The Project Gutenberg eBook of Monsù Tomè This ebook is for the use of anyone anywhere in the United States and most other parts of the world at no cost and with almost no restrictions whatsoever. You may copy it, give it away or re-use it under the terms of the Project Gutenberg License included with this ebook or online at www.gutenberg.org. If you are not located in the United States, you will have to check the laws of the country where you are located before using this eBook. Title: Monsù Tomè racconto Author: Anton Giulio Barrili Release date: September 10, 2025 [eBook #76855] Language: Italian Original publication: Milano: Treves, 1885 Credits: Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (This file was produced from images made available by the HathiTrust Digital Library) *** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK MONSÙ TOMÈ *** MONSÙ TOMÈ RACCONTO DI ANTON GIULIO BARRILI MILANO FRATELLI TREVES, EDITORI. 1885. PROPRIETÀ LETTERARIA. _Riservati i diritti di traduzione._ MONSÙ TOMÈ CAPITOLO PRIMO. La presentazione dell’eroe. «Niente si perde, a questo mondo, e tutto viene in taglio, quando è la sua ora.» Così dice la filosofia popolare, espressa in proverbi, e così ripeteva spesso la mia carissima nonna, filosofando la parte sua. È poi vera, la sentenza? Pensandoci bene, mi pare che ella debba intendersi con qualche restrizione. Vedete, per esempio; mi viene oggi in taglio anche il ricordo di Monsù Tomè, ma pur troppo si è perduta nell’animo mio la memoria del suo riverito cognome. L’ho io mai saputo, del resto? Dubito, in verità, di non aver conosciuto quell’ottimo personaggio altrimenti che col nome di battesimo, raccorciato alla piemontese, e nobilitato dal suo titolo accompagnativo. Comunque sia, scrivo oggi di lui, prima che si perda anche, cancellato dalla mia memoria, il suo nome di battesimo. _Bartolomeo, Tomè, Monsù Tomè_, fu un nome proprio assai comune nel secolo scorso e nei principii del secolo presente. Ora hanno preso il sopravvento gli Ettori, gli Alessandri, i Cesari, gli Attilii, tutti nomi d’eroi, che fanno augurar bene delle nuove generazioni. Ma anche Monsù Tomè fu un eroe; per lui l’esperimento è fatto, e non c’è più da temere che gli augurii si sperdano, o che le speranze vadano in fumo. Conobbi il brav’uomo a Loano, dove, nei primi anni della mia adolescenza, andavo spesso a passare qualche settimana, in casa d’una mia zia. Tommaso Marchesani, il mio vecchio amico loanese, che aveva forse trent’anni più di me, e trenta meno di Monsù Tomè, aveva i requisiti necessari per un ottimo anello di congiunzione. Mercè sua, io quattordicenne entrai in una certa dimestichezza con quell’uomo, che già era a mezza strada fra i settanta e gli ottanta. Anche così avanti negli anni, Monsù Tomè era tuttavia di buon osso. Alto ed asciutto, leggermente curvo nelle prime vertebre, ma sostenuto in vista dalla rigida andatura soldatesca, il viso incartapecorito, ma con la punta del naso rosseggiante come una miniatura di vecchio antifonario sul bianco delle basette sempre irte a guisa di stecchi, Monsù Tomè aveva il tipo dell’antico ufficiale napoleonico; e cert’aria di malinconia che regnava su quel volto d’altri tempi, pareva rimpiangere un lontano periodo di cadute grandezze, di eroiche imprese, di memorabili gesta, non più in armonia con la prosaica mediocrità del giorno presente. Sarà forse per questo, che io, quando penso a Don Chisciotte, il triste cavaliero della Mancia, non so figurarmelo altrimenti che con la fisonomia di Monsù Tomè, ufficiale di sanità, o comandante di spiaggia (il titolo non lo rammento più esattamente) nella fedelissima città di Loano. In quel modesto ufficio egli era stato sbalestrato, dopo i trattati del Quindici e il ritorno dei reali di Sardegna a Torino, con rispettivo accrescimento di territorio sulla riva del mare ligustico. Era solo, oramai, del suo sangue; in gioventù non aveva avuto agio di prender moglie, e a prenderla in vecchiaia non c’era più sugo; perciò viveva i suoi ultimi anni da scapolo, aspettando il bacio nuziale della morte e contentandosi dei servigi d’una vecchia fantesca. Parlava poco, di solito; anzi, per sei giorni della settimana, non diceva che le parole necessarie al disbrigo delle facende d’uffizio, le quali, in verità, non gli davano molto travaglio. Ma egli era solo, anche in uffizio; i registri li teneva in ordine lui, e, quando aveva segnati i suoi arrivi e le sue partenze in libera pratica, trovava ancora il modo di riempire con certe note storiche la colonna delle osservazioni. Era una specie di letterato, il povero Monsù Tomè; uno scrittore andato a’ cani. La sua prima vocazione era stata di farsi prete; perciò aveva fatto un corso di studi classici nel seminario di Mondovì; ma la guerra era scoppiata improvvisamente tra il Piemonte e la Repubblica Francese, ed egli aveva barattato la tonaca e il nicchio del seminarista, con la falda mostreggiata e la lucerna del granatiere di Monferrato. Ciò basti a spiegarvi la letteratura di Monsù Tomè; ora torniamo alla settimana del vecchio comandante di spiaggia. La domenica, giorno sacro al riposo dei registri, Monsù Tomè scioglieva volontieri la lingua, se trovava qualcheduno con cui passare un’oretta. Se non lo trovava, niente paura; egli mostrava con l’esempio che un uomo può bastare a sè stesso. Quel giorno di riposo, egli non lo dava più al re, lo concedeva alla propria persona, ma cercando egualmente di far onore al re Carlo Alberto, che egli serviva fedelmente, dopo aver servito i suoi antecessori, e lo stesso Napoleone, ficcatosi in mezzo a loro, come una bietta enorme nella spaccatura d’un tronco di quercia. Prima di tutto, si metteva in gran divisa, come ne aveva il diritto per il suo grado di luogotenente; calzoni di nanchino, uniforme di verde indugio, o di verde bottiglia, se vi piace meglio, bottoni dorati e mostreggiature gialle, la spada alla cintura, e sulla testa un gran casco di cuoio lucido, in forma di pentola rovesciata, con una grossa nappa gialla che faceva capolino dallo spigolo. Così vestito, passeggiava pomposo per le vie di Loano; poi, ritornava a casa, nella sala da pranzo, dov’era ancora la tovaglia sul desco, e sulla tovaglia un bel fiasco di vino, con dieci bicchieri schierati in battaglia. Perchè dieci? Non so; forse rappresentavano l’ultima misura di capacità del bevitore. Perchè in fila? Or ora vedrete. Monsù Tomè li riempiva tutti, uno dopo l’altro, per non aver da durare altra fatica; li contemplava un tratto, con occhio benevolo; poscia si adagiava sul seggiolone, accanto alla tavola, con la spada raccolta fra le ginocchia, e il suo casco tirato un po’ indietro verso la nuca, come un buon guerriero che non è in mostra sulla piazza d’armi, o in volta per le strade, e non deve più dare esempio di perfetta compostezza agli inferiori, nè di euritmia militare ai borghesi. Così seduto, contemplava con aria di suprema soddisfazione i suoi dieci bicchieri; stringeva l’occhio ammiccando; poi stendeva la mano al primo della fila e lo sorseggiava beatamente, facendo schioccare la lingua contro il palato, e ad ogni schioccata brontolandosi un «bene!» Quindi, deposto sulla tavola il bicchiere vuoto, metteva mano al secondo, e ripeteva l’operazione. Il terzo andava come il secondo e come il primo; ma dopo il terzo incominciavano le novità, perchè Monsù Tomè sentiva il bisogno di farsi qualche complimento in piemontese, che era la sua lingua preferita delle grandi occasioni. — Beva, Monsù Tomè! Beva pure liberamente! Questo è un vino generoso; non c’è pericolo che dia alla testa. E obbediva alla sua esortazione, e beveva il quarto. — Coraggio, Monsù Tomè! Perchè non beve? — domandava egli, dopo un’altra pausa di qualche minuto. — Animo, via, non pensi alle malinconie; mandi giù quest’altro! E tracannava il quinto, come potete immaginarvi. Gli occhi del comandante brillavano sempre più vivi, volgendosi dai cinque bicchieri vuoti ai cinque bicchieri pieni. — Andiamo! Non faccia tante cerimonie! — ripigliava, dopo aver passata quella seconda rassegna. — Si vive una volta sola, e poi... non si beve più. E vuotava il sesto, con serenità di filosofo. Al settimo, ordinariamente, la voglia c’era, ma le forze scemavano; la mano andava più lenta alla tavola e tornava un po’ più vacillante alla bocca. — Come? Ella trema, Monsù Tomè? Non ha vergogna? Un uomo come Lei, che ha... operato su tutti i fiumi della Russia, avrebbe paura d’un bicchiere di vino? Era l’argomento achille della sua logica, lo stimolo più acuto alla sua fibra intorpidita. Punto sul vivo, Monsù Tomè tracannava d’un fiato l’ottavo, il nono, il decimo, vedendo confusamente, come attraverso una nube, l’acqua paurosa, eppure dominata, di tutti i fiumi della Russia. Ahimè! Dopo quel decimo bicchiere, Monsù Tomè andava regolarmente sotto la tavola. Al ruzzolare della sua pentola di cuoio, al saltellare della sua spada sul pavimento, esciva la fantesca dalla cucina, per raccogliere i morti. Prima di tutto, da buona massaia, la Teresina (era questo il suo nome) portava in luogo sicuro il fiasco e i bicchieri; poi, allontanava la tavola, per iscoprire il degno comandante, gli slacciava il cinturone, gli sbottonava la tunica, e, lavorando di fine, lo metteva bel bello in maniche di camicia e in peduli. I calzoni di nanchino, orgoglio estivo di Monsù Tomè, erano buttati senz’altro nella biancheria da portare al fossato, e quel sacco d’ossa, mezz’ora dopo il decimo bicchiere, russava pacifico nel suo letto. La mattina seguente, sull’alba, e senza che battessero la diana, Monsù Tomè si risvegliava, scendeva da letto, magro come un chiodo, diritto come un i, e fresco come una rosa, ma non felice come un re, nè contento come un papa. Era serio, accigliato, pensoso, il nostro comandante di spiaggia. I doveri d’ufficio, i regolamenti, il servizio del re, passavano avanti tutto; non si spianavano le rughe fino alla domenica dopo. Povero Monsù Tomè! dopo aver operato su tutti i fiumi della Russia e tra tutti i fiaschi di Loano, egli ha pagato il suo tributo alla morte, è ritornato alla gran madre antica. È proprio vero, come diceva lui, che si vive una volta sola, nella vita! Di tanto in tanto, a punti di luna, il bravo comandante di spiaggia raccontava le sue battaglie. I vecchi guerrieri son tutti così, da Nestore in poi. Il re di Pilo ripeteva sempre la sua famosa storia dei Lapiti e dei Centauri, che non fu certamente la più piccola tra le seccature dell’assedio di Troia. Monsù Tomè, più ricco e più vario, narrava almeno quindici episodii delle campagne di Prussia, d’Austria e di Russia. Per altro, bisognava saperlo interrogare. Come la misteriosa caverna delle _Mille e una notte_, egli non si apriva che ad una certa parola. Il mio vecchio amico Maso, che mi aveva introdotto da Monsù Tomè, conosceva benissimo il modo di farlo parlare. Per esempio, non gli diceva mica: «racconti la battaglia di Jena, o quella di Friedland, di Wagram, della Moscòva.» Se egli avesse cercato di dargli la stura in quella forma, Monsù Tomè gli avrebbe risposto senza fallo, come rispondeva ad altri profani: «di questi racconti ne son piene le storie.» Bisognava dirgli, invece: «Si ricorda Monsù Tomè, di quel cosacco che le voleva dare una lanciata, a Smolensko, e Lei....» — Ah, sì! — rispondeva subito Monsù Tomè animandosi al ricordo, come un cavallo generoso, al primo colpo di sprone. — Ed io gliene ho levata la voglia con un colpo di baionetta. Era l’alba; il cannone aveva incominciato a brontolare. Marciavo alla testa della mia squadra, quando l’imperatore passò, per andare sul punto minacciato.... E via di corsa. Il racconto era attaccato, e ne avevamo per due ore, per tre, e magari per quattro, nelle quali il narratore dimenticava perfino di bere, ma pronto a ricattarsene quando aveva finito. Perchè, storia o non storia, accompagnato o solo, Monsù Tomè, nelle sere dei giorni festivi, voleva finire sotto la tavola, da quell’uomo metodico che era. Il metodo è la bussola dell’esistenza; e col metodo, Monsù Tomè visse fino a novantadue anni. Voi, qui, mi direte: come si poteva aver la chiave, per farlo parlare di tante cose, se egli non parlava senza essere stuzzicato in un certo modo e con certe domande? Ecco qua; un racconto ne tirava un altro; gli ascoltatori potevano ritenere qualche particolare del fatto, qualche accenno ad altri fatti ricordati per incidenza, e farne appiglio a sempre nuove interrogazioni. Quando io conobbi Monsù Tomè, le chiavi erano cinque o sei (parlo delle maggiori, di quelle che mi sono rimaste meglio impresse nella memoria): la lanciata del cosacco di Friedland, l’artigliere morto di Wagram, le parole dell’imperatore a Smolensko, il cannocchiale raccattato sulla pianura di Austerlitz, la caduta nel fosso di Eylau, i calzoni rattoppati alla vigilia di Jena. Monsù Tomè le aveva fatte quasi tutte, le campagne napoleoniche. Lui piemontese? Sicuro, lui piemontese! Napoleone aveva desiderato così; il granatiere di Monferrato aveva dovuto prender servizio nel grande esercito. E la ragione di quella preghiera, che equivaleva ad un comando, era chiara: Monsù Tomè era stato uno tra «quei di Cosseria.» Ma non bisognava domandargli del suo primo incontro con Napoleone, se si voleva da lui il racconto di Cosseria. Monsù Tomè prendeva l’aire da un punto, e non ritornava mai indietro. Per aver la difesa di Cosseria, bisognava parlargli della vivandiera di Augereau. Ma quello era un tasto che bisognava toccare con molta delicatezza, poichè rispondeva a quel tasto il doppio ricordo del suo primo battesimo di fuoco e della sua prima pena d’amore. L’amico Maso, come vi ho detto, conosceva il modo di farlo parlare. Una domenica, non ricordo come (ma il come importa poco al racconto), aveva condotto il discorso sul tenero. In un paese dove le donne hanno quasi tutte i capegli neri, ed egli stesso, da quel biondo che era, doveva preferire le brune per amor di contrasto, Maso si mise in testa di dar la palma alle bionde. Già, con buona pace delle brune, la donna, la donna vera, la donna tipica, non poteva essere che bionda, non s’intendeva, non si ammetteva che bionda. Eva, la madre del genere umano, era escita bionda dalle mani del Creatore, bionda come il raggio di sole che ebbe l’altissimo onore di illuminar primo quella fiorente bellezza. Del resto, anche i colori avevano il loro significato. Il biondo era la grazia, il nero la forza; bionda, per conseguenza, doveva esser la donna; all’uomo i capegli neri, con la robustezza dei muscoli, con lo scatto dai tèndini.... E andava avanti, l’amico Maso, sempre avanti così, non dubitando neanche di gettar sassi in colombaia. Io per allora ci capivo poco, in quelle sottigliezze, e niente affatto in quella fissazione dell’amico, il quale, a farlo a posta, se la voce