, e non posso accettare il tuo patto.

— Bada! Noi ci presenteremo ad ogni modo, di qua.

— Non lo tentare!

— E sarò io in prima linea. Vedrò se avrai il coraggio di
respingermi.... di far fuoco su me.

— Non mi dir questo! — risposi supplicando. — Se ti lasciassi passare,
mi sprezzeresti tu per la prima.

— Che ne sai tu? La donna ama l’uomo che per lei è pronto a fare ogni
cosa.

— Anche una viltà?

— Se è un sacrifizio per lui, sicuramente, anche una viltà.

— Mi fai paura; taci! — mormorai rabbrividendo, e tuttavia non sapendo
svincolarmi da lei.

La salvezza venne dall’alto, dove parecchie voci andavano ripetendo il
mio nome.

— Che vorranno da me? — esclamai, dopo essere stato un tratto in
ascolto. — Ah, la voce del tenente.

— Ti chiamano dunque per servizio; — diss’ella. — Va a vedere. Io ti
aspetto qui. —

Aggrappatomi ai cespugli, mi tirai sulla balza, e uscii dalla palina
dei castagni, andando verso la compagnia.

Seppi allora tutto quello che era avvenuto in quell’ora di tregua. Il
nuovo parlamentario ci aveva ripetuta l’intimazione di resa. — «Che
cosa aspettate? — aveva detto. — Di essere sostenuti? Disingannatevi.
Avete sentite le fucilate di poc’anzi, alla vostra sinistra, nel fondo
della valle? Veniva un carro di munizioni per voi, mandato dal general
Colli. Abbiamo messa in fuga la scorta, e ci siamo impadroniti delle
munizioni.»

Il colonnello aveva capito che ogni speranza era perduta, e che il
Colli non sarebbe venuto in soccorso. Ma volle farlo vergognare per
tutto il rimanente della sua vita, lasciandogli al cospetto della
storia la malleveria e il rimorso di quell’abbandono. Fors’anche
gli passò davanti agli occhi la grande figura di Leonida e il suo
fortissimo esempio. E aveva ripetuta la sua fiera dichiarazione: — «I
granatieri piemontesi non si arrendono mai.»

Grida e minacce avevano risposto alle nobili parole di Filippo Del
Carretto. Si aspettava un nuovo attacco, fra pochi minuti, e si
prendevano tutte le disposizioni per ricevere il nemico. Io ero stato
chiamato in quel mentre, perchè alla mia squadra toccava per l’appunto
di custodire l’estrema destra della posizione.

Ma venne ancora il parlamentario davanti ai nostri trinceramenti.

— Volete la vostra perdita, — diss’egli, — e tal sia. Il generale
Bonaparte non darà quartiere a nessuno; sarete tutti passati per le
armi.

— Abbiamo ancora in pugno le nostre, — rispose Filippo Del Carretto, —
e daremo morte per morte. —

Il parlamentario si allontanò, lasciandoci quindici minuti di tempo per
riflettere.

Io ritornai prontamente al mio posto, desideroso di vedere quella
donna, se, come mi aveva promesso, era rimasta ad attendermi. Entrato
nella palina, mi affacciai tra i cespugli a guardare sul sentiero, e la
vidi.

— Non ti aspettavo già più; — diss’ella, malinconica.

— Ahimè, bella mia! — le risposi. — È finita per me. Si riprendono le
ostilità fra quindici minuti.

— E ciò ti spiace, bel granatiere?

— Sì, perchè ti ho conosciuta, e non so adattarmi al pensiero di
perderti. Come ti chiami?

— Che te ne importa?

— Se lo domando, è segno che desidero di saperlo. Bella nemica, il tuo
nome!

— Non te lo voglio dire.

— Te ne prego.... te ne supplico....

— Sei tu che comandi, in quest’angolo; — osservò ella, ritornando
all’assalto. — Lasciami passare di qua, sulla tua destra, senza aver
aria di avvedertene, e ti amerò per tutta la vita.... o per un giorno,
come vorrai tu. —

Se l’aveste veduta in quel momento, come era bella, col vezzo
delle labbra umide, che invitavano ai baci, col balenìo degli occhi
limpidissimi, che accendevano il sangue nelle vene, e mutavano le
vaghe promesse in vive immagini di felicità! Tutta una vita di amore,
o un giorno di ebbrezza, a mia scelta! Ah, vergine del reggimento,
amabile lusinghiera, incantatrice diabolica! E non avevo da far altro
che chiudere un occhio, il destro, per lasciarvi penetrare inosservata
nella palina dei castagni! Nell’ardore della mischia, chi ci avrebbe
badato? A cose fatte, chi lo avrebbe risaputo? Voi entravate nella
ròcca, insieme coi vostri compagni; piombavate alle spalle dei
difensori, gridando vittoria, mentre essi erano impegnati a respingere
un furioso assalto di fronte. L’effetto era certo, infallibile; noi si
finiva di colpo una resistenza inutile, e, chi sa? forse si sarebbe
salvata una vita a noi cara, preziosa all’esercito, necessaria alla
patria.

Io vidi tutte queste cose nello splendore di un sorriso affascinante,
nel lampo di un’occhiata assassina, e gridai, spaventato:

— No, tentatrice, non posso. E l’onore? il soldato non ha che questo da
custodire, quando non lo assiste più la speranza di vincere.

Quella donna mi si cangiò in un attimo davanti agli occhi, come se
le mie parole avessero avuta la virtù di un antico scongiuro. Si fece
bianca, nel volto, quasi livida; le pupille torve mandarono lampi di
sdegno; le parole fischiarono, come serpi incollerite.

— Custodisci il tuo onore, _blanc-bec_! — gridò ella, stizzita. — Ed
io, sciocca, ti facevo padrone del mio!

— Senza rancore! — le dissi, tentando di placarla. — Io ti adoro.

— Va al diavolo! — rispose ella, voltandomi sdegnosamente le spalle.

E se ne andò, lenta, forse sperando che io l’avrei richiamata, ma senza
degnarsi di volgere il viso dalla parte mia.

Così finiva l’intermezzo d’amore, che mi aveva trattenuto e turbato,
fra un attacco ed un altro. L’avventura era strana, e tale da far
girare la testa a più d’uno. A me sapeva male di lasciar partire quella
bellissima bionda, così fieramente sdegnata; ma come fare, buon Dio,
come fare altrimenti? Dovevo io tradire la patria e l’onor militare,
per meritarmi un sorriso da lei? Qual donna può mai pretendere una
cosa simile dall’uomo che ella dice di amare? Capisco benissimo;
quando si rifiuta alle donne di sacrificar loro la nostra dignità, il
nostro carattere, quel complesso delicatissimo di idee, di doveri, di
speranze, di ambizioni, e aggiungiamo pure di vanità, che costituisce
il nostro culto particolare, la nostra religione esclusivamente
mascolina, esse dicono che noi non le amiamo davvero, intieramente, con
tutte le forze dell’anima, come bisogna amare, quando si ama. E sarà
come dicono esse. In fatti, noi abbiamo posto per parecchi amori, nel
cuore, tutti diversi d’indole e di oggetto; esse per uno solo, anche
se giovi a parecchi. Ma via, non diciamo di queste cose, che possono
essere in molti casi non vere, e che in fondo non provano nulla. Ognuno
giudica con la sua propria esperienza; e tutte le esperienze riunite
non bastano a darci una teorica certa, una dottrina sicura, veramente
scientifica.

Ragiono ora, amici miei, col sangue freddo, quasi gelato, dei miei
settantacinque anni suonati. Ma ragionavo poco allora, col sangue vivo
dei ventidue, che mi bruciava le arterie. Profondamente turbato da quel
dialogo, mi ero ritirato dalla balza, per ritornare alla mia squadra.

— Bravo, sergente! — gridò il cavalier Corte, vedendomi comparire in
mezzo ai castagni. — Siamo stati ancora un pochino a chiacchiera coi
nemici?

— Sì, capitano; — risposi. — Essi mi hanno dato da bere, ed io ho
voluto dimostrar loro tutta la mia riconoscenza.

— In verità, sono strani, questi francesi! — esclamò il cavalier Corte.
— Di là ci minacciano ad ogni momento di passarci per le armi; di qua
fanno a spartire il loro pane e il loro vino con noi.

— Signor comandante, — entrò a dire uno dei miei compagni, — il
sergente Tomè ha anche fatto breccia, là sotto. Una bella vivandiera si
è innamorata di lui.

— Di bene in meglio! — disse il capitano, ridendo. — Speriamo almeno
che egli abbia fatto onore alla vecchia galanteria piemontese. —

Altro che galanteria! Avevo un diavolo per occhio. Vidi in quel
punto sull’erba una delle bottiglie d’acqua che ci avevano regalate
i francesi, e, per levarmi di là, proposi di portar da bere al nostro
colonnello.

— Sì, va pure, egli ne avrà bisogno; — mi disse il capitano.

Filippo Del Carretto era al suo posto, nel mezzo della linea, dove
faceva rafforzare con nuovi tronchi d’alberi le abbattute del nostro
piccolo campo, e rotolar sassi delle macerie vicine.

— Sei tu? — diss’egli, vedendomi e ricordandosi del nostro dialogo di
quella mattina. — Che cosa mi porti?

— Acqua; — risposi. — È dono del nemico. Vuol bere, signor colonnello?

— Grazie, non bevo. Se incominciassi, dovrei vuotar la bottiglia. È
meglio conservarla per quella povera gente che soffre lassù. Viglietti,
— soggiunse, volgendosi al suo fedel servitore, — porta quest’acqua ai
nostri feriti. —

Paolo Viglietti prese la bottiglia e si avviò a malincuore
verso la breccia, per cui si entrava nel castello. Ma poco lunge
trovò qualcheduno, a cui affidare quella piccola cura, e ritornò
immediatamente al suo posto.

— Come? — gli chiese il colonnello, vedendoselo nuovamente daccanto. —
Non sei andato?

— Signor marchese, — ripigliò Paolo Viglietti, — a momenti saranno
finiti i quindici minuti, ed io, se permette, amo meglio trovarmi
vicino a Lei.

— Ah, Viglietti, Viglietti! — mormorò il colonnello. — E non pensi che
qualcheduno della mia casa ha pur da rimanere in vita, per portare un
saluto a mia moglie e un bacio a mio figlio?

— Signor Filippo.... — balbettò Paolo Viglietti, con le lagrime agli
occhi. — Speriamo che andrà Lei, ad abbracciare la sua famiglia. Quanto
a me....

— Via, via! — interruppe Filippo Del Carretto. — Non parliamo di queste
cose. Fa conto che io non ti abbia detto nulla. —

I tamburi del nemico incominciarono in quel punto a battere la carica.

— Tutti a posto! — gridò il colonnello, sfoderando la spada. — Oggi
è il gran giorno del terzo Granatieri. Laggiù grideranno: viva la
repubblica; noi risponderemo: viva il re. Essi grideranno: viva la
Francia; noi risponderemo: viva il Piemonte. Così potessimo dire: viva
l’Italia! —

— E perchè no? — proruppe il capitano Tibaldè. — Infine, è guerra di
razze. Viva il re, viva l’Italia!

Il rullo dei tamburi incalzava. Io corsi al mio posto di combattimento.
Tenevo con la mia squadra l’ultimo lembo della collina; ma non mi
bastò di vigilare sulla nostra piccola fronte, e collocai qualche
scolta anche sul fianco, dove la balza scendeva più ripida, e dove i
cespugli erano anche più fitti. Dopo il colloquio avuto con la vergine
del reggimento, temevo molto da quella parte; non mi bastava più la
vigilanza dei sostegni, nè quella degli uomini del generale Provera,
che per tutto il ciglio delle rovine si collegavano a noi. L’immagine
di quella donna mi passò davanti agli occhi, e sospirai. Per altro,
fu l’unica mia debolezza, in quel momento supremo. Ero triste, ma
risoluto; e mentre i tamburi, là sotto, battevano furiosamente la
carica, palpavo la canna del mio fucile con le dita convulse.




CAPITOLO VIII.

Il Leonida di Cosseria.


Quel nuovo assalto, annunziato dalla ripresa dei tamburi, fu anche
appoggiato dal cannone, che incominciò ben presto a fulminare il
castello. A cento cinquanta metri da noi, lo ricordate, era stata
collocata la batteria francese, dietro un parapetto innalzato
a furia presso un rialto della strada. L’opera improvvisata era
sufficientissima al bisogno, perchè noi non potevamo opporre cannoni
a cannoni, e perchè i soli che potessero trarre utilmente sugli
artiglieri nemici erano i cacciatori austriaci, appostati tra le
rovine, ma anch’essi in grande penuria di munizioni.

Or dunque, il cannone lavorava a sua posta; i proietti battevano nei
muri, non potendo colpire nei trinceramenti più bassi; ma rimbalzavano
fino a noi, insieme con pietre smosse e frantumi, levando un polverìo
maledetto ed accrescendo la confusione del nostro piccolo campo.

Nello spesseggiare dei colpi, si affacciarono sul pendìo le colonne
d’attacco. Io ero in uno stato d’animo che non vi posso descrivere
oggi, avendo di quel momento un ricordo confuso, come di cosa veduta
in un accesso di febbre. E dovevo averla senz’altro, con quella sua
conseguenza immediata, che è la percezione inesatta delle cose o dei
nessi delle cose, quando si crede di parlare e di operare, rimanendo
muti ed immobili, o si parla e si opera a caso, credendo di obbedire
alle norme della logica, e si ha in pari tempo una vaga coscienza di
sognare.

Spianavo macchinalmente il fucile e sparavo; macchinalmente ricaricavo
l’arma e tornavo a sparare. Intanto, nel fragore della mischia, strane
voci mi suonavano all’orecchio, e ad esse io rispondevo con una voce
fioca e cavernosa, che non mi pareva la mia.

— Bravo sergente! — mi disse qualcheduno daccanto. — È stato un bel
colpo!

— Che colpo? Che cosa ho fatto io? — rispondevo.

— Perdio! La vivandiera... È stata pagata delle sue gentilezze, in
lire, soldi e denari.

— Pagata? La vivandiera? Che diavolo dite?

— Sicuro; si è presentata alla testa della colonna, gridando: _en
avant_!

— Ah, sì, mi par bene; — balbettai. — E dopo?

— E dopo, pàffete, un colpo che l’ha mandata ruzzoloni nella forra.

— Ah, povera donna! E chi l’avrà uccisa?

— Il primo colpo è stato il tuo; — mi risposero.

Rabbrividii, a quelle parole di accusa. Ero dunque io, l’assassino?
Mi prese allora una rabbia feroce. Come il colpevole, dopo aver
commesso il primo delitto, si dà alla macchia e cerca di stordirsi, di
soffocare la voce della coscienza tuffando le mani nel sangue di nuove
vittime, mi diedi anima e corpo alla strage. Il sangue mi martellava
alle tempia; la gola m’ardeva; bevetti un sorso d’acquavite, e mi
parve tossico. Povera donna! Me lo aveva dato lei, quel refrigerio dei
momenti terribili. Dovevo anche esser ferito. Un umor caldo mi gocciava
dalla fronte sugli occhi. Lo credetti sudore, ed era sangue; certamente
il suo, ricaduto su me!

Frattanto, gli assalitori incalzavano. Per la scarsità del nostro
fuoco, erano potuti venire fin sotto ai trinceramenti. Ah, perdio, ci
si poteva sfogare corpo a corpo! Si afferravano i macigni, le schegge
dei muri, di cui avevamo fatto provvista, e si avventavano nelle file
nemiche, fracassando, squarciando, atterrando. In mezzo a quella
tempesta, guizzavano fuori le baionette e tornavano insanguinate;
grida, urli, bestemmie, rintronavano il monte.

Tratto tratto, le voci degli ufficiali francesi si udivano:

— Arrendetevi! Arrendetevi!

— No, per Cristo! No, maledetti cani! —

E la voce del nostro colonnello, dominando tutte le altre, tuonava:

— Per il re, per la patria, granatieri! Alla baionetta! —

Che orrore divino di battaglia! Davano indietro disfatti, i tracotanti
assalitori; tornavano ingrossati, furibondi, all’attacco. Volavano
i sassi a centinaia, rompendo le intiere ordinanze; le baionette
trafiggevano il petto a coloro che avevano cansata la grandine, e
nessun manipolo potè mai sormontare le nostre abbattute. I pochi
temerarii che la fortuna ci sbalestrava nel trinceramento, erano finiti
a colpi di baionetta, prima che potessero levar le braccia e ferire.

Fu un momento che la mischia era più accanita sul centro e noi della
destra ci sentivamo più sciolti. Il cavalier Corte, guardando verso il
colonnello, temette che la posizione potesse, con uno sforzo supremo
dei nemici, esser presa.

— Là! un buon colpo di mano per liberar la Marina! — gridò egli,
ispirato. — Saltiamo fuori e prendiamoli di fianco.

In quel punto, una voce si udiva dal centro:

— Il colonnello! Il colonnello è morto! —

Guardammo tutti istintivamente il largo macigno, su cui poc’anzi
avevamo veduto il nostro comandante, ritto e terribile come Aiace sul
vallo. Egli era ancora là, ma caduto sulle ginocchia, e due granatieri
lo sorreggevano.

— Morto? — gridò il capitano Corte.

— No, ferito, ferito soltanto; — rispose il capitano Tibaldè, che era
il più vicino a noi. — Vendichiamolo!

— Sì, vendichiamolo! — gridarono trecento voci. — Mille ferite per una!
Viva Del Carretto e viva il re! —

Noi, come vi ho detto, eravamo già fuori, in colonna serrata, pronti a
caricare, e il nostro improvviso atteggiamento aveva scosso il nemico,
che oramai doveva guardarsi il fianco, per non essere avviluppato e
fatto a pezzi sotto la trincea. Tutto ad un tratto, le due compagnie
della Marina scattarono fuori alla lor volta, mobile selva di baionette
puntate.

Fu uno spettacolo, che io non ho mai più veduto l’eguale in nessun
combattimento, quantunque il genio e l’ambizione del Buonaparte mi
abbiano fatto assistere a molte e più sanguinose giornate. Balzar
di tigri dal covo, piombar di leoni sulla preda, avventarsi di fiere
scatenate in un circo, tutte le immagini più spaventevoli del furore
e della strage, che sogliono colpire più terribilmente la nostra
fantasia appunto perchè non le abbiamo vedute mai, non bastano a dare
un’idea di ciò che fu quel momento supremo della difesa di Cosseria.
Una valanga umana si rovesciò sul nemico; un flutto enorme, pari a
quelli che suscita l’uragano dalle profondità dell’Oceano, involse
quella fronte di combattenti, che da un’ora, con assidui vicenda, si
abbatteva e si rinnovellava, ritornando sempre all’assalto. Le grida
feroci straziavano gli orecchi, le palle fischiavano d’ogni parte,
i bagliori succedevano ai bagliori in mezzo ad un nembo di polvere
e di fumo, e si andava oltre, furibondi, urtando con la baionetta, o
battendo col calcio del fucile nella massa, guidati dall’istinto più
che dall’occhio, e riconoscendo il nemico alla fuga.

Il generale Augereau, il terribile uomo di guerra, comandava in persona
l’attacco. Ed egli, immaginate con quanta rabbia, dovette retrocedere
davanti a quell’impeto prepotente. Avevo veduto il suo cappello
piumato, che sovrastava alle file dei francesi in tutte le alternative
di assalti e di ritirate; riconobbi il comandante della divisione con
cui avevamo a fare, vedendo i soldati che gli si affollavano intorno,
facendogli scudo dei loro petti, e udendo le loro grida ripetute:
«Salviamo Augereau! Salviamo Augereau!»

Io non avevo più una cartuccia. Gli avrei assestato volentieri un
colpo, a quindici passi di distanza, per vendicare il mio colonnello,
ed anche (perchè tacerlo?) anche per lavar l’onta di aver fatto fuoco
sopra una donna. Era poi vero che fossi stato io, il feritore? Le
parole dei miei compagni mi risuonavano ancora all’orecchio, e mi
facevano fremere. Ma non potevano essersi anche ingannati?

Il nemico fu ricacciato in disordine giù per le falde del monte. Se
avessimo avuto con noi il nostro colonnello, ci saremmo precipitati
fin sopra la batteria ed avremmo presi a forza i cannoni. Ma a lui
bisognava pensare, dopo la vittoria; a lui bisognava ritornare, per
ricevere i suoi ordini. E a lui ritornerò io, col racconto, per farvi
intender meglio quel che era accaduto.

Filippo Del Carretto aveva preveduta l’importanza dell’attacco. Il
giorno stava oramai per morire, e il nemico certamente voleva finirla
con la nostra resistenza accanita, facendo contro di noi il suo
sforzo maggiore. Dovevamo aspettarci l’assalto di una intiera brigata,
fors’anche di tutta la divisione Augereau. Il nostro colonnello non
temeva molto dalle spalle, dove la montagna scendeva quasi a precipizio
verso la valle di Montecàla, e dove i difensori erano fin troppi a
guernire una posizione formidabile; temeva bensì per il lato opposto,
dove egli stava insieme con noi, dove già si erano sostenuti due
assalti, e dove, per la poca pendenza del colmo, attaccati con forze
quadruple, potevamo essere soverchiati dal numero, anche dopo aver
fatto miracoli di valore. Le munizioni erano scarse; vi ho già detto
che restavano quattro o cinque cartucce per uomo. Filippo Del Carretto
doveva fare assegnamento sulle armi del furore e della disperazione, le
baionette e le pietre.

Molti erano già i feriti, e dei nostri granatieri e dei cacciatori
croati. Ma tutte le compagnie gareggiarono di bravura, attendendo anche
quella volta il nemico con la massima calma.

Quando gli assalitori furono ad un tiro di pistola, si aperse il fuoco,
e fu tanto micidiale, che la fronte d’attacco dovette rinnovarsi più
volte. Ma il fuoco andava scemando, diradandosi sempre più, per difetto
di munizioni. Ne trassero profitto i francesi, avanzandosi tra monti di
cadaveri, e cacciandosi sotto alla nostra trincea.

In quel momento supremo, il valoroso Del Carretto era salito sul colmo
del macigno che sorgeva sul limite della difesa, dominando tutta la
linea. E di là, veduto ed udito da tutti, aveva comandato ai suoi
granatieri di difendersi fino all’estremo, con le baionette e coi
sassi. I francesi avevano allora riconosciuto il comandante, e parecchi
fucilieri aggiustavano le mira su lui. Paolo Viglietti, il suo fedel
servitore di Camerano, gli si era gittato davanti, per fargli riparo
col suo corpo, e aveva ricevuto egli nel fianco il colpo mortale
destinato al padrone. Il povero Viglietti, esempio di fedeltà e di
affetto domestico, era caduto riverso, lasciando il colonnello scoperto
sul masso, contro del quale si affollavano in maggior numero gli
assalitori. Due ne uccise di sua mano il marchese Filippo, menando la
spada come un antico eroe; ma proprio allora, mentre stava per calare
un fendente sul cranio del terzo, lo coglieva una palla nel petto.

Fu visto balenare e si accorse a lui; fu visto cadere in ginocchio,
e si gridò: è morto! — No, solamente ferito; — rispose il capitano
Tibaldè; — vendichiamolo. — Il rimanente vi è noto. I temerarii che
si erano cacciati fin là, pagarono con la vita il loro ardimento. Le
schiere dell’Augereau erano in fuga su tutta la linea. Avevamo in pugno
la terza vittoria, anzi la quarta, contando la bella e fortunata carica
di Montecàla.

Sgominato e messo in fuga il nemico, ritornammo ai nostri ripari.
Io, seguitando il capitano Corte, volli anzi tutto avvicinarmi al
colonnello.

Filippo Del Carretto era là, disteso sulla pietra larga, con la
testa sollevata fra le braccia di un granatiere, che non aveva voluto
abbandonarlo in quel tristo momento. Aveva il viso smorto, le labbra
scolorite e le palpebre chiuse; si sarebbe potuto crederlo già passato
di vita, se non si fosse sentito il calor naturale della pelle, e
il battito abbastanza frequente, quantunque irregolare, del cuore. I
capitani Tibaldè, Lomellini, Corte, Alberione, Calleri, e tutti gli
altri ufficiali del battaglione, si erano raccolti intorno al ferito,
mettendo ai suoi servigi la loro esperienza; che non era molta in
verità, ma pur sempre qualche cosa, in mancanza di medici. Subito si
lavorò a slacciargli il cinturone, a sbottonargli la tunica, e una
macchia nerastra con grumi di sangue, nel petto della camicia, indicò
il luogo della ferita.

Eravamo tutti percossi, esterrefatti da quella vista dolorosa. Ma
bisognava trovar acqua per ripulire le labbra della ferita, acqua per
dargli da bere, se mai quel piccolo ristoro avesse potuto richiamarlo
alla coscienza di sè. Io rammentai la bottiglia, recata poc’anzi ai
feriti, e corsi, volai tra i ruderi della chiesuola per rintracciarla.
Non era anche vuota, come temevo, e m’affrettai a portare quel poco che
rimaneva, per bagnarne la camicia e sciogliere il sangue che vi si era
rappreso.

La frescura improvvisa al petto e alcune gocce d’acquavite allungata
della mia fiaschetta sulle labbra del nostro povero colonnello, gli
fecero ricuperare i sensi smarriti. Sospirò, aperse gli occhi languidi,
e si guardò lentamente dintorno. Quando mi vide, inginocchiato al
suo fianco, attediò le labbra ad un mesto sorriso e con voce fioca mi
disse:

— Sei tu, buon amico? La tua acqua è ancora servita a qualche
cosa. —

Volevamo parlare, per confortarlo, ma non sapevamo che dirgli, e
stavamo tutti chini su lui, con le lagrime agli occhi.

Egli riaperse le labbra, accennando di voler parlare.

— Viglietti.... — mormorò. — Dov’è il mio Viglietti? —

E poichè ebbe osservati i nostri volti compunti, mise un sospiro
faticoso, che significava tutte le pene della sua anima afflitta e del
suo petto squarciato.

— Paolo!... povero Paolo! — soggiunse. — Ma.... il nemico.... lo
abbiamo respinto?

— Respinto, rovesciato nel fondo della valle; — gridò il capitano
Tibaldè. — Nel suo nome, signor colonnello, lo abbiamo costretto a
fuggire, lasciandoci ancora mezzo migliaio di morti. —

Gli occhi di Filippo Del Carretto mandarono un lampo di gioia.

— No, nel mio nome; — diss’egli allora! — nel nome della patria. —

Accennava, con le mani aperte e distese, di volersi rizzare sul fianco,
e noi ci affrettammo ad obbedirgli, sollevandolo tra le nostre braccia.
Com’egli fu seduto, volse gli occhi in giro, guardando il declivio
tutto coperto di cadaveri, e sorrise.

— Bravi granatieri! — esclamò, alzando a stento la voce, come se
volesse con quello sforzo supremo dare efficacia al pensiero. — Ora si
può morire.

— Che dice, colonnello? Vivrà, vivrà per confortarci a nuovi cimenti;
vivrà per vedere altre vittorie dei suoi granatieri. —

Così dicevamo, tentando d’ingannar noi medesimi. Ma un fiotto di sangue
gli venne gorgogliando alle labbra, mosse rapidamente le ciglia, quasi
cercando ancora la luce che gli moriva negli occhi, reclinò la fronte
sull’òmero e ci ricadde inerte tra le braccia.

Filippo Del Garretto, il Leonida di Cosseria, aveva spirata l’anima
invitta.

Non vi descriverò la costernazione, le lagrime, lo strazio dei nostri
cuori. Queste cose non si raccontano; si pensano.

Il vecchio generale Provera, disceso dal suo posto di comando, era
venuto a contemplare il nostro glorioso estinto, e un senso di profonda
pietà gli inumidiva le ciglia.

Noi volevamo trasportare la preziosa spoglia nel recinto del castello,
e già stavamo per metterci all’opera, quando si udì uno squillo di
tromba, che ci annunziava il solito parlamentario. Ah, per la croce
di Dio, avremmo amato meglio il rullo dei tamburi e una nuova carica
dell’esercito francese. Saremmo morti tutti volentieri, gittandoci a
furia sulle baionette nemiche.

L’uffiziale francese, invitato a farsi avanti, passò silenzioso e
triste in mezzo a monti di caduti. Lo spettacolo, anche per occhi
esercitati alle stragi, era veramente terribile.

— Il comandante di Cosseria? — diss’egli interrogando, come fu davanti
al crocchio dei nostri uffiziali.

— Son io; — rispose malinconicamente, facendo un passo avanti, il
vecchio generale Provera.

— Non è più il marchese Del Carretto, col quale ho già avuto l’onor di
parlare? — riprese l’uffiziale parlamentario.

— Il marchese Del Carretto è morto da eroe, alla testa dei suoi
valorosi granatieri; — replicò tristamente il vecchio guerriero. — Son
io, il conte Provera, generale di S. M. Apostolica, che lo sostituisco
per ora. —

Il parlamentario s’inchinò, in atto di omaggio alla dignità del vivo e
alla memoria del morto.

— Che domandate? — soggiunse il Provera.

— Per la terza volta, che vi arrendiate a discrezione. —

Il vecchio generale si volse a guardar gli uffiziali, che stavano
disposti a cerchio, dintorno a lui, muti, immobili, chiusi nel dolore e
nell’ira.

— Lo vedete? — ripigliò il conte Provera. — Davanti alla salma di quel
glorioso, che volle resistere ad ogni costo, la volontà dei superstiti
è una sola. Ciò che voi domandate è impossibile.

— Badate; non vi daremo quartiere. Sarete tutti fucilati.

— È una minaccia che abbiamo già udita, e che vorremmo, per l’onor
vostro, dimenticare; — rispose nobilmente il Provera. — Nessun uomo
di guerra giudicherà che meriti una morte ignominiosa chi resiste ad
oltranza, per difendere la sua bandiera e la posizione a lui affidata.
Ma voi farete ciò che vorrete, secondo la nuova legge militare che vi
piacerà di stabilire. Noi ci difenderemo fino all’ultima cartuccia,
terremo queste rovine fino all’ultima pietra. Che ne pare a voi,
capitano? — soggiunse il vecchio generale, volgendosi al cavaliere
Tibaldè.

— Parole degne di Filippo Del Carretto; — rispose con voce ferma il
nostro comandante. — Egli è morto, ma la sua anima è qui.

— Sia come vorrete, signori; — disse allora il francese. — Io non
ho da discutere con voi sulla legge che il vincitore avrebbe diritto
d’imporre. La vostra resistenza, nelle condizioni in cui siete, è più
che temeraria, e può parer degna di un castigo esemplare. Ma di ciò
vedrà il nostro comandante supremo. Io ho frattanto qualche altra cosa
da chiedere.

— Parlate, signore.

— Propongo una sospensione d’armi per due ore, tanto che possiamo
raccogliere i nostri morti e i nostri feriti.

— E sgombrare il terreno per la nuova carica; — soggiunse il Provera.

Il parlamentario sentì la bottata, e amaramente rispose:

— Vorreste voi tenere tanti valorosi a farvi scudo della loro agonia?

— Me ne guardi il cielo; — replicò il generale. — Avevo fatto una
semplice osservazione, di cui la vostra medesima risposta mi prova
la giustezza e la opportunità; ma colgo volentieri l’occasione che
voi mi offrite, con questa lezioncina di umanità, per mettere una
condizione. Anche noi abbiamo dei feriti, dei valorosi che soffrono,
senza assistenza, senza medici, senza ristoro d’acqua, o di cibo. Non
raccoglierete voi anche i nostri?

— Li raccoglieremo anzi per i primi, e con cuor da soldati; — disse
l’uffiziale francese, assentendo. — Volete che mandiamo una squadra con
le nostre lettighe a pigliarli?

— Grazie, noi stessi li trasporteremo fuori, e saremo felici di
confidarli alla lealtà ed alla generosità dell’esercito francese; —
rispose il generale Provera, anch’egli rabbonito, e contento di avere
ottenuta in quel modo la salvezza dei nostri feriti.

Il parlamentario rispose alla lode con un inchino della vecchia
scuola, di quella scuola cerimoniosa e cavalleresca, che i furori delle
rivoluzioni non hanno potuto distruggere in Francia, e soggiunse:

— Siamo dunque intesi; sospensione d’armi per due ore.

— Fino alle sei; — rispose il generale Provera, dopo aver guardato il
suo orologio. — Siamo d’accordo. —




CAPITOLO IX.

In fondo al burrone.


Ero stanco, disfatto di corpo e di spirito; ma la ragione pietosa
per cui era stata convenuta la tregua, facendomi ritornare alla mente
quella povera donna che era ruzzolata poc’anzi nella forra, mi rese
ad un tratto le forze perdute. E mentre i miei compagni, approfittando
della sospensione d’armi, si coricavano sui trinceramenti, per prendere
un riposo che avevano così ben meritato, io mi cacciai risolutamente
dentro la palina dei castagni, donde, per il noto ciglione, balzai
nella viottola nascosta.

Quel tratto di sentiero, incavato nel burrone, offriva uno spettacolo
orrendo. Ad ogni passo si vedeva un cadavere; e tra i cadaveri
giacevano in gran numero i feriti, quali contorcendosi negli spasimi
dell’agonia, quali rammaricandosi fiocamente, e implorando sul mio
passaggio la carità di un sorso d’acqua, per chetare i tormenti della
sete, più forti di ogni altra sofferenza in quell’ora.

Era crudeltà non trattenersi, anche sapendo di non poter bastare a
tanti bisogni. Ma io, udendo i gemiti e le preghiere, non potevo dare
ascolto a nessuno, incalzato com’ero dal timore di non giungere in
tempo, di non trovare abbastanza presto la povera donna, che i miei
soldati avevano veduta cadere fulminata, e rovesciarsi dal ciglio
della strada. Finalmente, alla prima svolta, dietro una ceppaia
di castagno, mi si parò davanti agli occhi una forma conosciuta.
Riconobbi il guarnello di panno azzurro, filettato di rosso, e corsi
laggiù, con l’anima straziata da una grande paura. Era lei; la vergine
del reggimento, la bionda viscontessa, travolta dal turbine della
rivoluzione, affascinata dai sogni della divina libertà, giaceva
riversa, insanguinata, fra i suoi compagni di fatiche e di pericoli,
carne plebea del sobborgo di Sant’Antonio e dei campi di Borgogna,
che il genio delle battaglie disseminava nelle oscure gole dei
nostri Appennini, per fecondare anche qui il santo germe dei diritti
dell’uomo. Scusate la riflessione, che parrà in questo luogo una
stonatura. Posso parlare così, a tanta distanza di tempo, con serenità
di giudizio; ma anche allora, difendendo casa mia e non amando ancora
la libertà portata attorno col ferro e col fuoco, riconoscevo la
nobiltà di quel popolo che combatteva contro di noi, rendevo giustizia
a quel buon sangue che scorreva intorno alle rovine di Cosseria e si
confondeva col nostro.

Tremavo, già ve l’ho detto, tremavo, accostandomi a lei, che
giaceva supina, con la testa arrovesciata fra le pietre. Raccolsi la
bella persona sulle braccia e la trassi a me, per adagiarla un po’
meglio, contro la proda del sentiero. Il viso era livido, ammaccato,
insanguinato dai colpi che quella poveretta aveva toccati, battendo tra
i sassi e gli sterpi della balza. Il segno della ferita non si vedeva,
ma doveva essere nel busto, poichè la sopravveste era tutta bagnata di
sangue.

Slacciai quella sopravveste con le mani tremanti, dubitando ad ogni
istante di guastare, con la mia ruvidezza soldatesca. Nondimeno, ne
venni a capo senza incomodarla troppo, e l’aria fresca della sera,
alitandole sul petto, le trasse un sospiro di sollievo. Ma, insieme con
la coscienza del proprio stato, si ridestò in lei il sentimento del
pudore, e la sua mano corse istintivamente al seno, che avevo dovuto
scoprire.