popolare non mentiva, era in quei giorni molto addentro nelle buone grazie d’una dama di capel nero lucente. Ma non andò molto che indovinai, quando egli venne a stringere l’argomento. Era bionda, o bruna, la vivandiera di Augereau, che Monsù Tomè aveva conosciuta a’ suoi tempi? — Bionda, perbacco baccone, bionda a quel Dio, d’un bel biondo cupo, traente al cenerognolo, come sono generalmente le bionde di Francia; ed alta, poi, svelta, aggraziata, fatta proprio a pennello. E vedere come ci si animava, Monsù Tomè, a descrivere tutte le bellezze di quella figura, ormai così lontana nello spazio e nel tempo! Il povero vecchio, intirizzito dai geli dell’inverno, si riscaldava ancora in ispirito ai fuochi allegri della sua giovinezza. — A proposito, — disse Maso, che finalmente aveva gittata l’àncora, — come si è incontrato con lei? A Cosseria, se non m’inganno. Il vecchio comandante di spiaggia mise un sospiro tanto fatto, si tirò i mustacchi grigi, mandò indietro due dita il suo casco dal sommo della fronte, intinse le labbra nel primo dei suoi dieci bicchieri, e finalmente rispose: — Ecco qua. Era questa la sua pròtasi favorita, il suo «Cantami o Diva.» Dopo di che, il bravo Monsù Tomè prese risolutamente il largo. Statelo a sentire, perchè, d’ora innanzi, parlerà sempre lui. CAPITOLO II. Lo sguardo dell’aquila. Avevo ventidue anni; bella età che mi rincresce di avere avuta solamente una volta. Ero stato ammesso nella seconda compagnia dei granatieri di Monferrato, perchè mi avevano riconosciuto buon tiratore, e, dopo sei mesi di galloni da caporale, mi avevano fatto sergente, perchè avevo una bella mano di scritto e ci voleva uno che sapesse fare la situazione quotidiana con un po’ di garbo e tener bene il ruolino della compagnia. Aver fatto il mio dovere alla manovra ed al fuoco, in quartiere ed in campo, non mi ha mai tanto giovato, come la mia mano di scritto. Non si raccomanderà mai abbastanza la calligrafia alle nuove generazioni. La calligrafia apre tutte le porte, conduce a tutti gli onori. Io, poichè devo parlarvi di me, ci ho guadagnato il grado di sergente, che mi ha posto in condizioni di farmi conoscere e di guadagnar le spalline. Ancora un anno di fortuna per Napoleone, ed ero capitano; ancora un altr’anno ed ero maggiore, fors’anche colonnello. Perchè allora, nei gradi superiori, si camminava rapidamente. Quel benedetto uomo faceva un tal consumo di generali! Ma non precorriamo gli eventi, i quali hanno avuto il corso che dovevano avere, e raccontiamo le cose con ordine. Anzi se non vi spiace, daremo uno sguardo d’aquila alle cose politiche e militari di quel tempo. Non si può intender bene ciò che io sono per narrarvi, se non si conosce il teatro della guerra, e la collocazione dei rispettivi pezzi sulla scacchiera d’Europa. Si accusa il Piemonte di aver tradito in quel tempo i suoi propri interessi, muovendo guerra alla Francia: e di questo suo torto si può parlar oggi a mente fresca, leggendo le storie, e ricamandoci su ogni sorta di variazioni. Ma io vi pregherò di mettervi un momento nei panni di Vittorio Amedeo III. Egli era così poco amico dell’Austria, che stava per l’appunto meditando una guerra in Lombardia, quando scoppiò d’improvviso la rivoluzione Francese, la quale ebbe il suo primo contraccolpo nella aperta ribellione della Savoia e il secondo nella sommossa degli studenti di Torino. Il pericolo imminente, ne converrete anche voi, doveva far dimenticare gli interessi lontani. Nel 1791 ci fu il famoso abboccamento di Pilnitz, tra l’imperatore d’Austria e il re di Prussia, e forse il nostro re fu troppo sollecito ad approvare le risoluzioni bellicose dei due monarchi, perchè egli doveva pure immaginarlo, che uno di essi, l’austriaco, non si curava nè punto nè poco della sua intromissione. È bene che notiate questo, perchè c’è la chiave di tutti i procedimenti del governo di Vienna, nelle cinque campagne che seguirono, dal 1791 al 1796. L’Austria aveva conosciuto i nostri disegni sul Milanese; l’Austria non vedeva di buon occhio che il Piemonte rifacesse, dopo cinquant’anni di pace europea, la propria educazione militare; l’Austria non voleva sopra tutto, anche accettandone lo spontaneo concorso, che il nuovo e mal visto alleato affermasse con qualche successo la sua potenza guerriera in Italia. Ed ora andiamo avanti. Scoppia la guerra nel 1792. Austriaci e Prussiani riportano qualche vantaggio. Vittorio Amedeo si accende, dimezza i suoi sedicimila uomini disponibili, ne manda ottomila in Savoia e ottomila nella contea di Nizza. Fu un errore; bisognava mandare un piccolo corpo d’osservazione sul Varo, e gittare tutto il nerbo delle nostre forze in Savoia, perchè quella divisione ottenesse il suo pieno effetto. Ma lasciamo da parte questo errore strategico. La frontiera francese era d’ogni parte sguernita. Perchè non approfittarne, marciando da Nizza su Tolone e da Mommeliano su Lione? A Nizza comandava il De Courten, vecchio ufficiale, consigliato e guidato dal cavalier Pinto, vissuto qualche tempo in Prussia e stimato in materia militare assai più di ciò che valeva. L’uno e l’altro sciuparono l’estate sul Varo, per contrastarne il passaggio ad un nemico che non c’era. In Savoia comandavano due, il conte Lazari e il marchese Cordon. Avevano un’antica ruggine, e ne sofferse la condotta dell’esercito. Il Cordon voleva tenere unite le forze in un punto; voleva difender tutti i punti il Lazari; nessuno pensava alla utilità di prendere l’offensiva. Il governatore della Savoia la diede vinta al Lazari; le forze furono sparpagliate, e non si poterono raccogliere in tempo, quando i francesi, fatto campo in sedicimila a Barreaux, sotto gli ordini del generale Montesquiou, decisero di passare essi il confine. Non era possibile resistere in quelle condizioni, e un consiglio di guerra deliberò di ritirarsi. A Torino furono colti da timor pànico, e richiamarono anche il De Courten con la sua gente dalla sponda sinistra del Varo, dove fronteggiava un corpo di quattromila francesi, sotto gli ordini del generale Anselme. Questi non voleva credere a tanta debolezza d’animo; dubitò a tutta prima di una insidia; poscia, rassicurato da una felice esplorazione, passò il Varo, entrò in Nizza ed occupò Villafranca. Salvò da quella parte l’onore delle armi piemontesi il conte di Sant’Andrea, raccogliendo alcuni battaglioni sparsi sul colle di Tenda, ed occupando le vette sopra Sospello, di rimpetto a Saorgio, linea stretta ed eccellente per trincerarvisi. Nè ciò bastando al valente uomo, prese tosto l’offensiva, rovesciò il nemico, lo cacciò da Sospello, ed avanzò ancora la propria linea occupando tutta la valle di Lantosca. Frattanto, si era commesso l’errore di chiedere aiuto all’Austria, che spedì ottomila uomini, coi generali Strasoldo, Colli e Provera, quindi il barone De Wins, generale d’artiglieria, il quale fu posto a capo di tutto l’esercito piemontese, forte di quarantamila combattenti. Si fecero apparecchi per la campagna del 1793, volendo tenere la difensiva su tutta la lunga linea dagli Appennini liguri fino al Monte Bianco. Quattordicimila uomini furono mandati nella contea di Nizza sotto gli ordini del conte di Sant’Andrea, al quale poscia si aggiunse l’austriaco Colli. Cinquemila andarono a munire la valle di Stura, sotto gli ordini del generale Strasoldo, ed altrettanti seguirono il generale Provera nell’alta valle del Po. Ottomila si raccolsero a Susa, col marchese di Cordon, per difendere i passi del Moncenisio e della valle di Oulx; seimila in Aosta, col duca di Monferrato; il resto nelle guarnigioni, aspettando di andare di qua e di là secondo il bisogno. Nel mese di giugno, dopo molte lentezze e diverse scaramucce, ventottomila francesi si rovesciarono sul conte di Sant’Andrea e sul Colli, al campo di Brois, vincendo a fatica, con la perdita di quattro mila uomini, ma non riuscendo a forzare la linea di Saorgio, e lasciando il fiore dell’esercito nei vani assalti di Raus e dell’Authion. La campagna era promettente; il nemico, in due giornate, aveva perduto diecimila combattenti; allora Vittorio Amedeo meditò un’impresa su Lione, che era insorta contro i repubblicani e domandava soccorsi. L’Austria, nel disegno di farla andare a male, propose che si tentassero due colpi simultanei, dalla parte della Savoia e dalla parte di Nizza. Di lì una fatale spartizione di forze; combattimenti bellissimi ed egualmente inutili; finalmente una doppia ritirata, necessaria in Savoia, davanti all’ingrossare dell’esercito di Kellermann, non necessaria sul Varo, dopo parecchi ed importanti successi, ma voluta dal generale De Wins, che obbediva alle istruzioni del governo di Vienna. Siamo al 1794; non si è voluto ascoltare il conte di Sant’Andrea che suggeriva di occupare il marchesato di Dolce Acqua, per coprire il fianco della linea di Raus e dell’Authion, formidabile di fronte, ma facilmente girabile se i francesi avessero risoluto non di rispettare la neutralità del territorio di Genova; per colmo di sventura si è richiamato il valoroso uomo dalla contea di Nizza, e il suo comando è stato affidato al Colli. L’Austria è padrona ormai delle nostre sorti. I francesi, ricacciati una volta dai passi del Cenisio, ritornano in forze, ottengono col tradimento il piccolo San Bernardo e calano giù, senza pagare all’ufficiale straniero le trecentomila lire pattuite per la consegna del monte Vallaisan. Dall’altra parte, il generale Colli perde la battaglia di Colla Ardente e della Tanarda, sgombra la contea di Nizza, e i francesi raggiungono le sorgenti del Tanaro. Un altro generale austriaco, il D’Argentau, accorre con alcune soldatesche, per difendere l’importante posizione del ponte di Nava; e vi giunge in tempo per essere solennemente battuto. Di là non curandosi di occupare le alture, che offrivano buoni e numerosi punti di difesa, corre a riparo fin sotto il cannone di Ceva, lasciando che il nemico s’impossessi di Ormea, Garessio e Bagnasco. Già, non era un’aquila, questo signor D’Argentau, e le alture non gli piacquero mai. Lo vedrete fare il medesimo giuoco a Montenotte, dove per altro aveva incominciato col vincere. Il general Colli, frattanto, si era trincerato a Borgo San Dalmazzo, tra il Gesso e la Stura, in un campo imperfettissimo, che non difendeva nè la città di Cuneo, nè la pianura del Piemonte. Diciottomila austriaci, acquartierati in Lombardia, vennero alla riscossa; diecimila di essi fecero campo a Morozzo, tra Mondovì e Cuneo; i francesi diedero indietro, o perchè non fossero in forze sufficienti, o perchè, dopo il supplizio del Robespierre e consorti la Convenzione avesse altro da fare che occuparsi dell’esercito suo, ancora bisognoso di aiuti. Ma verso l’ottobre, che è che non è, i francesi riprendono l’offensiva, non più dalle Alpi, ma dalla riviera ligustica, e da Savona si fanno avanti per il colle d’Altare. Sono sconfitti a Dego dal generale Wallis; ma questi, dopo la vittoria, ordina la ritirata sopra Alessandria. La provincia d’Acqui e più di venti miglia di paese sono abbandonate al nemico, che si concentra a Savona, e si trinciera sulla linea del Settepani. Il re Vittorio Amedeo si lagna a Vienna; il generale Wallis è richiamato; ritorna al comando il De Wins, e incomincia la campagna del 1795 col disegno di cacciare il nemico dalla riviera di Genova, e di inseguirlo fino al Varo. Ventimila uomini, raccolti al Bosco sotto Alessandria, marciano su Acqui e Dego; incontrano i francesi a San Giacomo, li rovesciano su Vado. Kellermann, battuto in posizione, cacciato dal Settepani, ridotto da dodicimila a novemila uomini, è in piena ritirata verso ponente. Ma il De Wins non insegue; il governo austriaco vuole che egli si stabilisca tranquillamente a Vado. Si fanno istanze presso di lui, ma egli lascia capire che ha le mani a dirittura legate, e domanda che anche il Colli, con l’esercito piemontese a’ suoi ordini, si disponga a fare dal canto suo qualche cosa. E il Colli fa qualche cosa, molto male, secondo il solito; intanto la Spagna ha fatta la sua pace con la Repubblica francese, e si prevede che l’esercito dei Pirenei si rovescierà sull’Italia. Il generale Scherer, succeduto al Kellermann, attacca nel novembre su tutta la linea piemontesi ed austriaci, è respinto sulla destra dal De Wins e sulla sinistra dal Colli, ma riesce a sfondare il centro, dove comanda l’Argentau, e s’impadronisce della posizione di Settepani; si rovescia su Vado e si rifà della resistenza incontrata il giorno prima, si avanza su Dego, e il De Wins, perduti diecimila uomini in due giorni, si ritira in fretta ad Alessandria, obbligando anche il Colli a ripiegarsi da Garessio su Ceva. Ed eccoci finalmente al 1796. Il De Wins, infermo e disgustato, chiede di andarsene, ed ottiene di ritirarsi a Vienna. L’Austria sostituisce il generale Beaulieu, vecchio, ma riputato per alcuni vantaggi ottenuti sui francesi nei Paesi Bassi. I francesi, dal canto loro, si preparano a tentare uno sforzo decisivo, per penetrare in Piemonte. Lo Scherer è mandato altrove; giunge in suo luogo un giovanotto di belle speranze: Napoleone Buonaparte. Questa chiacchierata, amici miei, era necessaria, non foss’altro, per dimostrarvi che i piemontesi si erano battuti bene, e che i francesi, dopo essersi inutilmente provati a passare le Alpi, si disponevano finalmente a girarle. Il concetto era dello Scherer; la esecuzione fu del Buonaparte, del giovanotto di belle speranze. E adesso, con vostra licenza, un sorso di vino. Coraggio, Monsù Tomè, che ora viene il difficile! CAPITOLO III. Il battaglione d’acciaio. Per girare le Alpi, l’esercito francese aveva dovuto violare la neutralità della vecchia repubblica di Genova. Fatto il primo passo, si poteva fare il secondo ed il terzo, e i nostri vicini non si fecero scrupolo di marciare sulla città capitale, dove le teste incominciavano a riscaldarsi per la libertà francese e dove i parrucconi dell’antico governo si sentivano mancare la terra sotto i piedi. Il popolo, amante di novità, chiedeva i liberatori; e i liberatori, che potevano trovare a Genova una buona piazza fornita di tutto il necessario, insieme con una buonissima base di operazione per calare nella pianura d’Alessandria, non si fecero pregar molto. Il loro quartier generale era a Savona; la loro avanguardia (quattromila uomini, condotti dal Massena, che aveva sotto i suoi ordini il generale Cervoni) si spinse per la via di levante, oltre Albissola e Varazze. Il generale austriaco, che aveva fiutato il disegno del nemico, non era rimasto con le mani alla cintola. Seimila uomini da Alessandria si erano avviati alla Bocchetta, per recarsi a coprir Genova da un assalto improvviso. Egli, col grosso dell’esercito mosse da Alessandria ad Acqui, e di là per Dego e Sassello, col proposito di piombare dai monti sopra Savona, e cogliere i francesi nella trappola. Ma la volpe vecchia aveva da fare questa volta con una volpe giovane e di malizia più fresca. L’avanguardia francese era giunta a Voltri, si era impadronita del paese, aveva comandato diecimila razioni per il giorno vegnente; sorpresa da quel corpo di seimila austriaci che calava dai monti, era stata anche sbaragliata; ma questo dopo tutto, era anche un modo di tastare il nemico. Il generale Buonaparte sapeva oramai che il suo avversario Beaulieu aveva spiccato un bel nerbo di forze alla difesa di Genova. Era quello il momento di penetrare in Piemonte per la valle della Bormida, che non doveva essere guardata con una massa sufficiente. Anche il Beaulieu, dal canto suo, si affrettava. Giunto a Spigno, staccava il generale Argentau, con diecimila uomini, ordinandogli di impadronirsi della importantissima posizione di Montenotte, sloggiandone ad ogni costo i francesi. E l’Argentau ne venne a capo, ma senza darsi pensiero della punta più elevata del luogo, dove era rimasto un manipolo di nemici in difesa, e commettendo lo sproposito di scendere nella valle ad inseguire il nemico, mentre del suo esercito non restavano, a fronteggiare i difensori di Montenotte superiore, che poche truppe leggere. Voi già indovinate la conseguenza. I francesi si rafforzarono in alto, rovesciarono la schiera sottile del nemico, piombarono sull’Argentau, lo posero in rotta. Perduti quasi tutti i suoi, e tutta la sua artiglieria, il pover’uomo si salvò a stento per la via di Sassello, e arrivò solo al quartier generale, dove il Beaulieu gli chiese notizie del suo esercito, e, siccome egli non era in caso di dargliene, lo fece legare come un malfattore e lo mandò a correr la sorte d’un consiglio di guerra a Milano. La giornata di Montenotte era così poco decisiva, e l’Argentau aveva così poca ragione a fuggire in quella sconcia maniera, che il giorno seguente, cioè a dire il 13 aprile, il colonnello Vucasovich penetrò in quella valle combattuta, credendo che Montenotte fosse ancora tenuto dai suoi: s’incontrò coi francesi, li battè con soli quattromila uomini che conduceva, e riprese loro tutta l’artiglieria che avevano presa il giorno prima al signor Argentau. Che cosa non avrebbe egli fatto, se questo zuccone fosse rimasto al suo posto? Un altro generale, il Roccavina, che non somigliava punto all’Argentau, quel medesimo giorno che il Vucasovich ripigliava l’artiglieria austriaca ai francesi, si spingeva con un corpo di truppe leggiere fino alla Madonna di Savona, oltrepassando Montenotte di un bel tratto e minacciando di rompere le comunicazioni dei vincitori con la loro base di operazione. Ma, lo ripeto, fuggito l’Argentau, questi felici ardimenti tornavano inutili, e il Roccavina e il Vucasovich dovettero ricongiungersi al generale Beaulieu. Noi, col generale Colli (anche questo, come vi ho detto, regalatoci dal governo di Vienna) eravamo accampati sulle alture di Montezemolo, guardando la strada di Ceva, e pronti a marciare dovunque bisognasse, per sostenere l’esercito alleato. Quel general Colli! Che uomo, creato a bella posta e messo al mondo per dimostrare che si possono fare tre passi sopra un mattone! Amici miei, lasciatemi dire quello che penso; Napoleone meritava sicuramente la sua grande fortuna; ma si è anche fatto di tutto, in quell’anno, per mandargliela tra le braccia. Dunque, eravamo a Montezemolo, e si tenevano gli avamposti con due battaglioni di granatieri, il primo e il terzo, e col reggimento dei Granatieri Reali. Questa somiglianza di nome tra battaglioni e reggimento domanda una piccola spiegazione. Il Piemonte aveva un reggimento speciale di Granatieri reali, ma ogni reggimento di fanteria possedeva due compagnie di granatieri, uomini scelti, meglio armati e distinti da una granata rossa, ricamata nel centro della nappina di lana, che ornava il cappello a lucerna del soldato d’allora. Queste compagnie scelte si riunivano all’uopo in battaglioni separati, e un ufficiale di stato maggiore ne prendeva il comando. Così, a comporre il terzo battaglione di granatieri, al quale appartenevo io, entravano due compagnie del reggimento di Monferrato, due del reggimento della Marina e due del reggimento di Susa. All’apertura della campagna era venuto a comandarlo il colonnello marchese Filippo Del Carretto di Camerano. Nessuno più di lui era degno di comandare ad un manipolo di valorosi. Leonida, che arrestò alle Termopili la marcia dei persiani invasori, non fu certamente più prode, nè più militarmente bello di lui. Aggiungo che il marchese Filippo lo era anche fisicamente; alto, biondo, di carnagione bianchissima, con occhi cilestri, che spiravano dolcezza, e una bocca che pareva fatta per dir parole d’amore; un angelo, insomma, ma un angelo terribile a vedersi, se aveva la spada sguainata nel pugno. Non era fermezza al fuoco la sua, ma serenità imperturbabile; una serenità consapevole del pericolo, quando si trattava della sua gente; noncurante, ma senza ostentazione, quando si trattava di sè. Giovane ancora, aveva raggiunto il grado di colonnello. Mettete pure che fino a capitano ci fosse stato sbalestrato dalle ragioni della nascita, ma non dimenticate che i gradi superiori li aveva conquistati per merito suo, e che, dopo essere stati una settimana sotto i suoi ordini, veniva voglia di chiedere: quanto aspettano a farlo generale? Lassù, in quelle valli fra il Tanaro e la Bormida, con gli occhi rivolti al colle di Melogno e al colle di Cadibona, il marchese Filippo era proprio come in casa sua. I Del Carretto, come saprete, appartengono al vecchio ceppo aleramico, ed anche ora, divisi e suddivisi in tante famiglie, distinti con tanti nomi diversi, tengono in possesso civile una parte del territorio che possedevano un giorno per diritto di signoria e per investitura feudale. A Montezemolo, ove eravamo accampati, si era sentito per tutta la giornata del 12 aprile un rumor cupo e sordo, che veniva dalla parte di levante. Alcuni credevano che fosse brontolìo di tuono, altri che fosse rombo di cannone. Il cielo, sulle nostre teste, appariva sereno; ma voi sapete pure che di là dagli Appennini, con tante vette che nascondono l’orizzonte, si può indovinare bensì, ma non è facile vedere ciò che avviene sul mare, e le burrasche si odono rumoreggiare in distanza, molte ore prima che il vento le porti dentro terra. Così potevano credere parecchi che quel rumore cupo e sordo fosse di temporale lontano; ma i più sostenevano che avesse incominciato a ragionare il cannone, anche per una certa regolarità ritmica del discorso e per la singolare costanza nella direzione del suono. Verso sera nessuno credeva più al temporale. I nostri ufficiali avevano ordine di tenersi pronti per la partenza. Dove si andava? Non certamente verso Ceva, poichè il comando era di far viveri per un giorno. Far viveri a Montezemolo, sulla prima linea, e dopo tanto passaggio di soldati, era presto detto! Ed anche bisognava partir subito. Ma per dove? per dove? Si era curiosi di saperlo; si studiavano tutti i più sottili stratagemmi per cavare il segreto di bocca ai nostri ufficiali, che probabilmente non ne sapevano più di noi. A me venne in mente una luminosa idea. Non chiesi nulla al cavalier Corte, mio capitano, nè al cavalier Bonadonna mio tenente, nè al conte di Masino mio sottotenente; me ne andai difilato dal servitore del colonnello, e a lui chiesi notizie. — Ordine del quartier generale: — mi rispose Paolo Viglietti. — Si va al castello di Cosseria. La posizione non era distante. Dalla balza di Montezemolo si vedeva nereggiare quel nido d’aquile sopra una vetta a levante, co’ suoi torrioni massicci, in mezzo a cortine sfondate, ad archi infranti, a muraglioni rovesciati. Quel medesimo giorno, mentre si stava in vedetta sull’erta, ascoltando gli strani rumori che venivano dalla parte di Altare, ci era avvenuto di contemplare a lungo quelle rovine stupende. Paolo Viglietti, che era nato a Camerano, donde il colonnello suo padrone traeva il suo titolo feudale, ci aveva raccontata brevemente la storia della ròcca, come tutti la sapevano allora, in quei paesi delle Langhe, già vissuti nell’obbedienza dei marchesi del Carretto. Intorno al Novecento, il castello di Cosseria aveva già sostenuto un assalto dei Saraceni; quattro secoli più tardi lo aveva occupato Carlo d’Angiò, nella sua famosa calata in Italia, benedetta da un papa e maledetta dalla storia. Preso e ripreso, nel secolo decimosesto, dalle armi di Francia e Spagna, era stato diroccato, nel 1536, per comando di un commissario imperiale; ma questi, riducendo in un mucchio di rovine quella bell’opera di architettura militare, non aveva potuto distruggere in pari tempo la importanza strategica della collina, donde si comanda alla gola stretta e lunga che dalla Bormida di Pallare mette alla Bormida di Millesimo, e di là, per la salita di Montezemolo, alle pianure del Piemonte. Così avvenne che intorno a quelle rovine si azzuffassero di sovente le soldatesche dei Duchi di Savoia e quelle della Repubblica di Genova, che sullo scorcio del Seicento se ne contrastassero il possesso parecchi eserciti, italiani e stranieri, e che finalmente, nel 1744, se ne impadronissero gli Spagnuoli, mettendo a contribuzione il paese. Quei poveri abitanti provarono più volte che non a torto il loro castello si era chiamato da principio _Crux ferrea_. Diedi la notizia al mio capitano, come l’avevo ricevuta da Paolo Viglietti. Ma ero giovane, allora, e non intendevo l’utilità di occupare una bicocca di quella fatta, piantata sul culmine di una montagna, dove oramai non dovevano andar più che le capre. — È naturalissimo, invece; — mi rispose giudiziosamente il bravo cavalier Corte, al quale avevo manifestati i miei dubbi. — Da Cosseria, con un pugno d’uomini risoluti, si può contrastare il passo del Piemonte, per la strada di Ceva. Il generale Beaulieu ne chiude l’entrata dalla parte di Acqui; noi la chiuderemo da questa. È strano, anzi, che Cosseria non l’abbiamo occupata prima. Comunque sia, se ci mandano lassù, è segno che i francesi hanno vinto a Montenotte, o più su, verso San Giacomo del Settepani. — Il cannone, — osservai, — si è sentito di là, nella direzione di Altare. — Che cosa ti dicevo io? — ripigliò il capitano. — O hanno vinto a Montenotte, i francesi, e scenderanno presto a Carcare: o si teme che vincano, ricevendo rinforzi. Ad ogni modo, è bene di coprire la via di Millesimo. — Mentre si facevano questi ragionamenti, il capitano fu chiamato per ordine del colonnello. Ritornò alla compagnia quindici minuti dopo. — Presto! — diss’egli. — Bisogna mettersi in rango. — E i viveri, capitano? — Non ce ne sono. Ma avete ancora un tozzo di pane dell’ultima razione. Per ora basterà quello; stanotte, poi, si troverà qualche cosa a Millesimo. — Anche le altre compagnie facevano i loro preparativi di partenza. Pochi minuti più tardi, eravamo tutti schierati sulla strada, e il nostro colonnello venne sulla fronte del battaglione, per animarci con la sua calda parola. — Soldati, — incominciò, — anche per noi si apre oggi la nuova campagna di guerra. Ricordatevi che siete granatieri piemontesi, cioè gente scelta, e che dovete far meglio di tutti; mi avete capito? Obbeditemi, ed io vi prometto da cavaliere, che il vostro buon nome sarà mantenuto. Se davanti al nemico mi vedeste fallire, dare indietro, perdermi d’animo un solo momento, vi autorizzo fin d’ora a distendermi a terra con una buona fucilata. Vi dico queste cose col rossore sul volto e col nodo alla gola, perchè mi vergogno perfino di pensarle. Ma bisogna preveder tutto, e far patti chiari, poichè si ha da compire insieme il nostro dovere. Se io, poi, vedrò dare indietro qualcheduno di voi.... ve lo prometto fin d’ora, come è vero Dio, lo ucciderò con le mie mani. Per la vita e per la morte, dunque. Andiamo contro un esercito valoroso, e non dobbiamo esser da meno; possiamo e dobbiamo esser da più. Ci siamo intesi, io spero; ricordate che non voglio fughe di Pinerolo, io; sono come il Radicati, e mi faccio ammazzare sul posto. — Il nostro comandante alludeva ad un fatto doloroso avvenuto due anni addietro, alla battaglia della Tanarda, nella contea di Nizza. L’esercito aveva fatto prodigi di valore, e l’artiglieria cagionato perdite enormi al nemico; ma ad un assalto più furioso degli altri, un reggimento, quello di Pinerolo, colto da timor pànico inesplicabile dopo tante ore di fuoco, aveva voltate le spalle, permettendo ai francesi di penetrare nei trinceramenti piemontesi. Il prode colonnello, conte Radicati di Passerano, dopo essersi invano adoperato a trattenere i fuggenti, si era lasciato uccidere al suo posto, per non sopravvivere all’onta del suo reggimento. — No, no! — gridammo tutti ad una voce: — Nessuno di noi darà indietro d’un passo. Ci faremo ammazzare dal primo fino all’ultimo, ma non si dirà dei granatieri piemontesi che sono scappati davanti al nemico. — Alla Tanarda, — aggiunse il cavalier Corte, mio capitano, — il reggimento di Monferrato si è fatto decimare sulla trincea. Se il general Colli non comandava la ritirata, ci facevamo tagliare a pezzi, piuttosto che cedere un palmo di terreno. — Lo so, lo so; — rispose il colonnello. — Vi ho parlato così; perchè voglio farvi sicuri di me, come io devo esser sicuro di voi. Non so ancora che cosa faremo, nè quando faremo qualche cosa di grande. Questo solo è certo, che noi, domani, fronteggeremo il nemico, avremo l’onore di coprire le posizioni dell’esercito del re; perciò dobbiamo far tutti il nostro dovere, ed essere un battaglione d’acciaio. Mi avete capito? Un battaglione di acciaio. — Viva il re! Viva il colonnello Del Carretto! — furono le grida di tutto il battaglione. — In marcia, dunque! — ripigliò il colonnello. — Cavaliere Alberione e cavalier Corte, le due compagnie di granatieri di Monferrato andranno in avanguardia. Io seguirò con le due del reggimento della Marina e con le due del reggimento di Susa. Faremo un piccolo alto a Millesimo, per vedere di trovar viveri; se non ce ne saranno, vedremo dai contadini di Cosseria. L’essenziale è di non perder tempo, e di trovarci all’alba sul posto assegnato. — Mezz’ora dopo aver ricevuto il comando del quartier generale, il terzo battaglione di granatieri scendeva dall’erta di Montezemolo. Formavano l’avanguardia, secondo l’ordine dato dal colonnello, le due compagnie di Monferrato; seguivano, a breve distanza, le due della Marina; quelle di Susa chiudevano la marcia. Si tratta di valorosi, e voi mi perdonerete se mi fermerò un poco, a ricordare i nomi di tutti i miei superiori e compagni d’armi d’allora. Quei nomi non li troverete nelle storie, ed è giusto che io li rammenti, perchè qualcheduno possa registrarli, tramandarli alla memoria dei posteri. Ecco, dunque: la prima compagnia di Monferrato