— Non temete, signorina; — le dissi. — È per farvi respirare un po’ più
liberamente. —

Ella non parve riconoscere la mia voce. Muoveva la testa e le labbra,
come persona dormente, che duri fatica a svegliarsi. Io allora le
accostai la fiaschetta alle labbra, facendole scorrere in bocca un
sorso della sua acquavite, che, dopo aver data a bere al nostro povero
colonnello, non mi ero più attentato di assaggiare, per quanto bisogno
ne avessi.

Sciogliendo la sopravveste e allargando lo scollo del camicino che le
copriva le spalle, avevo veduto rosseggiare la carne presso all’omero
destro. La poveretta mise un gemito, quando io tentai di scoprire più
avanti, distaccando il tessuto che si era appiccicato alle carni, per
il sangue aggrumato intorno alla ferita. Giudicai, dalla posizione
della piaga, che la palla, penetrando sotto all’òmero, avesse spezzata
la clavicola. Infatti, anche il braccio destro era inerte, e spenzolava
sul terreno, mentre ella si raccoglieva l’altro con tanta cura sul
petto.

Io mi sentivo morire, guardando quella povera carne lacerata, donde
il sangue sgorgava. E che potevo fare per lei? Piangere, maledire,
mentr’ella forse mi agonizzava tra le braccia.

In quel mentre vidi venire in su per la viottola una squadra di
francesi. Ah, benedetti! Anch’essi, appena bandita la sospensione
d’armi, accorrevano da quel lato, a raccogliere la parte loro di morti
e di feriti.

— Venite! — gridai allora. — Affrettatevi! C’è una donna ferita.
Morirà, se non si arresta il getto del sangue. —

Alle mie grida disperate, quei bravi soldati presero tutti il passo di
corsa. Era con essi un ufficiale, in cui riconobbi tosto un chirurgo
di reggimento. Ah, lode al cielo! La povera donna poteva essere
efficacemente soccorsa.

Mentre il chirurgo, inginocchiatosi accanto a lei, stava esplorando la
ferita, i soldati si ricambiavano le loro osservazioni.

— _Ah, la vierge du régiment! La pauvre enfant! Qu’elle doit souffrir!
Et on l’a frappée à la gorge, encore! Fallait ça, pour en voir un
bout!_ —

La prima medicazione non fu lunga. Tagliata alla svelta col filo del
mio coltello la spalla della sopravveste, per denudar tutto l’òmero,
il chirurgo aveva lavata la piaga con una posca d’acqua e d’aceto;
poi, tolto dalle mani dell’aiuto un po’ di filaccia intrise d’unguento
refrigerante, le applicò alla bocca della ferita.

In quel punto la giacente aperse le palpebre e girò intorno gli occhi
smarriti.

— _Du courage, mademoiselle Adrienne!_ — le disse un soldato,
curvandosi con fraterna sollecitudine verso di lei.

— _J’en ai, mon brave;_ — rispose ella, sforzandosi di sorridere; —
_j’en ai_.

— _Ah, le lâche qui l’a blessée!_ — esclamò un altro ringhiando.

— _Savait-il même de tirer sur une femme?_ — entrò a dire un terzo, che
ragionava più calmo. — _Les balles sont aveugles._ —

Quella riflessione venne in buon punto a rinfrancarmi.

— Sì, diteglielo voi, che son cieche; — gridai. — Si tira a frullo,
senza sapere a chi vadano.

— _Ah, c’est toi, grenadier?_ — disse rabbonito quell’altro, che aveva
fatta la stizzosa esclamazione e in cui riconobbi il soldato che la
vergine del reggimento chiamavano col nome di _Louis_.

— Son io; — risposi. — L’ho veduta cadere alla prima scarica, e, appena
ho potuto, son corso per darle aiuto, per bagnarle la bocca.

— _Tu lui devais bien ça, grenadier;_ — diss’egli ricordandosi. —
_C’est la vierge du régiment qui a rempli ta gourde._

— Appunto per questo; — replicai. — E lo avrei fatto egualmente,
trattandosi di una donna. —

Gli occhi della giacente si erano posati su me. Ma quelle pupille fisse
non mi dicevano nulla, ed io finsi di guardare altrove.

— Si può trasportarla, dottore? — domandai al chirurgo, vedendo
ch’egli, riposti i suoi ferri nella busta, si alzava per andarsene.

— Sicuramente; — rispose; — non può rimaner qua esposta al freddo della
notte. A voi; — soggiunse, volgendosi alla sua squadra; — andiamo, che
pur troppo ci sarà molto da fare, anche in questo pezzo di strada. Due
uomini vadano laggiù, alla cascina Calleri, e prendano una barella per
questa donna, da trasportarla subito a Carcare, prima che la strada sia
troppo ingombra di lettighe e di carri. —

Detto ciò, ed aggiunta una parola di conforto alla povera bella, il
chirurgo si mosse, per visitare gli altri feriti.

Luigi e un altro soldato erano rimasti indietro, per andare a prendere
la barella.

— _A ta garde, grenadier, puisque tu es venu jusqu’ici;_ — mi disse
Luigi, accennando la donna.

— Vi aspetterò, non dubitate; — risposi. —

Essi andarono svelti verso la cascina, che era poco distante, sul colmo
di un colle, ed io rimasi solo, inginocchiato accanto alla vergine
del reggimento. Ella aveva il seno mezzo scoperto, per gli strappi
del chirurgo, ed io mi affrettai ad avvolgerle intorno al collo un
fazzoletto di seta.

— Che fortuna, — le dissi, — che io abbia conservato questo ricordo di
casa mia!

— Grazie, — mormorò ella, raccogliendo le due cocche sul petto.

— Adriana! — ripresi allora più sommessamente. — Mi perdonate?

Ella mi fissò in volto i suoi grandi occhi bianchi dalle iridi
glauche fosforescenti, in cui si accennava una leggera espressione di
maraviglia; poi lentamente mormorò:

— Sai il mio nome?

— Lo han detto poc’anzi i vostri compagni; — risposi. — O Adriana, se
sapeste come son triste! È morto il mio colonnello, l’uomo che amavo di
più sulla terra. E voi siete ferita... voi!...

— Che te ne importa, di me?

— Non ve l’ho detto? Non lo sapete oramai? Vi amo; — proruppi
infiammato, prostrandomi a’ suoi piedi. — Come mi è nato questo grande
amore? Vedendovi. Non è egli sempre così che ciò avviene? E un po’
prima, o un po’ dopo, quando una donna ci ha vivamente colpiti, non
s’impadronisce ella, e per sempre, di noi? Infine, quand’è che ci
accorgiamo di amare? Nei giorni tranquilli, fra tutte le piccole e
vane cure dell’esistenza, si crede di meditar molto, perchè molto
si ragiona intorno alle nostre sensazioni. Una donna è piaciuta, al
primo vederla; pare che sia piaciuta di più, rivedendola; finalmente
si conosce di esserne innamorati. Questa è l’apparenza; ma sapete voi
qual sia la verità? Che da principio non si amava, e poi sì. Dietro a
quel poi si nasconde il segreto dell’anima nostra; quel poi ci confonde
e ci offusca la coscienza del moto subitaneo che ci ha trasformati,
dell’attimo che ci ha trovati liberi e ci ha fatti schiavi. Immaginando
dei gradi, non abbiamo fatto altro che allontanare la difficoltà; il
fatto sembra più naturale, se dimentichiamo di studiarne i principii.
Ma l’amore, badate, è istantaneo, o non è. Vi amo da due ore, Adriana,
e mi pare di avervi sempre amata. Vorrei dedicarvi la mia vita, e già
sento che è vostra. —

Queste, ed altre cose consimili, andavo dicendo. Erano sottigliezze
d’amore, che avrebbero potuto trovar luogo più adatto e tempo più
opportuno di quello. A me facevano comodo allora, perchè mi sembrava
di poter offuscare anch’io qualche cosa nella mente di quella donna:
per esempio, il ricordo di un brutto momento, che doveva farmi un gran
torto presso di lei, se pure mi aveva veduto far fuoco.

La sua risposta non mi diede alcun lume intorno a ciò che io temevo.
Andò in quella vece diritta in fondo al pensiero che mi aveva armata la
mano contro di lei.

— Tu hai la tua patria; — diss’ella, sorridendo freddamente. — Hai la
tua bandiera... Segui quella... obbedisci ai tuoi re... vivi come un
servo della gleba... È la tua sorte. —

Rimasi avvilito, sotto quella lenta pioggia di sarcasmi. Le parole di
Adriana mi dimostravano ch’ella era sempre in collera con me. Nella
loro lentezza faticosa mi dicevano ancora che ella era affievolita
dalla perdita del sangue, ed io non osai prolungare un discorso, che
l’avrebbe affaticata di più. Chinai la fronte, sospirando, e stetti
rannicchiato al suo fianco, guardando la sua mano sottile, così morbida
e così bianca, sotto le macchie di sangue e di polvere, ond’era tutta
insozzata.

In quel mentre venivano su per l’erta i due soldati francesi, portando
una piccola barella, che poco stante deposero presso a noi, nel mezzo
della viottola. Più delicatamente che mi venne fatto, presi tra le
braccia la povera Adriana, l’alzai di soppeso ed ebbi la consolazione
di deporla sul lettuccio, senza farla soffrire.

— Andiamo! — disse Luigi. — Di lì cominciano a venir giù gli altri
feriti, e sarà bene che giungiamo dei primi a Carcare, per trovare un
buon posto all’ospedale. Come vi sentite, madamigella Adriana?

— Grazie, Luigi; abbastanza bene.

— Ah, vedrete che ne faremo ancora delle altre. Che diavolo! — diceva
il buon soldato, mettendosi sotto alle cinghie. — Se l’aveste veduta,
sergente, come veniva svelta incontro a voi altri! È una vera Amazzone,
la nostra vergine del reggimento! E così delicata, poi! Quantunque,
— soggiunse egli, a mo’ di correttivo, — ella abbia appiccicato dei
sonori schiaffi, con quelle sue manine da _ci-devant_! Ma già, ella
potrebbe mettere nel suo blasone una pianta d’ortica. _Qui s’y frotte
s’y pique._ —

Madamigella Adriana, dolcemente cullata dai due portatori, ascoltava
e taceva. Io provavo una gioia profonda, a sentir raccontare le sue
verginali prodezze.

Il burrone per cui eravamo avviati riusciva come una scorciatoia del
castello alla strada maggiore, cioè a quella stessa che con giro più
vasto scendeva dalla batteria dei francesi all’abitato di Cosseria.
Quando fummo giunti al riscontro, il signor Luigi disse al compagno di
fermarsi, per ricogliere il fiato; poscia soggiunse, rivolgendosi a me:

— Sergente, sarà meglio che voi ritorniate indietro.

— Vorrei accompagnare madamigella Adriana ancora un tratto di strada; —
risposi. — Almeno fin laggiù, sull’aia della cascina.

— No, no, tornate indietro; — diss’egli. — Se scendete più in là,
dentro le nostre linee, potete correre il rischio di essere trattenuto
come prigioniero di guerra. E questo sarebbe un cattivo servizio, da
parte nostra, dopo tutto quello che avete fatto per madamigella.

Capii che non potevo più insistere, e curvatomi verso Adriana, le dissi
con accento malinconico:

— Mi mandano via.

— È giusto; — rispose ella asciutto.

— Giusto, ma doloroso; — replicai. — Vi rivedrò ancora,
madamigella? —

— Ritorna alla tua bandiera; — ribattè quella bella sdegnosa. —
Incontrerai ancora una volta la mia che io non potrò seguire lassù.
Addio, granatiere!

— No, a rivederci! — gridai. — Lasciatemi sperare, bellissima Adriana.

— _Tiens, tiens!_ — esclamò Luigi, ridendo. — Avremmo noi destata una
passione nel cuoricino del granatiere piemontese? Ebbene, sergente,
state di buon animo. Fate di cansare il nostro piombo, come vi è
accaduto finora, e avremo tempo di passarne una parolina ai parenti.

— Tu hai un bel ridere! — gli dissi io gravemente. — Sarà permesso
di dolersi, vedendo soffrire una donna, mi pare, ed anche di sentire
interesse per lei.

— Sì, sì; — rispose egli, stendendomi la mano; — tu hai buon cuore,
granatiere. _Sans rancune, et bonne chance!_ —

Avrei baciata volentieri la manina morbida e bianca di madamigella
Adriana; dovetti contentarmi di stringere quella ruvida e nera del
cittadino Luigi, vecchio _troupier_ dell’esercito d’Italia.

E ritornai verso la viottola, non senza voltarmi indietro a guardar la
barella, che portava la vergine del reggimento. Pochi minuti dopo ella
spariva dietro l’angolo della cascina dei Calleri, ed io sospirando
affrettai il passo per restituirmi al mio posto.

Tristi comitive erano in moto per tutti i sentieri che mettevano alla
ròcca. D’ogni parte si trasportavano morti e feriti verso le falde
del monte, i morti a due o tre per volta, su tronchi di castagno e di
rovere, per deporli in cataste sui primi ripiani dell’erta, i feriti
ad uno ad uno sulle braccia, per collocarli più giù nelle lettighe e
nei carri. Tra i feriti era anche un uffiziale superiore. Ne chiesi
il nome, e mi fu risposto: «l’aiutante generale Quentin.» Seppi più
tardi che l’infelice era morto nella notte, mentre lo trasportavano in
lettiga, da Plodio a Carcare. Bonel, e Quentin, due generali caduti
in quella fazione! Altri v’ha aggiunto il generale Joubert, come
gravemente ferito; ma non è punto vero, e gli storici hanno fatto
errore per identità di cognome. Il ferito fu un fratello del glorioso
estinto di Novi. Una pietra, scagliata dai nostri ripari, aveva rotta
la testa al giovanotto. Il generale Joubert, che quel giorno non si
era mosso da Carcare, dovendo apparecchiare i suoi uomini all’attacco
delle posizioni di Dego, quando gli fu portato a Carcare il fratello
malconcio e col capo bendato, andò su tutte le furie, come seppi di
poi, e parlò anche lui di far fucilare dal primo all’ultimo tutti gli
ostinati di Cosseria. La fucilazione, come vedete, era all’ordine del
giorno. Per fortuna non ne fecero nulla, e la valle della Bormida non
ebbe il suo Quiberon.

Prima che io mi dimentichi, tiriamo le somme. Il generale Augereau
aveva avuto in tutta quella giornata duemila settecento uomini fuori
combattimento; noi, quantunque favoriti dalla elevatezza del luogo,
contammo i nostri cent’ottanta, mancanti all’appello. Essi perdevano
due generali e non so quanti ufficiali di grado inferiore; noi il
nostro glorioso comandante Del Carretto, il prode cavaliere Rubin e un
valoroso capitano dei cacciatori croati, che mi perdonerà, dal luogo di
pace in cui si ritrova, e dove son merce ignota le vanità della terra,
se io non ho tenuto a mente il suo nome, un po’ lungo e difficile.




CAPITOLO X.

Tra sera e mattina.


Avrei più riveduto Adriana? Era in balìa del destino che la mia
avventura amorosa avesse una continuazione, o restasse lì senza chiusa.
Il destino, frattanto, non prometteva niente di buono ai superstiti
compagni di Filippo Del Carretto; ma, per attutire i miei rimorsi
di quel giorno, due cose erano assicurate: Adriana era viva; Adriana
poteva risanare. Questo pensiero mi aveva recato un po’ di sollievo; e
triste, come potete immaginarvi, ma abbastanza tranquillo, feci ritorno
al mio posto.

I nostri uomini, la più parte, riposavano ancora sui trinceramenti,
ma senza abbandonare le canne dei loro moschetti. Vigilavano qua e
là ritte in piedi le scolte; la squadra che aveva consegnati i nostri
feriti al nemico rientrava allora nel campo.

Il cavalier Corte sorrise malinconicamente, vedendomi apparire dal noto
sentiero.

— E così? Sempre in giro, come un saccheggiatore, o come un innamorato?
— mi disse. —

Io gli raccontai sinceramente ogni cosa, ed egli mi lodò con affettuose
parole. Era così nobile, il mio capitano, ed aveva un cuore così ben
fatto!

— Riposati, ora; — soggiunse. — Non credo che i francesi vogliano
riattaccarci questa sera; ma certamente dobbiamo aspettarci sul fare
del giorno tutte le loro forze riunite.

— Saranno un po’ troppe, signor capitano. E che cosa faremo noi altri?
— domandai.

— Mio Dio, quello che si potrà; — rispose il capitano, stringendosi
nelle spalle. — Veramente, io dubito che saremo soverchiati, non avendo
altre armi che i sassi, con cui si lavora a poca distanza, pur troppo!
Ma non importa; guarderemo quella pietra grigia, là in mezzo, dov’egli
è morto da eroe, e sentiremo la forza di fare il nostro dovere fino
all’ultimo. —

«Egli,» come avrete capito, era il nostro colonnello. Non occorreva
nominarlo: era presente a tutti i nostri discorsi.

Il capitano Corte si avviluppò nel suo mantello e si pose a sedere
sul colmo dell’abbattuta, guardando ai quieti lumi della sera le
ultime squadre francesi che si allontanavano dal prato. Le due ore di
tregua non erano bastate a trasportare tutti i feriti e tutti i morti,
assai più numerosi che il nemico non avesse giudicato in principio.
Per tacito accordo, la sospensione d’armi era stata prolungata. Noi,
d’altra parte, privi affatto di munizioni da fuoco, non avremmo potato
denunziarla per i primi.

Proseguendo la conversazione malinconica, mi ero seduto ad una
rispettosa distanza dal mio capitano. Neanch’io sentivo il bisogno di
dormire; mi ardeva la fronte, e l’aria fresca della notte mi era più
grata del sonno. Il cavalier Corte non guardava più verso la strada;
aveva levati gli occhi in alto, e contemplava il cupo sereno del cielo.

La vista del firmamento stellato è un gran conforto a chi soffre. Ci
hanno detto tante volte che lassù è la nostra patria futura, e quella
patria è così vasta, così luminosa, che noi possiamo figurarcela a gran
pezza migliore e più lieta della patria presente. Lo spirito dell’uomo,
irrequieto per sua natura, o turbato dalle miserie che d’ogni parte lo
incalzano, si allontana volentieri dalla terra, acquista, in quelle
volate per lo spazio azzurro, la piena coscienza della sua libertà,
si avvia fiducioso, trascorre, si sprofonda e dimentica. Il cavalier
Corte, dei conti di Bonvicino, era poeta alle sue ore, come tutti
i soldati. Quella sera incominciò a indicarmi le costellazioni più
chiare: l’Orsa maggiore, e la minore, rassomiglianti a due carri,
Cassiopea, che raffigura una M, trapunta di stelle, ed Orione, partito
in due triangoli di vivissima luce, col suo cinto di tre diamanti nel
mezzo. Tutto ad un tratto, interrompendo la rassegna, il mio capitano
esclamò:

— Dove sarà egli, in quest’ora? —

Intesi la domanda, perchè il mio animo era in piena consonanza di
pensieri e di affetti col suo. Filippo Del Carretto era una di quelle
figure soavi e nobilissime, che fanno pensar volentieri e credere
alla immortalità dello spirito, tanto esse, in qualunque condizione le
abbia poste il destino, appariscono elevate, assai lungi dalle sciocche
consuetudini e dalle volgarità della vita. Sì, era ben lecito, era anzi
necessario domandarlo: — dove sarà Filippo Del Carretto, in quest’ora?

— Sarà in quella stella laggiù; — risposi, accennandone una verso
tramontana. — Veda, capitano, come scintilla più vivamente delle altre!
Pare un lume che palpiti.

— Tu hai letto Dante; — mi disse egli allora. — Il nostro divino poeta
colloca in altrettanti astri fiammeggianti gli spiriti più puri che
abbiano mai onorata l’umanità. E Dante ha ragione; deve averla! —
soggiunse il cavalier Corte, come parlando a sè stesso, per rispondere
con quella frase di autorità ad un dubbio della sua mente.

Quel dialogo affettuoso e quella scena solenne mi avevano reso un
altr’uomo. Anch’io, per un istante, ero librato a volo su questo mondo
gramo, e assai più disposto ad escirne nobilmente. Quante volte, nelle
ore lunghe di una guardia notturna, alla vigilia di una giornata
campale, non mi sono io risollevato, confortato lo spirito con la
domanda del cavalier Corte: — «Dove sarà egli a quest’ora?» — Là,
rispondevo a me stesso, là, dove si dimenticano le ingiustizie, le
infamie e le viltà del volgo umano, là dove si pensa, si contempla e
si ama. Son là i veri vivi, quelli che hanno meritato di non morire mai
più; agli altri il fango che hanno voluto, le tenebre eterne che hanno
sognate per tutti.

Ah, Filippo Del Carretto, anima gloriosa e felice, come si disprezza
bene, in quei momenti supremi, tutti coloro che ci hanno lasciati
soli alle fatiche, ai dolori, ai pericoli! tutta quella moltitudine
di codardi, che sa gridar tanto, e non ha fatto mai nulla e trema così
spesso di tutto, come se la sua vita valesse qualche cosa davvero! E di
quei codardi, nel nostro povero paese, ce n’erano molti anche allora.
Napoleone Buonaparte, l’ho udito raccontare più tardi, marciando nella
notte sopra il 13 aprile del 1796 da Carcare a Plodio (la stessa notte
che noi scendevamo da Montezemolo, per andare a Cosseria) diceva a un
carcarese, al cittadino Viglione, che aveva preso per guida: — «Ci sono
in Italia duecentomila poltroni; ma io li _impiegherò_.» Se parlava per
quelli che ha veramente impiegati, il grand’uomo aveva torto, perchè
quelli non erano poltroni, neanche prima d’imbattersi in lui, che
potè farne, senza sforzo, un’ottima carne da cannone. Ma neanch’egli,
onnipotente com’era, è mai venuto a capo di far muovere i poltroni veri
ed autentici. Scusate la digressione, ma io son vecchio, e prima di
morire intendo di vuotare il gozzo, di dire liberamente tutto quello
che penso.

Le nostre meditazioni furono interrotte dal capitano Tibaldè, che,
come uffiziale anziano, aveva il comando del battaglione. Anch’egli
immaginava che il nemico, sopravvenuta la notte, non sarebbe ritornato
all’attacco; ma non sapeva egualmente che cosa significassero certi
rumori, che salivano a lui dalle falde del colle.

Il cavalier Corte si volse allora a me, che mi ero tirato
rispettosamente in disparte e mi disse:

— Vuoi andar tu in esplorazione? Tu conosci la scorciatoia meglio di
qualunque altro.

— Vado subito, capitano.

— Ma bada, non troppo avanti, appena quanto basta per farti un’idea di
ciò che avviene laggiù. —

Volsi un’occhiata all’astro di Filippo Del Carretto, come per prender
gli auspici da quello, e mi mossi. In quella scorciatoia, lo sapete,
avrei potuto andarci ad occhi chiusi; ma li apersi due volte tanto,
per corrispondere degnamente alla fiducia dei miei superiori. Disceso
molto più giù del luogo in cui avevo poc’anzi prestate le mie cure a
madamigella Adriana, sentii distintamente le voci dei soldati francesi,
che si affollavano tra la cascina dei Calleri e il piede della salita.
Insieme con le voci si udiva un cigolìo di ruote, ed io a tutta prima
pensai che si avviassero gli ultimi feriti sui carri, non bastando più
le barelle a trasportarli verso il Marghero e la strada di Plodio. Ma
allora, perchè affollarsi verso le falde del monte? E che venivano
a fare quei carri, lungo la salita? Non potevano esser pezzi di
artiglieria e carri di munizioni? Il mio secondo pensiero fu quello
di un assalto notturno, che si stesse preparando. Lo avevamo creduto
impossibile, ed era in quella vece imminente? Io, per averne l’intiero,
per non dover ritornare dal mio capitano con una mezza certezza, mi
ficcai tra i cespugli a sinistra della viottola, donde mi appariva
l’altipiano intieramente scoperto, ed ebbi modo di convincermi, che
si portavano avanti dei letti di cannoni. Dei letti, dico, perchè
veramente non si distinguevano i pezzi, e la leggerezza con cui si
movevano le ruote faceva supporre che i cannoni fossero stati smontati.

— Non vorranno certamente collocare una batteria alle falde del monte!
— pensai. — Questa roba deve andare a rinforzo della batteria che ha
lavorato senza frutto quest’oggi. —

Fatto questo ragionamento, proseguii la mia esplorazione a sinistra,
salendo gradatamente verso il colmo del contrafforte. Di laggiù, senza
fallo, avrei veduto passare l’artiglieria, se proprio si fosse trattato
di portare altri cannoni in sostegno. Ma qui, un altro pensiero
mi passò per la mente. Se il nemico aveva disegnato di rinforzare
l’artiglieria, di certo lavorava a fabbricare un nuovo parapetto, e
un parapetto, perdinci, collocato in posizione migliore che non fosse
quella del primo. Lassù, dunque, bisognava inerpicarsi, per avere
un’idea giusta e precisa delle intenzioni del nemico.

Anche di lassù mi giungeva all’orecchio un suono confuso di voci.
Parendomi di esser tuttavia molto lontano, mi cacciai sotto, di
cespuglio in cespuglio, e corsi risico di esser preso, perchè ad un
certo punto mi ritrovai sul rialto della strada, a forse quindici passi
dagli artiglieri francesi. Ero ai primi posti, perbacco, e qualche
cosa dovevo sentire, dei loro discorsi, qualche cosa capire, delle loro
intenzioni.

— Se non portano legna abbastanza, bisogna abbattere qualche castagno;
— diceva un uffiziale, che dirigeva i lavori. — L’abbattuta deve andare
di qua fino al basso, per raggiungere il sentiero di destra. —

Capii allora che cosa si stesse architettando contro di noi. Il nemico
sospettava che noi, approfittando delle tenebre, volessimo aprirci un
varco e fuggire; perciò asserragliava le strade. E quello che si faceva
da quella parte là, doveva farsi egualmente dalle altre.

Parendomi di saperne abbastanza, mi tirai indietro con molta
precauzione, per ritornare verso la viottola. E la cosa mi andò bene
per una diecina di passi, che furono fatti, si può dire, sotto gli
occhi del nemico. Ma ad un certo punto, o fosse che io incominciassi ad
affrettarmi troppo, o che battessi del piede in una pietra mal ferma,
ruzzolai, trascinando la pietra smossa con me. L’attenzione del nemico
fu prontamente svegliata, e parecchi artiglieri si fecero avanti da
quella parte.

— Chi va là? — mi gridarono.

Io, non che rispondere, trattenni anche il respiro. Mi ero aggrappato
con le dita a un ramo di ginepro, e stavo là, reggendomi appena, non
senza temere che da un momento all’altro mi restasse in mano quel
fragile appoggio di spine.

— Niente; — disse uno degli artiglieri. — Sarà stata una lepre.

— O un ramarro; — soggiunse un altro. — Il ramarro è l’amico dell’uomo.

— Che! — disse un terzo. — Non è stagione di ramarri, nè di lepri. Qui
sotto c’è un esploratore piemontese.

— Diavolo! — pensai. — Ci voleva proprio il naturalista, per darmi noia!

— Avanti, e prendiamolo! — ripigliò il naturalista, cacciandosi in
mezzo ai cespugli.

Io non durai fatica ad intendere che era tempo di andarmene, anche
a rischio di far rumore, e mi lasciai sdrucciolare giù per la balza.
Gli artiglieri erano entrati bensì nella macchia, ma dovevano andare
guardinghi, non conoscendo il declivio del terreno, nè il numero dei
nemici a cui davano la caccia, ed io potei mettere ben presto fra essi
e me una considerevole distanza.

Così, sdrucciolando da prima, poi saltando alla libera, giunsi al piede
della scorciatoia a me nota, mentre i miei persecutori stavano ancora
impigliati tra i cespugli della discesa. Ero in salvo, laggiù; ma, per
aver tempo e modo di vedere qualche cosa ancora, traversai il sentiero
e mi arrampicai dall’altra parte, nella palina dei castagni. Gli uomini
che avevo veduto muovere verso di noi dalla cascina dei Calleri, si
erano fermati a mezza strada, e lavoravano anch’essi a chiudere il
passo con una abbattuta di legna e di carri rovesciati. Non c’era più
dubbio, intorno alle loro intenzioni, ed io non avevo più altro da
osservare; perciò ritornai speditamente alla posizione, per riferire
ogni cosa al capitano Corte, che stava in grande ansietà, aspettando
l’esito della mia esplorazione.

— Ahimè! — esclamò il bravo cavaliere, quando io ebbi finito. — Si
sarebbe potuto tentarlo, un passaggio a mano armata, se egli fosse
vissuto, per condurci attraverso le linee nemiche. Ed anche sarebbero
giovate poco, tutte quelle precauzioni, a trattenerci per via! Ma ora,
e senza lui, che si farà? Basta, andiamo al consiglio di guerra, dove
io porterò le tue preziose notizie. —

Mentre io ero occupato in quella esplorazione, il generale Provera
aveva chiamato gli uffiziali a consiglio, per ragionare intorno alle
condizioni tristissime della difesa, e prendere, se pur si fosse
potuto, una risoluzione per il giorno seguente. Di aprirsi subito
una via tra le linee nemiche non era più il caso, e ne convennero
tutti, dopo avermi fatto narrare partitamente tutto ciò che avevo
veduto. Resistere ad ogni costo? Era l’idea del maggior numero; ma si
domandava con ragione dove fossero le munizioni da fuoco, per ripetere
le prodezze del giorno innanzi, dove fossero il pane e l’acqua per
ristorare tanti poveri stomachi illanguiditi. Arrenderci? Ne parlarono
alcuni, anche riconoscendo che di ciò si poteva discorrer meglio la
mattina vegnente; ma fin d’allora si vedeva il lato brutto, anzi i
parecchi lati brutti di quella debolezza, mentre forse era vicino un
aiuto, e dalla nostra resistenza, dal nostro sacrifizio, dipendeva la
salvezza di tutto l’esercito.

— Perchè, — diceva a questo proposito il capitano Tibaldè, — io faccio
un dilemma: o il generale Colli è in ritirata su Ceva, o sta facendo
uno spiegamento di forze, per dar la mano al generale Beaulieu. Se
è in ritirata (e domando perdono di questa supposizione offensiva,
che io faccio soltanto per modo di ragionamento) dobbiamo dargli il
tempo di sottrarsi davanti ai vincitori di Montenotte.... che pure han
dovuto rodersi le unghie sotto le rovine di Cosseria. Se è in atto di
spiegarsi, come io voglio sperare, dobbiamo dargli il tempo di giungere
in linea, mentre Cosseria, o sulla sua destra, o sulla sua sinistra, ha
forse da essere il perno delle sue operazioni.

— Assai lente, quelle operazioni! — scappò detto al cavalier Corte.

L’osservazione, che feriva un generale di S. M. Apostolica, non poteva
piacere al vecchio Provera.

— Pensi, signor capitano, — diss’egli con molta gravità, — che il
general Colli non ha una compagnia da muovere, ma un esercito intiero.
Egli è prudente quanto valoroso ed esperto. —

Il cavalier Corte non rispose parola; ma io, che gli ero alle spalle,
notai una scrollatina di testa che significava chiaramente ciò ch’egli
pensasse di tante belle qualità messe in riga.

— Lasciamo questi discorsi; — ripigliò il capitano Tibaldè. — Tutti i
ragionamenti che noi potremmo fare intorno ai disegni e alle operazioni
del generale in capo si restringono nel mio dilemma di poc’anzi. Io
dunque propongo tre cose: rimandare a domani ogni deliberazione di
resa; vegliare attentamente questa notte contro ogni possibile sorpresa
del nemico; mandare un messaggero al general Colli, per significargli
lo stato nostro, che è certamente cattivo, se non addirittura
disperato, e chiedergli un pronto soccorso, o un’utile diversione,
secondo che a lui potrà sembrare più acconcio. —

Quello del capitano Tibaldè era il consiglio più assennato, e
rispondente in pari tempo alle necessità del momento. Il generale
Provera lo approvò senza indugio.

Certamente, non era facile di passare inosservati attraverso la
linea d’investimento, specie dopo i lavori che aveva fatti il nemico
per asserragliare intorno a noi tutte le strade. Ma, osservando
attentamente la posizione, si doveva ammettere che una strada fosse
ancor libera, cioè da quella parte dove non erano strade. Un uomo
ardito non poteva calarsi fino a mezza costa, di là, dove la balza
scendeva più ripida? E da quel punto, piegando verso ponente, fino al
bosco della Guardia, non poteva sfuggire alla vigilanza del nemico, o
ingannarlo con qualche stratagemma?

I soldati udivano i discorsi dei loro ufficiali, poichè il consiglio
si teneva a piè del muro. Uno di essi, un caporale dei granatieri di
Susa, si offerse volonteroso per tentare l’impresa. Era un giovane
montanaro, dall’occhio accorto e dal garretto d’acciaio. Per esser
pronto agli stratagemmi, il bravo caporale indossò l’uniforme d’un
soldato francese, che era venuto a morire nel nostro trinceramento e
che nessuno aveva pensato a toglier di là. Inoltre, sapeva il francese
e lo parlucchiava abbastanza, come ogni buon piemontese nato alle falde
del Cenisio. Se lo fermavano nell’atto di traversare il sentiero che
da quella parte metteva alla ròcca, tra l’uniforme e la parlata poteva
destreggiarsi ancora e passarla liscia. Di notte, poi, non è mica
facile distinguere tra lupo e can bigio!

Il giovinotto ardito si calò dalla balza, davanti alla porta castellana
della ròcca, aggrappandosi ai cespugli che vestivano l’erta. Noi lo
seguimmo a lungo con gli occhi, e lo vedemmo finalmente traversare
leggiero la linea bianchiccia che c’indicava il passo pericoloso della
strada battuta. Tendemmo l’orecchio, dopo che l’amico era sparito
nell’ombra, e non ci venne udito nè un grido di scolte, nè un colpo di
moschetto, nè altro che potesse far sospettare di un cattivo incontro
per lui.

— Se Dio vuole, — conchiuse il capitano Tibaldé, che stava con gli
altri in ascolto, — ecco un uomo avviato. Ed ora, giovinotti, alla
guardia! —

Il resto della notte passò malamente, tra le ansie di una vigilanza
continua e i tormenti di un digiuno prolungato, a cui non sorridevano
le speranze del domani. Si stava con l’animo in soprassalto, udendo
i rumori del campo francese e temendo ad ogni istante una sorpresa,
a cui non avremmo potuto rispondere con una buona scarica a tiro
di pistola, come quelle che ci avevano fatto così buon giuoco per
tre volte di seguito. E si cascava dal sonno, e gli stimoli della
fame non ci consentivano di chiuder gli occhi. Frattanto, i vapori
che salivano dal fondo della valle assumevano davanti a noi forme
fantastiche di combattenti, assiepati, incalzanti d’ogni parte fino al
colmo del monte. Ma quelle ombre paurose si dileguavano nell’atto di
avvilupparci, e il nemico, che avrebbe potuto coglierci in quell’ora
e soverchiare il nostro campo, non venne. Lo teneva lontano l’ombra
di Filippo Del Carretto, che a me pareva di veder sempre là, in prima
linea, con la spada levata a minaccia.

Povero colonnello! Noi gli avevamo scavata la fossa dall’altra parte
della ròcca, a pochi passi da quella porta castellana, donde i suoi
maggiori escivano a cacce o a gualdane, su cavalli riccamente bardati,
con lieta comitiva di dame, e seguito numeroso di scudieri e di paggi.
Dormiva là, più felice di noi, ravvolto nel suo mantello, come un
guerriero che si corica sul campo e vuole esser pronto alla sveglia.
Ma pur troppo la diana non lo avrebbe destato più, il nostro eroe
prediletto, e una manata di terra, che ancora non avevamo ardito
gettare su quella fossa, doveva nasconderci per sempre la sua cara
sembianza.




CAPITOLO XI.

Sul tamburo.


Il cielo incominciava a sbiancare dietro alle alture di Montenotte. Era
l’alba del 14 aprile; un giovedì, se non erro. Quell’alba fu per noi
una liberazione dalla oppressura della tristissima notte che avevamo
passata, battendo la diana dal freddo, estenuati dal lungo digiuno e
tormentati dalla sete. Di quei tre mali, uno sarebbe cessato tra breve;
ci saremmo sgranchiti in una carica alla baionetta, l’ultima, forse,
e la più disperata. Si doveva morire? tanto meglio. Per una volta
ancora ci scaldavamo alla luce del sole; era questo il gran punto da
vincere. Frattanto, l’apparire di quella luce mattutina ci aveva reso
il coraggio.

I tamburi del nemico presero a battere la sveglia. Ah, finalmente!
Si verrà presto alle mani! Ma i minuti passavano, e quei tamburi non
mostravano nessuna fretta di batter la carica. — Hanno ancora da far
pulizia, i signorini! — E da mangiar la zuppa, poveracci! — Che fatica
ha da esser quella! — Se ne ristoreranno con un sorso d’acquavite!
— O col vino che avranno ritrovato nelle cantine dell’arciprete di
Cosseria! — _Cosseria, Cosseria, ’na bella città! Si mangia, si beve,
allegri si sta!_ —

Così, a denti stretti, tentavano di celiare parecchi; ma la scelta
delle arguzie non era fatta davvero per ingannare i tormenti dello
stomaco.

Finalmente, si udì dalla strada alta, verso la batteria, uno squillo
di tromba. Era il solito parlamentario, l’eterno parlamentario, con la
eterna ed uggiosa intimazione di arrenderci a discrezione. Aggiunta non
meno conosciuta, e quasi inutile a ricordare, un quarto d’ora di tempo
per risolvere!

Fatta la sua ambasciata, l’uffiziale parlamentario si ritirò verso la
batteria, per aspettare la risposta.

I nostri uffiziali si radunarono a circolo intorno al generale Provera
e al capitano Tibaldè; stettero cinque o sei minuti ragionando tra
loro, quindi sfilarono sulla fronte delle nostre compagnie, osservando
il contegno marziale e l’armamento dei soldati. Quei poveri uffiziali
facevano veramente pietà, con le loro facce sparute e con quegli
occhi fissi, che parevano aspettare un miracolo dal fondo delle nostre
giberne.

Il generale Provera veniva lentamente con essi, guardando di sbieco e
tentennando la testa.

— Insomma, — lo sentii dire al capitano Tibaldè, mentre mi passava
daccanto, — non c’è più una cartuccia, e una lotta a corpo a corpo si
decide troppo presto con la sproporzione del numero. Avremo cagionata
una strage inutile.

— Evitando la vergogna dell’arrenderci a discrezione; — rispose il
capitano Tibaldè con rispettosa fermezza.

Passarono e non udii più altro dei loro discorsi. Poco stante si
fermarono, come se avessero trovato un punto d’accordo, e fecero
chiamare il parlamentario. Appena egli fu giunto a mezzo il declivio,
il vecchio Provera si avanzò dignitoso e gli disse:

— Riferite al generale Augereau che noi siamo disposti a trattare, ma
che intendiamo di uscire con l’onore delle armi. —

L’uffiziale strinse le labbra e crollò il capo in un certo modo, che
non prometteva niente di buono.

— Che? — riprese il generale Provera. — Vi sembra egli forse che non lo
abbiamo guadagnato?

— Non dico questo e non lo penso, signor generale; — rispose il
parlamentario. — Ma il generale Augereau è tal uomo, che quando ha
detto di volere una cosa....

— Gli piacerà di trovar uomini della sua medesima tempra; — interruppe
il Provera, che in quel punto ritornò a piacermi grandemente. —
Portategli ad ogni modo la nostra risposta. Siamo disposti a trattare,
ma da soldati che hanno respinto tre assalti, e ne respingeranno un
quarto, in quella forma e con quell’esito che sapete oramai. —

Ciò detto, si rivolse al cavalier Tibaldè, che gli stava daccanto, come
per chiedergli: — siete contento di me? —

La testa del nostro comandante si chinò tosto, in segno di
assentimento. Il capitano malinconico, se mi è lecito di chiamarlo
così, pareva rispondere con quel cenno di testa: — Bravo, generale! Io
non avrei saputo dir meglio. —

Il parlamentario si ritirò salutando. Noi aspettavamo da un momento
all’altro che i tamburi battessero la carica, e dopo una diecina
di minuti udimmo invece la solita tromba. Ma questa volta la novità
di certe rifiorite annunziava un altro personaggio, qualche cosa di
grosso, niente meno che il generale Augereau.

A quel suono festoso, il conte Provera e il cavalier Tibaldè si
avanzarono da capo fino all’estremità del declivio. Noi stavamo ritti
sui trinceramenti, allungando il collo per veder meglio ciò che stava
per accadere. Comparve il parlamentario, e subito si tirò in disparte,
presentando il suo superiore. L’Augereau, un bell’uomo, ancor giovane,
dalla faccia abbronzata e dal piglio soldatesco, stette immobile per
un istante, guardando fissamente i due comandanti della difesa, poi
fece una spallucciata, che a tutta prima mi parve alquanto plebea (non
sapevo ancora che l’esempio fosse stato dato dal generale Buonaparte) e
finì con lo stendere ad essi la mano.

Che cosa si dicesse in quel primo incontro, non so. Si faceva giuoco
serrato da una parte, e si gesticolava molto dall’altra. Il generale
Augereau parlava alto, ma era troppo concitato, e a noi non giungevano
che i suoni imperiosi e tronchi delle finali, da cui era impossibile di
cavare un costrutto.

Ad un certo punto, come Dio volle, parvero accordarsi in qualche cosa,
e il capitano Tibaldè si mosse per ritornare al trinceramento.

— Si tratta; — diss’egli ai nostri ufficiali, che si erano affollati
intorno a lui.

— Con l’onore delle armi? — chiese uno di essi.

— Certamente, quantunque egli non la intenda così.

— E allora, perchè tratta?

— Ha proposto d’incominciare a scrivere, per mettere a riscontro tutto
ciò che vogliamo noi con quel poco che egli si sentirà di concedere.
Scriviamo dunque; — soggiunse sospirando il capitano Tibaldè. — Chi di
voi altri ha un uomo che sappia scrivere sotto dettatura il francese ed
abbia anche una bella mano di scritto?

— L’ho io, quest’uomo; — rispose prontamente il cavalier Corte.

E volgendosi a me, mi accennò di uscire dal trinceramento.

— Eccolo; — soggiunse. — È il diplomatico della seconda Monferrato.

— Venga dunque a scrivere il protocollo; — disse il capitano Tibaldè,
accompagnando la frase con un nuovo sospiro, che faceva uno strano
contrasto all’arguzia della osservazione.

Povero Tibaldè! Egli sentiva in quel momento come fosse grave il
succedere a Filippo Del Carretto. Nelle tristi circostanze a cui
eravamo ridotti, e che ad ogni istante peggioravano, riconosceva oramai
impossibile di tenere così alto il buon nome del terzo Granatieri,
come aveva fatto, col generoso sacrifizio della sua vita, il nostro
santissimo eroe.

Seguitai il malinconico capitano fino all’estremità del declivio,
dov’erano a consiglio i generali Provera ed Augereau. Due tamburi
furono portati innanzi e collocati ritti sul prato. Un sott’ufficiale
francese trasse alcuni quinterni di carta dall’astuccio di latta e ne
passò uno a me. Inginocchiati di fronte, coi gomiti sul cerchio del
tamburo, ci mettemmo ambedue in atto di scrivere.

— Tirate una linea nel mezzo, — disse l’Augereau, — per modo che il
foglio resti diviso in due colonne. Nella prima, a sinistra, sotto il
titolo «_Rappresentanza dell’esercito repubblicano_» si scriveranno le
mie condizioni; nella seconda, a destra, sotto il titolo: «_Risposta
della guarnigione di Cosseria_» si scriveranno le vostre, signori
Provera e Tibaldè. Va bene così?

— È conforme agli usi; — disse il conte Provera, assentendo.

— Ed ora incominciamo; — ripigliò il francese. — Sergenti, scrivete:
«_Conoscendo la impossibilità in cui si trova la guarnigione di
Cosseria, di difendersi ulteriormente, le si intima di arrendersi a
discrezione._»

Appena avemmo finito di scrivere, il generale Augereau fece un gesto
che voleva dire ai comandanti del presidio: — Signori, a voi di
rispondere.

Il conte Provera, dopo aver parlato un istante sottovoce col nostro
capitano, dettò alla sua volta:

« — _Tutta la soldatesca che sta raccolta a Cosseria ne uscirà battendo
il tamburo ed a bandiere spiegate, traversando la fronte dell’esercito
francese, che le farà gli onori militari, e proseguirà la sua marcia
con armi e bagaglio, per raggiungere i posti avanzati dell’esercito
piemontese._»

— È troppo! — gridò il generale Augereau, che si era contenuto a
stento, mentre il conte Provera dettava la risposta. — Duemila e più
francesi tra morti e feriti domandano ben altro; e dodicimila pronti
all’assalto, mentre voi non avete più una cartuccia, possono ottenere
con un lieve sforzo ciò che i caduti domandano.

— Signor generale, — disse risoluto il capitano Tibaldè, — l’aver fatto
il nostro dovere non è una buona ragione per chiederci ora un atto di
viltà.

— Nè io ve lo chiedo; — rispose l’Augerau. — Abbiate pure l’onor che
vi spetta; a noi rimanga il frutto del sangue che abbiamo versato.
Sergenti, scrivete: — «_La guarnigione di Cosseria sfilerà, battendo
il tamburo e a bandiere spiegate, traversando la fronte dell’esercito
francese, che le renderà gli onori militari; ma essa deporrà in un
luogo indicato le armi e si renderà prigioniera in Francia sino alla
sua permùta._» — Signori, — proseguì il generale nemico, rivolgendosi
ai nostri comandanti, — io spero che riconoscerete la generosità della
Francia. Essa ama i valorosi e sa onorare il coraggio sfortunato.
Pretender di più sarebbe un disconoscere il suo diritto e la cura
legittima de’ suoi interessi. La prigionia di guerra è una triste
necessità delle battaglie, e non avvilisce punto il soldato. Aggiungete
che questa prigionia può essere quistione di giorni, se austriaci a
Dego e piemontesi a Ceva si batteranno come vi siete battuti voi altri
a Cosseria. Prenda il generale Beaulieu la rivincita di Montenotte
(cosa che io veramente non gli auguro) e voi potrete essere cambiati
anche domani.

— Le vostre ragioni hanno un gran peso sull’animo nostro; — disse
il conte Provera, inchinandosi. — Noi, accettando il patto nel suo
complesso, faremo tuttavia una piccola restrizione. È uso, quando
si accorda l’onore delle armi, che si rimandino gli ufficiali sulla
parola.

— Aspettavo che lo proponeste voi; — rispose pronto il francese.

— Ma scusate; — soggiunse il Provera. — Non avevo ancor detto ogni
cosa. I nostri uomini hanno combattuto da valorosi, e combatteranno
così fino all’ultimo sangue, se voi ci costringete a domandar loro il
sacrifizio della vita per la tutela dell’onor militare. È dunque ben
giusto che gli ufficiali non siano soli ad ottenere la libertà sulla
parola.

— E chiedereste?... — disse il francese.

— Non molto; — rispose il Provera. — Appena il tanto che basti per
riconoscere il valore di questi granatieri e cacciatori imperterriti,
i quali, come voi ci avete lasciato intendere poc’anzi, hanno posto
fuori di combattimento un numero d’uomini superiore del doppio al
loro effettivo. Ecco, del resto, la condizione proposta da noi, che i
sergenti avranno la compiacenza di scrivere: — «_Tutti gli ufficiali e
un sott’ufficiale per compagnia conserveranno le loro armi, e potranno
così rientrare in Piemonte, con promessa di non poter più servire, fino
alla loro permùta._»

— Eh! Non mi dispiace; — rispose l’Augereau, scuotendo ripetutamente
il capo. — È una condizione democratica, infine! Sergenti, scrivete a
riscontro, nella mia colonna: — «_Concesso._»

— «_Sarà in potere della guarnigione_, — ripigliò il Provera, dettando,
— _di portar seco il cadavere del colonnello Del Carretto_.»

— Onore al prode! — gridò il francese, che era in vena di generosità. —
Scrivete ancora: — «_Concesso._»

— «_Saranno distribuite vettovaglie alla guarnigione_, — riprese il
Provera, — _non appena avrà essa deposte le armi_».

— Ancora e sempre: «_Concesso_» — replicò il generale francese.

— Sempre! — notò il capitano Tibaldè. — Speriamo dunque per l’ultima
condizione, che è necessario di aggiungere.

— La detti Lei, signor conte di Rolasco, — gli disse con piglio cortese
il generale Provera. — Ha avuto la sua parte di gloria; abbia la sua di
fatica. —

Il comandante dei granatieri si avanzò, e con voce ferma incominciò a
dettare l’ultimo patto.

— «_La presente convenzione non avrà effetto fin dopo mezzodì, perchè_,
— soggiunse egli, rispondendo ad un gesto di stupore del generale
nemico, — _se l’esercito piemontese corresse in aiuto di Cosseria,
questa capitolazione s’intenderebbe annullata_».

L’aggiunta dichiarativa non fu bastante a chetare il generale Augereau.

— Signor capitano, — proruppe egli, — ho detto un «sempre» di troppo, e
intendo ancor io di annullarlo.

— Non prima di avermi ascoltato, signor generale; — rispose pacato il
comandante dei granatieri. — Io non vi chiedo di esser generoso oltre
misura; vi prego di esser giusto. La generosità è il lusso dei forti;
la giustizia il loro obbligo. Vogliate intanto considerare alcuni
punti essenziali. Che cosa siamo venuti a far noi, tra queste rovine? A
tenere una posizione. Perchè? Per resistere al nemico.

— Ma non oltre le forze che avete; — ribattè l’Augereau.

— Infatti, ne abbiamo ancora.

— Senza munizioni?

— Abbiamo i sassi e le baionette, signor generale, ultime armi con cui
abbiamo respinto iersera il terzo attacco della vostra divisione.

— Concedo; — rispose l’Augereau. — Ma siamo in dodicimila, a
circondarvi. Il generale Buonaparte è qui presso; il general Busca
discende da Murialdo sui fianchi del vostro esercito; anche questi sono
punti essenziali. Voi resisterete ad ogni modo, lo capisco; ne siete
capacissimi. Ma se ieri il resistere era da temerarii, oggi sarebbe
da pazzi. Aggiungo che ci costate già troppo sangue, e che noi, se vi
ostinate, dovremo dare un esempio, passandovi tutti per le armi.

— E sia; — disse freddamente il capitano Tibaldè — Ma, per giungere a
questo, bisognerà prima averci snidati di qua.

— Sicuramente; metto per principio che non potrete resistere.

— Lo potremo, signor generale. Lasciatemi proseguire, e vedrò di
convincervi. Il general Colli, io dico, ha avuto tempo di raccogliere
le sue forze e d’incominciare la sua marcia strategica. Partito nel
cuor della notte, può presentarsi in battaglia da un’ora all’altra; ne
convenite?

— Vorrei scommettere il mio grado di generale contro i vostri spallini
da capitano, che questa marcia strategica è un’illusione del vostro
cervello. Ma non si deve scommettere, quando si è certi. Il vostro
general Colli è a quest’ora in ritirata su Ceva.

— Se ne siete certo, — ribattè il capitano, — perchè vi dispiace tanto
una condizione che onora la nostra fede, senza far danno alle vostre
operazioni? A noi non è lecito di fare un così pronto giudizio intorno
al nostro comandante supremo. Ci ha mandati avanti, all’onore del primo
fuoco; dobbiamo aspettarlo ancora, dargli il tempo di giungere. Siamo
privi di munizioni, voi dite. È vero; non abbiamo neanche un tozzo di
pane, nè un sorso d’acqua. Ma siamo noi che vi diciamo: lasciateci pure
fino a mezzodì in questa orribile condizione; noi sapremo sopportare i
nostri mali in silenzio.

— È una follia, vi dico. Torneremo all’assalto, e sarà di voi ciò che
avrete voluto.

— Senza offesa, signor generale, ne abbiamo respinti tre; — rispose
nobilmente il capitano. — Respingeremo il quarto ed il quinto. Per noi,
vivere o morire è tutt’uno, quando si salvi l’onore. Qualunque cosa
avvenga, avremo guadagnato colla forza il tempo che voi non ci avrete
voluto concedere per atto di giustizia.

— Infine, — disse il francese, — sono sei ore che mi domandate?

— Sì, generale; e se voi siete certo che il Colli è in ritirata...

— C’è, per tutti i diavoli.... che abbiamo aboliti, — gridò, facendo
un’altra delle sue spallucciate, il generale Augereau. — Quando mai
si è visto un generale che manda un battaglione al fuoco e non pensa a
sostenerlo dopo ventiquattr’ore, anzi dopo trentasei? È in ritirata, io
lo so... Lo so tanto, che vi regalo anche le vostre sei ore. Sergenti,
scrivete: «_concesso_» e non se ne parli più. Vi basta signori? O
volete dell’altro?

— Sì, generale; — rispose il cavalier Tibaldè; — vogliamo ancora
ringraziarvi della vostra bontà. Riconosciamo in questa concessione la
vecchia cavalleria francese.

— Tutto per i valorosi, è la mia massima; — esclamò quel generale, che
aveva, a detta di Napoleone, una cattiva testa e un cuore eccellente.
— Siete gran diavoli, voi altri! E adesso, sergent_i, scrivete la
data. — _Cosseria, il 25 germinale... o _il 14 aprile_, come vi piace;
_dell’anno IV_, o _del 1796_, come vi torna; _alle ore 6 del mattino_,
se l’orologio non mi dà in ciampanelle. Bene! Ed ecco qua la mia firma.
A voi, signori; mettete la vostra. —

Era di buon umore, il cittadino generale: segno evidente che noi
dovevamo sperar poco o nulla di essere soccorsi dal Colli.

In calce di ogni foglio, a sinistra, egli aveva scritto il suo nome:
AUGEREAU. A destra, l’uno sotto l’altro, i nostri comandanti avevano
scritto i loro; PROVERA, TIBALDÈ.

— Vediamo questo granatiere, che scrive così bene; — soggiunse
il generale, piantandosi davanti a me col suo piglio soldatesco e
squadrandomi dal capo alle piante.

Io mi irrigidii, come potete pensare, nella posizione del soldato
senz’armi, e sostenni la sua guardata con tutta la fierezza d’un
vecchio granatiere. In Piemonte eravamo assuefatti così e guardavamo
perfino il re con aria feroce, come se volessimo farlo a pezzi e
bocconi. Nella disciplina militare era quello il modo di mostrargli il
nostro rispetto, e si diceva che fosse una costumanza presa da Federico
di Prussia; ma, a parer mio, dev’essere più antica di molto. Come
dovevano guardar Scipione, o Cesare, i fieri legionarii Romani?

Il generale Augereau parve soddisfatto della sua ispezione.

— Hai una bella mano di scritto; — mi disse. — E scrivi sotto dettatura
abbastanza correttamente; il che non è facile, in francese. Dove l’hai
imparato?

— Nel seminario di Mondovì.

— Ah, bravo! Sei stato seminarista? Ed anche tu hai buttato via la
tonaca?

— Sì, — risposi, — per difender la patria.

— Anche questo è un frutto della nostra rivoluzione; — diss’egli. —
L’avresti buttata egualmente cent’anni fa? —

Ero rimasto interdetto e non sapevo che cosa rispondere; ma egli stesso
mi cavò dall’impaccio.

— Tu vuoi rispondermi che cent’anni fa non eri ancor nato; — soggiunse.
— E per tutti i diavoli, anche questa potrebb’essere una buona
ragione. —




CAPITOLO XII.

Presentate le armi.


Partito il generale Augereau, ci trovammo soli soli, nella condizione
più strana che si potesse immaginare per una soldatesca in campagna.
Eravamo davanti al nemico, circondati da tutte le parti, e nessuno
aveva l’aria di occuparsi dei fatti nostri; stavamo armati a custodia
di una posizione che nessuno pensava a contenderci, e sulla quale
regnavano con noi, rigorose compagne, la fame e la sete. Perchè non
c’era neanche più da sperare nella facile bontà dei soldati francesi,
che venissero a portarci qualche po’ di biscotto e di castagne, o
qualche bottiglia d’acqua, come avevano fatto il giorno innanzi, nei
momenti di tregua, quando essi, dovendo ad ogni istante riprender
l’attacco, si trovavano più vicini a noi. Fatta la convenzione col
generale Augereau, la consegna dei francesi era diventata molto
severa; essi avevano dovuto ritirarsi tutti dietro la linea delle
loro abbattute; dovevano rispettare la nostra solitudine, le nostre
meditazioni, come se fossimo altrettanti anacoreti sul monte.

E da anacoreti si visse, per tutta quella lunga mattinata. Ricordammo
(che cosa non si ricorda in certi momenti?) ricordammo di aver
sentito parlare delle proprietà nutritive di alcune radici; e avremmo
volentieri sperimentata la cosa. Ma la primavera su quei monti era
appena incominciata, e le erbe mostravano solamente i primi germogli;
non si poteva fare assegnamento sui raperonzoli, sui terracrepoli e
sulle cicerbite; unica pianta che offrisse un pascolo, anche perchè si
vedeva correre in bianchi steli nodosi sul prato, era la codalina, la
più comune e la più dura di tutte le gramigne. A quella ci attaccammo,
lavorando con ogni cura a sradicarne le barbe serpeggianti; masticando
le sue fibre legnose ma fresche, ingannavamo ad un tempo la sete e
la fame. Il consiglio del capitano Tibaldè era stato nobile, la sua
risoluzione eroica senz’altro; ma quell’ultimo articolo della nostra
capitolazione mi ha fatto provare le sensazioni più angosciose della
mia vita. Enrico IV, ricordavo allora, aveva fatto passare dei carri
di viveri nella città di Parigi che egli stringeva l’assedio; perchè il
generale Augereau, parigino schietto, non pensava di far distribuire a
noi il rancio mattutino, come lo faceva distribuire alla sua divisione?

Il generale Provera e il capitano Tibaldè non sentivano certamente gli
stimoli acerbi che sentivamo noi altri. Essi erano andati sul colmo
della ròcca, per vedere tutto intorno, nel fondo delle valli e sulla
cima dei monti. Il mastio, nella distruzione del castello, ordinata ed
eseguita dugent’anni addietro, si era rovesciato e rotto in tre pezzi,
come mi pare di avervi già raccontato. Sul più voluminoso di quei
ruderi erano andati ad arrampicarsi i nostri due comandanti, e da quel
luogo eminente stavano osservando l’orizzonte lontano, verso il Cengio,
Montezemolo e Mombarcaro. Di là ci dovevano venire gli aiuti, di là si
aspettava la comparsa del Colli. Ma il cielo era coperto, e Mombarcaro
manteneva la sua vecchia riputazione, consacrata da quel proverbio,
popolare nelle Langhe:

      _Mombarcaro, Mombarcaro_,
    _Senza nebbia è un caso raro_.
    _Senza pane può stare e senza vino_,
    _Ma non senza la nebbia ogni mattino._

Se almeno il general Colli avesse pensato ad annunziare la sua presenza
con qualche fucilata! Si sarebbe veduto il lampo perdiana! Ma niente,
attraverso quel velo di nebbia che circondava le alture, e noi non
avemmo neanche la consolazione di sapere se il general Colli fosse
là, spettatore del nostro sacrifizio. Pensava ad altro, il generale in
capo; aveva mandati due reggimenti, quello di Monferrato e quello della
Marina, ma non verso Cosseria, per sostenere i granatieri che portavano
il loro nome, bensì verso Dego, a sostenere l’esercito del Beaulieu,
che la fuga dell’Argentau da Montenotte aveva messo in angustie; ed
egli, poi, spaventato da una lieve dimostrazione di forze, si era
ripiegato su Ceva, e Mondovì, donde aveva a ritirarsi anche su Cuneo e
Fossano, dimenticando nella fretta due intieri reggimenti, quello delle
Guardie e quello di Stettler, che, insieme con altri corpi rimasti a
Mondovì, furono fatti prigionieri di guerra. Per quel grande capitano,
regalatoci dall’Austria, ci eravamo sacrificati noi a Cosseria! Per
aspettar lui, avevamo rimandato a mezzogiorno del 14 aprile la speranza
di un sorso d’acqua e di un tozzo di pane! Povera fede e povera
costanza del capitano Tibaldè!

I francesi, sotto alla nostra posizione, si erano molto diradati.
Sicuramente, il grosso della divisione Augereau era stato avviato
su Montezemolo. Il generale nemico si era mostrato quella mattina
abbastanza cortese con noi, accettando l’ultimo articolo della
convenzione. Ma certe cortesie hanno anche la loro ragione nel
tornaconto di chi le fa. Nessuno mi leverà dal capo che i francesi a
Fontenoy, quando dissero la frase memoranda: «_Messieurs les Anglais,
tirez les premiers_» ci avessero il loro bravo perchè. Essi dovevano
avere, se non altro, la speranza che il nemico tirasse male, un po’
per la fretta, e più per il timore di una scarica generale, fatta
con maggior calma e con maggior sicurezza. Certo, quella mattina,
a Cosseria, un nuovo assalto avrebbe richieste le forze di tutta
la divisione, e sarebbe anche riuscito ad una perdita di gente. Sei
ore d’indugio, senza liberar noi, lasciavano più libero il generale
Augereau.

E si soffriva intanto, si soffriva tacendo, seduti sulla falda di quel
prato, che Germinale incominciava a far muovere, ma che Floreale aveva
ancora da rivestire.

— Addio monti! E addio Colli! — esclamò ad un certo punto il sergente
Achino, mio compagno di servizio nella seconda Monferrato. — Questa
sera si parte per la Francia, muniti d’_indegnità_ di via. —

Il soldato piemontese ha sempre celiato sulla indennità, chiamandola
_indegnità_.

— Preferisco la fame e la sete a Cosseria; — risposi.

— Tu andrai a casa tua, fortunato!

— Che ne sai tu?

— Si capisce. Un sott’ufficiale per ogni compagnia se ne va liberamente
per i fatti suoi. A quale, della seconda Monferrato, può toccare questa
fortuna, se non a te, che hai scritta la capitolazione? Tu sei nato
vestito, mio caro. Io non ti domando che un piacere: di andare a Ceva,
dai miei, per dir loro che son vivo e sano e li saluto tanto.

— Aspetta ancora un pochino a darmi i tuoi riveriti comandi; —
risposi. — Vedrai che saremo soccorsi e ci batteremo ancora, prima di
mezzogiorno. —

Erano le dieci e mezzo, e il capitano Tibaldè chiamava a rapporto gli
ufficiali del battaglione. In attesa del mezzogiorno, ma non più dei
soccorsi sperati, si dovevano fare i preparativi di partenza. Io,
diplomatico della seconda Monferrato, ebbi poco stante l’incarico
di scrivere in altrettanti pezzetti di carta i nomi di tutti i
sott’ufficiali del battaglione. Ogni compagnia doveva estrarre a sorte
il suo uomo, il fortunato, a cui era permesso di serbare le armi, e di
andarsene libero a casa.

— Ecco a che serve avere una bella mano di scritto; — dissi allora
ridendo, ma non senza un po’ di stizza in corpo, al mio collega Achino.
— È la sorte che decide.

— Hanno ragione a far così per tutte le altre compagnie; — rispose
egli; — ma hanno torto per la nostra. La fortuna di andare con gli
ufficiali spettava a te. Ma vedrai che essa ti favorirà ad ogni
modo. —

La fortuna non mi favorì; toccò invece a lui, proprio a lui, di essere
estratto. Quel povero diavolo era felice, ma non ardiva manifestare la
sua allegrezza.

— Tu hai buon cuore, — gli dissi, — e ti sei meritato il favore della
cieca dea. Non ti domando che un piacere: di andare a Mondovì Piazza,
dai miei, per dir loro che son vivo e sano, e li saluto tanto. —

Ma non ci fu bisogno di un messaggero, che andasse dai miei. Appena
fatta l’estrazione, il capitano Tibaldè prese dalle mie mani il
foglio su cui erano scritti gli otto nomi, sei di piemontesi e due di
austriaci, allora sorteggiati, e soggiunse:

— Scrivi anche il tuo nome; hai lavorato come sott’ufficiale addetto
allo stato maggiore, ed è giusto che tu venga con gli altri. —

Immaginate la mia contentezza. Ero libero anch’io, e si andava a
Carcare, dove la sera innanzi avevano trasportata Adriana.

— Dunque, — mi arrisicai di domandargli, — signor comandante, si parte?

— Sono già passate le undici; — rispose il capitano malinconico. —
Nessuno è venuto, nè accenna a venire in soccorso. Cederemo alla dura
necessità. —

Mezz’ora dopo, le compagnie erano disposte in ordinanza. Si fecero i
fasci d’arme e ci fu concesso di andare divisi per isquadre, a salutare
la tomba del nostro colonnello. Ricorderete che per entrar nelle rovine
bisognava passare sopra un monte di macerie, attraverso una breccia
del muro di cinta, poichè la porta castellana, presso cui Filippo Del
Carretto era stato seppellito, si apriva dall’altro lato della ròcca.

La capitolazione ci dava il diritto di trasportare la salma dell’eroe;
ma il capitano Tibaldè aveva pensato che fosse meglio, nella incertezza
della strada che si sarebbe dovuto prendere, e più nelle tristi
condizioni in cui era tutto intorno il paese, di lasciare per qualche
giorno il sacro deposito tra le rovine di Cosseria, donde egli avrebbe
potuto levarlo poi, d’accordo con la famiglia dell’estinto. Perciò si
era venuti nella deliberazione di dargli sepoltura, coprendo anche
il terreno con un cumulo di sassi. I nostri commilitoni, con uno di
quei delicati pensieri che nelle circostanze solenni vengono così
naturalmente ai soldati, erano corsi a sbarbicare alcuni cespugli di
rose salvatiche, di cui si vedevano ricoperte e inverdite le macerie
della seconda cinta, e li avevano trapiantati intorno a quel cumulo di
pietre. Si piangeva come fanciulli, davanti alla tomba del prode.

— Orsù! — disse il capitano Tibaldé, frenandosi a stento. — L’ora è
venuta. Povero Filippo! Povera Cosseria! Dobbiamo lasciarvi, obbedire
al destino! —

Ritornati ai fasci d’arme, ci disponemmo su due file e prendemmo
i nostri fucili; a mezzogiorno in punto il capitano Tibaldè fece
dar nei tamburi, comandò per fianco sinistro e avanti. Si escì dai
trinceramenti al passo ordinario, prendendo il colmo dello sprone a
sinistra, dove un largo sentiero andava per forse duecento passi verso
il monte della Guardia, e quindi, piegando sotto il fianco occidentale
della rocca, scendeva tra motte biancastre di tufo, qua e là macchiate
da scarni ginepri e cespugli di timo disseccato, fino al passo di
Montecàla.

Presso la prima svolta, su in alto, era un posto di sentinelle
francesi. Un ufficiale, accorso alla loro chiamata, era venuto a far
rimuovere l’abbattuta che chiudeva il passaggio. A Montecàla, lungo
la strada che metteva alla gola di Plodio, un reggimento aveva preso
le armi e si era posto in ordinanza. I tamburi suonavano; la bandiera
tricolore sventolava sulla fronte del reggimento; i soldati francesi,
al comando dato da un generale, e tosto ripetuto con voce tonante dal
colonnello e da tutti gli ufficiali delle compagnie, presentarono le
armi.

Fu un momento assai triste per noi, ma solenne, quando ci toccò di
traversare la fronte dell’esercito francese, schierato lungo la via
da Montecàla al Marghero. Procedevano in capo alla colonna il vecchio
generale Provera e il capitano Tibaldè; seguivano le compagnie di
Monferrato, della Marina e di Susa; venivano ultimi i Croati, povera
gente, che il capriccio di un imperatore mandava così lontani da casa,
a combattere in una guerra di cui non intendevano le ragioni e non
potevano sentire gli entusiasmi, ma in cui, nondimeno, facevano prova
di rara intrepidezza e di costanza ammirabile.

Noi tutti, saldi e impettiti, come se avessimo voluto irrigidirci
contro i colpi del destino, passavamo coi fucili diritti, a grinta
dura, guardando i nostri nemici in quel modo che sapete. E loro, i
vecchi soldati di Loano e di Montenotte, coi fucili sporgenti, che
parevano formare davanti a noi una siepe d’acciaio, ci guardavano
fissamente, tra curiosi e commossi. Molti avevano i luccioloni sugli
occhi; quasi tutti, da principio a voce bassa, poi a mano a mano più
arditi, ci salutavano con parole amichevoli.

— _Vous êtes des braves, piémontais, vous êtes des braves! Allez, vous
nous avez donné du fil à retordre._ —

Capisco che era una consolazione per il nostro amor proprio, essere
accolti così. Ma, perdio, anche l’esser soccorsi e il poterci aprire la
via con le baionette spianate, ci avrebbero dato un gusto matto!

Noi pensavamo in quel punto, e con un profondo rammarico, alle nostre
povere compagnie, che avevano fatto così eroicamente il loro dovere, e
frattanto, per colpa del general Colli, dovevano andar prigioniere di
guerra. Sta bene che l’Augereau ci aveva detto quella mattina: «vincano
i vostri capi una battaglia, facciano dei prigionieri, e i difensori di
Cosseria saranno cambiati con altrettanti dei nostri». Ma a giudicarne
dal modo in cui procedevano le cose, altro che fare dei prigionieri!
Noi già vedevamo l’esercito francese sulla via di Torino.

È stato detto e consegnato in qualche storia che i difensori di
Cosseria furono traditi dal comando dell’esercito nemico e mandati
prigioni in Francia, ad onta delle fatte convenzioni. Tutto ciò è
stato ripetuto in buona fede da chi non aveva letto il documento e
solamente sapeva che ai nostri granatieri fu concesso l’onore delle
armi. I francesi non hanno tradito nessuno; essi quel che promisero
mantennero. Non è colpa della Francia se i generali austriaci regalati
al Piemonte non seppero ottenerci un sorriso della fortuna e neppur
tanti prigionieri da fare il cambio coi nostri valorosi compagni.

Giunti al Marghero, davanti alla stretta di Plodio, fummo condotti
in un campo, dove i soldati deposero le armi, che non dovevano più
toccare. Erano armi onorate, e le abbandonammo con le lagrime agli
occhi. Alla presenza del generale Augereau, furono letti i nomi dei
sott’ufficiali sorteggiati, i quali uscirono tosto dalle ordinanze.
Eravamo in nove, come vi ho detto; ma il francese fu generoso, e
concesse le armi e la libertà ad altri cinque sott’ufficiali croati,
affinchè le due compagnie austriache, il cui effettivo era pari a
quello delle sei piemontesi, avessero anche un numero pari di liberati.

Abbracciammo i nostri sventurati commilitoni che restavano prigionieri
di guerra, e che frattanto, più felici di noi, odoravano già il fumo
delle pentole, poste al fuoco in onor loro nel vicino fossato; quindi
ci avviammo verso Plodio, dove il generale Augereau ci diede una
compagnia di scorta, per condurci al borgo di Carcare.

Era laggiù, come vi ho detto, il quartier generale del comandante in
capo, del vincitore di Montenotte, che soltanto da due giorni aveva un
nome nel mondo. Ricorderete la sua frase, orgogliosa ma giusta: «la mia
dinastia incomincia da Montenotte». Noi dunque dovevamo veder l’uomo al
principio della sua gloria.