aveva per ufficiali, il capitano cavaliere Augusto Alberione, il luogotenente cavalier Luigi Cavasanti e il sottotenente Fava. La seconda, quella a cui appartenevo io, aveva il capitano cavalier Corte, il luogotenente cavalier Buonadonna e il sottotenente conte Masino di Reaglie. Veniamo ora alle due della Marina. Comandava la prima il bravo capitano cavalier Giovanni Tibaldè, dei conti di Rolasco, che aveva per luogotenenti il cavalier Nicolò Galateri e Vincenzo Gianolio, e per sottotenente il cavalier Carlo Birago, dei marchesi di Vische. Comandava la seconda il cavalier Vincenzo Lomellini, dei conti di Cerniago, consanguinei dei Lomellini di Genova, che aveva per luogotenente il cavalier Carlo Tibaldè, fratello al capitano sopraddetto, e per sottotenenti i signori Sebastiano Cornaglia e Giovanni Alberga. Restano le due compagnie del reggimento di Susa. La prima aveva per comandante il capitano Giovanni Calleri, per luogotenente il conte Giovanni Ollignani, per sottotenente il signor Antonio Arrò; la seconda non aveva che il luogotenente Filippo Nerand e il sottotenente Leonardo Bessano. Il suo comandante, capitano Morozzo di Bianzè, ottimo soldato, era assente per ragioni di servizio, e a lui si poteva dire due giorni dopo quel che scrisse Enrico IV ad uno dei suoi generali, dopo la giornata d’Ivry: «_Pends-toi, brave Crillon: on s’est battu, et tu n’y étais pas._» Vi ho detti i nomi degli ufficiali, ed anche, quando li ricordavo, i nomi di battesimo e i titoli. La forza del battaglione era di cinquecento quarantotto tra sott’ufficiali e soldati. Aggiungete i diciannove ufficiali, mettete sopra a tutti il colonnello Del Carretto e il cavalier Rubin, capitano di stato maggiore, che era stato posto al suo fianco, e avrete cinquecento sessantanove uomini mandati ad occupare le rovine di Cosseria, coprire l’esercito del re, difendere la stretta di Millesimo, ed impedire la marcia del nemico su Ceva. È vero bensì che li comandava Filippo Del Carretto e che il terzo granatieri aveva ricevuto allora allora uno stupendo battesimo; si chiamava il battaglione d’acciaio. CAPITOLO IV. «Avanti Monferrato!» La notte era alta, quando si giunse alle prime case di Millesimo. Il borgo era immerso nel sonno, ma fu presto risvegliato dall’abbaiar dei cani, dal calpestìo della gente e dal fragore delle armi. Quei buoni abitanti ci accolsero a festa, offrendoci tutto quello che avevano. Disgraziatamente non era molto, quello che avevano; e non bastava ad assicurarci i viveri per un giorno. Prendemmo il poco pane avanzato del giorno innanzi; frattanto, il forno avrebbe lavorato per noi, e quella brava gente si sarebbe affrettata a mandarci un carico di pan fresco nelle prime ore del giorno. La cosa piacque al colonnello, che tosto comandò di riprender cammino. Del resto, qualche cosa si sarebbe potuto trovare nei casali sparsi di Cosseria; e d’altra parte il quartier generale, sapendo dove eravamo, doveva pensare a provvederci, nè solamente di pane. Poichè il soldato, in guerra, non vive soltanto di munizioni da bocca; ma anche, e sopra tutto, di munizioni da fuoco. Si era bevuto il bicchiere della staffa, amorevolmente offerto da quei di Millesimo. I più previdenti avevano badato a riempir le fiaschette di vino e d’acqua, secondo i gusti, e verso le quattro del mattino si esciva dal borgo, incamminati per la via in salita, che va nella direzione di Plodio. Noi, per altro, non avevamo da correre fin là; ad un certo punto, dov’è il colmo della salita, dovevamo far conversione a sinistra, per un sentiero abbastanza ripido, scavato nei tufo dagli uomini, ma più dalle acque invernali, e inerpicarci sulla vetta. La montagna di Cosseria nereggiava per l’appunto davanti a noi, mentre ne costeggiavamo le falde, e lassù, nel cielo turchino, si disegnavano i fantastici profili del castello diroccato, che doveva ospitarci. Quella vista ci aveva messi di buon umore, e, salendo a passi misurati per l’erta, intuonavamo la canzone del soldato. La chiamo così, perchè infatti era una sola a quei tempi. In materia di canzoni, e specialmente di canzoni di marcia, il soldato piemontese non ha mai fatto prova di genio inventivo. Doveva per esempio, recarsi in guarnigione a Novara? E lui a cantare, con la sua solita flemma: Novara, Novara, ’Na bella città! Si mangia, si beve, Allegri si sta. Era il suo ritornello di tutte le marce. Qualche volta si trattava di un paese che aveva il nome più lungo, e quel nome, introdotto nella misura, ci si faceva stare per forza. Se poi si trattava d’un semplice villaggio, niente paura, il villaggio era innalzato alla dignità cittadinesca, senza mestieri di un regio decreto. Così avvenne che si cantasse, quella notte: Cosseria, Cosseria, ’Na bella città! Si mangia, si beve, Allegri si sta. — Alto! — gridò tutto ad un tratto il cavalier Corte, interrompendoci nel medesimo tempo il passo e la canzone. — Vedete la prima, che si è fermata. — Difatti la prima compagnia aveva fatto alto improvvisamente. Noi, obbedendo al comando del capitano, la imitammo subito, non senza chiederci a vicenda che impedimenti avessero potuto trovare sul loro cammino i nostri compagni, mentre si era così vicini al colmo della salita. Il cavalier Corte si fece avanti otto o dieci passi, verso il comandante della prima. — Alberione, che cos’è stato? — dimandò. — Non so ancora; — rispose il cavaliere Alberione. — La mia avanguardia ha fatto alto, e non sarà certamente per trovare la strada. Ah, ecco un messo che ci mandano. — La prima compagnia, come avrete capito, si faceva precedere, secondo le norme elementari della prudenza, da una sua squadra, comandata da un sottotenente; e questa squadra, marciando un centinaio di metri innanzi alla propria compagnia, diventava l’avanguardia dell’avanguardia. Fermandosi quella, doveva fermarsi quest’altra. Il messo, che il capitano Alberione aveva veduto spiccarsi dalla squadra, giunse correndo alla testa della colonna. — Che cos’è stato? — domandò alla sua volta il comandante della prima. — Signor capitano, — rispose il granatiere, — si sente un rumore confuso, laggiù dalla parte di Plodio. Il signor sottotenente Fossa crede di distinguere il calpestìo d’una colonna in marcia. — Non ci sarebbe da stupirne; — mormorò il cavaliere Alberione. — È più probabile questo, che una distribuzione di viveri per domattina. — Così dicendo, il bravo comandante della prima s’inginocchiava sulla strada, per metter l’orecchio a terra. Il cavalier Corte fece lo stesso, e molti granatieri, per ispirito d’imitazione, seguirono l’esempio. Il rumore confuso si sentiva anche da noi, come di gente che camminasse vociando. Ma forse era un’illusione, prodotta dal vento, che fischiava nelle gole dei monti. Ad uno dei nostri parve di sentire dell’altro, come a dire il cigolìo delle ruote d’un carro. — Saranno i viveri; — disse ridendo un granatiere, a cui egli aveva comunicato il suo dubbio. — Viveri in contanti; — soggiunse un altro. — Ma da sfondar le tasche col peso; — notò un terzo, sul medesimo tono canzonatorio. — Se non si trattasse che delle tasche! — esclamò il secondo. — Tutto consiste nel sapere come ci faranno la distribuzione. — Frattanto il cavaliere Alberione parlava al messaggero: — Va, e di’ al sottotenente che si avanzi fino a Montecàla, dove noi lo raggiungeremo subito. Il granatiere battè con la palma della mano sulla seconda fascetta del fucile che portava al braccio, fece fronte indietro e andò via di galoppo. — E tu, Corte, manda uno dei tuoi uomini ad avvertire il colonnello di quello che avviene; — ripigliò il capitano della prima, volgendosi al nostro comandante. — Mando un sergente; — disse il cavaliere Corte. E venne diritto da me, per darmi le sue istruzioni. Io non avevo bisogno di molte parole, perchè oramai sapevo ogni cosa che importasse di riferire al colonnello, e lavorai di gambe per far l’ambasciata al più presto. Non ebbi per altro da correr molto. Cento passi sotto a noi, veniva il nostro colonnello, col grosso del battaglione, e cavalcava al suo fianco il capitano Rubin, dello stato maggiore. — Ben fatto! — esclamò il signor marchese Del Carretto, quando io ebbi finito di dirgli ciò che aveva operato la nostra avanguardia. — Capitano Tibaldè, faccia serrare il passo; bisogna raggiungere più presto che si può la testa di colonna a Montecàla. E voi, sergente, andate alla vostra compagnia. — Obbedii, ma, per quanto corressi, avevo sempre il colonnello alle calcagna. Mentre egli affretta il passo per giungere ai primi posti, lasciatemi fare una piccola spiegazione strategica. Montecàla deriva il suo nome dal mutar di pendenza che fa la strada, ad un certo punto, tra il monte di Cosseria, di cui sfiora le falde, e la Colla, che sorge di rimpetto. Poco più giù da Montecàla due strade discendono nella valle di Carcare; la prima, più diritta, costeggia il torrentello, detto per l’appunto il Montecàla, che poi, raccolte le acque di un altro fossato, prende il nome di Anta e va a scaricarsi nella Bormida; la seconda, piegando a levante, entra fra la Colla e Montenudo nella gola di Plodio, e riesce a Carcare anch’essa. Ma la prima era a’ miei tempi un sentiero campestre, erto e sassoso, donde poteva venire al più qualche drappello di truppa leggiera; la seconda, invece, essendo rotabile, era anche la sola per cui potesse avanzarsi una colonna formata, con artiglieria e munizioni. Il castello di Cosseria, rincalzato dalla sua piccola balza, conosciuta ancora col nome significativo di Spia, comandava ad ambedue le strade, che sboccavano là, sotto il tiro de’ suoi moschetti. Da quella parte, la salita al castello era sommamente difficile, e ad una certa altezza a dirittura impossibile, se non si prendeva la viottola serpeggiante sul fianco occidentale del monte; ma questo sentiero, assai ripido, poteva essere facilmente difeso con poca gente risoluta. Più agevole era l’approccio del castello dalla parte di tramontana, dove il monte spingeva innanzi due lunghi sproni, verso la Rocchetta del Cengio. Sul più settentrionale dei due, che collega anche il castello all’abitato del borgo, s’inerpicava la strada feudale, sicuramente anteriore al Mille, come appare dai lastroni irregolari, ma piani e saldamente commessi, giusta la vecchia usanza romana, che si vedono ancora per lunghi tratti aderire al terreno. Appena fummo giunti al colmo della salita, dov’era la nostra avanguardia, il colonnello riconobbe in un batter d’occhio la posizione sua e quella del nemico. Ai primi barlumi dell’alba, che rischiaravano il cielo dietro ai vertici di Montenudo, si vedeva nereggiare d’uomini in marcia la vicina stretta di Plodio, e d’altra gente il sentiero che costeggiava il rigagnolo. L’avanguardia nemica aveva già occupato il punto di collegamento delle due strade; ci vedeva allora allora, e si disponeva all’attacco, mentre qualche palla incominciava a fischiarci agli orecchi. — Siamo arrivati a tempo! — disse, passandoci accanto, il capitano Rubin. — Chi sa? — mormorò il colonnello. — Ecco dell’altra gente a sinistra. — E guardava frattanto verso l’erta di Cosseria, dove si vedevano brulicare parecchie centinaia di uomini, intenti a guadagnare la vetta. — Sono cacciatori croati; — disse allora il sottotenente Fava. — Avevano già presa la montagna, quando noi giungevamo al posto, e devono essere stati respinti in disordine quassù dalla medesima truppa che ora si avanza sulla nostra sinistra. — E ci hanno tre ufficiali superiori; — notò il capitano Rubin, osservando tre cavalieri, appiedati per la necessità dell’aspra salita, che conducevano per le redini le loro cavalcature. Quei cacciatori, che s’inerpicavano su per la costa del monte, erano veramente croati, come diceva il sottotenente Fava. Riconoscemmo più tardi che erano due compagnie, con sette ufficiali; ma da principio, e non badando che al numero, credemmo di vedere un battaglione. Forse le due compagnie, già fitte di per sè, avevano raccolti gli avanzi di altre decimate a Montenotte, e perciò presentavano nel complesso un forza di cinquecento uomini. Era con esse il conte Provera, pavese, vecchio generale al servizio dell’Austria, seguito dal suo aiutante, di cui non rammento il nome, e dal conte Martonix, ufficiale di stato maggiore, che in quel giorno doveva buscarsi una gloriosa ferita. Come mai si trovava lassù quella truppa? Erano forse sbandati del corpo del generale Argentau, che avevano scambiata la via di Dego con quella di Millesimo? O forse il generale Beaulieu, non credendo ancora perduta la giornata di Montenotte, e ignorando la fulminea discesa del Buonaparte nella valle di Carcare, aveva mandato in ricognizione il Provera, e questi, tagliato fuori dall’esercito francese, si era ripiegato sulla linea piemontese, non isperando più di raggiungere l’austriaca? Non saprei dirvelo. Il soldato, in campo, ignora molte cose, anche di quelle che accadono vicino a lui, e quasi sotto i suoi occhi. Aggiungete che di questi particolari minuti delle grandi guerre non si tien conto a cose fatte e a relazioni compiute. Dunque, io non lo so, e nessuno l’ha scritto; restiamo nel buio. I francesi, come vi ho detto, ci avevano veduti e salutati con qualche fucilata; ma poco dopo si avanzarono rapidamente, levando alte grida, quasi volessero prenderci col terrore delle voci, come gli Ebrei di Giosuè avevano preso Gerico a suono di trombe. — Alberione, Corte, miei buoni amici, ecco il momento; — disse il colonnello, snudando la spada. — Attaccate alla baionetta, e vivamente! Un fremito corse per le due compagnie di Monferrato, a quelle parole del comandante. — Per il re e per la patria! — gridò il cavaliere Alberione, dei conti di Rorà. — Avanti, Monferrato! — Monferrato, avanti! — gridò il cavalier Corte, dei conti di Bonvicino. — Susa e la Marina ci guardano. Le compagnie si mossero con le baionette spianate, presero il passo accelerato, indi la corsa vertiginosa, rovesciandosi addosso al nemico. Un grido solo, un urlo, rompeva dai petti: «avanti, Monferrato!» Il nome della patria, il nome della famiglia militare, a cui rispondevano due immagini egualmente care, il luccichio delle baionette assiepate davanti a noi, avviate a gara, prorompenti come lingue di fuoco, la sensazione calda dell’urto imminente, l’odore acre della mischia, raddoppiavano, centuplicavano l’ardimento, inebbriavano i cuori. Ci accolsero a schioppettate, i francesi? Lo immagino, ma non ne ho conservato il ricordo. So che li vidi via via più vicini, quindi mi parve che dessero volta e la nostra schiera li inseguisse con le baionette alle reni. Bella cosa, quell’impeto e quella fuga, veduti come in un lampo! Tutti gli uomini sono fratelli! Ecco in verità un consolante pensiero. Ma nessuna idea sulla fratellanza umana varrà nella memoria del soldato questo acerbo contatto del ferro lucido con la carne palpitante, quando si difende casa sua, la bandiera e l’onore del proprio paese. L’orgoglio indomabile della vostra medesima razza vi lampeggia sugli occhi; il sangue, il buon sangue di tante generazioni che vogliono emulazione o vendetta, vi martella alle tempia, vi fuma alle nari, vi caccia avanti, all’emulazione, alla vendetta, alla strage. Rovinate, massa animata, col peso moltiplicato della massa inerte, sulla muraglia vivente che vi contrasta la via, e il cozzo delle due forze, delle due somme di sdegni e di furori scatenati, dà fumo e scintille. Siete ferito? Non lo sentite, in quel punto supremo; cercate il petto del nemico, lo tempestate di colpi. Davanti a voi sparisce ogni cosa; ogni immagine si offusca e si perde; non vive altro pensiero, non risplende altro affetto, non arde altra passione, fuorchè l’ira vostra, raddoppiata, inasprita dall’ira di quanti combattono con voi, o contro di voi. La morte aleggia su tutti, si ficca in mezzo, dirige ella i colpi. Può cogliere anche voi; ma che importa? È bella, è luminosa, è felice, la morte del soldato, nell’urto feroce di due battaglioni, e vale cento vite di filosofi umanitarii, con tutti i loro libracci per giunta alla derrata. Si erano scompigliate le ordinanze nemiche; gli assalitori, respinti a furia, si ripiegavano sul grosso dell’esercito. Ma gli ufficiali facevano quanto potevano per arrestare la lor gente; esortazioni, piattonate, tutto era buono, per raggiungere il fine. Così, rannodando gli uomini di buona volontà, sbarrando la strada ai timidi, riuscivano ancora a far testa. — _Sacrebleu!