Carcare, antico borgo aleramico, che è come dire dei marchesi Del
Carretto, era passato insieme col Finale in balìa degli Spagnuoli, e
poscia dei Genovesi. Piantato sulle due rive della Bormida, in luogo
aperto e ridente, a cui dà luce ed aria la depressione del vicino colle
di Cadibona, ha un aspetto singolare, mezzo ligure e mezzo piemontese,
ligure per la forma e l’intonaco delle case, la più parte colorite ed
ornate; piemontese per i tetti ricoperti di tegole. Luogo di passaggio,
per il commercio che si fa continuamente tra la spiaggia del mare e
le Langhe, possedeva già allora un gran numero di osterie, che noi
per altro non avemmo tempo nè voglia di visitare. Cosicchè io, uno dei
difensori di Cosseria, me ne andrò nel mondo di là senza aver bevuto,
nè in quel paesello montuoso, nè a Carcare, un bicchiere del vino di
Cosseria, che tutti, in quelle convalli del nostro Appennino, decantano
per molto gustoso, quantunque aspretto, e passante a quel dio.

Amici, beviamo questo, che è di Gattinara, se la scritta non mente.
Ricordo, per averlo letto in seconda retorica, che Teucro, fuggendo
da Salamina, prendesse terra alla prima spiaggia, per metter mano
all’anfora amica, e fare suppergiù un discorsetto ai compagni. — «O
forti, che avete sofferto tanti travagli con me, posiamo un istante e
affoghiamo i tristi pensieri in un bicchiere di vino; riprenderemo il
largo, domani.»

Noi, non domani, ma oggi, dobbiamo andare alla presenza di Napoleone,
cioè, non facciamo anacronismi, del «cittadino generale Buonaparte.» Il
nome di battesimo escì fuori nel 1802 quando nella Consulta di Lione
gli fu conferito il titolo di presidente della Repubblica italiana,
e sei mesi dopo, a Parigi, quello di primo console a vita della
Repubblica francese.

Avanti, dunque; dalla valletta di Plodio si sbocca in quella più vasta
della Bormida. Carcare è laggiù, alla svolta del fiume, co’ suoi tetti
rossastri. Si passa rasente al collegio degli Scolopii e si entra
in una piazzetta triangolare, che ha un pozzo nel mezzo. Di fronte,
il lato maggiore del triangolo è formato da una casa signorile a due
piani, dipinta di giallo, con quadrature e fregi barocchi che imitano
il marmo. È la casa del signor Ferreri, e la bandiera tricolore,
che sventola sull’arco del portone, indica il quartier generale
dell’esercito repubblicano.




CAPITOLO XIII.

Ex ungue leonem.


Passammo, lungo la strada, in mezzo ad una moltitudine di francesi. I
soldati, sottosopra, sono gli stessi in tutti i paesi del mondo, cioè
un pochettino invasori; ma i francesi, non faccio per vantarmi, poichè
ho fatto parecchie campagne con loro, danno dei punti a tutti gli
altri. Entrati appena in un paese, vanno frugando di qua e di là, per
impadronirsi della posizione; un’ora dopo, hanno già fatto conoscenza
con tutti gli abitanti, vi sbucano dai portoni e dai vicoli, vi
appariscono dalle finestre e magari dai tetti; l’orto e il pollaio, la
cucina e il tinello non hanno più segreti per loro.

A Carcare, dov’erano da ventiquattr’ore, potevano già dirsi di
famiglia. Il borgo, del resto, essendo stato tanto tempo sotto il
dominio della Repubblica di Genova, non sentiva affatto di piemontese,
e, come tutte le terre di Liguria in quegli anni, parteggiava a
dirittura per l’esercito repubblicano, vessillifero delle idee liberali
che dovevano fare tanta strada anche nei dominii del vicino Piemonte.
Tutto intorno alla piazzetta i bottegai avevano messe fuori le sedie,
e ufficiali e soldati sedevano mescolati ai cittadini, chiacchierando
allegramente, comunicandosi le notizie del giorno, fraternizzando,
infine, per esprimervi la novità della cosa con la novità del vocabolo.

Il nostro arrivo, sul far della sera, destò una grande curiosità,
non già perchè una quarantina di prigionieri fossero bestie rare per
quel valoroso esercito a cui da parecchi giorni sorrideva la fortuna,
ma perchè tutti, uffiziali e sott’uffiziali, portavamo la spada al
fianco, e prigionieri che conservino le loro armi non sono in nessun
luogo prigionieri da dozzina. A buon conto, eravamo «quei di Cosseria,»
e le nostre grinte dure meritavano di essere guardate con una certa
curiosità, dopo due giorni di resistenza ad una intiera divisione, e
tante perdite inflitte al nemico.

— _Tiens! Les officiers de Cosseria!_ — esclamavano d’ogni parte
intorno a noi. — _Une poignée d’hommes avec qui il a fallu compter!
Voilà des braves!_ —

Dico _braves_ così per dire, ma veramente era un altro vocabolo più
energico, e molto più usato nel gergo militare francese, che indica
ad un tempo la fierezza, l’ostinazione e il valore, e nella sua stessa
volgarità rende più vivo, più scolpito l’elogio.

Meno male; questo avevamo guadagnato noi, resistendo. Giungemmo, così
salutati, davanti al portone della casa Ferreri, e l’uffiziale della
scorta si avvicinò alla sentinella.

— Il cittadino generale? — chiese egli.

— Non è ancora rientrato.

— Tarderà molto, che tu sappia?

— Non so. È partito stamane per Dego, dove per tutta la giornata ha
brontolato il cannone.

— Ah! diavolo! — esclamò l’uffiziale. — E che notizie si hanno?

— Le hanno portate un’ora fa, e sono eccellenti. Vittoria su tutta la
linea. _L’Autrichien en a eu pour son argent, et même au delà._

— _Bon!_ — disse l’ufficiale, che subito dopo si rivolse a noi, per
farci entrare nel vestibolo.

Lo seguimmo taciturni e ci schierammo ad un suo cenno contro la parete.
Quelle notizie di Dego, raccolte a volo, ci avevano profondamente
addolorati. Il generale Beaulieu sconfitto! Sconfitto come l’Argentau!
Erano i due austriaci con nome francese. E il Colli, quell’altro
austriaco con nome italiano, se ne era rimasto inoperoso sulle alture
di Montezemolo!

— Signori, — ci disse l’ufficiale francese, — mi duole che dobbiate
aspettare. Ma il generale in capo non può tardar molto, oramai.

— Si è trattenuto a San Donato; — aggiunse un aiutante di campo, che
era giunto allora allora.

— Hanno trasportato dei feriti nella chiesa, ed egli ha voluto vederli;
ma fra pochi minuti sarà qui.

— Tanto meglio; — riprese l’ufficiale che ci aveva condotti. — Io
volevo domandarvi, signori, se avevate appetito, per farvi portare
almeno un po’ di pane e un po’ di formaggio; il cibo della pazienza,
— soggiunse egli, sorridendo, — a cui siamo stati condannati per due
giorni anche noi. Ma anche per trovare questa roba ci vuole il suo
tempo, in mezzo a tanta confusione, e il generale Bonaparte arriverà
molto prima del nostro fornitore.

— Non c’è premura; aspetteremo; — rispose filosoficamente il conte
Provera. — Noi non sappiamo neanche più di avere uno stomaco. —

Frattanto, nel vestibolo e su per le scale si erano accesi i lampioni;
e noi ci vedevamo assai gialli, a quel lume.

— L’hai tu, uno stomaco? — bisbigliò il cavalier Corte, voltandosi a me
che gli stavo dietro, con le spalle appoggiate al muro.

— Signor capitano, non so; ma sento di avere una testa, perchè mi gira
maledettamente. —

In quella che noi ci ricambiavamo i nostri pensieri a bassa voce, si
udì uno scalpitìo di cavalli sul selciato. L’ufficiale di scorta si
avanzò sulla soglia del portone e tese lo sguardo verso tramontana.

— Dev’esser qua; — diss’egli. — C’è tutto lo stato maggiore.

— Vittoria! vittoria! — gridavano intanto i soldati, per via. — Evviva
il cittadino Bonaparte! Evviva il vincitore di Dego!

— Di Dego! — esclamai. — Hanno vinto anche là! Vinceranno dunque da per
tutto?

— Che farci? — mormorò il cavalier Corte, sospirando. — Sono i loro bei
giorni!

I cavalli si erano fermati sulla piazza. Noi udimmo tintinnire gli
sproni e battere sul lastrico le spade dei cavalieri che balzavano di
sella. Il vincitore di Dego era giunto; ancora un istante e lo avremmo
veduto anche noi.

Eravamo schierati, ed anche abbastanza pigiati, da una parte del
vestibolo; ma dovemmo stringerci dell’altro, per lasciare uno spazio
sufficiente al passaggio dei nuovi arrivati.

Entrò allora un uomo piccolo e scarno, che portava un mantello
grigio sull’uniforme verde cupa, e che mi parve, in quel suo modesto
abbigliamento, un aiutante del generale in capo. L’ufficiale di scorta
si avanzò, mettendo la mano al cappello, e gli presentò il generale
Provera; quindi, accennando la nostra schiera, soggiunse:

— Sono gli ufficiali e i sott’ufficiali della guarnigione di Cosseria,
che debbono, secondo la capitolazione d’oggi, essere rimandati in
Piemonte. —

Quell’uomo piccolo e scarno si fermò su due piedi e stette un istante a
guardarci; fece alcuni passi sulla nostra fronte; ritornò indietro con
un rapido movimento, e si piantò davanti a noi, ficcandoci addosso due
occhi neri, che luccicavano come diamanti, sotto le ciglia aggrondate;
poscia, con voce stridente da cui traspariva la collera, gridò:

— Ah, siete voi, i difensori di Cosseria? Di quella bicocca, che ci ha
dato da fare come una piazza forte? —

A quelle parole avevamo riconosciuto il generale in capo. Nessuno
fiatò; guardavamo tutti il vincitore di Montenotte, che, dopo una breve
pausa, soggiunse:

— Avete combattuto da barbari. Sì, da barbari; — replicò, notando lo
stupore che cagionava in noi quel biasimo inaspettato. — Non posso
congratularmi con voi di un valore che ha passata la misura. Cacciati
lassù, accerchiati, incalzati come la fiera nel covo, privi di ogni
soccorso e di ogni speranza, era inutile di resistere con tanta
ostinazione, di uccidermi i miei generali, di decimarmi il fiore
dell’esercito. —

Il capitano Tibaldè si muoveva già per rispondere a quella invettiva;
ma il vecchio Provera lo chetò con un gesto, e gli rispose egli in sua
vece:

— Signor generale, non intendiamo il rimprovero. Ci sostiene la
coscienza di aver fatto il nostro dovere. —

Il Buonaparte si rivolse a guardarlo, mentre egli parlava; poi fece
una spallucciata, come quella che avevo già visto fare al generale
Augereau, e con voce ancor burbera rispose:

— Il vostro dovere! Bella cosa, far sempre il proprio dovere! E avrete
fame, ora?

— Come si può averla dopo cinquanta ore di digiuno; — disse il generale
Provera.

— Ostinati! — brontolò il Buonaparte. — Venite a cena con me. La mensa,
vi avverto, sarà molto frugale. —

Ciò detto, si mosse per andare nel tinello, che era al pian terreno,
daccanto alla cucina. Gli ufficiali, che erano entrati con lui, si
tennero indietro, per lasciarci passare dopo il grand’uomo.

— Uhm! — mormorò il cavalier Corte. — Questo è come le pere bugiarde;
non bisogna fermarsi alla buccia. —

Entrammo nel tinello, dov’era la mensa imbandita. Sebbene la camera
fosse vasta, e la tavola proporzionata alla camera, non potevamo
averci posto tutti quanti, e la maggior parte dei sott’ufficiali
andarono a sedersi in una stanza vicina. Il generale Buonaparte si
pose in capo alla tavola e chiamò alla sua destra il conte Provera,
alla sua sinistra il cavaliere Tibaldè. Noi altri sedemmo in giro,
mescolatamente, come ci aveva distribuiti il caso. Avremmo voluto far
posto ai generali francesi; ma essi, quantunque pregati con insistenza,
ricusarono.

— Qualcheduno ha da servire in tavola, perbacco! — dicevano essi. —
Lasciateci l’onore di farvi da camerieri e di darvi da mangiare.

— Dopo avervi affamati, è il meno che possiamo fare; — aggiunse ridendo
il generale Augereau, diventato tutto fiori e baccelli con noi.

Così avvenne che i difensori di Cosseria, minacciati tante volte di
fucilazione, avessero per servitori a tavola, pronti a distribuire il
pane, a mescere il vino, a presentar le vivande, a levare i piatti, i
primi ufficiali dell’esercito nemico. I sopravvissuti di quei camerieri
improvvisati diventarono tutti marescialli di Francia.

E spinsero, quei valorosi, la loro cortesia a tal segno, da non fare il
menomo cenno della strepitosa vittoria che avevano riportato poche ore
prima nella stretta di Dego. La ragione di questo delicato riserbo la
intendemmo più tardi, quando sapemmo che i due reggimenti piemontesi
di Monferrato e della Marina, essendo stati mandati in sostegno al
generale Beaulieu, avevano preso parte a quella terribile giornata.
Poveri nostri compagni d’armi! Anch’essi, non ostante la loro bella
difesa, avevano dovuto arrendersi.

Ma non si può sempre tacere, in una comitiva di soldati, intorno
alle imprese che essi hanno compiute. Ad un certo punto, ne parlò
risolutamente il Provera, reputando necessario di congratularsi col
Buonaparte. Si era nemici; le vittorie sue erano nostre sconfitte; ma
all’ingegno e al valore bisognava render giustizia.

Il Buonaparte fu modesto, e attribuì l’esito della giornata alla sua
buona stella.

— Lasciatemi sperare, — diss’egli, — che essa mi assista ancora, perchè
le difficoltà sono molte, e noi non abbiamo fatto che la prima parte di
ciò che è necessario, per ottenere alla Repubblica francese una pace
onorevole con l’Austria e col re di Sardegna. A proposito di Dego, —
soggiunse il nostro ospite, volgendosi al cavalier Tibaldè, — a che
corpo appartenete voi, capitano?

— Al reggimento della Marina.

— Era dunque della Marina un valoroso ufficiale che trovai ferito
per via; — riprese il Buonaparte. — Ad onta delle ferite, ond’era
crivellato, serbava una calma meravigliosa. Non avevo mai veduto un
uomo più tranquillo, in mezzo a così acerbe sofferenze, e mi sono
fermato per attestargli il mio profondo rammarico.

— Che grado aveva, signor generale? — chiese allora il cavalier Tibaldè.

— Era capitano, come voi.

— Chi sarà, dei tanti? — disse il cavaliere Tibaldè, volgendosi al
collega Lomellini.

Ma un altro, accanto al capitano Lomellini, si mostrava profondamente
colpito da quella notizia, ed era il sottotenente cavaliere Birago.

— Cittadino generale, — cominciò egli, non potendo più stare alle
mosse, — permettete che io vi domandi qualche particolare, intorno a
questo ferito?

— Il cavaliere Carlo Birago, mio sottotenente; — entrò a dire il
capitano Tibaldè, parendogli necessario di far precedere a quel dialogo
due parole di presentazione.

— Domandate pure, — rispose affabilmente il Buonaparte. — Mi sembra già
di capire che siete in ansietà per qualche vostro congiunto.

— Sì, generale; ho due fratelli, capitani ambedue, uno nel reggimento
di Monferrato e l’altro nel reggimento della Marina. Era alto, di capel
bruno, il ferito?

— Se fosse alto non saprei dirvi, poichè lo vidi sdraiato a terra,
contro un ciglione di strada. I capegli erano bruni, di sicuro;
l’occhio scintillante, il naso aquilino.

— Ah, non c’è dubbio, è lui, mio fratello. E il suo stato è grave, voi
dite?

— Grave, sì, per il sangue che ha dovuto perdere da tante ferite.
Ma egli era in sensi, molto tranquillo, come vi ho detto, e mi ha
fatto maravigliare con la serenità delle sue risposte. Del resto,
cavalier Birago, — soggiunse il Buonaparte, con una grazia che finì
di soggiogare tutti i suoi ascoltatori, — andate voi a cercarlo. Un
mio aiutante di campo vi accompagnerà per tutti i luoghi dove abbiamo
feriti. Se voi lo trovate, come credo, e se egli è in caso di seguirvi,
come gli auguro, vi permetto di portarlo con voi in Piemonte, libero
alle medesime condizioni che sono state fatte a voi ed ai vostri
compagni.

— Grazie, generale! Voi permettete che io non indugi un minuto?

— V’intendo e vi approvo; — disse il Buonaparte. — Dessolles,
accompagnate il cavaliere, ve ne prego. Potete guardar prima nelle
chiese qui vicine, fino alla Madonna della Neve, dov’è più probabile
che siano stati portati i feriti di Dego. Se non è di qua, bisogna
andare nel borgo, sull’altra riva del fiume, dove abbiamo i feriti di
Cosseria. —

Quelle ultime parole del Buonaparte mi scossero. Approfittando della
confusione che cagionava l’escita del cavalier Birago e dell’aiutante
Dessolles, mi alzai e corsi anch’io nel vestibolo.

— Posso accompagnarla, signor cavaliere? — dissi al sottotenente Birago.

— Sì, vieni; — mi rispose.

Le strade erano buie e si camminava in mezzo a file d’uomini coricati,
che non avevano trovato ancora un ricovero al coperto. Il capitano
Dessolles ci condusse a visitare la chiesa degli Scolopii e quindi
la parrocchiale di San Giovanni. In nessuna delle due trovammo il
capitano Birago del reggimento Marina. Alla Madonna della Neve, che è
un dugento passi fuori dell’abitato, sulla strada di Cairo, trovammo
invece l’altro capitano Birago, del reggimento Monferrato, ma con
ferite piuttosto lievi, e ignaro affatto della sorte di suo fratello.
Il capitano Dessolles lo raccomandò vivamente alle cure del chirurgo,
e ritornò indietro con noi, per andare nel borgo, sull’altra riva del
fiume. Si era quasi certi di trovar là il ferito più grave, poichè il
chirurgo aveva detto che poco prima era passato per l’appunto un carro,
con parecchi feriti di Dego, che non aveva potuti scaricare, essendo
già piene tutte le chiese e tutte le scuderie della riva sinistra.

La sollecitudine fraterna del sottotenente Birago ci faceva correre
speditamente da un angolo all’altro del borgo. Andammo a far capo in
una scuderia di là dal ponte, presso la chiesa di Santa Rosalia, dove
ci avevano detto che fossero stati scaricati gli ultimi feriti di
Dego. E là veramente trovammo il capitano Birago del reggimento Marina,
con tre palle in corpo e due colpi di baionetta, steso sulla paglia,
vergine ancora di ogni soccorso e intieramente depredato.

Il capitano Dessolles mandò subito a chiamare un chirurgo. Venne quello
di Santa Rosalia, un bel giovanotto, chiamato Nougarède.

— Visitate subito questo ferito, che è particolarmente raccomandato dal
generale in capo. Il cittadino Bonaparte vuole che sia rimandato libero
in Piemonte, appena si possa trasportarlo senza pericolo.

— Non domani, nè doman l’altro, di sicuro; — rispose il chirurgo,
mentre stava esplorando le ferite. — Il capitano è un uomo forte, come
vedo, e pieno di coraggio, ma le ferite son cinque.

— E ne basta una per andare all’altro mondo; — aggiunse il ferito.

— Speriamo che non sia il caso, capitano; — disse il chirurgo. — Per
intanto, appena fatta la prima medicazione, vedremo di trasportarvi
nel nostro alloggio, dove il mio collega Durosier vi prodigherà le sue
cure.

— Non potete curarlo voi, Nougarède? — chiese allora il bravo Dessolles.

— Per ora sì, ma domattina debbo andare a Savona, con un convoglio
di feriti molto gravi. Bisogna sgomberar le chiese di Santa Rosalia e
di San Sebastiano, per far posto a tutti i nuovi clienti che ci avete
mandati da Dego.

— E ne avete da condur molti, a Savona? — domandai io al chirurgo.

— Sì, un centinaio, che allogheremo laggiù, nell’ospedale di San Paolo.

— Sono feriti di Cosseria?

— Per l’appunto.

— E, perdonate alla mia curiosità.... ci sarebbe tra quei feriti una
donna?

— La vivandiera?

— Sì, madamigella Adriana.

— Sapete anche il nome? E chi ha detto a voi, piemontese, che fosse
ferita?

— L’ho raccolta io per il primo, sotto i nostri trinceramenti, e l’ho
consegnata ai soldati del suo reggimento.

— Ah, bravo! — disse allora il Nougarède, stendendomi la mano. — Avete
compiuto un atto di umanità. Se volete vedere la vostra protetta,
venite domattina a San Sebastiano, verso le sei, che è l’ora della
partenza.

— Grazie; — risposi. — E va meglio, la poverina?

— Sì, abbastanza. Dorme molto. Il sonno è riparatore. —

Consolato da quella buona notizia, animato dalla speranza di rivedere
madamigella Adriana, seguitai al quartiere generale il capitano
Dessolles e il sottotenente Birago.

Quando fummo alla casa Ferreri, trovammo ancora il generale Buonaparte
in mezzo ai nostri compagni, sul punto di congedarsi da loro, non per
andare a riposo, ma per dettar l’ordine di marcia al suo esercito, che
sulle prime ore del mattino doveva levare il campo da Carcare.

Egli si mostrò lieto di sapere che il cavalier Birago avesse trovati
due fratelli ad un tempo; la qual cosa permetteva a lui, Buonaparte, di
rendere due servizi in una volta al vecchio marchese Birago di Vische.

— È una bella cosa per un padre, — diss’egli, — che tutti i suoi
figli capaci di portare le armi si siano trovati al fuoco nel medesimo
giorno, partecipando in egual modo all’onore e al pericolo. È una bella
cosa; — ripetè, con quella energia di accento che soleva mettere in
ogni discorso. — Quando le necessità della patria domandano i maggiori
sacrifizi, tutti debbono essere al loro posto, e le grandi famiglie si
onorano a dare di questi nobili esempi. Non conosco nelle aristocrazie
un ufficio più alto e più efficace di questo, se pure esse vogliono
conservarsi, dimostrare la loro utilità, in mezzo a tanta rovina di
vecchie istituzioni. Qui è veramente il caso di osservare che il vostro
Piemonte ha una aristocrazia vigorosa, intelligente, degna del posto
che occupa. La vorrei solamente più aperta a tutte le nuove glorie, a
tutti i nuovi ed eminenti servigi. Nella storia dei popoli che sentono
la loro gioventù e non hanno una tiepida fede nel futuro, ci dev’essere
sempre luogo per un capostipite. In questo, o signori, la vecchia
Inghilterra dà lezione all’Europa. Ognuno che accresca d’un fiorone
o d’una gemma la corona di Riccardo Cuor di Leone e di Elisabetta,
ha il suo posto naturalmente assegnato nel più alto consesso della
nazione. —

Noi ascoltavamo ammirati quel giovane soldato repubblicano, che rendeva
così nobilmente giustizia ad un governo nemico che egli aveva testè
combattuto in due grandi giornate, e che ragionava con tanta serenità
intorno ad istituzioni e consuetudini, di cui la Francia era in quei
giorni, o pareva, la negazione trionfante.

— Ma noi abbiamo conversato abbastanza; — riprese egli, dopo un
istante di pausa; — e i miei doveri di comandante in capo mi fanno
rinunziare al piacere d’intrattenermi ancora con voi, nobili difensori
di Cosseria. Il mio capo di stato maggiore darà gli ordini perchè i due
capitani Birago, appena si possa farlo senza danno della loro salute,
siano trasportati a Torino, dove saremo lieti di consegnarli alla loro
famiglia. Mi permetterete, — soggiunse egli, sorridendo, — di sperare
che ciò avverrà presto, e di fare ogni poter mio per mutare la speranza
in realtà.

— I soldati fanno il loro dovere, — rispose nobilmente il cavaliere
Tibaldè. — Iddio concede la vittoria a chi l’ha meritata. —

Il generale Buonaparte approvò le parole del nostro comandante con un
cenno benevolo.

— Mi duole, — aggiunse egli, — che dovrò cagionarvi un piccolo disagio.
Il mio esercito sarà domattina tutto in marcia per Ceva e Mondovì. Non
potrò dunque lasciarvi andare agli avamposti piemontesi senza qualche
precauzione, di cui, soldati come siete, non vorrete disconoscere la
suprema necessità.

— Occhi bendati, generale? — disse il conte Provera.

— Sì, e per molte ore; forse per più di un giorno, secondo i casi; —
replicò il Buonaparte, tentennando malinconicamente la testa. — Me ne
duole davvero, credete, ma non potrei operare altrimenti. —

Quelle parole del generale Buonaparte furono come un raggio di luce per
me.

— È dolente; — bisbigliai all’orecchio del cavalier Corte. — E se
noi gli offrissimo di passare da un’altra parte, per evitargli il
dispiacere?

— Da un’altra parte! — esclamò il cavalier Corte, stupito. — Avresti
tu, per caso, mutata la geografia del Piemonte?

— No, capitano, — risposi; — il Piemonte sta bene dov’è. Ma se noi
andassimo a Savona, e di là c’imbarcassimo per Genova, donde ci
sarebbe facile di restituirci a casa per la via di Alessandria, si
guadagnerebbero due punti in uno: non si andrebbe con la benda agli
occhi, che è tanto incomoda, e si farebbe un piacere al generale
Buonaparte.

— Perbacco, hai ragione! — esclamò il capitano.

E senza por tempo in mezzo, si accostò al cavalier Tibaldè, per
riferirgli la proposta.

— È una trovata del sergente diplomatico; — gli aggiunse il bravo
cavalier Corte, che mi amava molto e coglieva volentieri le occasioni
di farmi figurare.

Il cavalier Tibaldè approvò il disegno e lo espose subito al generale
Buonaparte, che del resto aveva già udita la conversazione dei due
capitani.

— Per far piacere a me, — diss’egli allora, — voi rinunziate ad un
vostro diritto e andate a cercare la vostra libertà per un tragitto
molto più lungo e fastidioso.

— Generale, — riprese il nostro comandante, — non dobbiamo noi
corrispondere in qualche modo a tante vostre cortesie? Poichè uno
dei nostri ha avuto una buona idea, permettete che ci affrettiamo a
cogliere l’occasione di farvi cosa grata, risparmiandovi una piccola
noia.

— Eh, non tanto piccola! — esclamò il generale Buonaparte. — Voi sapete
come siano gelose certe faccende, e in particolar modo il segreto
delle marce. Io dunque accetto la vostra offerta, e ve ne ringrazio
vivamente. Il mio capo di stato maggiore preparerà subito i passaporti
per il vostro tragitto fino a Genova. —

Ciò detto, si mosse per ritirarsi nelle sue stanze. Ma, nel passare
in mezzo a noi, volle conoscer tutti per nome. Quando toccò a me di
essergli presentato, il generale Augereau aggiunse ridendo queste note
caratteristiche:

— _Ancien seminariste! Il y a de l’étoffe._

— Ah! — disse il Buonaparte, volgendosi a me. — Eri destinato alla vita
ecclesiastica?

— No, cittadino generale; — risposi. — Facevo solamente i miei studi
classici, ma avevo tutt’altra vocazione.

— Quella del soldato, non è vero? È la condizione dell’uomo libero;
sarà presto quella di tutti gli italiani. Perchè ti chiamano il
sergente diplomatico? —

Ero impacciato e non sapevo che cosa rispondere; ma il generale
Augereau fu pronto a darmi una mano.

— È un calligrafo eccellente; — rispose egli per me. — Ha scritto sotto
la nostra dettatura il protocollo della resa di Cosseria e si può dire
che abbia fatto della diplomazia sul tamburo. —

Il generale Buonaparte si degnò di sorridere a quella spiegazione delle
mie qualità diplomatiche.

— Ah, se non ci fosse altra diplomazia che questa! — esclamò egli,
muovendosi per uscire. — Sarebbe una diplomazia da valere tant’oro.
Sbrigativa, sbrigativa vuol essere. —

E se ne andò, ripetendo ancora un paio di volte quel gustoso aggettivo.

Fu questo il mio primo incontro col grand’uomo, il cui genio portentoso
ha scosso tutti gli uomini della mia generazione, la cui immagine
ci è rimasta viva nella mente, e il cui ricordo ci strappa ancora le
lagrime.

Io non so se vedo il Buonaparte d’allora con gli occhi stessi che
videro poi Napoleone imperatore dei Francesi e re d’Italia. Forse,
rispetto a ciò, nell’animo mio si è fatto un pochino di confusione.
E tuttavia mi sembra di potervi assicurare che il generale Buonaparte
ci appariva già un miracolo d’uomo. Montenotte e Dego, due strepitose
vittorie in due giorni, erano presenti al nostro spirito profondamente
turbato, e il nome di fulmine di guerra, che lo dipingeva con tanta
evidenza, era già in tutte le menti, prima di essere su tutte le
labbra. Notate che nulla, nel suo aspetto esteriore, annunziava il
grand’uomo, se non forse la modestia somma del vestire, in mezzo a
tanto sfarzo di mostreggiature, di sciarpe, di colletti arrovesciati
e di penne, per cui si distinguevano i suoi generali, e che la sua
personcina grama non ispirava certamente quella vaga curiosità, quel
desiderio di analisi, che ci fanno ritrovare qualche volta i segni
di un forte carattere e i presagi di una grandezza imminente sotto la
grigia velatura di una mediocrità che non ha speranze per sè medesima,
e non ne lascia concepire agli osservatori superficiali o distratti.
Quel profilo d’imperatore romano che tanti hanno veduto in lui, glielo
dovevano comporre più tardi, e neanche ben chiaro, ma vagante tra
Cesare ed Ottaviano, i pittori e gli scultori come l’Appiani e il
Canova. L’uso del potere supremo e gli agi della vita fastosa aiutarono
nel corso degli anni a favorire il concetto degli artisti. Per allora,
debbo confessarlo, il romano non c’era. Aveva le labbra e il naso
sottili, più che non si convenisse all’ampiezza e alla prominenza della
fronte, e gli zigomi sporgevano poco. Ma gli occhi, neri e vivi, con
quella loro mobilità fulminea, resi anche più vivi e più neri dalla
magrezza e dal pallore del viso, gli occhi, sicuro, promettevano Giulio
Cesare, Ottaviano Augusto, e quant’altri grand’uomini ha dato Roma alla
storia sua, alla storia del mondo.




CAPITOLO XIV.

Sulle orme di Adriana.


Come ci avrebbero invidiata i legittimisti di Francia la nostra
mattinata del 15 aprile 1796!

Già da oltre un’ora splendeva il sole sopra la valle della Bormida
e noi ci aggiravamo ancora, maledettamente seccati, intorno al pozzo
della piazzetta triangolare di Carcare, aspettando un passaporto che ci
era stato promesso per l’alba e che nessuno si degnava di rilasciarci.
Gli Austriaci, che speravano forse di non essere troppo lontani
dall’esercito del Beaulieu, si erano rassegnati alla benda sugli occhi,
e quella stessa mattina erano stati avviati per Acqui ed Alessandria.
Il capitano Tibaldè incominciava a credere che gli Austriaci fossero
stati più furbi di noi, ed anch’egli, se non fosse stato per la
proposta della sera innanzi, che lo vincolava davanti al generale
Buonaparte come una parola d’onore, avrebbe chiesto di poter mutare
il viaggio a Savona in una corsa a mosca cieca da Ceva a Mondovì. La
qual cosa, come potete immaginare, non conveniva punto a me, che quella
mattina sull’alba avevo veduto madamigella Adriana, ma non altrimenti
potuto parlarle. La vergine del reggimento era sempre assopita; lo era
almeno in quei pochi minuti che avevo rubati alla compagnia de’ miei
superiori per correre all’ospedale di San Sebastiano, e il chirurgo
continuava a fidar molto in quel sonno riparatore.

— Ho trovato una carriuola che pare fatta a bella posta per lei; — mi
disse il chirurgo Nougarède. — C’è molta paglia ed anche un materasso;
la povera ragazza non sentirà troppo le scosse e potrà anche dormire
dell’altro. —

Madamigella Adriana era dunque partita, e noi eravamo ancora a
Carcare. Quant’altro tempo ci saremmo rimasti? E prima di tutto, chi
doveva rilasciarci il passaporto? Aiutanti di campo ed ufficiali di
stato maggiore ne erano usciti parecchi, dal quartier generale; ma
nessuno sapeva niente, nessuno aveva ordini, nessuno voleva cercare
informazioni per noi. Avevano tutti da correre; saltavano in sella, e
via di galoppo, o dalla parte di Millesimo, o da quella di Cairo.

Dopo un’altra ora di quella aspettazione, perdemmo a dirittura la
pazienza e risolvemmo di andare dal generale in capo. Egli non doveva
essere uscito ancora dal suo quartierino; lo assicuravano quelli della
nostra comitiva che non si erano mossi dalla canna del pozzo, e che
nella piazzetta triangolare avevano perfino passata la notte.

— Perdio! — esclamò uno dei nostri ufficiali. — Non sarà mica un
recargli offesa, se andremo a chiedergli ciò che egli ci aveva promesso
e che nessuno si è curato di darci. —

Detto e fatto, ci avviammo su per le scale. La sentinella, che ci aveva
veduti ragionare con tanti ufficiali del quartier generale, non pose
ostacolo al nostro passaggio, e noi giungemmo al primo piano, dove il
general Buonaparte era alloggiato. Bussammo discretamente con le nocche
all’uscio socchiuso, e nessuno ci rispose, nessuno si mosse per venirci
a ricevere. Allora entrammo risolutamente, e da una anticamera vuota
passammo in un salotto che era deserto egualmente. Bussammo ad un altro
uscio, socchiuso anche quello, e, non avendo udito una voce per farci
andar oltre o restare, spalancammo la portiera e riuscimmo in un’altra
anticamera, dipinta a fregi ed ornati barocchi, con un grande camino
di pietra bigia da un lato, un nuovo uscio daccanto al camino, e due di
rincontro. Andammo a tastare quei due; mettevano a due ripiani di scale
interne, l’una verso il pianterreno, l’altra verso il piano superiore.
Non ci restava che di andare a quel terzo uscio, per cui si doveva
entrare in una camera da letto, dalla parte del giardino. Nuova bussata
e nuovo silenzio; pareva di essere in un palazzo incantato. Si prova
allora a girar la maniglia; l’uscio si apre senza rumore; siamo sul
limitare di una camera sontuosamente ornata, con quadri e specchi dalle
cornici di stucco dorato, che si girano in capricciose volute, aderenti
alla superficie dei muri. Spingiamo l’uscio, e vediamo il piede d’un
letto, col copertoio di seta verde a fiorami. C’è là qualcheduno che
dorme, e ne sentiamo il respiro misurato e monotono.

— È il generale Buonaparte; — disse il capitano Corte, che si era
affacciato nel vano; — ritiriamoci. —

Il vincitore di Montenotte e di Dego dormiva solitario in quella casa,
che per una strana combinazione era rimasta senza custodi. Ricordando
i molti e fieri nemici che aveva a suscitargli la sua immensa fortuna,
non posso trattenermi dal pensare che una così bella occasione di
coglierlo non si offerse mai più agli uomini della reazione, che
dovevano far capo, qualche anno più tardi, al tristo espediente della
macchina infernale e alla congiura del Drake.

Al rumore dei passi e delle voci, il dormente si scosse, si svegliò in
soprassalto, e, levandosi sul gomito, chiese ad alta voce:

— Chi è là? Dessolles?

— Scusate, cittadino generale, — disse allora il cavalier Corte, che
era rimasto il primo sull’uscio, — siamo noi, gli ufficiali piemontesi.

— Ah! E che cosa volete?

— Il passaporto che ci avete promesso, e che nessuno ci vuol
rilasciare. Ci mandano tutti da Erode a Pilato, e noi veniamo ad
appellarci direttamente da Cesare. —

Il cavalier Corte non sapeva in quel punto di parlar così bene e di
andare così diritto al cuore del generale repubblicano.

— Avete fatto benissimo, — rispose egli, ridendo. — Non capisco perchè
sia andato fuori anche il mio aiutante. Aspettate un momento; mi vesto.

— Fate il vostro comodo, cittadino generale; noi andremo ad aspettare
nel vestibolo.