_ — gridavano. — _La face à l’ennemi! Allons, enfants de la patrie_.... E a quelle parole, che prendevano facilmente il ritmo musicale, si rifacevano i manipoli. Il gran numero dei feriti che ingombravano la strada, rallentando la marcia a noi, dava tempo al nemico di riordinarsi più lungi, di ritornare alla carica. — Staremo noi a sentirli cantare? — gridò il cavaliere Alberione. — Avanti, Monferrato! Per la patria, per il re! — E dentro da capo. Era una lotta a corpo a corpo, una lotta disperata; ma anche questa finì con la peggio del nemico, che diede volta ancora, incalzato da noi, bersagliato dai fuochi della collina. Perchè ora dovete sapere ciò che avveniva alle nostre spalle, o meglio, ciò che aveva fatto il colonnello Del Carretto, intanto che noi si marciava ripetutamente all’assalto. Non era ancora venuto per lui il momento di caricare, come ne aveva voglia di certo. Con un sangue freddo ammirabile, mentre Monferrato correva alla baionetta, egli prendeva la Marina e Susa, comandava per fila a sinistra e faceva andare le quattro compagnie sull’erta di Cosseria. Di lassù, le prime squadriglie, con tiri aggiustati sulla seconda linea dei francesi, ne ammorzavano l’audacia, aiutando l’impeto nostro nella loro avanguardia. Frattanto il colonnello guadagnava terreno, muovendo la sua gente a scaglioni, come se fosse in piazza d’armi, e non davanti al nemico, lungo la costa di un monte. Il giorno sorgeva, illuminando quella stupenda evoluzione. Ma il giorno, pur troppo, illuminava anche la povertà delle nostre forze. Eravamo stati in cento ottanta a dar dentro, ed avevamo parecchi dei nostri fuori di combattimento. L’avanguardia nemica, respinta in disordine per la seconda volta, non si riordinò che alla stretta di Plodio, sulla testa di colonna dell’esercito francese. Ma laggiù riprendeva lena ed ardire; un uomo a cavallo, certamente un generale, assumeva il comando, la guidava alla riscossa, agitando il cappello piumato sulla punta della spada. La schiera ostinata si cacciò sotto un terza volta; ma noi, come fu a venti passi, le facemmo addosso un fuoco così vivo, che ella fu costretta ad arrestarsi. Un’altra carica la rimandò di là dal torrente. In quello scontro ci riuscì di fare un prigioniero. Era un soldato caduto, che non aveva avuto tempo di ritirarsi con gli altri. Il cavalier Corte lo interrogò, secondo l’uso. — A che corpo appartenete? — Augereau; — rispose brevemente il soldato. — Quanti siete? — Dodicimila, per ora; ma il resto è in marcia. La difesa che fate, mio comandante, non può condurvi a nulla; vi consiglio di arrendervi. — Ecco un prigioniero che fa il parlamentario; — notò il cavalier Corte, ridendo. — Andate, _mon brave_, e dite al vostro generale che noi siamo in meno, ma che qui dietro c’è tutto l’esercito piemontese. — Il francese salutò, recando la mano al cappello, e si allontanò zoppicando. — Mi sono forse affrettato un po’ troppo a presentare il general Colli in battaglia; — soggiunse il cavalier Corte, volgendosi al collega Alberione. — Ma forse anche lui mi ha raddoppiato il numero dei suoi. Esagerazione per esagerazione. — Il comandante della prima sorrise ed approvò. — E valga la buona intenzione! — diss’egli. — È bene che sappiano, laggiù, che non abbiamo paura di loro. Per intanto, questa prima partita l’abbiamo vinta noi. — E per intanto seguitava il fuoco vivo da una parte e dall’altra della valle. I nemici si disponevano ad un nuovo e più poderoso attacco, quando giunse a noi il capitano Rubin, con l’ordine di farci ripiegare sul grosso del battaglione. Ci ritirammo con calma, ben sostenuti dalle due compagnie di Susa, che si erano a bella posta avanzate sul ciglio della balza. Ma il capitano Rubin, che aveva recato l’ordine del colonnello, prese una palla in petto e cadde bocconi. Accorremmo per rialzarlo, e lo portammo semivivo sulle nostre braccia, fin sotto ai torrioni della ròcca. — Povero Rubin! Per mia colpa! — esclamò il colonnello, quando lo vide giungere in quello stato. — Qualcheduno doveva andare; — mormorò il capitano. — E questa volta tocca a me. Buona fortuna, mio colonnello! — Furono le ultime parole del capitano Rubin. Filippo Del Carretto lo abbracciò, con le lagrime agli occhi, e si tolse di là, per andare dove lo chiamava il dovere. Ecco una brutta cosa, nella vita del soldato! Si vede morire un amico, e non si può restar lì, a confortarlo ne’ suoi ultimi momenti. Basta, beviamo un sorso. È una storia così lunga! Ma voi altri l’avete voluta, e dovete ascoltarla dal principio alla fine. CAPITOLO V. Chi comanda, a Cosseria? Lassù, dove ci eravamo inerpicati, era un castello in rovina. Mostrava, per altro, di essere stato saldamente costrutto, perchè si vedeva ritta ancora, e in alcune parti incolume, la sua forte ossatura. Le mine del 1536 avevano fatto crollare il mastio, che, rompendosi in quattro enormi rocchi di malta e di pietre, si era rovesciato sulla chiesuola del castello e sopra la facciata del palazzo feudale. Ma esso aveva anche fatto di peggio per noi, tardi ospiti di quelle rovine, poichè nel suo crollo si era sfondato il serbatoio dell’acqua, la cui vòlta robusta girava a fior di terra sotto la piazzetta, davanti alla chiesa. Là dentro si raccoglievano le acque piovane e le nevi, di cui erano liberali i lunghi inverni delle Langhe; nè in altro modo, per l’altezza solitaria del monte, si poteva aver acqua nei calori dell’estate. Il castello aveva una sola cinta dalla parte di levante e mezzogiorno; ma di là, anche i resti dell’antico muro bastavano a custodire il passaggio, poichè il declivio era ripido oltremodo, e pochi uomini di guardia potevano impedire la salita a centinaia e centinaia di assalitori pazzi. Due cinte a semicerchio proteggevano la ròcca da ponente e da tramontana. L’interna, e più alta, non era più che un monte di rottami su cui verdeggiava una folta macchia di nocciuòli. La esterna, assai larga di giro, era diroccata in gran parte, specie davanti al più dolce pendìo, per cui la montagna si collegava ai due sproni, o contrafforti, che ho già ricordati, e che voi pure non dovrete perder di vista. Sull’ultimo lembo della doppia cinta, verso levante, sorgevano ancora tre lati delle mura maestre del vecchio palazzo a due piani, e un romantico verone, su cui Berta di Cosseria avrà passate Dio sa quante ore del giorno, meditando, con gli occhi rivolti alle verdi colline del Monferrato. Chi era questa Berta di Cosseria? Lo ignoro. È un nome che mi è rimasto nella memoria, ma senza contorno di fatti. Non vi aspettate dunque la sua storia da me. Non so nulla di lei; non so neppure in che secolo sia vissuta, questa gentile signora. Salito lassù, e data una rapida scorsa alla cinta esterna, il colonnello Del Carretto riconobbe subito il lato debole della posizione. Di là, dove il muro appariva più guasto, e dove, per i due contrafforti che sapete, era da prevedersi più facile l’attacco, ordinò subito un’abbattuta d’alberi e un riparo di sassi, dietro a cui potevano stare appostati i combattenti di prima linea. Si lavorò tutti a gran furia, e in capo a mezz’ora avevamo un principio di trinceramento, bastante alle prime necessità della difesa. Frattanto, uno strepito d’armi, di voci alte e di passi affrettati, si udiva sotto di noi, nelle forre. Anche il nemico aveva compiuto il suo giro attorno alla montagna, e di là dovevamo vederlo comparire all’assalto. La seconda compagnia di Monferrato era di servizio fuori della cinta, sull’estrema destra del castello. Ma io, mentre si conduceva a termine il lavoro delle trincee, avevo dovuto andare a mettere in ordine ogni cosa per i nostri feriti, ed anche, pur troppo, a raccogliere gli ultimi desiderii dei morenti. Ero il calligrafo, lo ricordate, lo scrivano, il letterato del battaglione. Ma facevo anche l’infermiere, in quel punto, e dopo aver collocati quei poveretti al sicuro, sotto l’abside, mezzo sepolto tra le macerie dell’antica chiesuola, ero andato a frugare tra i macigni e i rottami che colmavano la grande cisterna, e avevo trovato qualche goccia d’acqua piovana, nascosta tra i sassi. Non era un gran soccorso, e non sarebbe durato molto; ma si poteva almeno bagnar le labbra dei feriti, senza privare i combattenti del poco liquido che serbavano ancora nelle loro fiaschette. Fatta la scoperta, non ebbi altro pensiero che quello di andarla a comunicare al marchese Del Carretto. Egli era poco distante, sul terrapieno della cinta interna, a colloquio col generale Provera. I due uomini di guerra, giovane l’uno e pieno di vita, l’altro già molto avanti negli anni, si erano conosciuti altrove, nel corso della campagna antecedente, e quella mattina, sul colmo di Cosseria, avevano ricambiato la stretta di mano delle vecchie conoscenze. Ma il nostro colonnello, che aveva pratica del luogo, essendo quelle rovine e tutta la montagna appartenute a’ suoi maggiori, era corso ad ordinare i preparativi della difesa. Soltanto allora aveva potuto ritornare presso il conte Provera, e per la prima volta stava ragionando liberamente con lui. Non era quello il buon momento per farmi avanti con la mia piccola notizia, e rimasi, un po’ senza volerlo, un po’, ve lo confesso, per istinto di curiosità, nascosto nella macchia dei nocciuòli, ad ascoltare la loro conversazione. Si trattava alla fin fine degli interessi di tutti noi, e chi, trovandosi in un caso simile, non ha mai ascoltato agli usci, mi scagli pure la prima pietra. — Ma qui non c’è nulla di nulla; — diceva il conte di Provera. — Nemmeno un fil d’acqua. — Il marchese Filippo fece una mossa di labbra, che pareva voler dire: non è poi colpa mia. — Facciamo una rassegna delle nostre forze; — continuò il Provera. — Voi avete cinquecento uomini. — Siamo ancora cinquecento cinquanta, tra ufficiali e soldati, senza contare i feriti che abbiamo potato trasportare nella rocca; — rispose il colonnello. — Bene; ed io ho cinquecento uomini sani, con sette ufficiali. Aggiungete me e i due dello stato maggiore, che mi accompagnano. — Mille sessanta; — rispose il colonnello, tirando la somma. — Le vostre munizioni? — ripigliò il Provera. — Da venticinque a trenta cartucce per uomo. — Come noi. — Son dunque trentamila colpi disponibili; — conchiuse il marchese Filippo. — Diciamo pure trentamila; — replicò il conte Provera. — Ma voi m’insegnate, colonnello, che, anco a farli tutti, quei trentamila colpi, ne avremo solo un migliaio di utili. Un battaglione, come ogni altro corpo di soldatesche impegnato, fa già molto a metter fuori di combattimento l’equivalente del proprio effettivo. — In aperta campagna, lo credo anch’io, — rispose il marchese Filippo, — perchè un partito finisca sempre col soverchiare l’altro, o per forza di baionetta, o per buon esito di movimenti giranti. Ma in una posizione fortificata, e difendendosi fino all’ultima cartuccia, quel corpo può fare assai più. — Bene, concedo il doppio, — disse il vecchio generale, — quantunque un fatto simile non si sia visto mai, dacchè si usano armi da fuoco. E poi? si potrà egli tenere fino all’ultimo, senza munizioni di bocca? Quanto al pane, mi avete risposto: «gli avanzi della razione di ieri»; per l’acqua e il vino, mi avete risposto: «quel che rimane entro le fiaschette dei soldati, riempite questa notte a Millesimo». Sono minuzie volgari, lo so, e stonano coi generosi ardori del guerriero; ma bisogna anche metterli in conto, quando si ha da misurare il grado di resistenza possibile. Aggiungete, marchese, che avete dei feriti, e che, insieme con l’acqua, vi mancano ancora uffiziali di sanità. — I nostri feriti soffriranno nobilmente, per il re e per la patria; — rispose il colonnello. Io non vedevo il conte Provera, ma indovinai dal suo silenzio che egli doveva inchinarsi, da vecchio gentiluomo, a quella bella risposta. — Veniamo alle speranze; — soggiunse egli, dopo una breve pausa. — Il generale Beaulieu sarà oggi impegnato a Dego, a Spigno, o in qualche punto della strada di Acqui, che egli deve coprire ad ogni costo. — Il generale Colli ha promesso di sostenerci; — rispose Filippo del Carretto. — Noi siamo il suo posto avanzato. Per intanto, aspetto munizioni. Questa notte gli ho spedito un corriere, per avvisarlo che a Millesimo non avevamo potuto far viveri; ed egli, se ha sentite le fucilate di Montecàla, deve anche immaginare che non avremo tempo di cercarne a Cosseria. — Il Colli.... — disse quell’altro, mendicando le parole, — il Colli dovrà ritirarsi su Ceva. — Lo credete voi, generale? — gridò Filippo del Carretto. — Ma!... È questa una mia opinione.... fondata sul dovere di ogni prudente capitano, che voglia salvare il proprio esercito. — Senza aver combattuto, generale? — Infine, — disse il vecchio Provera, che in quel momento mi parve molto seccato di tante domande, — non è qui che si salvano le sorti della campagna. Una grande battaglia, vinta nella valle del Po, rimanda i francesi di là dal Settepani, assai meglio che tanti piccoli combattimenti in queste gole. — Sia pur questo il concetto del generale Beaulieu; — ribattè il marchese del Carretto. — Ma il generale Colli comanda l’esercito piemontese, e l’esercito piemontese, per intanto, ha da difendere casa sua. — Dopo Montenotte? — Appunto