— No, no, restate pur lì; — riprese egli, che era già sceso dal letto e
si vestiva in fretta. — È affare di due minuti.

Aspettammo, com’egli desiderava, felici di essere riesciti nel nostro
intento, senza averlo troppo disturbato.

I due minuti erano appena passati, che il generale Buonaparte, mezzo
vestito, comparve nell’anticamera.

— Buon giorno, cittadino generale! — gli disse il cavalier Tibaldè. —
Veramente ci rincresce di avervi dato noia a quest’ora...

— Che! che! Non importa. Il guaio è che mi sono coricato un po’ tardi,
e diciamo pure sull’alba. Dove sarà andato, quel diavolo del mio
aiutante? Ma basta, ecco qua la carta; è l’essenziale.

Così dicendo si era seduto alla tavola, che stava nel mezzo
dell’anticamera, e con la sua rapidità prodigiosa scriveva il nostro
passaporto. Mi pare di vederlo ancora, piantar la penna nel grosso
calamaio bianco di maiolica di Savona, che aveva un bel putto a
cavalcioni sul manico.

— Ecco fatto; — riprese, porgendo il foglio al capitano Tibaldè.
— Non era una gran fatica, in verità. Ma bisogna perdonare ai miei
ufficiali, che avevano troppi ordini da spedire. Del resto, — soggiunse
argutamente, — bisogna anche ricordare il proverbio italiano: chi
comanda e fa da sè, è servito come un re. —

Ho dimenticato di dirvi che il generale Buonaparte, con noi, parlava
sempre italiano. In fondo, era la sua lingua materna, e tutti sanno che
egli non lasciò passar mai le occasioni di parlarla.

Ringraziammo commossi, e prendemmo congedo dall’insigne capitano.

— Buon viaggio, signori; — diss’egli, accompagnandoci cortesemente fino
alla soglia; — e siate felici, in seno alle vostre famiglie.

Confusi dalla bontà del grand’uomo, che veramente possedeva il segreto
di conquistare gli animi con la gentilezza dei modi, come quello di
conquistare i regni col genio delle combinazioni militari, scendemmo
finalmente in istrada, e senza altri indugi ci avviammo verso la
collina, a mezzogiorno di Carcare. Mezz’ora dopo, eravamo al ponte
della Volta, presso Ferrania; un’altra mezz’ora più tardi, traversavamo
il borgo operoso di Altare, donde, guadagnata l’erta del vecchio
castello, riuscimmo al passo di Cadibona e alla vista della torre
quadrata che segnava il confine e portava dipinto lo stemma della
Repubblica genovese.

Di là s’incominciava a discendere, e lo spettacolo era meraviglioso
davvero, per l’ampia distesa dell’orizzonte, sul cui lontano confine
azzurreggiava il mare, e per la lieta ghirlanda dei paeselli, delle
rocche merlate e dei ceppi di case campestri, che biancheggiavano sul
colmo dei poggi, o lungo le falde boscose delle convalli, digradanti in
dolce pendìo fino alla verde spiaggia ligustica.

Alla giocondità dei luoghi facevano un doloroso riscontro lunghe
file di carri, che trasportavano sempre nuove compagnie di feriti a
Savona, incrociandosi con le artiglierie, i treni, le munizioni, le
proviande e i drappelli di soldati, che venivano in su, per raggiungere
l’esercito repubblicano. L’ingombro della strada non permetteva di
correre; nè gli ufficiali piemontesi avevano fretta al pari di me. Se
fossi stato solo, che corsa! Avrei forse raggiunto il carro su cui era
adagiata la bella Adriana, e che era partito dei primi da Carcare. Ma
noi andavamo tutti insieme, al passo ordinario, e rallentando anche
di più, dove la strettezza delle svolte rendeva meno facili i baratti
dei carri. Solamente dopo due ore di discesa giungemmo al borgo di
Lavagnola, donde, per una strada più larga, tutta fiancheggiata di
ville signorili, entrammo dal ponte dello Sbarro nella gentile Savona,
candida gemma incastonata fra i negri pini di Montecurlo e i flutti
azzurri del Tirreno.

L’arrivo di tanti soldati piemontesi liberi ed armati destò la
curiosità e la meraviglia di tutto il borgo che dovevamo traversare,
innanzi di giungere alle porte della vecchia città. Le mura di Savona,
già anguste ai tempi di Gabriello Chiabrera, erano ancora in piedi
al tempo mio; ma la città si stendeva fuor della cinta, sfogava il
soverchio della sua popolazione in due fitte contrade, una a ponente,
lungo la marina, che portava il nome di Borgo da basso, l’altra
a settentrione, verso l’Appennino, detta Borgo da alto, per cui
passavamo appunto noi altri. Ma non ne uscimmo subito, poichè, prima
di giungere al largo della Concezione, avevamo adocchiata la locanda
della Posta, che con la bella apparenza del fabbricato e la maestosa
grandezza dell’insegna ci prometteva un ristoro, di cui tutti sentivamo
il desiderio. La sera innanzi, al quartier generale dell’esercito
francese, si era piuttosto assaggiato il cibo, che mangiato per il
bisogno dello stomaco. Si ordinò dunque da pranzo, e, nel tempo che si
stava preparando ogni cosa, il capitano Tibaldè risolse di condurci,
secondo l’uso militare, a riverire il comandante della piazza.

Prendemmo lingua dal primo soldato francese in cui c’imbattemmo, e
questi ci condusse dalla porta di San Giovanni fino a mezza la via di
Fossavaria, dov’era alloggiato quell’uffiziale superiore; il quale ci
accolse benissimo, con le più grandi e sincere dimostrazioni di stima,
dolentissimo per altro di non poterci offrir nulla.

— Son qua da due giorni soltanto, — ci disse il comandante, — e a mala
pena insediato. Non posso far altro che mettermi a vostra disposizione,
per tutto il tempo che rimarrete in questa città.

— Grazie, signor comandante; — gli rispose il capitano Tibaldé. — Non
ci occorre altro che un imbarco, e noi vi saremo gratissimi, se con la
vostra autorità ci aiuterete a trovarlo. —

Si mandò subito al porto, e si trovò una feluca, che era disposta a far
vela in quel giorno, per trasportarci a Genova. Il bravo comandante la
fissò tosto per noi e ci ottenne un nolo conveniente allo stato delle
nostre povere borse. Preso congedo da lui e detto al padrone della
feluca che ci saremmo imbarcati prima di sera, ritornammo alla locanda,
dove il pranzo ci aspettava. Io frattanto avevo preso lingua per conto
mio, ed avevo anche veduto, a poca distanza dal palazzo del comandante,
la via dell’ospedale di San Paolo.

Il desiderio di fare una corsa fin là era grande nell’animo mio. Per
veder subito Adriana, avrei rinunziato anche al pranzo. Ma il capitano
Corte, a cui mi ero aperto, non approvò quella fretta.

— Vieni a ristorarti; — mi disse. — Avrai tempo a ritornare, mentre
noi faremo quattro chiacchiere bevendo l’ultimo bicchiere. Anche la tua
Clorinda, arrivata da poco, avrà bisogno di riposo.

Quell’ultima ragione finì di convincermi, e perciò seguitai la
comitiva. Il pranzo era allestito e ci sedemmo subito a tavola. Si
mangiò con molto appetito e si bevve a proporzione. Ma io, appena
vidi le frutta, chiesi licenza al mio capitano e mi alzai per andare a
San Paolo. Giunto all’uscio, dovetti fermarmi. L’androne era pieno di
gente, che si affollava per entrare.

— Che cosa vorranno questi importuni? — pensai, mentre mi tiravo da
banda per lasciare il passo libero.

Due o tre che venivano primi avevano la sciarpa tricolore intorno
alla vita. Seguivano parecchie guardie di città; il restante erano
camerieri, sguatteri e ragazzaglia curiosa.

— I rappresentanti del popolo; — disse un cameriere, annunziando quella
visita inaspettata.

— Vengano; — rispose il capitano Tibaldè, levandosi in piedi. — Che
cosa comandano? —

Gli uomini della sciarpa tricolore si erano inoltrati nel mezzo della
sala. Uno di essi, che era il capo, cominciò in questa forma:

— Cittadini uffiziali.... —

Il capitano Tibaldè lo interruppe.

— Dica signori uffiziali, perchè siamo sudditi e soldati di Sua Maestà
il re di Sardegna, e questo suo cerimoniale non è fatto per noi.

— Tutti sono cittadini, oramai; — rispose quell’altro, parlando
italiano con uno spiccato accento piemontese; — anche voi, del resto,
siete debitori della vostra libertà all’esercito della rivoluzione,
che ha cambiato tante cose, e tante altre ne cambierà nei felicissimi
Stati.

— Signor cittadino rappresentante, — replicò il capitano Tibaldè, —
l’avverto che noi siamo debitori della nostra libertà a due giorni
di risoluta difesa e ad una onorata capitolazione. Ma non è di queste
cose che dobbiamo disputare con lei. Ci dica piuttosto in che possiamo
servirla. —

Io avrei potuto escire, in quel momento, poichè i nuovi venuti
occupavano il mezzo della sala, e il passo era libero; ma una giusta
curiosità mi tratteneva presso i miei superiori e compagni d’armi, così
improvvisamente disturbati nella prima ora di riposo.

— Dovremmo chiedere prima di tutto se hanno le loro carte in regola; —
rispondeva frattanto il rappresentante del popolo, seguitando a parlar
l’italiano con uno spiccato accento piemontese, e mostrando uno strano
accanimento contro un manipolo dei suoi concittadini onorati.

— Abbiamo presentato testè il nostro passaporto al comandante francese;
— disse il capitano Tibaldè. — Possiamo mostrarlo anche a lei e alle
persone che l’accompagnano. Eccolo qua; — soggiunse, spiegando il
foglio sotto gli occhi dei tre inquisitori; — come vedono, è scritto
dal generale Buonaparte, e tutto di suo pugno.

— È in regola, sì; — replicò il primo rappresentante, che parlava per
tutti. — Ma noi abbiamo altri doveri, che un semplice passaporto non
può farci dimenticare.

— E sarebbero?... — chiese il capitano Tibaldè.

— Ecco, — rispose il rappresentante, mettendosi sul grave e volgendo
uno sguardo baldanzoso sulla nostra brigata, — noi dobbiamo investigare
se tra loro, in apparenza uffiziali piemontesi, non ci fosse per
caso qualche emigrato francese. È chiaro, — soggiunse con arroganza
il molesto personaggio, — che se un emigrato francese si nascondesse
tra loro, nessuna capitolazione di guerra, fatta soltanto per soldati
piemontesi, potrebbe sottrarlo alla legge repubblicana, e nessun
passaporto coprirlo. —

La legge contro gli emigrati, che doveva essere abrogata qualche anno
più tardi dal Buonaparte diventato primo Console, era molto severa, e
nessuno di noi la ignorava. Essendo la città di Savona sotto il dominio
delle armi francesi, quella legge malaugurata poteva essere applicata
anche a Savona, e un emigrato francese, dato il caso che fosse tra
noi, in uniforme di uffiziale piemontese, esser condotto davanti ad una
commissione militare, giudicato sommariamente e passato per le armi.

Ora, davanti alla quistione posta con tanta asseveranza dal
rappresentante del popolo, era naturale di chiedere se ci fossero
emigrati francesi tra noi. A tutta prima mi era sembrato di no;
ma pensandoci meglio, mi ero ricordato del cavalier Buonadonna,
luogotenente della mia compagnia. Il cavalier Buonadonna non era
piemontese, ma côrso, e perciò soggetto alla legge francese. Da
parecchi anni aveva preso servizio in Piemonte, ma non tutti avevano
dimenticata la sua nazionalità, ed era anche possibile che il
cittadino rappresentante del popolo, piemontese egli stesso, lo avesse
riconosciuto per via, mentre andavamo ad ossequiare il comandante della
piazza.

Diavolo d’un rappresentante! Ci voleva proprio lui, per venire a
scovare nella nostra comitiva un povero côrso, che era sfuggito
all’occhio d’aquila del generale Buonaparte! Dio sa quanto fiele
antico, qual lievito di rancori ignoti, fermentasse nel cuore del
nostro concittadino e nemico! Non si odia mai tanto bene come tra
fratelli, pur troppo; e quell’astioso rappresentante era capace di
tutto. A quei tempi ancora, nella repubblica francese, i circoli e
le congreghe patriotiche comandavano agli eserciti; nè il comandante
di piazza, che si era mostrato tanto cortese con noi, avrebbe potuto
salvare il cavalier Buonadonna, se il cittadino rappresentate del
popolo gli avesse domandato solennemente di far rispettare contro di
lui le leggi della Repubblica.




CAPITOLO XV.

All’arme bianca.


Ritto in piedi e con le spalle appoggiate al muro, stavo guardando il
cavalier Buonadonna, mentre il così detto rappresentante del popolo
aspettava una risposta alla sua intimazione. Il mio luogotenente era
fermo al suo posto e in apparenza tranquillo, ma di sicuro aveva detto
qualche cosa sottovoce al suo vicino di destra, poichè questi, che
era il conte Giovanni Olignani, luogotenente nella prima compagnia dei
granatieri di Susa, saltò su a rispondere per tutti.

Ah, signor conte Olignani, come vi avrei abbracciato volentieri, in
quel punto! E come son dolente di non ricordar più oggi il riverito
nome di quel rappresentante da strapazzo, nel quale voi riconosceste
uno dei più rabbiosi gridatori delle vie di Torino! Anche la capitale
del Piemonte, in quegli anni difficili, aveva avuti i suoi tribuni, e
fra i tribuni, fra gli amici caldi e sinceri della libertà, a cui fin
d’allora si poteva far di cappello, non mancava mica la roba di scarto.
Ma basta, mettiamo, per i bisogni del dialogo, che il personaggio si
chiamasse Tiravia. Il conte Olignani, prendendo a rispondere per tutta
la brigata, lo apostrofò in questa guisa:

— Cittadino Tiravia, siamo venuti a fare il chiasso fino a Savona? E
appoggiati alle baionette francesi, non è vero? —

Il rappresentante si volse stizzito al conte Olignani, che egli non
conosceva, e da cui si vedeva in quella vece così ben conosciuto.

— Che c’entrate voi? — ribattè. — Risponda chi deve alla nostra
domanda. Ci sono tra voi, o non ci sono, emigrati francesi? Il resto
non importa, e alle sciocche impertinenze degli ufficialetti del re di
Sardegna oppongo il più alto disprezzo. —

Il conte Olignani, già poco paziente per natura, non ci vide più lume.

— Ah, tu disprezzi? — gridò, afferrando il primo arnese che gli venne
alle mani. — Ah, tu disprezzi, buffone? Prendi qua, e ripuliscimi il
piatto. —

Così dicendo, gli scaraventò quel disco di maiolica con tutta la forza
del suo braccio, moltiplicata da quella del suo sdegno. Il piatto,
descritta velocemente la sua curva, andò a rompersi proprio sul grugno
del rappresentante.

Il dado era tratto; non si poteva più dare indietro, nè parlamentare.
Tanto meglio, del resto, perchè io non so veramente che cosa si sarebbe
potuto rispondere, per salvar la testa del cavalier Buonadonna. Il
ferito si disponeva a ribattere, spalleggiato dai suoi. Allora ci
affrettammo tutti a prender le parti del conte Olignani. Il nostro
parco era ben fornito di proietti. Volarono i piatti, da prima;
seguitarono le posate, poi le bottiglie e i bicchieri. Sarebbe volato
anche il trionfo di tavola, grazioso gruppo di maiolica savonese che
raffigurava il ratto di Proserpina, se il nemico, oppresso da quella
grandine fitta, non avesse abbandonato il campo di battaglia, fuggendo
in disordine per le scale. Qualche altro po’ di cocci che scagliammo
dalle finestre, persuase gl’importuni cercatori d’emigrati ad
allontanarsi in fretta anche dai pressi della locanda.

Felici della nostra vittoria, riprendemmo posto a tavola, chiedendo
altre bottiglie ed altri bicchieri. Non eravamo ricchi, davvero, ma
avevamo ancor tanto da pagare i danni di quel tafferuglio improvviso, e
bevemmo, senza darci pensiero delle conseguenze di una avventura, che
si poteva credere burlesca. Infine, non avevamo risposto nulla, che
ci potesse compromettere, alla domanda del cittadino rappresentante.
Il cavalier Buonadonna, evidentemente, non era stato riconosciuto;
altrimenti, il cittadino Tiravia, così invelenito contro di noi, non
avrebbe tralasciato di nominarlo. Si doveva credere in quella vece
che il nostro avversario, genericamente informato della presenza di
emigrati francesi nell’esercito del re di Sardegna, volesse col suo
zelo inquisitorio farsi un merito presso gli uomini della rivoluzione,
ma senza essere ben certo di fare una presa tra noi. E noi, dopo tutto,
mettendo mano ai proietti, non avevamo già inteso di rispondere con
vie di fatto ad una intimazione legale, ma solamente di respingere e di
castigare una plateale insolenza. Non si potevano chiamare ufficialetti
i difensori di Cosseria, senza esporsi ad uno scoppio naturalissimo
del più giusto risentimento; ed ogni giudice imparziale doveva darci
ragione, primo fra tutti il comandante di piazza.

Il guaio, pur troppo, era questo, che io non potevo più muovermi di là,
per correre all’ospedale di San Paolo. A tutta prima, non ascoltando
che la voce del cuore, avevo chiesto licenza di escire; ma il cavalier
Corte non durò fatica a dimostrarmi il pericolo grandissimo di andare
da solo per via, in uniforme di soldato piemontese, dopo ciò che era
avvenuto, e più la vergogna che sarebbe toccata a tutti loro, se mi
fosse torto un capello. Ed era molto probabile che, se io cascavo nelle
unghie di certa gente, mi si torcesse anche dell’altro.

— Caro mio, abbi pazienza; — conchiuse il capitano. — Bisogna escire
tutti insieme, dalla locanda, e vedere il comandante di piazza, che ha
una faccia da galantuomo. Poi, se sarà il caso di poter dare una scorsa
all’ospedale, vedremo di appagare i voti del tuo tenero cuore.

— Ella ride, signor capitano; — risposi — Ma io....

— No, non rido; — riprese il cavalier Corte; — chiamo le cose col
loro nome. Amare è una cosa naturalissima; innamorarsi in mezzo alle
schioppettate è strano, ma non a dirittura impossibile. Credo perfino
che sia il modo di innamorarsi davvero. Dorare a fuoco, sigillare a
fuoco, non sono i modi riconosciuti, per rendere queste operazioni
più salde? Eccoti dunque innamorato a fuoco, mio povero sergente! Ed
ecco un messaggero che porterà notizie interessanti, anche per la tua
impresa amatoria. —

Le ultime parole del cavalier Corte erano ispirate dall’apparizione
di un soldato francese alla porta d’ingresso. Era un’ordinanza del
comandante di piazza, e portava una lettera di lui al capitano Tibaldè.

Prese questi il foglio, lo aperse in fretta e vi diede una scorsa con
gli occhi; poi lesse ad alta voce lo scritto.

Il degno comandante ci si mostrava abbastanza informato delle
accoglienze toccate ai rappresentanti del popolo, ed anche delle
parole insolenti che ci avevano fatto dare nei lumi. Soggiungeva la
notizia, veramente poco piacevole, che il cittadino Tiravia percorreva
la città, raccontando la cosa a modo suo, per metterci in mala vista,
e spingeva quanto più poteva di gente alla Marina, dov’era il luogo
d’imbarco, per aizzarla contro di noi. Disgraziatamente, il comandante
di piazza non aveva una forza militare da opporgli; raccomandava ai
cittadini assennati di concertarsi, d’intromettersi, di scongiurare
il tumulto; frattanto, egli aveva fatto il proposito di unirsi a noi,
risoluto di correre la nostra medesima sorte, per attestare in tal
guisa che l’esercito francese non aveva preso parte in quella selvaggia
imboscata. Conchiudeva, pregando il capitano Tibaldè d’indicargli l’ora
della nostra partenza e di attenderlo per quell’ora all’albergo.

In verità, non si poteva procedere più nobilmente, e il capitano
Tibaldè, commosso al pari di tutti noi, rispose subito a quel leale
soldato che i piemontesi erano pronti fin d’allora a’ suoi ordini.
L’ordinanza francese accettò un bicchiere del nostro vino, prese il
viglietto del nostro comandante, e partì.

Non era più il caso di rimanere a tavola, ma di fare i nostri
preparativi di partenza. Pagato lo scotto al locandiere, e la giunta
dei danni arrecati al suo vasellame, ci restò appena tanto da pagare
il nolo al padrone della feluca. A me, poi, non restava neanche più
un ritaglio di tempo, per correre a San Paolo e dare un addio alla
bella Adriana. Povero amor mio, sigillato a fuoco! Bisognava escir
tutti insieme dalla locanda, andar serrati in colonna attraverso le
vie della città, in mezzo ad un popolo ostile, ad una plebe aizzata
contro di noi, fors’anche metter mano alle armi, e darne e buscarne,
prima di raggiungere la calata del porto. Ero tutto stizzito, avevo
un diavolo per occhio. Se fossi stato io il comandante, prima di
andare al luogo d’imbarco, si sarebbe fatta una conversione a destra,
fino a San Paolo, anche a risico di farci tagliare a pezzi sull’uscio
dell’ospedale. Tanto, non c’era il pericolo di andarci egualmente, per
farci rammendare gli strappi?

Mentre stavamo per infilar le tracolle e per mettere i cinturoni
al fianco, secondo i nostri gradi rispettivi, venne il comandante
francese, e fu accolto da noi con tutto il rispetto di cui era degno.
Il capitano Tibaldè voleva raccontargli l’accaduto e dimostrargli come
noi, irritati dalla strana pretesa del cittadino rappresentante, e
provocati dalle sue impertinenze, meritassimo davvero quella protezione
che il valoroso soldato di Francia era venuto così nobilmente ad
offrirci.

— So tutto; — diss’egli, senza lasciarlo parlare; — un galantuomo,
che per ragione d’ufficio aveva dovuto trovarsi nella comitiva del
cittadino Tiravia, mi ha riferito ogni cosa. Ad un passaporto del
generale Buonaparte e ad una capitolazione come la vostra, si ardisce
di fare delle restrizioni? Ma io avrei voluto che foste tutti emigrati
francesi, scambio di essere ufficiali del Piemonte. Che ci hanno da
veder loro, in queste faccende? Il generale in capo dell’esercito
d’Italia rappresenta qui il governo della Repubblica; dove egli dice
«lasciate passare», a noi non resta che di presentare le armi. E poi,
le insolenze non si sopportano, che diavolo! Avete fatto, bene; io, nel
caso vostro, non mi sarei diportato altrimenti. Dunque, eccomi qua.
Non ho forze disponibili per proteggere il vostro imbarco. L’ultimo
battaglione che era in città l’ho avviato ieri a Cadibona. Qui non
è rimasto che il numero d’uomini necessario per ricevere i feriti e
provvedere alle sussistenze. Bella condizione, per un comandante di
piazza, non è vero? Ma niente paura; si va egualmente alla marina e vi
si mette a bordo. Un soldato francese è sempre abbastanza provveduto,
quando ha la spada per compagnia e l’onore per guida. —

Parole stupende, e che non erano quelle di un millantatore! Il degno
uffiziale sostenne le sue nobili promesse coi fatti.

— Siamo ai vostri ordini, comandante; — disse allora il capitano
Tibaldè.

— Andiamo, dunque; — ripigliò prontamente il francese. — Ho già mandato
avviso al padrone del legno di tenersi pronto a partire. —

In fondo alla scala il capitano Tibaldè si volse a noi, per farci
un’utile raccomandazione.

— Amici miei, non facciamo bravate, vi prego. Andiamo tranquilli
e modesti, come pacifici borghesi a passeggio. Ci guardino pure in
cagnesco; purchè non c’impediscano il cammino, noi dobbiamo andare
per i fatti nostri, senza voltarci di qua o di là a raccogliere le
ingiurie, a restituire le provocazioni. Siamo intesi?

— Non dubiti, capitano! — rispondemmo. — Sarà obbedito qui, come in
piazza d’armi.

— E come a Cosseria; — soggiunse egli, tentennando malinconicamente la
testa, al fresco e doloroso ricordo di una nobile sventura.

Esciti sulla strada, incontrammo un gran numero di cittadini al largo
della Concezione. Ma erano curiosi e non mostravano intenzioni ostili.
Quasi tutti salutarono con molta urbanità il comandante francese, che
procedeva a capo della nostra colonna.

Così uniti, e rispettati da tutti, ci avviammo alla porta di San
Giovanni. A que’ tempi non era ancora scavata nel fianco grigio di
Monticello la breve galleria che mette oggi speditamente dal Fosso alla
Marina; e noi, per giungere al luogo d’imbarco, dovevamo attraversare
la città.

Sotto l’arco della porta era una sentinella francese, che presentò le
armi. Otto o dieci soldati di diversi corpi venivano incontro a noi;
e, dopo averci fatto ala come tutti gli altri curiosi, ritornavano
sui loro passi, in apparenza per seguitar la corrente, nel fatto
poi per custodirci le spalle. Il comandante, pover’uomo, non aveva
sotto la mano tanto di forze da comporre un drappello di scorta; ma
si era affrettato a far correre la voce nell’ospedale, nel deposito
delle sussistenze e dovunque fossero soldati suoi, che avrebbe vedute
volentieri le uniformi francesi per le vie, nell’ora in cui dovevano
passare i difensori di Cosseria, avviati al luogo d’imbarco.

I soldati avevano capito a volo; a taluni era giunto anche all’orecchio
qualche cenno del tafferuglio avvenuto alla locanda della Posta. Perciò
accorrevano tutti alla spicciolata, stavano a vederci passare e si
collocavano tosto alla coda del cortèo, segnando il passo, come fanno
i ragazzi dietro ai concerti militari, e senza aver l’aria di venire in
nostro sostegno.

Per altro, anche quella incominciava a parermi una precauzione inutile
del comandante di piazza. Lungo la strada di San Domenico molta gente
si affacciava sugli usci delle botteghe, per vederci passare, ma non
c’era alcun segno di fermento nel popolo. All’angolo dell’Annunziata,
dove io mandai un’occhiata ed un sospiro verso l’ospedale di San Paolo,
stavano in fila quindici o venti cittadini, che non mostravano affatto
intenzioni ostili a noi, e che anzi salutarono cortesemente il bravo
ufficiale francese. Nella Fossavaria, lunga e stretta contrada, tutta
fiancheggiata di bei palazzi antichi, che avrebbero guadagnato un tanto
ad essere cinque metri più indietro, la popolazione si vedeva pigiata
nel vano degli usci, sulle soglie delle botteghe, ai davanzali delle
finestre, in atto di guardare, ma senza alcuna voglia di gridare contro
di noi. Quella era, insomma, la gentil Savona, la colta e garbata città
che voi conoscete, e «del ligustico mar gemma seconda» come l’hanno
chiamata pochi anni fa in un sonetto, stampato, se non m’inganno, per
l’inaugurazione della sua civica biblioteca.

— Guardate che disdetta! — andavo borbottando tra i denti. — Se non
erano le paure di questo comandante, potevo andare a San Paolo ed esser
già di ritorno. Addio, bella Adriana! —

A San Francesco, nobile quadrivio della vecchia Savona, fummo salutati
da un gran numero di persone civili, che si mossero volonterose e
fecero schiera con noi. Così rinforzati scendemmo verso la piazza
Colombo, o della Canapa, come più comunemente si dice, che ha da un
lato il palazzo della Dogana e nel fondo la calata del porto, con la
sua selva di antenne.

Laggiù c’era calca di popolo minuto; di laggiù venivano voci minacciose.

— Ci siamo! — disse il capitano Corte, voltandosi a noi, che
chiudevamo la marcia. — Amici stringete il passo, e andiamo in colonna
serrata. —

Al nostro apparire sul largo della calata, crebbero le grida e
incominciò a volare qualche sasso. Ci fermammo, vedendo fermarsi il
comandante di piazza. Ma questi, facendo una conversione a destra che
noi non dovevamo seguitare, andò risolutamente incontro ai rivoltosi.

— Cittadini! — gridò egli severo. — Lasciate passare i soldati
piemontesi. Essi hanno fatto bravamente e lealmente il loro dovere;
fino a tanto che non siano restituiti alle loro case, sono affidati
alla guardia della Repubblica francese. —

La moltitudine si era fermata, non comprendendo bene la lingua del
comandante di piazza, ma intendendo benissimo che egli non amava punto
la sassaiuola.

Uno, per altro, non la intendeva così, ed era per l’appunto quegli che
aveva condotto laggiù tanta gente, incitandola contro di noi. Al viso
enfiato e ancora sanguinante dalla rottura del piatto che gli aveva
scagliato il conte Olignani, riconoscemmo il cittadino Tiravia.

Anch’egli si fece avanti baldanzoso, e così ribattè le nobili parole
del comandante di piazza:

— La Repubblica francese non protegge gli emigrati, e non si lascia
insultare dai loro amici. Essa protegge i buoni patrioti e dà loro
facoltà di vendicare gli oltraggi ricevuti.

— Che discorso è questo? — replicò il comandante inasprito. — Chi parla
in nome della repubblica francese? Essa, per il momento, in Savona, è
rappresentata da me. Vi comando di rispettarla.

— Noi vi rispettiamo, cittadino comandante; — rispose quell’altro.
— Vogliamo dare una lezione agli ufficialetti del Piemonte, agli
aristocratici, ai degni puntelli della tirannide. Voi non avete
sofferto, come noi, delle loro angherie.

— Come voi e più di voi ha sofferto la Francia, e si è lealmente
vendicata; — disse il comandante. — Lasciate a lei la cura di far
giustizia anche in Italia. E per ora, indietro! —

Così dicendo, il comandante si volse a noi, per invitarci a seguirlo
sulla calata. Ma le grida della moltitudine ripigliarono allora più
forti, volarono i sassi da capo, e qualcheduno dei gentili cittadini
che ci accompagnavano ne fu sconciamente ferito.

Avremmo sopportato, se non si fosse trattato che di noi; ma non
volevamo che un atto di umanità costasse la vita a tante brave persone.
Perciò, vedendo che quei furiosi si serravano addosso alla nostra
piccola schiera, tentando di romperla a di prenderla in mezzo, mettemmo
mano alle sciabole, alle baionette, e caricammo all’arma bianca, come
avremmo fatto un’ultima volta a Cosseria, se ancora fossimo stati
lassù, e non al punto d’imbarco.

La moltitudine, che il cittadino Tiravia ci aveva aizzato contro, era
quasi tutta di ragazzi. E questi, com’erano i primi ad attaccare, così
furono i primi a dare indietro, a fuggire, rovesciandosi sulle ultime
file e trascinandole nella loro medesima fuga. Contento di quella
dimostrazione, e vedendo il cittadino Tiravia che fuggiva più presto
degli altri, il comandante di piazza collocò tra noi e quella gente i
soldati francesi che ci avevano seguitati, e ci condusse speditamente
alla feluca, il cui capo di banda, molto basso, si appoggiava alla
calata e poteva essere facilmente scavalcato.

Quella operazione durò forse un minuto. La folla se ne avvide, mentre
si stava riordinando più lungi, e volle ritornare all’assalto.

I cortesi cittadini, che ci avevano accompagnati fin là, si
erano intromessi, e con le loro esortazioni tentavano di calmare
quell’energumeno Tiravia. Ma, egli che oramai non temeva più una
seconda carica all’arme bianca, respinse ogni mite consiglio, e la
folla incitata da lui alla riscossa, rovesciò quelle brave persone che
cercavano di frenarla, soverchiò i pochi soldati francesi che avevano
fatto argine ad una certa distanza dal punto d’imbarco, e venne ad
assaltarci più inferocita che mai.

La feluca di padron Cabotto aveva sciolto il provese. I marinai
poggiarono forte coi remi contro gli orli della calata, e quella spinta
gagliarda bastò perchè il nostro legno, che era leggerissimo e pescava
assai poco, si allontanasse di lancio una diecina di metri.

Il cittadino Tiravia doveva appiccare la sua voglia all’arpione. La
moltitudine inviperita seguitava a vociare, a mostrarci i pugni, a
scagliarci improperii e sassate. Ma la gran vela latina incominciava a
prendere il vento e secondava il lavoro dei remi lunghi, usati a gran
forza da quattro marinai, per condurre il legno sulla imboccatura del
porto. I furibondi non potevano nulla contro di noi, e il comandante di
piazza, ritto ed impavido sul ciglio della Marinella, ci salutava con
la mano, augurandoci il buon viaggio.

Tutto ad un tratto vedemmo un lampeggio sulla riva, e cinque o sei
palle fischiarono in aria. Erano i meglio armati della folla, che
scaricavano contro di noi le loro pistole. Ma essi avevano mirato
troppo alto, e i loro colpi non ci cagionarono maggior male delle loro
imprecazioni.

Avanti la feluca! Avevamo oltrepassata la gran torre del porto, e
salutata la bella immagine del Tempo, dipinta a buon fresco sotto
la sua merlatura. Pochi minuti dopo eravamo in vista di Albissola,
e, serrando il vento, che spirava piuttosto gagliardo da tramontana,
andammo a forza di vele sotto il capo di Celle.




CAPITOLO XVI.

Piccola Odissea.


Padron Cabotto, armatore e comandante della feluca su cui avevamo
preso imbarco, era un vecchio lupo di mare, che da cinquant’anni
almeno batteva la costa. Qualche volta si spingeva da levante
fino a Viareggio, qualche altra da ponente fino a San Remo, ma
per solito andava a Genova, carico di terraglie savonesi, o di
pentole d’Albissola. Faceva insomma il piccolo cabotaggio, ignorando
probabilmente la relazione etimologica che esisteva tra il suo nome e
l’ufficio, ignorando sopra tutto di appartenere ad una stirpe di famosi
navigatori, che l’Inghilterra e la Francia si attribuivano a gara.

Vecchio ed amico delle vecchie istituzioni, che non gli avevano mai
proibito di navigare con ogni vento, nè di apprender voti o regalar
libbre di cera a Santa Lucia, patrona del suo legno e guardiana del
porto di Savona, padron Cabotto non poteva veder di buon occhio i
furibondi che ci avevano data la caccia, e li chiamava liberamente
mascalzoni, non risparmiando al rappresentante del popolo il nome di
affamato, ma soggiungendo o premettendo sempre la formola rispettosa:
«con loro buona licenza.» Ne ridevamo, noi altri, ignorando dal canto
nostro che quel titolo di affamato lo regalavano allora gli abitanti
della marina ai loro vicini e consanguinei d’oltre Appennino; donde la
necessità di chiederci scusa, ogni volta che gli veniva in taglio di
applicare il solito dispregiativo al cittadino Tiravia.

Gentilissimo con noi, padron Cabotto ci offerse di assaggiare il
cappone di galera, strana vivanda di biscotto inzuppato con olio ed
aceto, a cui si mescolavano capperi, acciughe ed olive in salamoia. Era
il piatto dei marinai, che s’alternava allora con lo stoccafisso nei
due pasti quotidiani di bordo, e a noi parve detestabile senz’altro,
forse perchè gli mancava il condimento della fame di Cosseria, e noi
eravamo caldi caldi di un buon pranzo alla locanda della Posta.

Il qual pranzo.... Ahimè, come debbo io esprimermi, per farvi intendere
tutti gli affanni e le angosce che ci costò prima di sera? Tranne il
cavalier Buonadonna, isolano di Corsica, eravamo tutti piemontesi,
cioè nati dentro terra, e quelle onde verdastre che non istavano mai
ferme, se ci avevano rallegrati da principio come una graziosa novità,
riuscivano poi ad intronarci la testa e da ultimo a rivoltarci lo
stomaco. Aggiungete che con quel battere continuo dei marosi contro il
fianco del naviglio non potevamo tenerci ritti in coperta, e che quando
eravamo sdraiati ci pareva di tornar bambini in fasce e di essere
cullati dalla balia.