per ciò. A Montenotte, i francesi avranno ottenuto il grande risultato di poter mantenere le loro posizioni sul passo di Cadibona; ma restano sempre, contro di loro, la stretta di Dego per gli austriaci, e la stretta di Millesimo per noi. — E sia; — rispose il Provera. — Mettiamo pure che il Colli venga in sostegno. Quando? Qui, a detta di un vostro ufficiale, che l’ha saputo da un soldato francese, abbiamo da fare con tutto il corpo dell’Augereau; dodici mila uomini. E il Buonaparte non è lontano; ne avrà ventimila. — Gliene concedo trenta, e tutti i miracoli dell’audacia, e tutti quelli della fortuna, che, come dicono, ama i giovani; — replicò il marchese Filippo, animandosi. — Ma neanche il generale Buonaparte può far qui il suo sforzo maggiore, se prima non ha assaggiato il Beaulieu. Noi, dunque, non avremo sulle braccia che i dodicimila uomini dell’Augereau. Ora, la posizione nostra, su questo nido di aquile, e per un giorno che dovremo aspettare i movimenti del generale Colli, vale undicimila uomini. Siamo mille, quassù; i conti si pareggiano. — Marchese del Carretto, voi avete una fede maravigliosa! — esclamò il generale Provera. — Ed è una bella cosa, nel soldato; bella come la gioventù. — Volevo escire dal mio nascondiglio, perchè la conversazione mi pareva finita. Ma in quel punto capitò sul terrapieno il cavaliere Alberione. — Colonnello, — diss’egli, — abbiamo un parlamentario. — Ah! — esclamò il marchese Filippo. — È un generale; — riprese il capitano Alberione. — È venuto col trombettiere, che portava il fazzoletto bianco sulla punta della baionetta. — Lo avete bendato? — Sì, e lo abbiamo condotto dentro. Egli ha chiesto chi comanda a Cosseria, per intimargli la resa. — Io allungai il collo tra i rami. Premeva anche a me di saperlo, chi comandasse a Cosseria, dopo la conversazione che avevo sentita. Il marchese Del Carretto aveva fatto un gesto di ossequio, e il generale Provera si muoveva già per andare; ma dopo quel gesto, e veduta la mossa del generale, il nostro colonnello fu pronto a soggiungere: — Signor conte, Ella è maggiore di grado e di esperienza. Ma io ardisco pregarla di por mente ad una cosa. — Quale? — Che noi siamo risoluti di difenderci, e che ne abbiamo anche l’obbligo. — Potendo, sicuramente; — rispose l’austriaco. — È giusto; — replicò il marchese Filippo. — Ma a me, iersera, è stato detto; andate, e difendete Cosseria. È un ordine positivo. — E che cosa contate di fare? Di non ascoltar nemmeno se i patti del nemico sono onorevoli? — Fossero i più onorevoli che un pugno di uomini potesse ottenere da un intiero esercito, se essi ci fanno sgombrare la posizione, ci fanno tradire il mandato. Ella non ha ordini pari ai nostri, signor conte; si ritiri Lei, noi resteremo. — Il vecchio Provera rimase un istante sovra pensiero, poi nobilmente rispose: — Non farò questo, io. Ella ha detto poc’anzi che la fortuna ama i giovani. Orbene, io invito la dea su queste rovine e cedo il comando al colonnello Del Carretto. Se la mia vecchia esperienza può valer qualche cosa, la metto a sua disposizione fin d’ora. Signor comandante, a Lei! — Grazie, signor conte! — gridò il marchese Filippo. — Ed ora, Alberione, fa venire il parlamentario. Conduci anche il cavalier Tibaldè. È il capitano più anziano, e desidero che assista al colloquio. — Il parlamentario fu introdotto nella seconda cinta, e sbendato dal cavaliere Alberione. — D’ordine del generale in capo dell’esercito francese, — diss’egli, levando la fronte, e col sorriso sulle labbra, — chi comanda a Cosseria? — Io, marchese Filippo Del Carretto di Camerano, colonnello dello stato maggiore generale di Sua Maestà il re di Sardegna; — rispose solenne il nostro comandante. — Con chi ho l’onore di parlare? — Il mio nome è molto più breve; — ripigliò quell’altro. — Cervoni, generale della Repubblica francese. — Ah! — esclamò il marchese del Carretto, che aveva fiutata in quelle parole l’intenzione sarcastica, ed era uomo da rendere pan per focaccia. — Il comandante dell’avanguardia a Voltri? — Ricorderete che pochi giorni prima i francesi si erano spinti fino a Voltri, ma ne erano stati cacciati a furia da un corpo di seimila uomini, calato improvviso dai monti. La botta era resa, e il labbro del marchese Filippo si ricompose tosto al suo consueto sorriso. — Vincitori a Montenotte, padroni della valle della Bormida, — ribattè il generale Cervoni, felice di mettere quel glorioso copertoio sui cenci di Voltri, — proseguiamo la nostra marcia vittoriosa. Intimo la resa alla guarnigione di Cosseria, in nome del generale Buonaparte. — Non comanda il generale Augereau? — chiese il colonnello Del Carretto. — La sua divisione avrà l’onore di muover prima all’assalto, se vi ostinerete a resistere; — rispose il Cervoni. — Ma qui è presente il generale in capo. La posizione è accerchiata da tutto l’esercito. Occupiamo Millesimo, Pian dei Giaschi e il monte Cavallo; la vostra condizione è disperata; arrendetevi a discrezione. — A discrezione! — ripetè il nostro comandante. — Buonaparte è generoso; — replicò il parlamentario. — Grazie, generale Cervoni! — disse allora il marchese Del Carretto. — Vogliate riferire al generale Buonaparte, altro nome italiano che ripeto con grata meraviglia in questa occasione, che noi non disputiamo sulle condizioni strategiche e tattiche in cui possiamo trovarci, ed egli intenderà le ragioni di questo nostro riserbo. Sappia egli, per bocca vostra, che a Cosseria ha da fare con granatieri piemontesi, e che i granatieri piemontesi non si arrendono mai[1]. — Così farò; — rispose il Cervoni; — e sarò felice, se potrò venire io primo, a salutare questi valorosi, con la spada alla mano. — Sempre lieto d’incontrarvi, generale; e senza rancore, per quell’ora! — aggiunse il marchese Filippo, stendendo la mano al nemico. Il parlamentario francese fu bendato da capo, e ricondotto con tutti gli onori, a suon di tamburo, fino al fondo della salita. Ero escito dalla macchia, ed avanzandomi verso il colonnello, gli annunziai la mia piccola scoperta. Egli se ne mostrò molto contento, e, volgendosi al vecchio Provera, gli disse: — Vedete, generale? Un angelo è apparso, e ci ha additata una fonte. Poca cosa, pur troppo, ma ai feriti basterà. Sergente, — riprese, voltandosi a me, — andate pure alla vostra piccola infermeria. — Colonnello, — risposi, mettendo la mano alla fronte, — se permette vado al mio posto, con la seconda di Monferrato. — E lasciate i feriti? — mi chiese. — La seconda non ha che tre sergenti; — risposi. — Bravo! va; — diss’egli allora, dandomi amorevolmente del tu. E mi pose anche la mano sulla spalla, e il mio cuore n’ebbe un sussulto di gioia. Avete pensato mai che ci sono delle mani dotate di una virtù miracolosa? Altro che il magnetismo! Son mani divine, che derivano la loro potenza dalla purezza dell’anima, dalla nobiltà del carattere. Si sa, o si sente, che quelle mani non si sono macchiate mai di una azione malvagia, o solamente dubbia. Si stringono con venerazione; si vorrebbe baciarle; dovunque toccano, lasciano il sigillo, la fragranza dell’onore, della virtù, della grandezza morale. Quel giorno e per la prima volta, io, oscuro sergente, qui sopra all’omero sinistro, sentii l’impronta dello spallino, che non avevo ancor meritato. CAPITOLO VI. Giornata calda. Filippo Del Carretto discese rapidamente dalla macìa che si stendeva in largo declivio sotto la breccia della cinta esterna, e percorse tutta la fronte di difesa, volendo vedere ogni cosa da sè. Passando davanti alla sua gente, salutava amorevolmente ufficiali e soldati, alternava comandi e parole di lode, comunicava a tutti lo spirito marziale che lampeggiava dalle sue pupille azzurre. Egli aveva collocato nel centro, e poco sotto alla breccia che vi ho detto, le due compagnie della Marina, sostenute da cento uomini del generale Provera. Questa volta toccava ai granatieri della Marina il posto d’onore, poichè Monferrato aveva già avuto il suo, poche ore innanzi, al passo di Montecàla. Inoltre, le due compagnie della Marina avevano completo il numero dei loro ufficiali, e abbondavano di sott’ufficiali, mentre le due di Susa non avevano che due ufficiali per ciascheduna, e la seconda di esse era comandata da un semplice luogotenente. Queste due erano invece collocate sull’estrema sinistra, e sostenute anch’esse da un centinaio di Croati. Ma laggiù era un posto importantissimo, poichè da quella estremità si partiva il contrafforte occidentale della montagna, e su quel contrafforte saliva una delle due strade che conducevano alla rocca, anzi quella che le girava attorno, dalla parte di Millesimo, per imboccare la porta castellana. Laggiù, adunque, dov’era da temersi un altro attacco, il colonnello Del Carretto pose a sostegno la prima di Monferrato, col cavaliere Alberione. Un altro centinaio di Croati erano distribuiti sull’estrema destra, dov’eravamo noi della seconda di Monferrato, sotto gli ordini immediati del cavalier Corte. Da quella parte, avevamo a destra una costiera assai ripida, che sarebbe stata a dirittura impraticabile, senza una piantata di castagni giovani, che potevano dar ansa a qualche manipolo più svelto e più temerario d’inerpicarsi lassù e di attaccarci di fianco. Sulla nostra fronte era un declivio abbastanza largo, che in parte andava a congiungersi con quello del centro, in parte spariva, entro una forra, a cinquanta passi da noi. Di quella fronte dovevamo occuparci, ed anche partecipare coi nostri fuochi a respingere gli assalti che fossero dati sul centro della posizione. Il nostro fianco destro e le spalle erano guardati, così per noi, come per tutto il presidio, da altri duecento Croati, alla cui vigilanza dava il soccorso della sua grande esperienza e della sua bella calma il generale Provera. Aggiungo che tutta la fronte di difesa, a tramontana, cioè verso la Rocchetta del Cengio, poteva esser lunga un duecento passi. Su tutta la linea, più folto ai lati e con una larga radura nel centro, era un bosco di castagni; ma eravamo a mezzo aprile, e le piante mettevano appena i primi germogli. Più là dal bosco, e dal suo pendìo verdeggiante di borraccina e di felci, la montagna staccava i due sproni, o contrafforti che sapete, l’occidentale verso il bosco della Guardia e il pian dei Giaschi, l’orientale verso San Rocco e l’abitato di Cosseria. Sovra ambedue, ve l’ho detto, serpeggiavano strade, l’occidentale più moderna, ma anche più guasta, l’orientale antichissima e meglio conservata, per la medesima saldezza della sua costruzione. A quest’ultima, finalmente, veniva ad allacciarsi una viottola campestre, che poco si vedeva, anzi nulla dal nostro poggiuolo, poichè ascendeva al coperto tra i ciglioni e gli scoscendimenti della forra. Si vedeva in quella vece benissimo, e per lungo tratto, la strada maggiore, che a cento cinquanta passi da noi risaliva una piccola eminenza, e poi seguitava bianca bianca tra i roveri e i ginepri fino al bosco del Cavallo. Là, dove la strada faceva quel po’ di risalto, si notava qualche movimento dei nemici. Si avanzavano più nascosti che potevano, dietro ai ginepri e agli sterpi, ond’era rivestito quel dorso di galestro, e pareva che proprio in quel punto volessero attendere a qualche misterioso lavoro. Noi credemmo a tutta prima che di là ci preparassero l’attacco; ma il colonnello ci disingannò facilmente. — Non vorranno mica esporsi per così lungo tratto di sentiero allo scoperto; — diss’egli — Vedrete che pianteranno una batteria di campagna. — Vuol esser musica, dunque? — esclamò il cavalier Corte, che non perdeva mai il suo buon umore. — Tocca a loro di regalarcela, che hanno gl’istrumenti; — rispose il marchese Filippo, accogliendo volentieri la celia. — Ma quando arriveranno i nostri di laggiù, felice notte, suonatori! — E guardava con desiderio a sinistra, verso i monti oltre la Bormida di Millesimo, dove si vedeva biancheggiare la salita di Montezemolo. S’ingannava, fidando nel soccorso del Colli; ma non s’ingannava altrimenti, argomentando i disegni del nemico. Su quel risalto della strada era venuto, come si seppe più tardi, il generale Buonaparte in persona, e aveva dato ordine di costrurre una batteria. Senonchè, dovendo quel lavoro esser fatto di giorno e a così breve distanza da noi, il parapetto si innalzava un po’ indietro, per non tenere gli zappatori esposti al tiro dei nostri moschetti. Ne derivò, come potete immaginare, un piccolo difetto di posizione, che non permise ai cannoni francesi il tiro ficcante nei nostri lavori avanzati. Regnava frattanto sull’erta un silenzio di tomba. L’aria odorava d’insidie. Ricordo che sorridemmo malinconicamente vedendo passare svolazzando davanti a noi una farfalletta bianca, forse la prima della stagione. In un bel luogo, e per il suo primo giorno di vita, era venuta a ficcarsi! Un rullo di tamburo si udì nella forra sottoposta, che metteva all’abitato di Cosseria; un altro rullo rispose dalla valletta che era davanti a noi, sotto il bosco della Guardia. Due assalti simultanei ci erano in quella forma annunziati. — Finalmente! — gridò il marchese Del Carretto. — Granatieri, qui daremo una buona lezione ai nemici della patria e del re. Lasciateli avanzare, senza fare un colpo. Rinforzi e munizioni non ci mancheranno, in giornata; intanto, da buoni soldati, dobbiamo risparmiare le nostre cartucce. Non fate fuoco se non quando il nemico sarà a venti passi, e ognuno di voi si scelga il suo uomo. Del resto, il fuoco lo comanderò io, e vedrò dalla vostra calma se siete vecchi soldati. — Osservate lo strano effetto che doveva fare su noi l’accorto discorso del colonnello. Si aspettava di veder comparire il nemico dal ciglio della collina, e una simile aspettativa è sempre tale da meritare un certo riguardo, magari anche un pochino d’ansietà, perchè i timidi ci sono sempre, e incominciano di lì anche coloro che alla prima circostanza si tramuteranno in eroi, e perchè d’altra parte i più valorosi, i più esercitati, i più calmi, temono sempre di non poter fare abbastanza bene il loro dovere. Ma il colonnello Del Carretto, con le sue magiche parole, ci trasformò d’improvviso quella ansietà nella mente. Oramai non temevano più l’apparizione delle colonne d’attacco; temevano di sparar troppo presto, di non parere più a lui quelli che volevamo essere, cioè vecchi soldati. I tamburi del nemico suonavano furiosamente la carica. Il rumore si avvicinava sempre più, da una parte e dall’altra; si udiva il calpestìo concitato dei fantaccini che serravano il passo lungo i sentieri nascosti, ond’era cinta la montagna a pochi metri dal colmo; ad un certo punto il rumore dei passi mutò, divenne sordo, ma più frequente, come di un gran numero di persone che si affrettino camminando sull’erba, e a noi parve fin anco di sentire il respiro affannoso degli assalitori, che guadagnavano l’erta. Ci apparvero, infine, ci apparvero alla vista i neri cappelli dalla tesa arrovesciata sull’orecchio, e fermata da una coccarda tricolore. Stettero un momento in forse, da prima cercando i nostri ridotti, poi la cagione del nostro silenzio; ma non potevano rimanere più a lungo così, dovevano risolversi, far posto ai compagni che volevano afferrare anch’essi il ciglio del prato, e che incominciavano a sbucare dai lati. — _En avant, soldats de la République!_ — tuonò allora una voce, che io riconobbi per quella del generale Cervoni. Era egli, difatti; veniva primo all’assalto, come aveva promesso; e mi dava noia e mi faceva piacere che quel primo assalitore avesse un nome italiano. Avevo già spianato il fucile, in attesa del comando, e aggiustavo la mira su quell’uomo dal cappello piumato e dalla gran sciarpa tricolore; poi dissi: «no, ci penserà un altro, a costui,» e sviai di due o tre linee la canna. Alla sua voce e all’esempio, i soldati si mossero, levando grida feroci; vennero da prima strisciando, come gatti che hanno adocchiata la preda, e finalmente si avventarono a passo di corsa. Da noi era sempre un grande silenzio; non si sentiva volare una mosca. La farfalletta bianca aleggiava tuttavia fra i due campi. Il colonnello Del Carretto stava fieramente piantato, con la sua spada nuda e fiammeggiante, sopra un largo macigno, dominando di quattro o cinque spanne la sua fronte di battaglia. Mi pare di vederlo ancora, su quella pietra predestinata, ritto, imperterrito, minaccioso, come dovrebbero raffigurarcelo un giorno, quando paresse utile di eternare nel marmo o nel bronzo qualche bell’esempio del valore italiano. — Fuoco! — gridò egli, con voce che fischiò come la folgore, appena gli assalitori furono a tiro di pistola. Una scarica generale succedette al comando. I vecchi soldati avevano mantenuto il loro buon nome. Ognuno aveva mirato il suo uomo; e quando la nuvola si sciolse, fu visto il campo seminato di morti. Le prime linee erano atterrate, le seconde indietreggiarono istintivamente. Ma, incalzate dai nuovi venuti, incitate dalle grida dei comandanti, ritornarono tosto all’assalto, e fu allora da parte nostra un fuoco di fila, rapido, serrato, rabbioso. Crepitavano, fischiavano, guaivano le palle, ed atterravano sempre; parecchi, più audaci, vennero a stramazzare sui trinceramenti, davanti alla Marina, che faceva prodigi. Noi, dalla destra, aiutavamo, cogliendo la colonna di sbieco. Più e più volte vennero alla riscossa, ma furono sempre ricacciati. Il campo, per lungo tratto davanti a noi, era diventato un carnaio. Non fu più visto il Cervoni, morto o ferito che fosse. Un altro generale guidava, che sapemmo poi essere il Bonel, anch’egli animosissimo, col cappello levato sulla punta della spada, secondo la gloriosa costumanza d’allora. Si avanzò alcuni passi, correndo, e molti, ufficiali e soldati, gli si erano serrati intorno a manipolo. Ma cadde anch’egli trafitto da più colpi, e disparve quel vessillo di piume che incuorava la sua gente all’attacco. Un grido di gioia, partito da tutti i nostri ridotti, ne salutò la caduta, e un urlo di rabbia disperata rispose dalla rotta falange, che, levato il morto sulle braccia, lo trafugò sotto il ciglio della collina. Noi incalzammo il fuoco sulla schiera fuggente. Oramai davano indietro su tutta la linea, investiti, rincorsi dalle palle, rovesciati, travolti. Si poteva finalmente ricogliere il fiato. Bevemmo un sorso delle nostre fiaschette, nient’altro che un sorso, perchè la provvista era scarsa, e fra non molto saremmo rimasti all’asciutto. Avevamo vinto; questo era l’essenziale, per allora. I morti e i feriti giacevano a centinaia, sanguinosi trofei della nostra vittoria, lungo la fronte di battaglia. Noi avevamo avuto pochi uomini fuori combattimento, colpiti da una squadra di tiratori, appostati tra i cespugli, sui margini della strada alta, dove il colonnello argomentava che si stesse collocando una batteria. — Vedete? — diceva egli, percorrendo i trinceramenti e distribuendo sorrisi e strette di mano. — Calma vuol essere: non bisogna sparar prima del tempo. Seguitiamo così e la vittoria sarà nostra. — Eravamo caldi, infiammati, pieni di desiderio: avremmo voluto combatter di nuovo. E l’occasione non si fece aspettar molto. I francesi tornarono mezz’ora dopo all’assalto. I loro tamburi suonarono la carica più furiosamente che mai. E venivano in tre colonne, una contro il cavalier Corte, sulla destra della posizione, salendo dalla forra laterale; una al centro, dov’era il colonnello coi capitani Tibaldè e Lomellini; la terza sulla nostra sinistra, dove comandavano i capitani Alberione e Calieri e il luogotenente Nerand. Da quella parte era più facile venire fino al tiro, perchè la strada, riuscendo ad una specie di sella che partiva gli approcci del castello dal bosco della Guardia, diventava di dolce salita per un centinaio di passi; ma poi era altrettanto difficile guadagnare la posizione, perchè ivi la collina offriva una grossa sporgenza, e quasi un bastione naturale. Forse in quel punto il terreno erboso dissimulava gli avanzi di uno sprone della vecchia strada, che girava intorno al fosso della ròcca. Le colonne d’attacco si presentarono come la prima volta, senza far colpo, sperando di sbigottirci con la grandezza sterminata del numero; ma furono anche questa volta scompaginate, ributtate indietro da un fuoco micidiale, e con una perdita doppia. Anche noi perdemmo molti uomini, perchè i tiratori appostati sulla strada alta erano cresciuti di numero, ed anche di audacia, dopo che aveva incominciato a parlare il cannone. Era entrata in azione la batteria di campagna, e bersagliava a tiro accelerato il muro di cinta a cui erano addossate le nostre difese. Il colonnello aveva l’occhio a tutto. Anche persuaso che l’artiglieria del nemico poteva far poco guasto nel suo centro, lasciò solamente guernita la trincea, e raccolse i sostegni sui lati, dove i tronchi dei castagni impedivano la visuale ai puntatori. E sui lati l’artiglieria prese anche a tirare alla cieca. Fioccavano le palle, sgretolavano le pietre, scalcinavano la muraglia, rimbalzavano, ruzzolavano nel trinceramento, accolte dalle risa e dalle solite arguzie dei soldati. Allora incominciò per me quel disprezzo del cannone, in cui dovevo fortificarmi dopo essere entrato nello stesso esercito napoleonico. Gran fracasso, il cannone, e poco danno; ma è grande, invece, il suo effetto morale. Napoleone, che conosceva gli uomini, ne usò molto anche lui, ma nei momenti decisivi, concentrando i suoi fuochi sulla posizione che voleva occupare. Protetti dal cannone, come credevano, ritornarono più volte i francesi e fecero attacchi su attacchi; ma sempre inutilmente. La sinistra era di ferro; il centro era d’acciaio senz’altro. Quanto a noi, della destra, non fo per dire, ma si era lì. Ad ogni modo, anche noi respingemmo tutti gli assalti e mandammo di molta gente ruzzoloni. Ci eravamo assuefatti a quel giuoco, e qualche volta escivamo anche dalla trincea, che del resto si scavalcava assai facilmente, per allungare il collo sullo scrimolo della forra, e vedere dove andassero a finire i nostri nemici. In una di quelle esplorazioni, e quando già pareva che gli assalitori avessero perduto la voglia di ritentare l’impresa, mi occorse di vedere un gruppo di soldati che stavano rannicchiati sotto la sporgenza di un masso, come a riparo, ed aspettando una nuova occasione di salire. Mi parvero temerarii, a voler rimanere così vicini, a venti passi da noi, e pensai di mandar loro un ricordo salutare. Avevo ancora cinque o sei cartucce, e una, di certo, era spesa bene in quel crocchio. Perciò, volendo trovare un buon posto donde prender la mira, feci alcuni passi avanti, tra i giovani castagni che orlavano la balza. Udirono il rumore; fors’anche qualche pietra smossa andò a battere accanto a loro nella forra; fatto sta che si sporsero in fuori, con gli occhi in alto, per vedere che diavolo fosse. Il più maravigliato di tutti fui io, perchè mi vidi sotto una testa di donna. Di donna, laggiù? Era strano, lo so, tanto strano, che rimasi di stucco, e non pensai più, come potete immaginarvi, a far uso del fucile. Quella donna aveva coraggio per quattro, perchè, mentre i suoi compagni sgambettavano lesti per correre a riparo sotto un altro ripiano della discesa, ella si trasse fuori con tutta la persona e mi piantò addosso due occhioni curiosi, che mi rimescolarono il sangue nelle vene. Son fatto così, io.... Cioè, mi correggo, ero fatto così, cinquant’anni addietro, e quando una bella donna mi guardava a quel modo, il cuore mi dava sempre le battute doppie. Ella, dunque, mi contemplò per parecchi secondi, e poi mi disse.... Ma scusate, bevo, perchè in fede mia non ne posso più, e mi pare di essere a Cosseria in quel giorno, con tanto di lingua fuori. E poi, cari amici, la narrazione è al punto difficile, e bisogna chiamare i pensieri a capitolo. Dunque, alla vostra salute! CAPITOLO VII. La vergine del reggimento. Ella, dunque, mi contemplò per alcuni minuti secondi, con una cert’aria tutta sua, tra impertinente e curiosa; poscia, socchiudendo gli occhi e facendomi una smusata in faccia, mi domandò: — _Qu’est ce que tu regardes, à present?_ — Intendevo la sua lingua come ogni buon piemontese d’allora, ma non la parlavo con molta franchezza. Cionondimeno mi provai, sapendo benissimo che non c’era altro modo di farmi capire da quella diavola laggiù. I nostri vicini hanno sempre avuto il difetto di studiar poco la lingua degli altri popoli; per contro, hanno la virtù di non ridere, quando si assassina la loro, e vi tengono conto della buona intenzione. Risposi dunque in francese, ma asciutto, come è naturale che faccia chi si ritrova impastoiato dalle regole di una grammatica nuova e dalla povertà del suo vocabolario tascabile. — _Je fais mon devoir, madame._ — _Tiens!_ — gridò ella. — _Tu parles français? Ç’est charmant de ta part._ — _Charmant!_ — brontolai. — _Allez-vous-en; ce n’est pas ici la place des femmes._ — _Qui te l’a dit, blanc-bec? Monsieur le curé de ta paroisse?_ — E rise, scagliandomi quel frizzo, e mi mostrò intiere due file di bianchissimi denti. Aveva una bella testina, la mia strana interlocutrice, una di quelle teste rotonde, ricche di capegli, notevoli per i lineamenti larghi e finamente contornati, dalle quali i nostri vicini hanno preso l’immagine della loro repubblica una e indivisibile, certamente preferibile a quei medaglioni adiposi di Borboni e di Orléans, che decorarono prima e dopo i loro scudi da cinque lire. Dei denti vi ho già detto che li aveva tutti e bianchissimi; ma il momento e il modo di farmeli vedere, mi diedero noia; perciò gridai, indispettito: — Andate indietro! — Ella non doveva essere molto avvezza ad obbedire, quantunque appartenesse alla milizia, e, cacciando un po’ indietro la sua berrettina a tetto di capanna, in guisa da mostrarmi scoperta la sua fronte bianca e i primi ciuffi dei suoi capegli biondi, mi ribattè con aria di sfida: — E se mi piacesse di venire avanti? — Indietro, o faccio fuoco; — replicai, levando il fucile. — Ah, per esempio!... — diss’ella. — _Allons voir ça!_ — E venne avanti, quella gran diavola, venne avanti come aveva minacciato di fare. Salì con piglio risoluto per la viottola, facendomi ballonzolare davanti agli occhi il suo guarnello turchino di vivandiera, filettato di rosso, e venne a piantarsi a cinque o sei passi da me. Io avevo il fucile già ritto all’altezza della guancia e facevo una figura abbastanza ridicola. Come? Un granatiere piemontese vedrà una donna venir leggiera e confidente verso di lui, e non troverà altra cortesia da farle, che quella di spianarle addosso la canna d’un fucile? Questo pensiero, passato veloce attraverso le nebbie del mio intelletto, mi fece fremere e rabbrividire ad un tempo. Trassi indietro il fucile e mi parve di essere ritornato un altr’uomo; lo accostai al braccio e gli detti sulla seconda fascetta il colpo voluto dai regolamenti; poi, con molta destrezza, lo feci saltare davanti al petto, gli detti un altro colpo di palma sulla cassa, e presentai l’arma, ridendo. — Alla buon’ora! — esclamò la mia bionda vicina. — Lo dicevo bene, io, che ti sarebbe mancato il coraggio! — Sì, quel che volete; — risposi; — ma andate via subito, madama! — Capirete che tutto questo discorso, che io vi rendo in italiano, era fatto in francese. Il mio «_madame_» dette probabilmente sui nervi ai soldati che avevano accompagnata la vivandiera nella forra, e che stavano allora appiattati dietro una ceppaia di castagno, che sporgeva le negre radici dal ciglio della strada. — _Dis-lui mademoiselle, sacrebleu!_ — gridò uno di essi. — _Sais-tu bien à qui tu parles? C’est la vierge du régiment._ — _Taisez-vous là-bas!_ — diss’ella, con voce alta e con accento di rimprovero, probabilmente seccata di quella presentazione fatta a distanza. Poi, rivolgendosi a me, soggiunse: — Scendi: ragioneremo. — Ah! scendere, poi, è un altro paio di maniche. — Hai paura, _blanc-bec_? — Il sospetto mi offendeva; ma alle donne si può lasciar dire ciò che non si potrebbe tollerare da un uomo. — Il mio dovere mi tiene quassù; — le risposi. — Anche durante una sospensione d’armi? — diss’ella. — Eh, se ci fosse davvero una sospensione d’armi, vi confesso, madamigella, che scenderei volentieri. — Guarda laggiù; — riprese la mia interlocutrice, accennando col dito verso la strada alta. Mi volsi a guardare dov’ella indicava, e vidi avanzarsi un parlamentario, con la bandieruola bianca, preceduto dal solito trombettiere. — Avete ragione; — dissi allora. — Possiamo chiacchierare per qualche minuto. — E spiccato un salto, fui tosto nella viottola, accanto alla mia strana visitatrice. Che era bella, ve l’ho già detto; aggiungerò brevemente che era alta di statura e molto elegante di forme. Se fosse stata vestita di bianco, se, scambio di quella berrettina a tetto di capanna, piantata capricciosamente sul capo, avesse portato un velo e una corona di verbena, avrei creduto di essere al cospetto di una giovane druidessa, di quelle che accompagnavano in guerra gli antichi Galli, cantando dall’alto dei carri l’inno della battaglia. Aveva gli occhi grigi, quasi bianchi, ma vivissimi, che mettevano lampi ad ogni batter di ciglia, e sosteneva con un piglio trionfale, non senza un certo che di canzonatorio, le mie guardate curiose. Per altro, non doveva essere scontenta di me, osservando che la mia ispezione volgeva chiaramente all’omaggio. Se è debito, per un galantuomo, render giustizia a tutti, anche ai nemici, immaginate con che piacere si adempia quest’obbligo sacro con le donne dei nostri nemici. — Veniamo a quel che preme di più; — mi disse ella, finalmente. — Hai tu da bere? — Ahimè! — risposi. — La mia fiaschetta è vuota, e non ho nulla da offrirvi. — Son ricca io; fàtti avanti e prendi la tua razione; — rispose ella, mettendo mano alla barletta che portava a tracolla. — Grazie! — mormorai, mentre ella versava nella mia fiaschetta la sua acquavite allungata. — Di che? Tra soldati, è dovere. — Ma io sono un nemico. — Lo credi? Per tua norma, un uomo e una donna non sono mai nemici, se non quando l’uomo è ineducato, o la donna noiosa. — In quel mentre, mi vennero udite parecchie voci dall’alto. Guardai verso il ciglio della strada e vidi alcuni dei miei granatieri affacciati. — Sergente, si beve, eh? — mi domandarono. — Che cosa gridate voi altri? — disse la mia bella vicina. — Avete sete? — E fame; — rispose uno più ardito. — Luigi! — diss’ella, volgendosi al basso della viottola, e rinforzando la voce. — Fatevi in qua! Date da mangiare a questi bravi granatieri. Tra voi e i vostri compagni, avrete in tasca qualche cosa. — Delle castagne, — rispose un soldato francese, uscendo fuori dal suo riparo. — Ma sono castagne storiche, oramai; castagne di Montenotte. — Benissimo! Datele ai vostri nemici di Cosseria. Ed anche un po’ da bere, se non avete asciugate le vostre fiaschette. Io ve le riempirò, appena saremo tornati al posto. — Il soldato obbedì all’esortazione della vivandiera, come avrebbe obbedito ad un comando del suo capitano. Ed altri compagni suoi, sbucati dalla forra, si arrampicarono tra i cespugli, per offrire ai nostri granatieri le loro castagne, il loro pane, qualche sorsata di vino, o d’acquavite. Qualcheduno discese nel fossato, alle falde del monte, dov’era una piccola fontana, e tornò con due bottiglie d’acqua, che offerse fraternamente «_pour les citoyens officiers_.» — _Prenez, prenez!