Io, come permettevano le fisiche sofferenze, mi rifacevo spesso alle
sofferenze morali, e pensavo alla bella Adriana. L’avevo perduta,
irremissibilmente perduta, e dopo aver tanto lavorato, con arte
sopraffina, per ravvicinarmi a lei! Perchè, veramente, quell’alzata
d’ingegno del viaggio a Savona era stata mia, e tanta scaltrezza e
tanta fortuna, senza giovare a me, erano tornate a danno di tutti.
Avevamo corso il rischio di farci accoppare per le vie di Savona, e là,
su quel mobile elemento, sostenevamo una nuova battaglia, di cui doveva
soffrire il nostro stomaco, ma più ancora il nostro orgoglio militare,
davanti ai quattro marinai della feluca, i quali andavano da poppa a
prora e tornavano da prora a poppa, dondolandosi sulle gambe inarcate e
non perdendo mai il loro centro di gravità.

Adriana! Adriana! La _Santa Lucia_, girato il capo di Celle e
oltrepassata la spiaggia di Verazze, costeggiava le balze rocciose
e biancastre d’Invrea. Non si vedeva più, come prima, nereggiare da
ponente la fortezza di Savona, e a me, sparito appena dall’orizzonte il
profilo di quel vecchio castello, pareva di essere spiccato per sempre
dalla donna dei miei pensieri, di affondarmi nelle regioni iperboree,
di andare agli antipodi, in un mondo senza luce, senza calore,
senz’aria.

Frattanto, alla tramontana fresca rispondeva un vento gagliardo di
mezzogiorno, contrasto non raro nel golfo ligustico: e il mare, di
agitato che era sul capo di Albissola, diventava furioso davanti alla
costa rocciosa d’Invrea. Vedevo il mare per la prima volta, e quei
flutti mobilissimi, del color dell’acciaio, coronati di creste bianche,
mi parevano animati, tanta era la rabbia con cui muovevano l’uno contro
l’altro, tanto l’accanimento con cui si azzuffavano, rompendosi nel
cozzo e distruggendosi a vicenda. E quei marosi enormi, che andavano
impetuosi a frangere nelle scogliere del lido, levando in alto le
candide spume, come facevano parer piccoli i nostri sdegni umani
davanti a quelli del mare! Il matematico vede le forze motrici in atto,
le masse moltiplicate per le velocità, calcola le resistenze, trova gli
angoli, le curve, e tante altre diavolerie di quella fatta, con cui si
sciolgono tutti i problemi della dinamica; il modesto osservatore non
vede che gl’impeti, e immagina le guerre dei flutti, le collere di un
popolo di mostri. Un soldato di Cosseria, davanti a quei cavalloni che
d’ogni banda incalzavano su noi con le fauci aperte e spumanti, doveva
pensare che fosse meglio aver da respingere un quarto assalto di tutta
la divisione Augereau.

— Perchè non cerchiamo di tirarci più in fuori? — chiese il cavalier
Corte a padron Cabotto. — Ho sempre sentito dire che al largo si naviga
meglio.

— Eh, signor capitano! — rispose il vecchio lupo di mare. — Non dico
veramente di no ma ci vorrebbe un altro legno, e sopra tutto un altro
timone. Qui, sotto alla costa, abbiamo il mezzogiorno, che ci dà noia;
più al largo avremmo anche la tramontana, che si farà più gagliarda
quanto più andremo verso notte. Piacerebbe a lei di barattare l’approdo
di Genova con un naufragio a capo Corso?

— No, davvero; — disse il mio capitano; — preferisco l’approdo a
Genova, poichè voi ce lo promettete.

— Quanto a promettere, lasciamola lì, — replicò padron Cabotto. — In
terra, alle nostre gambe comandiamo noi soli; in mare comandiamo noi,
comanda il vento, e comanda qualche volta il timone, quando non vuole
obbedire. —

Il mio capitano, che durava già molta fatica a discorrere, come
a tenersi ritto, non ribattè parola, e padron Cabotto, che doveva
stare attento alla barra, non aggiunse più altro alle sue profonde
considerazioni.

Eravamo giunti in vista di Cogoleto, che è una delle sette patrie di
Cristoforo Colombo. Di là da Cogoleto ci aspettava la gola del Leirone,
con un refolo diabolico, che fece scricchiolare l’antenna e piegar la
feluca sul fianco.

— Padron Cabotto! — disse il cavalier Corte, dopo essersi aggrappato
ad una caviglia del capo di banda. — Se non si può andare in alto,
stringiamoci alla terra. A questi giuochi d’equilibrio non si regge.

— Un po’ di pazienza! — rispose quell’altro. — Val meglio fare un po’
di ginnastica qui, che andare a rompere nei frangenti della costa.
Vedrà, del resto, che sotto il promontorio di Arenzano il vento ci darà
un po’ di respiro. —

Così avvenne di fatti. Passato il Leirone, e venuti a ridosso della
pineta di Arenzano, il legno si raddrizzò; poscia, serrando il vento di
mezzogiorno, corse in una sola bordata fino alla spiaggia di Voltri. Ma
laggiù doveva essere un altro guaio; per lungo tratto di mare, davanti
a noi, non si vedeva che spuma.

— Diavolo! — esclamò il mio povero capitano, levando gli occhi dal capo
di banda.

— Quella è peggio del diavolo; — rispose padron Cabotto, — è la suocera.

— Come sarebbe a dire?

— Sicuro, la suocera che litiga con la nuora. Qui la discordia è come
in casa sua. —

Il cavalier Corte ed io non intendemmo che a mezzo il linguaggio
figurato del vecchio marinaio. Solamente più tardi io dovevo sapere
che i liguri chiamano Suocera la Cerusa, torrente e valle omonima,
a ponente di Voltri. Ma fin d’allora, mentre la _Santa Lucia_ era
costretta a passare in mezzo a quel diavoletto, capii che il nome
volgare di Suocera non poteva esser meglio applicato.

Del resto, Suocera più, Suocera meno, ogni gola di quei monti ci
mandava la sua ràffica, e fra mezzogiorno e tramontana si faceva un
ballo continuo. Nelle acque di Voltri bisognava prendere il largo, per
andare con due o tre sapienti bordate ad infilare la bocca del porto
di Genova. Ma il contrasto dei venti era più forte che mai; padron
Cabotto, fermo alla barra, batteva le labbra e scuoteva ad ogni tanto
la testa.

— Boridda, — diss’egli finalmente, rivolgendosi ad un vecchio marinaio
che vigilava alla scotta, — non vorrei mica pagare il pedaggio al gatto
mammone!

— Eh, padron Cabotto! — rispose quell’altro, con accento malinconico e
calmo. — Questa è la volta che si bacia! —

Per intendere questa celia vernacola, non basta sapere che il gatto
mammone è una grossa scimmia; bisogna ricordare che _Gatto maimone_ si
chiamò volgarmente, nel Medio Evo, un feroce corsaro, forse Gaid el
Memun, saraceno di Spagna, che diede gran noia ai genovesi sul mare.
L’assonanza del nome mutò facilmente l’uomo in bestia; la fantasia
popolare, dopo che ebbe compiuto il prodigio, diede alla bestia un
alloggio conveniente al passo della Lanterna, e finse che per entrare
in Genova bisognasse pagare al _Gatto maimone_ un pedaggio; curioso
pedaggio, che levava ai fanciulli di Liguria la voglia di andare
alla metropoli, poichè si diceva loro che, prima di entrare in città,
dovessero baciare quella brutta bestia; e non sulle gote, pur troppo.

Ora che avete inteso la mia spiegazione, sentite quella di padron
Cabotto. Il vecchio lupo di mare (bisogna sempre dir così, quando si
parla di un marinaio) si volse al capitano Tibaldè, che stava seduto a
piè dell’albero, in mezzo ad un crocchio di ufficiali, e gli disse:

— Signor comandante, per guadagnare il porto di Genova, sarà necessario
prendere una bordata in fuori. Ma, a dir le cose come stanno, con
questa mareggiata, io non rispondo di nulla.

— Che pericolo ci vedete? — chiese il capitano Tibaldè.

— Eh, per dire le cose come stanno, ce ne vedo parecchi; quello, per
esempio, di lasciarci la tela, e l’altro più grave, di farci spezzare
la barra del timone. E allora come si governa? L’uomo in terra, il
timone in mare, e Dio da per tutto. Ora, se il timone ci manca e
Dio non ci assiste, mi par già di vedere questa povera feluca nella
scogliera della Lanterna.

— Diamine! E che cosa proporreste di fare?

— Di agguantar Pegli, signor comandante; — rispose padron Cabotto. — A
Pegli c’è buona spiaggia, e noi portando la _Santa Lucia_ un miglio più
sotto, avremo anche meno contrasto di mare. Vede quel fortino laggiù,
sulla destra del paese? Girato quello, si mette la prora in terra e il
mare stesso ci porta. Che gliene pare?

— Fate quel che credete meglio; — disse il capitano Tibaldè. — Voi ne
sapete più di noi. Mi rincresce soltanto di non poter andare a Genova.

— Capisco, ma come si fa? Per girar la punta della Lanterna, con questo
tempaccio, e mettendo che ci riesca, ci vorranno due ore, fors’anche
tre. Da Pegli, per la via di terra, in un’ora di marcia, si può
arrivare in città, e senza pericolo.

— Vada per Pegli; — disse il capitano Tibaldè, con grande consolazione
di tutti noi, che avevamo lo stomaco affranto e la testa intronata dal
mal di mare.

Padron Cabotto non se lo fece dire due volte, e affrettò a dare i
comandi per quel cambiamento di rotta. Tirato un bordo in alto, verso
il Deserto di Sestri, la _Santa Lucia_ girò sul fianco verso sinistra,
mettendo la prora tra il fortino di Pegli e la foce della Varenna.

La povera feluca ballò per un pezzo il trescone sui flutti; finalmente
arrivò in acque meno sconvolte, ed entrata a ridosso del fortino, potè
gittare il provese ai pescatori che si erano affollati sulla spiaggia.

— Avete fatto bene a prender terra; — dicevano tutti. — Questa notte
vuol essere una tempesta da romper le ossa a più d’uno. —

Non era facile afferrare la spiaggia, con quelle ondate lunghe che
coglievano la poppa del naviglio, facendolo girare di qua e di là, e
allontanando ad ogni tratto il burchiello che i pescatori avevano messo
in acqua per noi. L’operazione del trasbordo fu lunga e pericolosa
parecchio, non essendo noi avvezzi a sostenerci in aria con le funi,
mentre il mobile appoggio di uno schifo si sottraeva al nostro piede,
proprio sul punto che eravamo per raggiungerlo. Come Dio volle, in
un’ora di stenti, e dopo qualche tuffo a mezza vita nell’acqua, ci
ritrovammo tutti sul lido, ma stanchi, rifiniti, più morti che vivi,
così debole era in noi la volontà e così fioco il pensiero. Altro che
andare a Genova! Era notte, del resto, e bisognava pensare a trovarci
un ricovero.

— Povera gente! — dicevano i pescatori. — Dove alloggiarli? Hanno
bisogno di confortarsi lo stomaco e di passare la notte al caldo.

— Al convento dei Cappuccini! — propose uno di loro. — Non c’è che il
convento dei Cappuccini, che possa avere alloggio per tutti. —

Guidati da quei bravi Pegliesi, ci trascinammo al convento dei
Cappuccini. Udito il caso e riconosciuto facilmente il nostro bisogno,
quei frati ci accolsero con molta amorevolezza, ci condussero a
riscaldarci presso una buona fiammata e ci prepararono un’ottima
zuppa. Eravamo in venerdì e non poteva esser zuppa di brodo; ma a
stomachi vuotati dal mal di mare e sorpresi dal freddo di quella serata
tempestosa, non poteva apparir differenza tra la zuppa e il pancotto.
Un bicchier di vino e sei ore di sonno sulla paglia finirono di
restaurarci.

La mattina seguente, ci parve di esser tutt’altri da quelli della
sera innanzi. Fatto quel po’ di pulizia che potevamo lassù, mangiato
un tozzo di pane e bevuto un bicchier d’acqua, ringraziammo quei
buoni Cappuccini e ci rimettemmo in viaggio. Passavamo per luoghi
amenissimi, in mezzo a ville sontuose, che ci davano una prima idea
della grandezza genovese. Multedo, Sestri, il Deserto, Corneliano, che
pezzi di paradiso! Ma noi si correva come cani frustati; quelle delizie
non erano per noi, poveri viandanti stranieri, che dovevamo recarci a
Genova, per prendere la via del Piemonte, e pensavamo con angoscia ai
pochi soldi rimasti nelle nostre tasche, insufficienti a farci vivere
per mezza giornata.

Ma infine eravamo giovani; la fortuna non aveva l’obbligo di aiutarci?
A Corneliano, proprio sull’estremo confine del paese, ci fermammo
qualche minuto ad ammirare un gran palazzo giallo, il più grande
che avessimo veduto mai, dopo il palazzo Reale di Torino. Un vecchio
signore, che faceva la sua passeggiata mattutina nel piazzale, ci vide
e si accostò al cancello per chiedere chi fossimo e se egli potesse
servirci in qualche cosa.

Rispose per tutti noi il capitano Tibaldè. E lì, di discorso in
discorso, il vecchio signore, che già aveva fatto aprire il cancello e
ci aveva invitati ad entrare nella sua villa, venne a riconoscere nel
nostro comandante il figlio d’un gentiluomo piemontese, da lui molto
conosciuto a Torino.

— Molto belle ore ho passato in compagnia del conte di Rolasco; —
diss’egli. — Quando sarete di ritorno a Torino, signor cavaliere,
vogliate salutarlo a nome del marchese Durazzo. Per intanto, non sarà
detto mai che tanti valorosi uomini siano passati davanti a casa mia,
senza onorarla di una loro visita. —

E ci tirò dentro, con quel suo garbo signorile, e ci fece passare due
ore bellissime. Noi ammirammo la sua villa principesca, che si stendeva
per lunghi viali, fiancheggiati di querci, fino alla riva del mare e
alla sponda destra della Polcevera; visitammo nel sontuoso palazzo una
ricca biblioteca e una strana collezione di animali; da ultimo sedemmo
alla tavola imbandita per noi, rendendo piena giustizia alla cucina, ed
anche alla cantina dell’egregio marchese.

Le oneste accoglienze di casa Durazzo ci tornarono di buon augurio.
Dice un vecchio proverbio che chi ride in venerdì piange in domenica.
Noi, il venerdì, avevamo passato una cattivissima giornata. Il sabato
incominciava bene; la domenica doveva esser magnifica.

Il degno gentiluomo volle ad ogni costo farci accompagnare a Genova da
uno de’ suoi camerieri, per agevolarci l’entrata e servirci in ogni
nostro bisogno. Sarebbe venuto egli stesso, se ragioni di famiglia
non lo avessero trattenuto laggiù. Preso congedo da lui, ci avviammo
per il bellissimo ponte della Polcevera, che quattro anni più tardi
doveva acquistare una fama europea dalla capitolazione del generale
Massena, e dopo un’altra passeggiata in mezzo ad alti cancelli di ville
patrizie e di palazzi monumentali, giungemmo al passo della Lanterna,
che la Serenissima Repubblica genovese non aveva mai voluto allargare,
e che offriva allora l’aspetto di una viottola campestre. Forse i
reggitori di Genova erano stati consigliati a ciò dalle ragioni della
difesa militare, forse da quelle, non meno forti in anime liguri, del
rispetto alle consuetudini antiche. E certamente le une e le altre
concorrevano a produrre un effetto stupendo. Accessibile a stento per
quella viottola, che in tempo di guerra poteva essere facilmente difesa
e magari anche colmata, la città dominante di Liguria, coperta dalla
balza rocciosa di San Benigno e dal balzo della Lanterna, appariva
inespugnabile per i mezzi d’attacco di quei tempi. Inoltre, varcata
quella stretta, senza pagare il favoloso pedaggio al gatto mammone,
riuscivate alla porta vecchia della Lanterna, donde vi si parava
davanti agli occhi la scena meravigliosa della grande città, disposta
ad anfiteatro sulle colline, intorno allo specchio azzurro del suo
porto, protetta da una vastissima cerchia di mura e di forti, e chiusa
a levante dalla lunga collina d’Albaro.

La regina del Tirreno ci accolse con la cortesia tranquilla e maestosa
che è sempre stata nelle sue consuetudini. I patrizi, poco amici dei
re di Sardegna, che già qualche volta avevano tentato d’impadronirsi
della vecchia repubblica oligarchica, ma niente affatto persuasi della
libertà francese, che ancora sapeva di sangue e d’anarchia, vedevano
volontieri i difensori di Cosseria, che avevano saputo resistere
per due giorni al vincitore di Montenotte. Il popolo, già in parte
guadagnato dalle nuove idee, ma sempre costante negli usi del vecchio
reggimento, non poteva venir meno alla sua fama di schietta cordialità.
I genovesi hanno il far largo, come tutti quelli che son nati signori.
Mi si dice che qualche volta amino beccarsi tra loro, e, se la cosa
e vera, si può dire che proseguono le tradizioni della loro medesima
storia, e non copiano niente da nessuno. Ma è certo altresì che coi
forastieri sono molto buoni e nobilmente liberali, secondo il vecchio
costume. Non parlerò dei signori, di coloro che potevano usarci
cortesia senza sforzo, e che diffatti ci furono larghi di generose
profferte; dirò invece dei modesti abitanti di Prè, del Molo vecchio e
d’altri quartieri popolari, ove tutti c’invitavano a gara, e volevano
sempre condurci a bere, senza lasciarci metter mano alla tasca. È anche
vero che nelle nostre borse noi avevamo frugato invano, e che presto ci
avvezzammo a non fare neanche l’atto di cercare i quattrini. Ricordo
che in una via stretta e popolosa, tra il piano di Sant’Andrea e la
piazza di Sant’Agostino, mi ero fermato a guardare certe melarance
di Sicilia, molto appariscenti e tali da far venire l’acquolina
alla bocca. La fruttaiuola, giovine bella e cortese, rivolgendomi il
discorso in italiano, mi offerse di scegliere nel suo canestro, e non
fu contenta finchè non mi vide accettare almeno una coppia d’arance, le
più vistose e le più colorite del colmo. Non chiesi il suo nome, per
mandarle almeno un ringraziamento; non seppi più nulla di lei; ma ne
ho sempre conservata una dolce memoria nell’anima. Se ci rivedremo un
giorno nelle isole Esperidi, le dimostrerò tutta la mia gratitudine e
fors’anche le potrò rendere la pariglia, spiccando per lei dall’albero
più gelosamente custodito la ciocca più colorita e più fitta.

Ma io andrei troppo per le lunghe, se dovessi qui raccontarvi
partitamente ogni atto cortese di quei nobili genovesi. Alcuni egregi
cittadini, saputo che noi eravamo affatto sprovveduti di danaro,
e che per mero impulso di gentilezza verso il generale Buonaparte
avevamo proposto di restituirci in Piemonte per la via di Liguria, ci
offersero ragguardevoli somme. Il capitano Tibaldè non volle accettare
che il danaro strettamente necessario per il nostro viaggio da Genova
a Torino, una quarantina di doppie, se non erro, che furono subito
spartite fra tutti noi, e che il buon cavaliere Tibaldè e il conte
Olignani s’impegnarono a restituire, a mala pena fossimo rimpatriati.
Ma qui, per non averlo a dimenticare nel corso del racconto,
soggiungerò che quella somma non ebbero a restituirla i due generosi
ufficiali. Il re di Sardegna, saputa la cosa, si affrettò egli stesso
a far rimborsare puntualmente il gentil genovese che l’aveva fornita,
non senza aggiungere alla restituzione la testimonianza della sua
gratitudine particolare.

Tre giorni dopo, eravamo a Torino. E là, consegnato al comando militare
il protocollo della capitolazione di Cosseria, avemmo parole di lode, a
noi più care di ogni ricompensa, e libertà di restituirci alle nostre
case, poichè le condizioni della resa non ci permettevano di servire
per un lungo spazio di tempo contro l’esercito repubblicano di Francia.
Io partii subito per Mondovì, e là, nel seno della famiglia, tra le
affettuose dimostrazioni dei congiunti e degli amici, mi consolai
degli affanni patiti. Ma non di una pena più acerba, che mi durava nel
profondo del cuore. Dopo una settimana di riposo, io non reggevo più
dall’idea di star chiuso laggiù. Il mio spirito varcava i monti delle
Langhe, scendeva alla marina, guizzava per le corsie di un ospedale,
cercando una immagine cara, sperando una felicità che mi era tanto
necessaria quanto più mi sfuggiva. Il tormento del desiderio mi divenne
ben presto insopportabile. Un giorno, che fu il 28 aprile, corsa appena
la voce dell’armistizio di Cherasco, mi presentai al comando francese
di Mondovì, e chiesi ed ottenni un passaporto per Savona. Il giorno
seguente ripassavo sotto le rovine di Cosseria, e non mi bastò l’animo
di salire sulla costa memoranda, dove tanti valorosi dormivano il lungo
sonno della morte.

I borghi di Carcare e di Altare ospitavano ancora molti feriti,
francesi, piemontesi ed austriaci, ma la più parte convalescenti, e
già in volta coi loro bastoncelli per le vie, sulle piazze, o lungo le
poetiche rive della Bormida. Al tiepido soffio di primavera rinasceva
la natura, e in mezzo al suo verde rifioriva la vita. Quello spettacolo
mi parve di lieto augurio per la salute di Adriana, a cui sempre
ricorreva il pensiero, sulle famose ali del desiderio.

Giunsi poco prima del mezzogiorno a Savona, col cuore pieno di
speranza e di allegrezza. Ero in abiti civili, che dovevano rendermi
irriconoscibile anche al cittadino Tiravia, se pure quell’alto
personaggio avesse avuto tempo e voglia di osservare un povero sergente
mio pari. Del resto, possedevo il mio bravo passaporto francese, e con
esso mi presentai subito al comando di piazza. Il degno comandante,
a cui esposi la mia qualità e il mio desiderio di visitare i feriti
dell’ospedale di San Paolo, mi riconobbe tosto e volle sapere da me,
insieme con le notizie dei miei compagni, tutti i particolari della
piccola nostra odissèa. Egli, dal canto suo, mi raccontò di aver
rimesso a posto il cittadino Tiravia. Il giorno dopo la scenata del
porto, gli erano giunte parecchie compagnie di soldati da Nizza, ed
egli, fatto forte da quel po’ di presidio, aveva mandato il troppo
rumoroso rappresentante a dar rappresentazione altrove della sua
dignità improvvisata.

— Noi vogliamo distribuire i benefizi della libertà a tutti i paesi
d’Europa; — mi disse in quella occasione il bravo comandante; — ma in
Francia, e dovunque, il tempo dei matti furiosi è finito. —

Ottenuto un permesso in iscritto, mi congedai da quel gentilissimo
ufficiale, e corsi all’ospedale di San Paolo. Con che cuore mi
accostassi a quel luogo, immaginatelo voi.

Il soldato di guardia vide il permesso del comandante e mi accennò la
scala, che era in fondo al vestibolo. Feci i quindici o venti gradini
in un attimo, e trovai sul pianerottolo un custode, che mi condusse dal
capo infermiere, ultima autorità a cui dovevo presentarmi per essere
introdotto nell’ospedale.

Il capo infermiere lesse il foglio del comando di piazza, e, mentre mi
accennava di entrare nella sala di ricevimento, disse ad uno de’ suoi
uomini che passava in quel punto dal pianerottolo:

— Scendete in giardino e chiamate madamigella Adriana. C’è qualcheduno
che domanda di vederla.

— Come? — esclamai. — È già alzata?

— Sì, da quattro giorni; e ieri ha incominciato a fare qualche
passeggiata in città.

— Ah, sia lodato il cielo! — gridai. — Ecco una guarigione
miracolosa. —

Il capo infermiere non potè trattenersi dal ridere.

— Ignorate il meglio; — mi disse. — I francesi guariscono tutti, qua
dentro. —

Non era il caso di ricordare che io ero piemontese, e che nell’ospedale
di San Paolo ci potevano essere dei feriti piemontesi.

— E come va, questa faccenda? — domandai.

— La vittoria è una gran medichessa; — rispose il capo infermiere.
— Si è potuto dire ai feriti che il generale Buonaparte marciava su
Cherasco, di vittoria in vittoria, che il re di Sardegna aveva dovuto
chiedere un armistizio, e le piaghe si sono cicatrizzate di prima
intenzione. —




CAPITOLO XVII.

Scuola d’amore.


Il capo infermiere mi avrebbe sciorinata una teorica compiuta intorno
alla influenza della vittoria sulla guarigione delle ferite, se non
fosse stato interrotto dall’arrivo di Adriana.

Io riconobbi il passo leggiero e svelto di lei, che era giunta allora
sul pianerottolo, e subito dopo udii la sua voce argentina.

— Chi mi chiama? — diceva ella al custode.

— Un giovane cittadino, che è venuto con un permesso del comando di
piazza; — rispose il custode. — Forse è un parente, cittadina.

— Che! — replicò ella. — Io non aspetto parenti. —

Ed apparì allora nel vano dell’uscio, dove fu trattenuta dal capo
infermiere che ritornava alle sue faccende.

— Buon giorno, cittadina; — le disse costui. — Si va di bene in meglio?

— Come vedete, Roland. Ieri ho fatta una lunga camminata verso il mare.
Sono anche entrata in un bel giardino, dove mi hanno regalato un mazzo
di fiori. Oggi, dopo la zuppa, ci ritorno. Fa così bene passeggiar tra
le siepi fiorite!

— Benissimo! Fortificatevi, cittadina Adriana; — riprese il capo
infermiere. — Vi lascio col vostro visitatore. —

Io la guardavo, tutto confuso e palpitante, cercando e non trovando
la frase, con cui attaccare il discorso. Ero colpito in una nuova
maniera dalla sua gentile figura, che mi pareva tutt’altra da quella
che avevo veduta ed amata sul colmo di Cosseria. Era sempre Adriana,
con le sue belle fattezze, co’ suoi capegli biondi, la sua voce
melodiosa e i suoi moti vivaci; ma, dopo tanti giorni di separazione,
mi era diventata quasi straniera, e mi pareva di vederla allora per
la prima volta. Era più bianca dell’usato, e ciò si poteva intendere
facilmente, pensando che non faceva più la vita faticosa del campo;
ma il suo aspetto non aveva punto sofferto, o si era prontamente
rifatto dei danni patiti. Portava il braccio sospeso al collo e la
testa leggermente inclinata sull’omero; ma quel nuovo atteggiamento la
rendeva più bella, le conferiva una grazia incantevole. I capegli, non
più coperti da quella berretta di panno, piantata alla sgherra, che
dava un’aria così bizzarra al suo volto giovanile, mostravano tutta la
loro pompa luminosa di oro filato. Per dirvi ogni cosa in poche parole,
la vivandiera del reggimento era sparita: restava la vergine, e, se
volete, anche la viscontessa Adriana.

Io la vedevo benissimo, poichè ella, entrando nella sala, era colta in
pieno dalla luce della finestra. Ma ella non vide in me che un profilo
oscuro, poichè, rivolto verso di lei, davo le spalle alle luce.

— Non mi riconoscete più, madamigella Adriana? — le dissi, con voce
tremante di commozione.

Ella si avanzò, guardandomi con gli occhi socchiusi, come se volesse
accrescere in tal modo la sua potenza visiva. Inutile sforzo; io
restavo un enigma vivente per lei. Allora mi avvicinai, tirandomi un
poco da banda, per modo che la luce mi cogliesse nel viso, e soggiunsi:

— Ebbene, madamigella? Non riconoscete ora il sergente piemontese di
Cosseria?

— Ah! — esclamò ella, sorridendo. — È vero. In quegli abiti borghesi
non vi avrei più ravvisato. Che buon vento vi ha portato a Savona?

— Il desiderio di saper vostre nuove, signorina. Son proprio felice
di vedervi ristabilita e di sentire che siete già andata fuori, a
passeggio.

— Sicuro, e con che gusto! Mi pareva di rinascere. Ancora dieci giorni
di questa vita, e ritorno al reggimento.

— Ancora? — esclamai.

— Che volete? È la famiglia; — mi rispose.

— La famiglia! In mezzo a tanti uomini più disposti a riconoscere la
bellezza che a rispettarla!

— Non dite male dei miei compagni! — gridò ella, interrompendomi. —
Nel reggimento mi amano e mi rispettano tutti egualmente. Non vi dirò
che sui primi giorni fossero tutte rose; no, certo, ed io ho dovuto
rimettere a posto più d’uno. Ma il soldato non ha che una brutalità
superficiale; nel fondo è quasi sempre un buon ragazzo; risente
della famiglia e delle sue oneste consuetudini, che ha lasciate da
poco. Basta mostrargli di non voler essere per lui che una sorella,
all’occorrenza una madre, e se ne fa quel che si vuole. Io amo il mio
reggimento e ci sto bene; non ho più altro appoggio nel mondo e non
voglio avere che quello. Se anche volessi cambiare, dove mi troverei
più tranquilla e più sicura? Io lo domando a voi. —

Rimasi perplesso, non volendo andar contro alla sua opinione. Ma mi
premeva egualmente di ricondurre la conversazione ad un argomento più
intimo, e ripigliai, dopo un istante di pausa:

— Vi ricordate del giorno che ci siamo conosciuti?

— Certamente; — mi rispose. — Un gran giorno, e faceva anche un gran
caldo.

— E allora, — soggiunsi, — voi mi davate del tu.

— Ah sì! — esclamò ella, mostrandomi in un’allegra risata due file
di candidissimi denti. — Mi avviene spesso di passar sopra a certe
cerimonie.

— Perchè non ci passate ancora?

— Ma... Non saprei, veramente. Non siete più soldato. A proposito, e
come va che avete abbandonato il servizio?

— La capitolazione di Cosseria ha voluto così. Non posso più ritornare
sotto le armi fino a che la mia parola non sia cambiata con quella
di un sott’ufficiale francese, il quale si ritrovi nella mia stessa
condizione. Ora, con l’andamento che ha preso la guerra, mi par
difficile che un certo numero di francesi abbia a finire come noi di
Cosseria. Per effetto di un semplice armistizio il generale Buonaparte
è già diventato padrone delle nostre piazze forti.

— Quell’uomo farà molto cammino; — disse Adriana. — Purchè sia fedele
alla libertà, come la fortuna è fedele a lui! —

La fortuna del generale Buonaparte e la causa della libertà mi
premevano poco, in quel punto, e cercai un’altra volta di ravviare il
discorso.

— Dunque, — ripresi, — voi siete risanata; questo è l’essenziale. Ero
tanto in apprensione per voi!

— Perchè? Le palle piemontesi, come vedete, non fanno mica troppo male.

— Ah, maledetta palla! — gridai.

— Ecco un nobile sentimento; — diss’ella — Ma viene un po’ tardi!

— Cattiva! — mormorai, chinando la testa fin presso al suo braccio. —
Siete sempre in collera con noi? —

Adriana levò la fronte e mi fissò addosso i suoi grandi occhi bianchi,
che luccicavano come diamanti.

— Scommetto, — diss’ella, — che siete venuto per dirmi delle
sciocchezze.

— No, davvero; — risposi.

— E allora, sentiamo, perchè siete venuto? —

Così dicendo, la bella Adriana fece l’atto di adagiarsi meglio sul
canapè, e volse la faccia annoiata alla statua giallognola di un
benefattore dell’ospedale, che decorava una gran nicchia, nella parete
di rincontro.

Io avrei dato non so che, per essere quel gentiluomo di marmo e non
sentire la ferita che quella sdegnosa domanda mi faceva nel cuore.
Ma quella domanda, sdegnosa o no, mi era stata rivolta; io non ero di
pietra, dovevo farmi forza, e rispondere.

— Son venuto per aver vostre nuove; — le dissi; — e un atto di amicizia
come questo, se non è per avventura un gran fatto, non merita neanche
il brutto nome che voi vorreste applicargli. Sceso coi miei compagni
a Carcare, dopo la nostra capitolazione, e giunto alla presenza del
generale Buonaparte, ebbi la fortuna di ottenere che noi ritornassimo
alle nostre case per la via più lunga del mare, anzi che per quella dei
monti. Vi avevo cercata in ogni ricovero di feriti; vi avevo seguita
a Savona; speravo di vedervi qui, di conoscere il vostro stato, e di
ritornarmene al mio paese con qualche speranza nel cuore. Un fatto
disgraziato, di cui forse sarà giunto l’eco fino a voi, ci costrinse a
partire tutti insieme, ad imbarcarci la sera medesima, senza concedermi
il tempo di venire al vostro capezzale. Da Genova a Torino, da Torino
a Mondovì, non ebbi più un momento di pace. Un aspro desiderio mi
consumava, lontano da voi; volli ad ogni costo ritornare dove voi
eravate, vedervi, sapere di voi, che avevo raccolta morente sotto i
nostri ripari e consegnata ai vostri buoni compagni. Voi lo vedete,
Adriana; queste non sono sciocchezze.

— Ne promettono, per altro; — rispose ella, inflessibile. — Al
sentimento dell’amicizia sarebbe bastata una semplice nuova, chiesta ed
ottenuta per lettera. Perchè venire fin qua? Perchè volermi vedere ad
ogni costo?

— Perchè vi amo.

— Ah! La vecchia storia?

— È sempre nuova. Vi amo, come il primo giorno che vi ho veduta. —

Ella si scosse, a quelle parole, e mi gittò l’elemosina d’uno sguardo.

— È troppo poco, allora! — soggiunse. — Rammento di avervi chiesto
qualche cosa, quel giorno. Ma il vostro amore, questo maraviglioso
amore di cui oggi vi empite la bocca, era ben piccolo ancora!
Eppure....

— Eppure?... Continuate!

— Eppure, in quel punto, non so come, tu mi avevi interessato,
_blanc-bec_! Avevo detto tra me: Ecco un ragazzo, che può essere il
destinato. L’uomo che ama davvero, si conosce all’occasione, ed anche
l’uomo che si dovrà amare; se costui fa un sacrifizio per me... se mi
butta a’ piedi tutto quello che ha di più caro...

— L’onore, Adriana! Non lo dimenticate; era il mio onore di soldato.

— Ebbene? Ed io non ti davo in ricambio il mio di fanciulla? Non hai
voluto, e tal sia di te. Non mi ricordare quel giorno; non toccar più
quella corda, che rende mal suono. Oramai è finita. —

Se l’aveste veduta in quel punto! Si era fatta pallida in viso, come
una morta; le labbra scolorite tremavano; le pupille dilatate mandavano
lampi.

Dimenticato il luogo in cui eravamo, non vedendo che quello sdegno, non
pensando che a quella dolorosa sentenza, mi buttai in ginocchio davanti
a lei, tentando di afferrar la sua mano.

— Oh, non parlate così, Adriana! — gridai. — Mi fate troppo soffrire.
Il mio amore per voi non ha meritato questa severità di linguaggio.

— Su, via! — diss’ella sottovoce, ma con accento imperioso, e levandosi
a mezzo, per obbligarmi a ripigliare il mio posto. — Anche il vostro
onore d’uomo potrebbe soffrirne, se qualcheduno vi vedesse. Ma torniamo
al vostro onor di soldato. Sapete che è veramente grazioso? Scommetto
che sareste capace, se le circostanze ve lo permettessero, di riprender
le armi contro di noi.

— Per la difesa della mia patria, senza dubbio! — risposi.

— Ebbene, la vostra patria è liberata dalle nostre armi; ma domani
potrebbe essere invasa da uno sforzo supremo dell’Austria, e tutti i
germi di libertà che vi ha deposti la Francia rivoluzionaria potrebbero
essere soffocati. Perchè non entrereste nell’esercito francese?

— Sarebbe oggi una viltà; il Piemonte esiste tuttavia, e vive e regna a
Torino il suo re.

— Il Piemonte! Il suo re! Quanti giorni dureranno essi ancora? In
verità, ecco un acciecamento singolare. Il tuo paese sei tu, che non
leggi nel libro del destino, già aperto davanti all’Europa; che non
senti la voce della gloria, chiamante all’armi ogni valoroso, per la
conquista di tutti i diritti; che intendi soltanto le ragioni della
servitù, della abiezione in cui sei nato e cresciuto. Il tuo re...
Parliamone, del tuo re. Egli è il vassallo dell’Austria, che lo ha
condannato alle sconfitte e sarà lieta di farlo sparire dal numero dei
sovrani d’Italia. Non capisce nulla, il tuo re. Aborre la Francia, ed
ha ricusata la sua alleanza, perchè, dice lui, la più vecchia dinastia
d’Europa non può far patti con la rivoluzione, nè avere amicizie con
la canaglia repubblicana. Ce ne sono, dei nomi illustri, ed antichi
quanto il suo, che hanno accettata l’alleanza col popolo, che hanno
abbracciati gli immortali principii della redenzione sociale. Il mio,
per esempio; — soggiunse Adriana, levando superbamente la testa.
— Ho sangue dei Montmorency nelle vene, e i Montmorency risalgono
al diluvio. Invenzioni degli armeristi, sicuramente; ma di queste
invenzioni son tessute le genealogie dei principi di corona come quelle
dei loro ufficiali più illustri. Comunque sia, — conchiuse la bella
ragionatrice, scendendo da quelle altezze vertiginose, ove io non avrei
potuto seguirla, — vediamo il presente. È un tiranno, il tuo re. Ci
vedi onore a servir la tirannide?

— Il giuramento è sacro; — risposi.

— Il giuramento! — replicò ella con piglio sarcastico. — Di qual
giuramento mi parli? Il giuramento dello schiavo al padrone non tiene;
la rivoluzione è passata e lo ha distrutto col soffio. La rivoluzione
è la luce, è la giustizia, è la verità. Ribellarsi alla verità per
difender l’errore, ecco il delitto e l’infamia. Questo avevo il
bisogno di dirti, _blanc-bec_! Tu potevi ottenermi, quel giorno, e
salvare anche la vita a tanti soldati della libertà. Invece, che cosa
è avvenuto? Migliaia di preziose esistenze sono state mietute, e per
giungere allo stesso risultato, alla resa! Ma infine, tu hai fatto
ciò che hai creduto meglio, ed io sono ben sciocca a dolermi. Volevo
dimostrarti soltanto che non era una gran fiamma la tua, e che male ti
vanti oggi di un amore, il quale non ha saputo umiliarsi. Ma questo,
non te lo avevo io già detto, lassù? C’era bisogno di dirtelo ancora?
È vero, non ti è bastato allora; hai voluto una nuova lezione. Basterà
finalmente? Sarà necessario offenderti, per guarirti di questa tua
sciocca passione, che non sa vivere, nè morire degnamente? Ecco qua:
sei ridicolo, non mi piaci, non voglio saperne di te. —

Lo stato dell’animo mio, sotto quella pioggia fitta di amari sarcasmi e
di superbi dispregi, non si descrive, s’immagina. Ella aveva detto bene
pur troppo; la mia passione non sapeva nè vivere nè morire degnamente.
E cercavo una via, e brancolavo miseramente nel buio.

— Povero amor mio! — mormorai, singhiozzando. — Ed ero venuto a voi con
tante speranze?

— Torna indietro con quelle, o lasciale in un canto; è tutt’uno; —
rispose ella, sdegnosa. — Vedete la pretensione di questo soldato! A
quanti non è avvenuto di sperare invano? E che tesoro credevi tu di
portarmi, con quel tuo carico di speranze? Va, piemontesino, va; tu non
conosci le donne. Quanto era meglio per te il farti prete, e non sapere
dei loro segreti se non ciò che t’avrebbero raccontato in confessione!
Le donne, ragazzo mio, sono creature bizzarre, il cui modo di essere
e di operare sfugge alle norme della vostra logica mascolina, rigorosa
e meschina. Bisogna prenderle, quando vogliono concedersi; guai a non
indovinare, a non saper cogliere il punto! C’è tale che le ha, e non
le possiede, e non le possederà mai intieramente; perchè questo è il
diritto, questa è la difesa dei deboli: di poter chiudere il cuore, di
poter suggellare e sottrarre ai profani, ai violatori prepotenti, il
tesoro delle proprie tenerezze, i sentimenti più dolci, le fragranze
più soavi dell’anima. Se amerai un giorno, fa di meritare la donna
che ti avrà resistito. Ma tu non la meriterai, tenendo gelosamente per
te una parte di te. Darsi intieramente, buttarsi a capo fitto, senza
riguardi umani e senza restrizioni mentali, commettere un grave errore
ed una solenne pazzia, non temere di farsi deboli e vili, quando si
poteva esser forti e grandi, questa è l’unica via per esser amati.
Vedi? ti ho data una lezione. E valga il carico di speranze, che mi
avevi portato. Ti va?

— Siete molto cattiva! — esclamai.

— No, sono sincera; un po’ selvaggia, se vuoi, ma non ti misuro la
verità. Un’altra donna più raffinata, ma niente migliore di me, ti
parlerebbe più accortamente, per giungere al medesimo fine; ti farebbe
un lungo e melato discorso, tanto onorevole per lei quanto inefficace
per te. Tu hai perduto un buon punto, e non vuoi persuadertene. Giovine
inesperto, ma guidato dalla cieca fortuna, giungevi di primo lancio
dove nessuno era giunto fino allora; l’occasione, in quel mentre,
passava daccanto a te, e tu non hai saputo afferrarla. _Blanc-bec!_
— soggiunse ella ghignando, — _Tu as failli me blesser au coeur.
Heureusement tu n’as touché qu’à l’épaule._

— Ah! — gridai. — Per questo mi odiate?

— No, non è per questo; — rispose. — Tu hai fatto il tuo dovere, in
quel punto.

— Non ho mirato, per altro; — ripresi. — Non potevo credere che
voi foste così ostinata, da presentarvi in prima linea, allo
scoperto. —

La vergine del reggimento alzò sdegnosamente la spalla che il mio
piombo aveva rispettata.

— Ecco un altro torto che ti sei fatto a’ miei occhi; — diss’ella. —
Volevo esser mirata, amata ed uccisa. Per tua norma, io amo la tragedia
e i suoi fieri contrasti.

— Ahimè! — risposi. — Voi amate anche un altro.

— T’inganni; non amo nessuno. Sono stati parecchi, i pretendenti; che
ci vuoi fare? Ma nessuno ha mai saputo cogliere il buon punto. Ed altri
lo cerca, che non lo ha trovato ancora.

— Chi, per esempio?

— Ah, pretino fallito! Debbo io confessarmi a te? Ebbene, sia. Credi
forse di aver occhi tu solo? Metti anche il medico che mi ha curata.

— Il Nougarède?

— Ah, tu lo conosci? — chiese Adriana, stupita.

— Sì; egli è il primo che a Carcare mi ha dato notizie di voi, la sera
del nostro arrivo al quartiere generale.

— Senti, — diss’ella, con un tono di voce da cui traspariva una sottile
ironia. — Eri dunque tu la persona di cui egli mi parlava ancora
ier l’altro? In un momento di affettuosa espansione il mio galante
chirurgo mi ha detto: — «E pensare che io ho corso il rischio di non
vedervi più, ventiquattr’ore dopo avervi prodigate le prime cure! Se
qualcheduno, parlandomi con molta premura di voi, non mi avesse fatto
pensar meglio al vostro stato, io non sarei venuto nella determinazione
di condurvi coi feriti men gravi a Savona, e voi sareste rimasta a
Carcare, nella piccola infermeria di San Sebastiano. In questo modo,
Adriana, voi eravate separata per sempre da me.» Un bel pensiero,
il suo, non è vero? Povera me, se il pietoso Nougarède non pensava a
mettermi nel suo convoglio, per trasportarmi all’ospedale di San Paolo!
Io perdevo l’occasione dei suoi sospiri e delle sue dichiarazioni
irresistibili.

— È un bel giovane; — osservai, non bene persuaso della sincerità di
quella canzonatura.

— Che ne sai tu? — mi disse di rimando Adriana. — Il bello che
riconoscete voi altri non è quasi mai il bello che piace alle donne.
Ed anche quello che può piacere a novantanove donne non piace alla
centesima. Se così non fosse, povere noi! Una medesima tentazione
dovrebbe perderci tutte. Io ho potuto osservare, nella bella
tranquillità del mio spirito, che ogni donna la quale sia nulla nulla
appariscente, o solo per qualche lato piacevole, è circuita, insidiata,
direi quasi covata da cento adoratori, più o meno vicini, più o meno in
vista, ma tutti assidui, tutti costanti ad un modo. Voi non la vedete,
questa caccia, quando siete indifferenti; non ne vedete neanche la
decima parte, quando siete interessati nel giuoco; eppure è così, e
per via, nei teatri, nelle conversazioni, dovunque la donna va e gli
uomini possono seguirla, è una gara di piccole attenzioni, di occhiate
assassine, di manovre sapienti, che debbono far capitolare la piazza.
Ella non bada a tutti quei fuochi incrociati; qualche volta ne ride;
qualche altra volta si annoia; raramente le avviene di riconoscere i
pregi personali di uno fra tanti; più spesso l’uomo che essa sceglie
non è quello che a tutta prima le era sembrato il più bello. Che ci
vuoi fare? La scelta, in amore, è quasi sempre istantanea. Un lampo
improvviso che guizzi dagli occhi, un sorriso che fiorisca sul labbro,
una parola che prorompa dal cuore, e sopra tutto il momento opportuno,
il momento fatale perchè quei nonnulla sian colti in aria e facciano
colpo qua dentro, ecco le ragioni della vostra vittoria e della nostra
sconfitta. Tu l’hai avuto, piemontesino, il momento fatale; e quel
momento è fuggito. Sei un altro, ora; sei uno dei cento, a’ miei occhi.
Perchè ti preferirei al Nougarède? Perchè preferirei il Nougarède ad un
altro? Nessuno di voi vale la prima pena del mio cuore; nessuno di voi
vale la libertà divina, a cui mi sono votata, per cui corro il mondo,
figlia adottiva dell’esercito repubblicano, vergine del reggimento, e
se occorre casco ferita in un fosso, per essere raccolta in un carro
d’ambulanza e finire in una corsìa d’ospedale. —

Così ragionava quella strana creatura, il cui linguaggio immaginoso e
vivace contrastava chiaramente con l’atteggiamento stanco e rimesso,
quando apparve sull’uscio il Nougarède. _Lupus in fabula!_




CAPITOLO XVIII

Si dà nei lumi.


Il chirurgo Nougarède era un bel giovanotto di statura giusta e di
membra snelle, bianco di carnagione, ma il viso leggermente abbronzato
dal sole e dall’aspra vita del campo. Aveva i capegli biondi, ma corti;
bionda la barba, non folta, e tagliata a punta. Perciò la sua faccia
dava piuttosto nel lungo, e il naso aquilino e le labbra finissime,
sormontate da due baffettini sottili, gli conferivano un’aria molto
elegante, ma anche un tantino presuntuosa. Io feci questa osservazione
vedendolo allora per la terza volta e guardandolo più attentamente
che non avessi fatto alle prime. Quella volta, poi, mi appariva anche
arcigno e niente disposto ai convenevoli.

Così accigliato e duro, il Nougarède rimase un istante sulla soglia,
mentre Adriana, sempre appoggiata alla spalliera del canapè, si voltava
un pochino dalla sua parte, con una grazietta incantevole, a cui
la inclinazione forzata della testa sull’òmero, dava un’espressione
canzonatoria che mai. Per altro, egli non poteva stare più a lungo
ritto impalato sull’uscio, a fare la controscena, come un personaggio
da tragedia; e si mosse, finalmente, venne a due passi da lei, senza
curarsi punto del visitatore importuno, e l’ammonì in questa forma:

— Adriana, lo sapete pure, che non potete ancora parlar troppo! —

La familiarità dell’apostrofe mi diede maledettamente sui nervi. E
poi, sotto quella severità dottorale, avevo fiutato il geloso, quel
personaggio meschino, dalla faccia scura, dagli occhi sospettosi e dai
modi impacciati, che dove capita porta la sensazione del freddo. Non
siate gelosi mai, o almeno fate di nasconderlo. L’uomo più garbato, più
spiritoso e piacevole del mondo, se è geloso e si lascia scorgere in
flagrante, perde ad un tratto tutte le sue belle qualità, per diventare
uggioso, o ridicolo, e qualche volta l’uno e l’altro ad un tempo.

Adriana non si era mossa dal suo posto nè dal suo atteggiamento; ma
aveva sentita la necessità di farmi capire che era seccata di quel tono
severo e che tanta familiarità non era permessa neanche al suo medico.

— E chi vi dice, cittadino Nougarède, — replicò ella, battendo sul
titolo, — che io abbia parlato troppo? —

Il cittadino Nougarède rimase un po’ sconcertato; ma si riebbe subito,
e rispose:

— Il capo infermiere m’ha riferito che siete da oltre un’ora nella sala
di ricevimento. Voi sapete che le passeggiate vi sono concesse, perchè
possono farvi del bene. Un moto regolare, mettendo in opera tutti i
muscoli, non ne stanca in particolar modo nessuno. Può recarvi incomodo
uno sforzo parziale, specialmente quello del soverchio discorrere,
perchè il polmone è costretto a lavorare di più, dilatando con troppa
frequenza il torace, dove s’innestano tutti i muscoli della spalla, e
in particolar modo il...

— Finitela una volta coi vostri paroloni, cittadino Nougarède!
— interruppe Adriana. — Io non son fatta per capire tutta questa
anatomia. Del resto, — soggiunse ella, con accento più rimesso, — io
non mi son mossa un momento di qua; e parlo e lascio parlare, secondo
le circostanze e l’umore. Quando vi capita una vecchia conoscenza, non
bisogna mica lasciarsela sfuggire così presto! A proposito, debbo fare
una presentazione. Eccovi qua una persona che dovete conoscere. —

Messo così alle strette, il Nougarède non potè più astenersi dal
guardare verso di me. Stentava per altro a riconoscermi, e Adriana fu
costretta a rinfrescargli la memoria.

— È il piemontese di Cosseria; — proseguì Adriana; — quello stesso che
mi ha raccolta sul campo, per consegnarmi all’ambulanza, e che poi vi
ha parlato di me, a Carcare; non ricordate?

— Ah! — diss’egli allora, accennando un sorriso.

Ma quel sorriso, che era fatto a contraggenio, gli morì sulle labbra.
Nè aggiunse altro il cittadino Nougarède, nè fece alcun movimento
cortese verso di me. In fondo, egli si trattenne, come io mi ero
trattenuto, nè più nè meno. E ci eravamo fatti tanti complimenti a
Carcare! Era bastata la presenza di una donna tra noi, per inimicarci
di schianto. Le nostre mani, che si erano già strette con tanta
effusione d’amicizia, provarono allora una ripulsione invincibile; non
che restar penzoloni, cercarono istintivamente le tasche.

La ripugnanza del signor Nougarède non poteva sfuggire all’occhio
attento di Adriana. E il diavolo volle che la capricciosa donna ne
fosse annoiata, lì per lì, e che prendesse gusto a tormentare il
geloso.

— Sì, — soggiunse ella insistendo, — è stato tanto gentile da
ricordarsi di me. Che volete, cittadino? Pare che anche su lui io abbia
fatto impressione.

— Anche su lui! — ripetè egli stizzito. — Le vittime sono dunque più
d’una? —

Si era avanzato sotto misura, il poveraccio, e Adriana non volle
risparmiargli il colpo di grazia.

— Vi fa meraviglia? — riprese. — È ciò che capita facilmente alle
donne. Stavo per l’appunto dicendolo, quando voi siete giunto. Anche in
questi tempi di sincerità repubblicana, gli uomini fanno tutti la corte
coi metodi dell’antico regime. La buona novella è sparsa per tutto il
mondo; ma in certe cose restiamo sempre ligi all’antico Testamento.

— E ciò vi dà noia? — chiese il Nougarède, che oramai non sapeva più a
qual santo votarsi.

— No, anzi mi fa ridere. Mi avete trovata che ridevo. Il riso fa buon
sangue. E poi, è così bello sentirsi dire certe cose! —

Il Nougarède perdette la tramontana senz’altro.

— Veramente, — diss’egli, — non è una cura prescritta in un ospedale
militare. E mi meraviglio.... —

Così dicendo, si era rivolto a me. Io ero là ritto, seccato la parte
mia, poichè non giungevo ad intendere che gusto o che ragione ci
avesse madamigella Adriana a seguitare su quel tema scabroso. Forse si
compiaceva di stuzzicarlo; forse voleva rimetterlo a posto, dimostrando
anche a me che il signor Nougarède non aveva nessun diritto a fare il
geloso. Comunque fosse, quel volgersi a me, e quella gran meraviglia,
accompagnata da una reticenza così minacciosa, volevano una pronta
risposta.

— Di che cosa, cittadino? — gli chiesi, con un piglio non meno arcigno
del suo.

Ma egli s’inalberò. Di sicuro, il povero giovanotto aveva perduta la
bussola.

— Una interrogazione, a me? — gridò egli, inasprito. — Vi avverto
ch’essa è fuori di luogo.

— Una cosa è fuori di luogo tra uomini; — replicai; — cominciare e non
finire una frase di dubbio significato. —

Caro il mio cittadino Nougarède! Egli non sapeva come io fossi rimasto
male, esposto ai sarcasmi e ai dispregi della bella Adriana, e che buon
vento me lo avesse portato tra le unghie.

— Vi trovo ridicolo; — diss’egli, crollando sdegnosamente le spalle.

— Io trovo voi impertinente e sciocco; — risposi.

A quelle parole, che gli rendevano raddoppiata l’ingiuria, fece per
avventarmisi contro; ma si trattenne tosto, o perchè io paressi più
forte e tale da respingere con vantaggio l’attacco manesco, o perchè
gli venisse in mente di non dover fare una sfuriata là dentro. Si
trattenne, dico, stringendo i pugni e le labbra; poi, abbassata la
voce, mi disse:

— Sareste capace di ripetermi quelle parole con le armi alla mano?

— Sicuramente, quando vorrete; e meglio oggi che domani.

— Anche subito; v’intenderete coi miei secondi. —

Poscia, volgendosi a madamigella Adriana, soggiunse:

— Vi lascio ai vostri amori; ma, come medico, debbo insistere sulla
raccomandazione di non parlar troppo.

— Sono stata zitta, finora! — rispose ella, senza punto scomporsi. —
Voi mozzate le parole in bocca, con le vostre scenate. Avete il diritto
di farle?

— Se vi piace, dico di no; ma le ho fatte.

— Non siete garbato, cittadino Nougarède. —

Egli voleva rispondere; ma io ero là, e non gli parve conveniente di
proseguire il battibecco alla presenza di un terzo. Fece anche lui una
spallata buonapartesca e diede una giravolta sui tacchi.

— Un momento! — gli dissi, vedendolo andar via.

— _Plait-il?_ — chiese egli, voltandosi a mezzo e fermandosi a
guardarmi con piglio altezzoso.

— Siete un nemico, e tale vi voglio; — risposi; — ma siete francese e
gentiluomo. Io, qui, son fuori di casa mia; non ho compagni d’armi, nè
amici, nè conoscenti a cui rivolgermi, per chiedere la loro assistenza.

— Che intendete, con ciò?

— Non già di ritirarmi, come mi pare che abbiate capito. Volevo
domandare a voi il servigio che io stesso vi renderei, se fossimo a
Torino, o in altra città del Piemonte. Pregate due dei vostri francesi
che vogliano accompagnarmi sul terreno. —

Il cittadino Nougarède stette pensieroso un istante; poi mi rispose
asciutto:

— Sta bene; li avrete. —

E salutò, freddamente cerimonioso, ed uscì.

Io mi volsi allora a madamigella Adriana, per prender commiato da lei.
La vergine del reggimento era sempre immobile al suo posto, appoggiata
alla spalliera del canapè, e mi guardava cogli occhi semichiusi, come
una bella dama dell’antico regime. Lo era infatti, ad onta delle mutate
consuetudini. _Bon sang ne peut mentir_, dicono i francesi.

— Dunque, — incominciò, sorridendo, — battaglia?

— Come vedete; — risposi.

— Debbo io dirvi, — continuò ella, — che mi rincresce di essere stata
cagione di questo litigio?

— No, non mi dite nulla. Capirete che il signor Nougarède è venuto in
buon punto a levarmi d’angustie, con la sua furia gelosa.

— Ah, davvero? Ecco un servigio che egli non sapeva di rendervi.
Diteglielo, al primo incontro; lo farete andar in collera più che
mai. —

E rideva, la bizzarra creatura, rideva d’un suo risolino arguto,
guardandomi con quegli occhi semichiusi, come una gran dama, molto
bella e molto miope (secondo l’uso del secolo scorso), in atto di
dirmi: «_Vous êtes parfait!_»

— Non io certamente; — risposi. — Diteglielo voi, viscontessa!

— Lascia i titoli antichi; — ribattè ella prontamente, ritornando nella
voce e negli atti la vergine del reggimento. — Chiamami cittadina, ed
anche semplicemente donna. È un nome di cui sono orgogliosa, quantunque
lo avviliscano tanto, con le loro debolezze, le mie sorelle in Eva.

— Siete uno spirito forte. Perchè non posso esserlo io? — le dissi
allora, sospirando.

— Lo sei, senza avvedertene, piemontesino astuto! Tu, a buon conto, ti
cavi d’impaccio con uno sfogo di collera. Lo hai confessato poc’anzi, e
in questo momento i tuoi occhi truci promettono un cattivo quarto d’ora
a quel povero Nougarède. Ma bada, per altro; egli non è meno inviperito
di te. Come maneggi la spada?

— Non saprei dirvelo; so che mi sta forte nel pugno.

— È già molto, e tu forse ne sai più di quello che dici. Ma come siete
carini, voi altri, con le vostre durlindane! E per una donna, poi!
Questo è _ancien régime_, e del più schietto che io mi conosca. Lui
soldato repubblicano e tu regio, lui della libertà e tu della tirannia,
siete pari; non vi battete per un’idea, ma per una donna; e a farlo
apposta, per una donna che ride.

— È vero; ma che farci? — replicai. — Se non posso mutarvi il cuore,
Adriana!... A proposito, per chi vi degnerete di far voti? Una piccola
preferenza è naturale, è inevitabile.

— Naturale, sì; inevitabile, no. Ed io per questa volta non ne
avrò nessuna; starò a vedere, imparziale come la giustizia, o come
l’indifferenza. Mi ha raccontato un viaggiatore che nei deserti
africani la leonessa assiste tranquilla sul margine di una fontana e
sotto il verde ombrello di una palma gigantesca, al combattimento di
due leoni innamorati e rivali, aspettando senz’ombra di ansietà che
l’esito della pugna le riveli il suo signore e padrone.

— Vincerò! — gridai infiammato.

— Non ti fidare; — rispose la bella schernitrice. — È bene paragonarsi
alla leonessa, quando l’uomo si paragona tanto volontieri al leone.
Ma nel fatto io sono una donna, e la vergine del reggimento potrebbe
star ferma nel suo quadrato e non appartenere a nessuno. Ciò ti
offende? Ti rivolta? Dillo! Va in collera, insultami! Non sai nulla
di nulla, _blanc-bec_! Una buona insolenza, e detta a tempo, rivela il
carattere.... quando ce n’è! Tu non sai trovar l’una, e manchi affatto
dell’altro. —

Era cattiva, quella donna? Era pazza? E quali cause nascoste l’avevano
resa pazza, o cattiva? o solamente era da vedere in lei il fenomeno
psicologico (benedetti ricordi scolastici!) di una libertà sconfinata
e d’una educazione sviata? L’uso, si sa, conduce per una insensibile
china all’abuso. In una donna che a tutte le audacie rumorose della
filosofia del suo tempo congiungeva tutte le superbie istintive della
nascita, e che per il suo genere di vita libera e vagabonda era più
esposta d’ogni altra alle insidie di cui sempre e dovunque è circondata
la bellezza, questa bizzarria di umore doveva esser fatale. Un paragone
militare vi dirà meglio il mio pensiero intorno a questo argomento
delicatissimo. Al soldato nelle ordinanze si chiede di esser docile,
obbediente al comando, freddo e impassibile al fuoco, anzi che ardente
e voglioso di fare. La sua calma è la sua forza e quella di tutta la
colonna, che, secondo il bisogno, attacca o retrocede. Al soldato in
avanguardia, all’esploratore, al fiancheggiatore, si chiede per contro
di essere agile, ardito, fin anche temerario. Egli deve essere pronto a
ficcarsi da per tutto, a snidare il nemico, a fargli fronte, a girarlo,
a intimorirlo con ogni maniera d’artifizi, non prendendo norma che dal
proprio coraggio. La sua forza non è più nella calma e nella prudenza;
è nella sua furia, nella sua temerità. Così doveva essere Adriana,
audace, temeraria, per ragione di difesa, per simulazione di forza.
Presa in tal modo la piega, non era possibile che Adriana si mutasse
mai, nè per me, nè per altri. La piega, nel carattere, è una seconda
natura.

Sentivo queste cose molto confusamente, e, più assai che ferito, ero
profondamente addolorato da quello scherno feroce.

— Ah, per esempio, questo è troppo! — gridai. — Sono un soldato della
tirannide e nato plebeo, davanti a voi, legionaria della libertà e
nata viscontessa; ma i miei re, che vi spiacciono tanto, furono tutti
cavalieri, e non m’insegnarono mai ad insultare una donna. Se avessi a
dirvi liberamente ciò che penso di voi....

— Ah, vivaddio, ecco un buon principio! — esclamò ella, rizzandosi di
colpo sulla vita. — Sentiamo ciò che tu pensi di me.

— Direi, — soggiunsi allora, stimolato da quella esortazione,
donde traspariva sempre la beffa, — direi che portate nel culto
della vostra repubblica, della libertà, della fraternità e perfino
della eguaglianza, l’orgoglio, la fierezza e la prepotenza di una
razza dominatrice. Scesa dal ponte levatoio del vostro castello per
confondervi col volgo dei combattenti, avete dovuto troppe volte
custodirvi contro le noie di una familiarità, che è sempre molesta,
e riesce offensiva anche quando non è a dirittura brutale. Indossata
l’armatura, e veduto che vi andava bene alla vita, non avete più voluta
deporla. Siete un’Amazzone, una Marfisa, una Bradamante, una Clorinda
moderna, pronta a correre in tutti i passi d’arme, a mettere lancia
in resta, sia Mandricardo o Ruggero, Rinaldo o Tancredi il nemico. La
dolcezza è nel vostro cuore, o Clorinda, e non potrebbe non esserci; ma
una corazza d’acciaio nasconde gelosamente il tesoro. —

Adriana era stata a sentire con molta attenzione, guardando
benignamente il predicatore e accompagnando le frasi con qualche cenno
del capo.

— Sai che come stile non c’è malaccio? — esclamò quando io ebbi finito.

— Dite che non è vero! — soggiunsi.

— Lasciamola lì; non dirò niente.

— E che ci sarà un momento in cui vi darete per vinta.

— «Ci sarà» non vuol dir nulla; mi basta che non ci sia.

— Badate al futuro, Adriana, e che l’uomo a cui crederete non sia poi
il peggiore.

— Alto là! — gridò essa. — La lingua ti tradisce, o la dottrina ti
manca. Che cos’è il peggiore? Che cos’è il migliore? Accetta ancora
una lezione, piemontesino mio. In amore, non c’è nè la buona, nè la
cattiva scelta. Dammi il turbamento e l’ansia, la paura e l’estasi,
il sacrifizio e la beatitudine; tutto il resto è nulla. Che importa
a me che Saint-Preux sia uno spirito fiacco, se Giulia ha conosciuto
l’amore? Che importa a me che Lovelace sia un tristo, se Clarissa
ha vissuto un’ora di cielo? L’essenziale non è l’uomo che si ama, è
l’amore che si sente.

— Chi ve l’ha detto?

— Qualche libro; e me lo ripete il mio cuore.

— C’è dunque da augurarsi di essere un tristo e di piacervi, Adriana! —
conchiusi io, malinconicamente.

— Questo poi è un madrigale e non mi piace; — diss’ella. — Non hai
delle frasi più sonore, come poc’anzi? —

Stanco di quella inutile scherma, non risposi più nulla. In quel
mentre, e per mia grande fortuna si udì uno strepito di sciabole
e un rumore di voci sul pianerottolo. Poco stante, si affacciarono
sull’uscio della sala di ricevimento due ufficiali francesi, a cui il
custode diceva:

— Se non è quel cittadino laggiù.... —

Capii che il Nougarède non aveva perduto il suo tempo, e interruppi
prontamente la frase del custode.

— Chi mi cerca? — domandai. — Vi manda forse il cittadino Nougarède?

— Per l’appunto; — risposero gli ufficiali.

— Sono ai vostri ordini; — replicai.

— Andiamo subito, allora; — disse uno di loro, — perchè gli altri sono
già al posto.

— Ah, bene! Non c’è dunque da andar lungi?

— No, qua di rimpetto, dove alloggia uno di noi. C’è un giardino
abbastanza vasto, dove non scende mai nessuno. Le spade, se vi piace,
saranno le nostre d’ordinanza.

— Mi piace tutto, e vi seguo. —

Adriana, a cui mi ero rivolto per salutarla, mi parve commossa. Si era
alzata dal canapè, ed era molto pallida in viso.

— Cittadina, buon giorno; — le dissero gli ufficiali, inchinandosi.

Io mi accostai, mentre essi andavano verso l’uscio, presi la sua mano e
la sfiorai con le labbra.

— Signorina, siate felice! — le dissi.

Ella non mi rispose parola. Mi guardò fissamente, quasi volesse
dirmi o farmi intendere qualche cosa; poi torse lo sguardo e scosse
sdegnosamente la testa, come chi cerchi scacciare un molesto pensiero.

Io feci un saluto ossequioso, e mossi rapidamente verso l’uscio, per
seguire quei due, che mi aspettavano sulla scala.




CAPITOLO XIX.

Indovinarla!


Giunti nel vestibolo dell’ospedale, i miei due secondi si fermarono,
per far conoscenza con me.

— L’amico Nougarède ci ha pregati di servirvi da testimoni; — mi disse
uno di loro, dopo che io gli ebbi dato il mio nome e cognome. — Siamo
ai vostri ordini. Ma la ragione dello scontro, qual è?

— Non ve l’ha esposta il vostro amico? — domandai.

— No, egli ci ha detto soltanto, combinandoci per via: «Ho quistione
con un borghese, già soldato nei granatieri di Cosseria; vorrei finir
subito, ma egli è nuovo nel paese, non ha secondi e li chiede a me; mi
fareste un piacere a servirgli; andate su all’ospedale; egli è là che
vi aspetta.» Abbiamo accettato e siam qua; ma non sappiamo nulla di
nulla, e voi converrete che è poco.

— Se non vi ha detto lui quello che è stato, — risposi, — come dovrei
dirvelo io?

— È giusto; ma non vogliate averci per curiosi indiscreti, se
insistiamo nella nostra domanda. Potremmo anche supporre, indovinare
il motivo.... averlo già indovinato.... Ma intanto, per venire alle
condizioni dello scontro, dobbiamo almeno essere intesi con voi,
intorno alla gravità dell’offesa. E prima di tutto, da chi parte
l’offesa?

— Mettete pure da me; immaginatela pure gravissima.

— E sia; — replicarono gli ufficiali. — Ma ce ne sono di diverse
specie: e la gravità, secondo la specie, ha pure le sue gradazioni. È
gravissima offesa aver dato all’avversario uno schiaffo; è gravissima,
eppure non paragonabile all’altra: avergli rapita una donna. Qui, poi,
è da vedere se la donna gli apparteneva legalmente, o se era soltanto
un’amica. Lo schiaffo, od altra maniera di percossa, non ci pare che
sia in quistione; il Nougarède non ci ha parlato che di un alterco,
d’uno scambio di parole vivaci. Perchè? Per una donna, forse? E in che
grado l’avete offeso? Insidiando a mala pena, o prendendo a dirittura?
Ecco il punto.

— Cittadini; — risposi, — se la intendete così, non ci siamo più. Mi
avete veduto or ora a colloquio con una donna, che è qui, sotto la cura
del vostro amico Nougarède. Non debbo calunniarla, lasciandovi credere
che io potessi rapirgli una conquista, o che egli avesse qualche
diritto a contrastarmela. Ecco invece la verità pura e semplice. Ero
venuto a salutare una donna, rimasta ferita in campo mentre combatteva
contro di noi, e che io stesso avevo raccolta da terra, per consegnarla
ai suoi compagni d’armi. Il cittadino Nougarède avrà molta dottrina,
non lo nego, ma voi mi permetterete di credere ch’egli non abbia
un carattere eccellente. È venuto con aspre parole a dolersi della
lunghezza del colloquio; io ho prese quelle parole per me; ne è venuto
uno scambio di motti pungenti, e a questi è seguita la sfida.

— Tanto meglio, allora! Due colpi alla svelta, e basterà il primo
sangue.

— No, ora non basta a me; voglio un combattimento ad oltranza. Ci sono
state parole assai gravi. Mi ha detto ridicolo.

— Nell’ira, è un epiteto di poco significato; e ad ogni modo, voi non
avete l’aria di meritarlo.

— Grazie! — risposi. — Ma non ve lo sembrerò io in questo punto
medesimo, accettando con tanta facilità il vostro complimento? Mettete,
vi prego, mettete che sia stata una parola grave. —

La mia insistenza li fece ridere; ma io ottenni quel che desideravo.

— Vada per la parola grave; — rispose uno di loro, che parlava per
tutt’e due. — Scenderete in campo come due cavalieri erranti, e vi
batterete a tutto spiano, come Rolando e Oliviero di Vienna.

— Ah! questa volta, grazie di cuore! — esclamai. — Dove si va?

— Dall’altra parte della strada. Vedete quell’uscio? Il campo chiuso è
là dentro. —

Proprio di rimpetto all’entrata dell’ospedale di San Paolo, la strada
si allargava per otto o dieci metri in forma di piazzuola, e un muro
grigio ed alto, sormontato da un po’ di verde, indicava tra due case
alte, che sorgevano sui lati, lo sfogo di un piccolo orto, o giardino,
o cortile che fosse. Bussammo all’uscio, che ci fu prontamente aperto e
con eguale prontezza richiuso dietro a noi. Erano là ad aspettarci due
ufficiali e il chirurgo Nougarède, che ci salutarono, egli contegnoso
e freddo, gli altri più liberali, ma anche molto cerimoniosi. Non ci
sono che i duelli, per render gli uomini straordinariamente garbati.
L’esagerazione è visibile, la caricatura evidente, e la gravità della
circostanza ci stende su la sua pompa (stavo per dire la sua pàtina)
funerale e grottesca. Ma così è, amici miei, e nessuno ha ragione di
dolersene. La civiltà ha fatto un gran cammino, da un migliaio d’anni
a questa parte. O non ammazzarsi, dice essa, o ammazzarsi con tutte le
regole della buona creanza.

Il giardino era abbastanza grande, e lo faceva parere più grande
lo stato di desolazione in cui lo avevano lasciato a gara i suoi
proprietarii ed inquilini. Correva un lungo pergolato nel mezzo,
ma scarso di viti, sguernito di pali e con la vòlta in più luoghi
disfatta. Nel fondo era un grand’albero di fico, dalle braccia
squallide e nere, che parevano cresciute per far venire la voglia
d’impiccarsi, anzi che per dar frutti alla gente. Di fiori e d’erbe
non si vedeva più traccia, su quella vasta superficie di terra
grigia e polverosa, che attestava l’incuria di parecchie generazioni
d’uomini spensierati, e il mal governo d’altrettante, se non più, di
lombrichi gaudenti. Era un brutto giardino, insomma, e uggioso che mai;
degnissimo campo ad una impresa come la nostra.

I secondi stettero un bel pezzo a colloquio; poi vennero sotto l’albero
di fico, dove io e il Nougarède facevamo dieci passi avanti e dieci
indietro, senza guardarci mai, e ci comandarono di metterci in maniche
di camicia. Obbedimmo prontamente e ci avanzammo tutti e due ad un
tempo verso il luogo assegnato.

Uno dei secondi aveva presa una coppia di spade, e la portava
incrociata nel forte delle lame, per offrirci con bel garbo la sua
merce dal lato della guardia. Come fu davanti a me col suo gesto
grazioso, ne afferrai una, salutando; e così fece il mio avversario.
Frattanto un altro dei secondi, nominato mastro di combattimento, così
prese a parlare, con la solennità conveniente all’ufficio:

— Cittadini! Noi non conosciamo che molto superficialmente la vostra
quistione, ma abbiamo dovuto conformarci alla vostra espressa volontà
di scioglierla con le armi, ad oltranza. Speriamo tuttavia non si
tratti che di un equivoco, di un malinteso, come ne occorrono tanti tra
uomini d’onore, facendoli trascorrere a parole acerbe, di cui ognuno si
duole in cuor suo, ma che nessuno vuol più ritrattare. Ad ogni modo,
poichè non vedete altra forma di aggiustamento tra voi, fuor quella
di tagliarvi la faccia, noi confidiamo che ciò avverrà lealmente, da
buoni cavalieri, con franco ardimento, con tutti i bollori del sangue,
se vi piace, ma senza odio barbaro, senza animosità, senza rancore,
tutte passioni indegne di valorosi soldati. Avete le armi nel pugno. Al
comando «_allez!_» sarete padroni di assalirvi; al comando «_arrêtez!_»
dovrete fermarvi, e vi meriterebbe un’accusa di fellonia il non farlo
in sull’atto. Avete capito?

— Sì; — rispondemmo ambedue ad un tempo.

— Da bravi, dunque; _allez!_ —

Andammo, come portava il comando. Il Nougarède, forse più astuto che
impetuoso per natura, mi saltò subito addosso per darmi un taglio di
primo appetito. Ma avvenne che io volessi la medesima cosa, e che noi
ci trovassimo faccia a faccia e pugno a pugno, coi ferri in aria e
impotenti a colpire. Io ero quattro o cinque dita più alto, ed anche
più forte di lui; nè mi sarebbe stato difficile un guadagno di lama.
Sentì egli il pericolo, e spiccò un salto indietro, tirandomi un colpo
di traverso che io parai istintivamente, mettendo il pugno in linea,
cosicchè il taglio della sua spada si arrestò sulla mia guardia.

Sorrisi, mandando a vuoto il terribile disegno, e quel sorriso lo
esasperò. Si morse le labbra, stette alcuni secondi fermo con le membra
raccolte, guardandomi fiso come una tigre sul punto di scagliarsi;
poscia tornò all’assalto con un paio di finte. Io non feci altro che
mettergli la punta al petto, e lo costrinsi a dare una seconda volta
indietro; quindi incalzai, minacciandogli un colpo alla testa. Credette
di potermi cogliere con una puntata, ma toccò un soprammano che gli
fece abbassare il pugno, e subito dopo, avendo io potuto guadagnargli
la lama, vide calare un fendente, che parò ritirando la testa ed il
petto, ma dimenticando di ritirare egualmente il piè destro. La mia
lama, scendendo impetuosa senza trovare nessuna parte nobile (scusate
il termine di macelleria cavalleresca), lo ferì invece alla gamba, poco
sopra il ginocchio.

— _Arrêtez!_ — gridò il mastro di combattimento.

Io mi fermai subito, mettendomi in posizione di difesa.

— Niente, niente! — esclamò il Nougarède. — È una miseria, una
sciocchezza. —

Ma sottovoce aggiunse, parlando co’ suoi secondi, che erano accorsi col
chirurgo:

— Non è stato neanche un colpo di scuola.

— È stato un fendente; — risposi io, che avevo udito il commento. — Non
era di scuola sottrarsi a mezzo, lasciando una gamba sul posto.

— Là, là, cittadini! — ammonì il mastro di combattimento. — Non
dimenticate che siete due lame mute, e che qui il diritto di
chiacchierare lo abbiamo solamente noi altri. —

Frattanto, il chirurgo esaminava la ferita. Essa era più lunga
che profonda, e, come diceva quel giovane alunno d’Esculapio, «non
interessava che gl’integumenti.» Il panno, di certo, aveva ammorzata la
furia del colpo. E a quel panno il nostro chirurgo fece anche più lungo
lo strappo, per poter condurre alla svelta la medicazione di un taglio,
che senza alcun dubbio si sarebbe saldato di prima intenzione.

— Ebbene, Nougarède, come ti senti ora? — chiese egli al ferito, dopo
avergli annodata la benda intorno alla gamba.

— Ti dico che non è nulla; — rispose quell’altro. — Vedi? Mi muovo
benissimo. —

Il chirurgo si strinse nelle spalle e diede un’occhiata espressiva
ai secondi, come se volesse dir loro: — Fate quel che vi pare; io non
c’entro.

— Va bene, — disse il mastro di combattimento, dopo aver udito il
parere dei colleghi. — Cittadini in guardia; _allez!_ —

Il Nougarède dimostrò subito col fatto che quella ferita non lo
incomodava punto. Per altro, stette più fermo alla posizione, non
si sbracciò più tanto, come aveva fatto prima. Io, per rendergli la
pariglia, ed anche un poco per cansargli la fatica (tanto è vero che
in ogni cuore umano si conserva un briciolo di compassione!) attaccai a
mia volta, senza troppo incalzare. Ci buscai, a quel giuoco, una botta
rovescia alla parte interna del braccio, che guai al mio bicipite, se
niente niente la lama avesse potuto scorrervi sopra col filo. Il colpo
doveva intormentirmi il muscolo; ma proprio allora anche la mia spada
era in aria, ed ebbe il tempo di giungere il Nougarède alla faccia.
Però, mentre io sentivo il dolore del colpo ricevuto, che a tutta
prima mi parve una piattonata, sul volto del mio avversario appariva
uno sberleffe, che dal mezzo della fronte, attraversando la radice del
naso, gli scendeva in fondo alla guancia.

Fummo tosto fermati, come potete immaginarvi, e tutti si strinsero
intorno al Nougarède, per veder la ferita e udir la sentenza del
chirurgo.

Anche quella volta poteva darsi che fossero interessati a mala pena
gl’integumenti. Ma lo squarcio era largo e ne sgorgava molto sangue;
inoltre, poteva essere intaccato l’osso frontale, o semplicemente il
periostio, magari anche l’etmoide, e Dio sa quale altra diavoleria.

Mentre il chirurgo esaminava, e i secondi stavano tutti attenti alle
sue spiegazioni, io davo un’occhiata pietosa al mio braccio. Nessuno
se ne era avveduto, poichè l’attenzione dei testimoni aveva dovuto
rivolgersi alla ferita molto visibile del Nougarède; ma io avevo la
manica tagliata, e il pesce, o bicipite che vogliam dire, segnato
da una linea sanguinosa, per tutta la sua lunghezza fin quasi alla
piegatura interna del braccio. Se le spade d’ordinanza, usate da noi,
fossero state più curve e affilate, o se il mio avversario avesse avuto
tempo di tirar l’arme a sè, facendola strisciar meglio sulla mia carne,
vi so dir io che mi affettava per bene.

Tirai prudentemente a posto i lembi della manica, accostai il braccio
al fianco, e giustificai quella nuova posizione mettendo la mano in
tasca. Anzi per dirvi tutto, non ci misi neanche la mano intiera, ma
solamente il pollice, e finsi con le quattro dita libere di battere
il tamburo sulla coscia. Non era una operazione piacevole, in verità;
ma mi premeva di nascondere i danni sofferti, e la vanità soddisfatta
comandava al dolore.

— Dunque, è una ferita grave? — chiese il mastro di combattimento al
chirurgo.

— Abbastanza; — rispose questi.

— Si può ripigliare?

— Sul mio onore, no. Io non consiglierò mai la continuazione dello
scontro in queste condizioni. —

Il mastro di combattimento rimase alcuni istanti a colloquio coi tre
colleghi, e poi profferì la sentenza:

— L’onore è salvo; cittadini, deponete le armi. —

Io ero già per accostare la mia ad un palo di vite, quando vennero i
miei due secondi a raccoglierla.

— Avete avuto fortuna! — mi disse uno di loro.

— Perchè? — domandai.

— Perchè il Nougarède è un forte schermitore, e avrebbe potuto
spaccarvi la testa, così scoperto come eravate quasi sempre. Ma oggi
egli era troppo riscaldato, e non ha fatto neanche la metà del suo
giuoco. —

Gradii poco il complimento dei miei rispettabili secondi; e il malumore
che n’ebbi, fu cagione che io dimenticassi perfino di ringraziarli
della cortesia che mi avevano usata, prestandomi i loro servigi.
Ho sempre veduto nel corso della mia vita avventurosa che l’uomo si
contenta di apparire secondo in molte cose, ma che nelle imprese di
guerra, e nella scherma, che è una piccola guerra, vuol far sempre
lui la prima figura, e non sa rassegnarsi nè dall’idea di aver dato
con l’aiuto del caso, nè a quella di aver ricevuto per l’abilità
dell’avversario. Egli ha sempre la dottrina e la pratica dalla sua,
l’occhio accorto, il braccio fulmineo, e tutte le altre qualità
maestre dello schermidore eccellente; ferito, potrà ammettere di aver
avuto sfortuna; feritore, non ammetterà mai che la fortuna lo abbia
assistito. Vanità, il tuo nome è.... uomo!

Io, per allora, avevo quella di nascondere il colpo ricevuto. Infilai
frettolosamente la sottoveste e il soprabito, voltandomi in guisa da
non lasciar vedere la manica insanguinata, che feci passare per la
prima al coperto. Infine era una cosa da nulla, e i secondi non ci
avevano neanche badato; che bisogno c’era egli di accusar ricevuta?
Povero orgoglio umano! Come sarebbe stato meglio un pochino di modestia
ed anche di sincerità!

I miei due secondi mi chiesero se fossi disposto a riconciliarmi col
Nougarède, stringendogli la mano, secondo l’uso.

— Viene da lui la proposta? — domandai.

— No, — mi risposero. — Facciamo la domanda a voi, mentre a lui la
fanno gli altri secondi. —

Io esitavo, pensando ad Adriana. E forse avrei detto di sì, rammentando
che il vincitore era in obbligo di mostrarsi generoso, se in quel punto
Adriana non fosse capitata in mezzo a noi. Com’era potuta entrare nel
giardino? L’uscio di certo era semplicemente chiuso col saliscendi.

Ella entrò frettolosa, ed io mi tirai da un lato per lasciarla passare.
Ma ella si fermò davanti a me, mi squadrò dal capo alle piante, e mi
disse:

— Come? Non vi siete ancora battuti?

— Abbiamo finito; — risposi.

— E non siete ferito?

— No, signorina.

— Ah! — gridò ella. — Nougarède?... —

E corse, così dicendo, verso il crocchio che gli altri due secondi e il
chirurgo facevano intorno al ferito.

— Vi prego, cittadina; — disse il chirurgo, volgendosi a lei; — non
turbate il nostro povero amico. —

Il Nougarède era adagiato sopra un seggiolone, che avevano portato
poc’anzi dalla casa vicina. Il suo collega aveva finito allora di
lavargli la ferita.

— Adriana! — diss’egli, sforzandosi di sorridere. — In che stato mi
vedete!...

— Ah, Edmondo! — esclamò ella, piangente. — E per cagion mia?

— Datevi pace, Adriana; — rispose il Nougarède; — io ho veduto scorrere
il vostro sangue, e voi ora vedete scorrere il mio.

— Povero Edmondo! — riprese Adriana. — Vorrei esser morta io, anzi che
vedervi soffrire così. —

Io mi ero avvicinato per un moto istintivo di curiosità. A quelle
parole di Adriana, intesi che il mio posto non era laggiù, e me ne
andai stizzito verso l’uscio.

Ma il chirurgo, inflessibile, aveva allontanata anche lei. Doveva
cucire le labbra della ferita, e la presenza di quella donna dava noia
a lui, mentre poteva turbare il ferito.

Senza volerlo, mi ritrovai di bel nuovo al cospetto di Adriana. Chinai
umilmente la testa e le dissi:

— Abbiate compassione!

— Compassione, di te? — mi rispose. — Perchè non ti sei fatto ferire?

— Adriana, il duello è come la guerra; si è colti, o si è risparmiati,
senza sapere il perchè.

— No; — diss’ella, con accento sdegnoso. — Dovevi farti ferire. Hai
preferito avere il vantaggio anche qui. Va, piemontesino orgoglioso,
che ferisci tutti, che ferisci sempre, e porti la pelle salva da tutti
gli scontri! Hai troppo orgoglio, per vincere anche in amore. Va, io
avrei potuto amarti, e se t’odio, è colpa tua! —

Non so che cosa avrei potuto risponderle. Balbettai qualche parola
vuota di senso; ma essa non volle neanche sentirmi, e tornò verso il
ferito.

— Edmondo, — mormorò ella, appena il chirurgo ebbe compiuta
l’operazione, — mi perdonate voi?

— Che cosa? — disse il Nougarède, stendendole la mano. — Io debbo
chiedere scusa a voi, per le parole che mi sono lasciato sfuggire in un
momento di collera, mentre io non avevo nessun diritto su voi.

— Li avete tutti, ora, — rispose Adriana, — perchè vi amo. M’intendete
voi bene? — soggiunse incalzando, e quasi con l’anima sulle labbra. —
Vi amo! —

Io non potevo e non volli udir altro. Salutai col gesto i miei secondi,
e fuggii da quel triste luogo, maledicendo alla mia sciocchezza, e a
tutte le umane passioni, dall’amore all’orgoglio.

Strana creatura, che io ero destinato a non intender mai! Ella mi
avrebbe amato, se io mi fossi lasciato ferire dal bel Nougarède! Ma
bisognava indovinarla, Dio santo; ed io, non che indovinar quella,
dovevo farla bassa in molte altre congiunture della mia vita. Che dire,
amici miei? Non ero nato per le donne. Potevo farmi prete, come mi
consigliava la Vergine del reggimento; ma voi sapete che io avevo già
perduta l’occasione. Se fossimo vissuti in altri tempi, ve lo confesso,
dopo quella triste scena, mi sarei fatto volontieri frate, per
dimandare al chiostro la pace del cuore. I tempi nuovi e grossi vollero
altro da me; mi rifecero soldato. —




CAPITOLO XX.

Un pizzico di filosofia.


Arrivato a questo punto della sua narrazione, Monsù Tomè fece un gran
sospiro, prese il suo quinto bicchiere, stette un pochino a guardarlo,
e poi lo accostò lentamente alle labbra. Aveva gli occhi turgidi, il
bravo veterano, e una lagrima gli cadde nei vino; lagrima vecchia,
lagrima dimenticata, che aveva trovata l’occasione di escire. Così
temperato d’amaro il suo calice, Monsù Tomè lo bevve d’un fiato.

Pensando a tutti quei casi ch’egli ci aveva raccontati, e rispettando
la sua commozione, ci eravamo raccolti, io e l’amico Tommaso, in
un religioso silenzio. Ma io ero giovane, e impaziente nella mia
curiosità. Dopo tre o quattro minuti liberalmente concessi alla
mestizia dei ricordi, non potei più stare alle mosse.

— E non l’avete più riveduta? — incominciai. —

Monsù Tomè non rispose alla domanda. Evidentemente, bisognava lasciarlo
fare a suo modo e contentarci delle notizie che egli voleva dare
seguendo un filo determinato da lui.

— L’armistizio di Cherasco, — diss’egli, — era stato firmato il 26
di aprile. Cedute le fortezze, non c’era da far altro che accettare
la pace, che fu difatti conchiusa il 15 di maggio a Parigi. Da quel
giorno il Piemonte, spogliato della Savoia e della contea di Nizza,
rimase sotto la dipendenza della Repubblica francese. Le scorrerie,
le imposizioni, le estorsioni, le angherie d’ogni maniera, commesse
a danno nostro dagli invasori, mentre il generale Buonaparte aveva
condotta la guerra in Lombardia, abbreviarono i giorni di Vittorio
Amedeo III. Morto lui nel novembre, gli successe Carlo Emanuele IV,
a cui, dopo la caduta della fortezza di Mantova, ultimo baluardo
dell’Austria, fu gran ventura conchiudere con la Francia un’alleanza
offensiva e difensiva, che in verità si sarebbe potuto stringere
con più vantaggio sei anni prima. Dovevamo fornire diecimila uomini
all’esercito francese, e la pace di Leoben e il trattato di Campoformio
ci liberarono dall’obbligo; ma l’Austria ci serbò rancore di quella
clausola, e la Francia non ebbe occasione di mostrarsi grata dei nostri
servigi.

Passo rapidamente sulle cose minute, come a dire sulle continue noie
che ci cagionò la politica del signor Ginguené, ambasciatore francese
a Torino. Dovevamo ristabilir l’ordine ad ogni tratto qua e là, dove
apparivano bande d’insorti, e più particolarmente sui confini liguri
e lombardi; ma anche questo parve un cospirare contro la Francia,
e fummo costretti a dare in pegno la cittadella di Torino. Un bel
giorno s’inventa la storiella di una lettera scritta da un nostro
uomo di Stato, nella quale si accennava ad un accordo tra le corti
di Torino e di Napoli, per assalire simultaneamente e schiacciare
l’esercito repubblicano. Il presidio francese si chiude in cittadella;
l’ambasciatore fa partire la moglie per Genova, fingendo di non
crederla sicura a Torino, e il generale Victor marcia con dodicimila
uomini sulla nostra capitale. Si tenta di persuaderlo a più miti
consigli, ma invano; è guerra dichiarata e non si torna più indietro;
soltanto si può fare una convenzione, per assicurare la partenza ai
reali di Piemonte e metterli in via per l’isola di Sardegna. E bisognò
passare di là. Il 9 dicembre 1798 la famiglia reale escì dal palazzo,
donde fu scortata per tutto il viaggio da Torino a Parma, e da Parma
a Bologna, fino alla frontiera toscana, in mezzo a continui pericoli.
Imbarcata a Livorno, e protetta da una fregata inglese contro la caccia
dei corsari francesi, prese terra finalmente a Cagliari, il 13 marzo
del 1799.

Io ero rimasto qualche tempo a casa, sopportando i miei dolori
e assistendo a quelli del nostro povero paese. Vincolato dalla
convenzione di Cosseria, non avevo potuto nel primo anno riprender
servizio; potei farlo dopo l’alleanza conchiusa tra il nuovo re e la
repubblica francese, e partecipai nel 1798 alle ripetute spedizioni
dell’esercito piemontese contro le bande giacobine, che il signor
Ginguené ci tirava abilmente in casa, dai confini della repubblica
Ligure e da quelli della repubblica Cisalpina. Poi vennero i tristi
giorni della monarchia, e noi fummo licenziati, restando il Piemonte
sotto l’amministrazione francese. Seguirono gli errori del Direttorio
e le sue guerre sfortunate in Italia. Il generale Buonaparte era
andato a cercar gloria in Egitto; l’Austria spadroneggiava da capo sul
Ticino e sul Po; rinascevano da per tutto le speranze della reazione
europea e quelle della restaurazione piemontese ad un tempo; perchè,
a farlo a posta, la causa cattiva si confondeva colla buona, e noi,
non ancora educati dalla esperienza, dovevamo aspettare dalle vittorie
austriache la libertà del Piemonte. Ritornò il Buonaparte, cacciò
l’imbelle Direttorio, fu primo Console, vinse a Marengo, e col trattato
di Luneville assicurò la sua prima conquista. Molti ne furono lieti
a Torino, o perchè amassero la Repubblica, o perchè sentissero l’aria
fecondatrice dei tempi nuovi. Noi, vecchi soldati della monarchia, si
capisce, eravamo mal veduti e lasciati in disparte.

Ma potevamo noi restare di buona voglia segregati dal mondo? Non
dovevamo vivere la vita del nostro paese anche noi? Nel 1804 il Primo
Console diventava imperatore; nel 1805 scendeva in Italia, per cingere
a Milano la corona di ferro. Fu anche a Torino, e il generale Menou,
che comandava la piazza, radunò per quella occasione al palazzo reale i
notabili della città, non dimenticando i vecchi soldati. Strano uomo,
quel generale Menou! Per amore della moglie, che era egiziana, aveva
abbracciato l’islamismo al Cairo, e si faceva chiamare Abdallah. Or
dunque, Abdallah Menou volle a palazzo Reale tutti coloro che avevano
servito con qualche onore nell’esercito, e tra gli altri anche noi
granatieri del 1796, e difensori di Cosseria.

Napoleone (perchè oramai bisogna chiamarlo così) venuto a fermarsi
davanti a noi, ci riconobbe all’uniforme, e ricordò la bella resistenza
che avevamo fatta, usando parole che ci toccarono il cuore. Ah, se
fosse stato là il nostro colonnello, l’eroe di Cosseria, ad udirlo!

— Il valore è da onorarsi sempre, dovunque si trovi; — disse tra
l’altre cose il grand’uomo, — Stamane ho provveduto con un decreto,
perchè sia assicurata una pensione alla vedova di Filippo Del Carretto,
morto da eroe per la gloria d’Italia, che è oramai gloria della mia
stessa corona. Il giovine marchese Del Carretto avrà per mia prima cura
una educazione militare, degna del padre suo e delle nobili tradizioni
della sua illustre famiglia. —

Fattosi quindi a parlare con ciascheduno di noi, chiese al cavalier
Birago perchè, così giovane, avesse lasciato il servizio.

— Sire, — rispose questi, — ho due fratelli feriti ed invalidi; una
madre, di età molto avanzata, richiede tutte le mie cure. —

L’imperatore fece la sua solita spallata e bisbigliò qualche parola al
fido Abdallah. Mi parve d’intendere che gli raccomandasse di vincere la
ritrosia del cavaliere, facendogli accettare un grado nell’esercito.

— E voi, chi siete? — soggiunse poscia, rivolgendosi a me.

— Sire, — risposi, — ero sergente a Cosseria, ed ebbi l’onore di sedere
alla vostra mensa, nel quartier generale.

— Ah, il diplomatico! — esclamò egli, sorridendo.

Proprio così! Quell’uomo maraviglioso si ricordava perfino di quel
ridicolo particolare.

— Vediamo; — ripigliò; — anche voi avete impedimenti di famiglia.

— No, Sire, nessuno.

— Ah, bene! Sergente dei granatieri piemontesi, passerete sottotenente
nell’esercito d’Italia, per combatter presto contro i nemici della
vostra patria ampliata. —

Così dicendo, mi posò una mano sulla spalla, come aveva fatto nove
anni prima Filippo Del Carretto, e a me parve di aver già un secondo
spallino. Ma questo, pur troppo, indugiò molto a venire. Non ebbi per
un pezzo occasioni di avvicinare il grand’uomo e di destare la sua
attenzione. Mi parve già una grande fortuna, dopo Ulm ed Austerlitz,
esser chiamato a far parte del drappello che portava a Parigi le
bandiere ed i trofei della doppia campagna contro l’esercito francese
ed il russo. Era una grande ricompensa, esser mandati a Parigi in que’
tempi, e molti prodi del grande esercito morirono senza ottenerla.
Fui dunque alla capitale della Francia, anzi, per allora, del mondo
civile; e là, una mattina, sulla piazza delle Vittorie, m’imbattei nel
chirurgo Nougarède. Egli aveva lasciato il servizio ed era vestito alla
borghese; ma io lo riconobbi facilmente allo sfregio del viso e alla
guardata di stupore che mi diede nell’atto di ravvisarmi. Sperando
di non essere osservato da me, tirò di lungo per la sua strada; ma
certamente non tacque ad altri di avermi incontrato a Parigi, poichè il
giorno dopo ricevetti una graziosa letterina. La persona che l’aveva
scritta, desiderava vedermi e dirmi un mondo di cose, epperciò mi
pregava di essere ad una cert’ora della mattina seguente al Palais
Royal, sotto gli archi della Galleria d’Orléans.

— Ah! — esclamai io, sentendo fremere da capo le corde tese del dramma.

— Lo credereste? — seguitò tranquillamente il narratore. — Non andai,
non risposi, non mi feci vivo coi morti.

— Coi morti! E perchè?

— Perchè io li avevo per tali, i miei poveri affetti d’una volta;
— rispose il veterano. — A che frugar nelle ceneri? C’è sempre da
scottarsi, o da tingersi. Amico mio, credete a me, non è bene rivedere
la donna che si amò inutilmente. Già troppo male avevo ripetuta a
Savona la scena di Cosseria. Pensate forse che non avrei fatto qualche
altra sciocchezza a Parigi? Sciocchi si nasce e sciocchi si muore. Del
resto, vediamo: se ella fosse stata felice, mi avrebbe addolorato per
un verso; se fosse stata infelice, mi avrebbe addolorato per un altro.
Ed io, pieno di tristi presentimenti, mi sono sottratto ad una terza
sconfitta, ho lasciata la vergine del reggimento nel limbo dei ricordi
giovanili, bella immagine luminosa, e strana per giunta, come era tutto
strano in quel tempo eroico e pazzo, che si è dileguato oramai, e che
vive soltanto nella memoria d’un migliaio d’invalidi.

— Beviamo! — diss’io, rassegnato.

— Sì, beviamo; — riprese Monsù Tomè. — Infine, la gioia più vera e
costante è qua dentro. Si arriva agli onori, e si trova la noia nel
fondo; o non si arriva, e la vita è sciupata egualmente. Non c’è altro
di buono, nel mondo, che la gioventù e la speranza; ma questa è vana,
e l’altra è passeggera. La morte delle passioni è lo stadio vitale
più lungo; ora, questo misero stadio vuole la quiete; ama il caldo e
gradisce un bicchiere di buon vino. A chi vi dice che ciò è volgare,
rispondete: E noi che cosa siamo? Angioli, forse? E poi, nel vino è una
dolce ebbrezza, un principio d’oblìo, immagine del grande, e nero, e
freddo, oblìo, che tutti ci attende alla svolta della strada.

— Quello è per la vile argilla; — osservai.

— Già, — rispose egli, — perchè tutto si restituisce. Abbiamo preso
alla terra; rendiamo dunque alla terra.

— Pensiero giustissimo! — replicai. — Il corpo dunque alla terra, e lo
spirito ai cieli. Ho questa fede io, e mi auguro l’abbiate anche voi,
che sulla terra avete amato, sofferto, operato; sopra tutto operato!

— Sicuro; — conchiuse Monsù Tomè; — incominciando da tutti i fiumi
della Russia. E nella speranza dei giorni immortali, non abbiamo paura
d’un bicchiere di vino. —

Così dicendo, il nostro vecchio amico si recò il sesto alle labbra.

Io non istarò a riferirvi i discorsi che si fecero, o le frasi scucite
che si barattarono tra il sesto e il decimo della serie, perchè non
hanno che fare con la storia narrata, e, se Dio vuole, finita. Vi basti
sapere che l’eroe filosofo finì secondo l’uso la sua giornata festiva,
cioè sotto la tavola. Per quella volta, via, egli se l’era guadagnato,
un momento di riposo! Teresina, la nerboruta fantesca, venne alla sua
ora, raccolse quel sacco d’ossa e di memorie, e lo portò _more solito_
a letto. Per un valoroso della campagna di Russia, che era ritornato da
Mosca, quella conclusione domenicale si poteva chiamare «il passaggio
della Teresina.»

Monsù Tomè, vecchio e venerato fantasma della mia adolescenza, ho
aspettato molti anni a parlare di voi, e almeno da trenta voi bevete
il nèttare al banchetto dei celesti, senza pericolo di andar sotto la
tavola. Bevete in pace, nobile amico, che mi avete fatto pensare tante
volte con calma filosofica, non disgiunta da qualche sorriso, alle
grandezze e alle miserie del mondo. Beato voi, che saprete tante cose,
a me rimaste oscure, non che ai lettori discreti! Adriana, per esempio,
è stata amata dal Nougarède così fortemente come fu amata da voi? E per
contro, sarebbe stata amata così e ricordata da voi per tutta la vita,
se vi fosse caduta nelle braccia come una povera sciocca, e vi avesse
tolto ciecamente per suo signore e padrone? Ecco un problema, perbacco!
Lo aggiungeremo a tutti quelli che già affliggono l’umanità, e che la
scienza, bontà sua, promette ad ogni tanto di risolvere.


  FINE.




INDICE


  CAPITOLO                                 Pag.
      I. La presentazione dell’eroe           1
     II. Lo sguardo dell’aquila              15
    III. Il battaglione d’acciaio            26
     IV. «Avanti Monferrato!»                43
      V. Chi comanda, a Cosseria?            61
     VI. Giornata calda                      77
    VII. La vergine del reggimento           92
   VIII. Il Leonida di Cosseria             115
     IX. In fondo al burrone                133
      X. Tra sera e mattina                 149
     XI. Sul tamburo                        167
    XII. Presentate le armi                 185
   XIII. Ex ungue leonem                    201
    XIV. Sulle orme di Adriana              225
     XV. All’arme bianca                    241
    XVI. Piccola Odissea                    259
   XVII. Scuola d’amore                     282
  XVIII. Si dà nei lumi                     302
    XIX. Indovinarla!                       320
     XX. Pizzico di filosofia               338




DEL MEDESIMO AUTORE:


  =Capitan Dodero= (1865). _Settima edizione_                   L. 2 —
  =Santa Cecilia= (1866). _Quinta edizione_                     »  2 —
  =I Rossi e i Neri= (1870). _Seconda edizione_                 »  6 —
  =Il libro nero= (1871), _Quarta edizione_                     »  2 —
  =Le confessioni di Fra Gualberto= (1873). _Seconda edizione_  »  3 —
  =Val d’Olivi= (1873). _Terza edizione_                        »  2 —
  =Semiramide=, racconto babilonese (1873). _Terza edizione_    »  3 50
  =La legge Oppia=, commedia (1874)                             »  1 —
  =La notte del commendatore= (1875). _Seconda edizione_        »  4 —
  =Castel Gavone= (1875). _Seconda edizione_                    »  2 50
  =Come un sogno= (1885). _Settima edizione_                    »  3 50
  =Cuor di ferro e cuor d’oro= (1885). _Quarta edizione_        »  3 50
  =Tizio Caio Sempronio= (1877). _Seconda edizione_             »  3 —
  =L’olmo e l’edera= (1867). _Ottava edizione_                  »  3 50
  =Lutezia= (1878). _Seconda edizione_                          »  2 —
  =Diana degli Embriaci= (1877). _Seconda edizione_             »  3 —
  =La conquista d’Alessandro= (1879) _Seconda edizione_         »  4 —
  =Il tesoro di Golconda= (1879) _Seconda edizione_             »  3 50
  =La donna di picche= (1880) _Seconda edizione_                »  4 —
  =L’undecimo Comandamento= (1881). _Seconda edizione_          »  3 —
  =Il ritratto dei diavolo= (1882). _Seconda edizione_          »  3 —
  =Il biancospino= (1882)                                       »  4 —
  =L’anello di Salomone= (1883)                                 »  3 50
  =O tutto o nulla= (1883)                                      »  3 50
  =Fior di Mughetto= (1883)                                     »  3 50
  =Dalla Rupe= (1884)                                           »  3 50
  =Il conte Rosso= (1884)                                       »  3 50
  =Amori alla macchia= (1884)                                   »  3 50

IN PREPARAZIONE:

_Il lettore della principessa._




NOTE:


[1] «_La garde meurt et ne se rend pas_» è stato fatto dire, a
Waterloo, dal valoroso Cambronne. Ma la frase di Filippo Del Carretto
ha diciott’anni di precedenza; ed è autentica.





Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo
senza annotazione minimi errori tipografici.





*** END OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK MONSÙ TOMÈ ***


    

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agreement shall be interpreted to make the maximum disclaimer or
limitation permitted by the applicable state law. The invalidity or
unenforceability of any provision of this agreement shall not void the
remaining provisions.

1.F.6. INDEMNITY - You agree to indemnify and hold the Foundation, the
trademark owner, any agent or employee of the Foundation, anyone
providing copies of Project Gutenberg™ electronic works in
accordance with this agreement, and any volunteers associated with the
production, promotion and distribution of Project Gutenberg™
electronic works, harmless from all liability, costs and expenses,
including legal fees, that arise directly or indirectly from any of
the following which you do or cause to occur: (a) distribution of this
or any Project Gutenberg™ work, (b) alteration, modification, or
additions or deletions to any Project Gutenberg™ work, and (c) any
Defect you cause.

Section 2. Information about the Mission of Project Gutenberg™

Project Gutenberg™ is synonymous with the free distribution of
electronic works in formats readable by the widest variety of
computers including obsolete, old, middle-aged and new computers. It
exists because of the efforts of hundreds of volunteers and donations
from people in all walks of life.

Volunteers and financial support to provide volunteers with the
assistance they need are critical to reaching Project Gutenberg™’s
goals and ensuring that the Project Gutenberg™ collection will
remain freely available for generations to come. In 2001, the Project
Gutenberg Literary Archive Foundation was created to provide a secure
and permanent future for Project Gutenberg™ and future
generations. To learn more about the Project Gutenberg Literary
Archive Foundation and how your efforts and donations can help, see
Sections 3 and 4 and the Foundation information page at www.gutenberg.org.

Section 3. Information about the Project Gutenberg Literary Archive Foundation

The Project Gutenberg Literary Archive Foundation is a non-profit
501(c)(3) educational corporation organized under the laws of the
state of Mississippi and granted tax exempt status by the Internal
Revenue Service. The Foundation’s EIN or federal tax identification
number is 64-6221541. Contributions to the Project Gutenberg Literary
Archive Foundation are tax deductible to the full extent permitted by
U.S. federal laws and your state’s laws.

The Foundation’s business office is located at 809 North 1500 West,
Salt Lake City, UT 84116, (801) 596-1887. Email contact links and up
to date contact information can be found at the Foundation’s website
and official page at www.gutenberg.org/contact

Section 4. Information about Donations to the Project Gutenberg
Literary Archive Foundation

Project Gutenberg™ depends upon and cannot survive without widespread
public support and donations to carry out its mission of
increasing the number of public domain and licensed works that can be
freely distributed in machine-readable form accessible by the widest
array of equipment including outdated equipment. Many small donations
($1 to $5,000) are particularly important to maintaining tax exempt
status with the IRS.

The Foundation is committed to complying with the laws regulating
charities and charitable donations in all 50 states of the United
States. Compliance requirements are not uniform and it takes a
considerable effort, much paperwork and many fees to meet and keep up
with these requirements. We do not solicit donations in locations
where we have not received written confirmation of compliance. To SEND
DONATIONS or determine the status of compliance for any particular state
visit www.gutenberg.org/donate.

While we cannot and do not solicit contributions from states where we
have not met the solicitation requirements, we know of no prohibition
against accepting unsolicited donations from donors in such states who
approach us with offers to donate.

International donations are gratefully accepted, but we cannot make
any statements concerning tax treatment of donations received from
outside the United States. U.S. laws alone swamp our small staff.

Please check the Project Gutenberg web pages for current donation
methods and addresses. Donations are accepted in a number of other
ways including checks, online payments and credit card donations. To
donate, please visit: www.gutenberg.org/donate.

Section 5. General Information About Project Gutenberg™ electronic works

Professor Michael S. Hart was the originator of the Project
Gutenberg™ concept of a library of electronic works that could be
freely shared with anyone. For forty years, he produced and
distributed Project Gutenberg™ eBooks with only a loose network of
volunteer support.

Project Gutenberg™ eBooks are often created from several printed
editions, all of which are confirmed as not protected by copyright in
the U.S. unless a copyright notice is included. Thus, we do not
necessarily keep eBooks in compliance with any particular paper
edition.

Most people start at our website which has the main PG search
facility: www.gutenberg.org.

This website includes information about Project Gutenberg™,
including how to make donations to the Project Gutenberg Literary
Archive Foundation, how to help produce our new eBooks, and how to
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