_ — dicevano. — _Vous êtes des braves! Ah, et des autrichiens aussi?_ — soggiungevano, vedendo la divisa dei croati. — _Prenez tout-de-même! Ce n’est pas de la confiture, vraiment; mais, vous savez, la plus belle fille du monde ne peut donner que ce qu’elle a._ — Così celiavano, offrendo le loro castagne, i vincitori di Montenotte. I nostri rispondevano timidi, perchè dovevano accettare i doni, senza poterli contraccambiare. Frattanto, la mia bella interlocutrice si era tirata in disparte. — Siedi, e discorriamo; — diss’ella. — Discorriamo; — risposi, prendendo posto al suo fianco. — Ma la sospensione d’armi non vorrà durar molto. — Cogliamo i fiori che l’occasione semina sotto i nostri piedi; — replicò ella, in tuono di madrigale. — Per intanto, vedo che si raccolgono i morti e i feriti. Ne avremo per una mezz’ora almeno; _je connais ça_. Vuoi mangiare? Eccoti un pezzo di pane. Non ho di meglio da offrirti. — No, grazie, non ho fame. — Se lo dici per fierezza, hai torto. — No, non è per fierezza; ho pure accettata la tua acquavite. — È vero, biondino, è vero. Vediamo un po’, che grado hai nell’esercito? — diss’ella, guardandomi le spalle, e dalle spalle scendendo a guardarmi le braccia, su cui luccicavano i miei modesti galloni di sergente. — Come? così giovane, e non sei almeno colonnello? — La carriera del soldato è lunga, in Piemonte; — risposi io, non potendo trattenere un sorriso, a quella strana forma di ragionamento. — Bonaparte ha ventisei anni, ed è generale in capo; — osservò ella, rispondendo in una alle mie parole e al sorriso da cui erano accompagnate. — Vieni con noi. — Fai presto a dire: vieni con noi! Il soldato non ha che una patria. — Ecco una massima! — diss’ella. — Ma eccone un’altra, che vale la tua. La patria è la libertà. — In Francia e per i francesi, capisco; ma qui siamo in Piemonte. La terra dove il piemontese è nato, vale la libertà, l’eguaglianza e la fraternità messe insieme. Del resto, meglio star male in casa propria, che bene in casa d’altri. — Sei un filosofo, ma della vecchia scuola; — mi replicò la bella vivandiera. — Non hai studiati gli Enciclopedisti; eppure mi piaci. — Anche tu a me, bella nemica! — mormorai. — Vero? — chiese ella, fissandomi con que’ suoi occhi bianchi, che lampeggiavano come faccette di diamante, ed avvicinando così il suo viso al mio, che io sentii l’alito della sua bocca sfiorarmi la guancia. — Perdio! — risposi. — Sono innamorato. — E mi tremava la voce, proferendo la frase di rito. — _Déjà?_ — esclamò ella ridendo. — È dunque più facile conquistar te, che la ròcca di Cosseria? — Cosseria, — risposi gravemente, — non è cinta d’assedio da mille donne come te. Agli uomini serbiamo polvere e piombo; alle donne omaggi e servitù. — Andiamo, via, è cosa combinata; — ripigliò la mia interlocutrice. — Tu meriti di esser francese. Guadagnami. — In che modo? — In un modo facilissimo; — rispose ella, abbassando la voce. — Lasciami passare con una compagnia, appena sarà finita la tregua. — Lasciarti passare?... — esclamai, sconcertato da quella inattesa proposta. Ella non voleva lasciarmi il tempo di riflettere. Avvicinatasi a me, a capo chino, co’ suoi capegli biondi contro la mia guancia infiammata, sottovoce, quasi parlando alle mie mani che stringevano istintivamente le sue, la bella maliarda soggiunse: — Ascoltami, bel granatiere! Hai udito poc’anzi come mi chiamano. Sono la vergine del reggimento, e merito il nome che mi dànno i soldati dell’Augereau. Son nata viscontessa; i filosofi mi hanno tenuta in braccio bambina; per la santa libertà, redentrice del mondo, ho rinunziato alla mia corona di perle, non alla nobiltà del mio sangue, e vado, come una nuova Amazzone, portando fieramente per i campi di battaglia i miei ventidue anni e la mia virtù. Ti parrà strano, eppure è così. «_Sans crainte hasard et peine_» era il motto dei miei antenati. Una donna è ciò che vuole, dovunque ella sia. Orbene, — mormorò ella, accostandosi ancora e quasi alitandomi le parole all’orecchio, — lasciami passare di lì, tra i cespugli, senza avvederti di nulla, e sarò tua. — Il caldo soffio delle sue labbra mi bruciava le guance, mi penetrava nel sangue; strani bagliori mi guizzavano davanti agli occhi; mi sentivo confuso, vicino a perdere il lume della ragione. — Tua, — ripeteva ella frattanto, — mi capisci? E chiederò per te gli spallini al generale Augereau. — Hai tanto potere su lui? Lo ami forse? — domandai. Dovevo essermi fatto bianco in viso, parlando così. — Il bel granatiere è geloso! — diss’ella, ridendo. — E se mi piacesse di amarlo?... È un valoroso, ed è anche il più fedele alla causa della divina libertà, fra tutti i generali dell’esercito d’Italia. — Sudavo freddo, ascoltandola. Avrei voluto essere io quell’uomo, che meritava tante lodi da quella bocca bellissima. Non essendolo, era naturale che lo odiassi. — Ma non lo amo; — ripigliò la vergine del reggimento. — Amerò te, se mi lasci passare.... se rallenti la tua vigilanza da questa parte. — Grazie! — risposi, tutto tremante, e facendo uno sforzo supremo per sottrarmi al fascino di quella donna. — Non posso. — Non puoi? E poc’anzi hai detto di amarmi! — Ti amo, sì, e non posso accettare il tuo patto. — Bada! Noi ci presenteremo ad ogni modo, di qua. — Non lo tentare! — E sarò io in prima linea. Vedrò se avrai il coraggio di respingermi.... di far fuoco su me. — Non mi dir questo! — risposi supplicando. — Se ti lasciassi passare, mi sprezzeresti tu per la prima. — Che ne sai tu? La donna ama l’uomo che per lei è pronto a fare ogni cosa. — Anche una viltà? — Se è un sacrifizio per lui, sicuramente, anche una viltà. — Mi fai paura; taci! — mormorai rabbrividendo, e tuttavia non sapendo svincolarmi da lei. La salvezza venne dall’alto, dove parecchie voci andavano ripetendo il mio nome. — Che vorranno da me? — esclamai, dopo essere stato un tratto in ascolto. — Ah, la voce del tenente. — Ti chiamano dunque per servizio; — diss’ella. — Va a vedere. Io ti aspetto qui. — Aggrappatomi ai cespugli, mi tirai sulla balza, e uscii dalla palina dei castagni, andando verso la compagnia. Seppi allora tutto quello che era avvenuto in quell’ora di tregua. Il nuovo parlamentario ci aveva ripetuta l’intimazione di resa. — «Che cosa aspettate? — aveva detto. — Di essere sostenuti? Disingannatevi. Avete sentite le fucilate di poc’anzi, alla vostra sinistra, nel fondo della valle? Veniva un carro di munizioni per voi, mandato dal general Colli. Abbiamo messa in fuga la scorta, e ci siamo impadroniti delle munizioni.» Il colonnello aveva capito che ogni speranza era perduta, e che il Colli non sarebbe venuto in soccorso. Ma volle farlo vergognare per tutto il rimanente della sua vita, lasciandogli al cospetto della storia la malleveria e il rimorso di quell’abbandono. Fors’anche gli passò davanti agli occhi la grande figura di Leonida e il suo fortissimo esempio. E aveva ripetuta la sua fiera dichiarazione: — «I granatieri piemontesi non si arrendono mai.» Grida e minacce avevano risposto alle nobili parole di Filippo Del Carretto. Si aspettava un nuovo attacco, fra pochi minuti, e si prendevano tutte le disposizioni per ricevere il nemico. Io ero stato chiamato in quel mentre, perchè alla mia squadra toccava per l’appunto di custodire l’estrema destra della posizione. Ma venne ancora il parlamentario davanti ai nostri trinceramenti. — Volete la vostra perdita, — diss’egli, — e tal sia. Il generale Bonaparte non darà quartiere a nessuno; sarete tutti passati per le armi. — Abbiamo ancora in pugno le nostre, — rispose Filippo Del Carretto, — e daremo morte per morte. — Il parlamentario si allontanò, lasciandoci quindici minuti di tempo per riflettere. Io ritornai prontamente al mio posto, desideroso di vedere quella donna, se, come mi aveva promesso, era rimasta ad attendermi. Entrato nella palina, mi affacciai tra i cespugli a guardare sul sentiero, e la vidi. — Non ti aspettavo già più; — diss’ella, malinconica. — Ahimè, bella mia! — le risposi. — È finita per me. Si riprendono le ostilità fra quindici minuti. — E ciò ti spiace, bel granatiere? — Sì, perchè ti ho conosciuta, e non so adattarmi al pensiero di perderti. Come ti chiami? — Che te ne importa? — Se lo domando, è segno che desidero di saperlo. Bella nemica, il tuo nome! — Non te lo voglio dire. — Te ne prego.... te ne supplico.... — Sei tu che comandi, in quest’angolo; — osservò ella, ritornando all’assalto. — Lasciami passare di qua, sulla tua destra, senza aver aria di avvedertene, e ti amerò per tutta la vita.... o per un giorno, come vorrai tu. — Se l’aveste veduta in quel momento, come era bella, col vezzo delle labbra umide, che invitavano ai baci, col balenìo degli occhi limpidissimi, che accendevano il sangue nelle vene, e mutavano le vaghe promesse in vive immagini di felicità! Tutta una vita di amore, o un giorno di ebbrezza, a mia scelta! Ah, vergine del reggimento, amabile lusinghiera, incantatrice diabolica! E non avevo da far altro che chiudere un occhio, il destro, per lasciarvi penetrare inosservata nella palina dei castagni! Nell’ardore della mischia, chi ci avrebbe badato? A cose fatte, chi lo avrebbe risaputo? Voi entravate nella ròcca, insieme coi vostri compagni; piombavate alle spalle dei difensori, gridando vittoria, mentre essi erano impegnati a respingere un furioso assalto di fronte. L’effetto era certo, infallibile; noi si finiva di colpo una resistenza inutile, e, chi sa? forse si sarebbe salvata una vita a noi cara, preziosa all’esercito, necessaria alla patria. Io vidi tutte queste cose nello splendore di un sorriso affascinante, nel lampo di un’occhiata assassina, e gridai, spaventato: — No, tentatrice, non posso. E l’onore? il soldato non ha che questo da custodire, quando non lo assiste più la speranza di vincere. Quella donna mi si cangiò in un attimo davanti agli occhi, come se le mie parole avessero avuta la virtù di un antico scongiuro. Si fece bianca, nel volto, quasi livida; le pupille torve mandarono lampi di sdegno; le parole fischiarono, come serpi incollerite. — Custodisci il tuo onore, _blanc-bec_! — gridò ella, stizzita. — Ed io, sciocca, ti facevo padrone del mio! — Senza rancore! — le dissi, tentando di placarla. — Io ti adoro. — Va al diavolo! — rispose ella, voltandomi sdegnosamente le spalle. E se ne andò, lenta, forse sperando che io l’avrei richiamata, ma senza degnarsi di volgere il viso dalla parte mia. Così finiva l’intermezzo d’amore, che mi aveva trattenuto e turbato, fra un attacco ed un altro. L’avventura era strana, e tale da far girare la testa a più d’uno. A me sapeva male di lasciar partire quella bellissima bionda, così fieramente sdegnata; ma come fare, buon Dio, come fare altrimenti? Dovevo io tradire la patria e l’onor militare, per meritarmi un sorriso da lei? Qual donna può mai pretendere una cosa simile dall’uomo che ella dice di amare? Capisco benissimo; quando si rifiuta alle donne di sacrificar loro la nostra dignità, il nostro carattere, quel complesso delicatissimo di idee, di doveri, di speranze, di ambizioni, e aggiungiamo pure di vanità, che costituisce il nostro culto particolare, la nostra religione esclusivamente mascolina, esse dicono che noi non le amiamo davvero, intieramente, con tutte le forze dell’anima, come bisogna amare, quando si ama. E sarà come dicono esse. In fatti, noi abbiamo posto per parecchi amori, nel cuore, tutti diversi d’indole e di oggetto; esse per uno solo, anche se giovi a parecchi. Ma via, non diciamo di queste cose, che possono essere in molti casi non vere, e che in fondo non provano nulla. Ognuno giudica con la sua propria esperienza; e tutte le esperienze riunite non bastano a darci una teorica certa, una dottrina sicura, veramente scientifica. Ragiono ora, amici miei, col sangue freddo, quasi gelato, dei miei settantacinque anni suonati. Ma ragionavo poco allora, col sangue vivo dei ventidue, che mi bruciava le arterie. Profondamente turbato da quel dialogo, mi ero ritirato dalla balza, per ritornare alla mia squadra. — Bravo, sergente! — gridò il cavalier Corte, vedendomi comparire in mezzo ai castagni. — Siamo stati ancora un pochino a chiacchiera coi nemici? — Sì, capitano; — risposi. — Essi mi hanno dato da bere, ed io ho voluto dimostrar loro tutta la mia riconoscenza. — In verità, sono strani, questi francesi! — esclamò il cavalier Corte. — Di là ci minacciano ad ogni momento di passarci per le armi; di qua fanno a spartire il loro pane e il loro vino con noi. — Signor comandante, — entrò a dire uno dei miei compagni, — il sergente Tomè ha anche fatto breccia, là sotto. Una bella vivandiera si è innamorata di lui. — Di bene in meglio! — disse il capitano, ridendo. — Speriamo almeno che egli abbia fatto onore alla vecchia galanteria piemontese. — Altro che galanteria! Avevo un diavolo per occhio. Vidi in quel punto sull’erba una delle bottiglie d’acqua che ci avevano regalate i francesi, e, per levarmi di là, proposi di portar da bere al nostro colonnello. — Sì, va pure, egli ne avrà bisogno; — mi disse il capitano. Filippo Del Carretto era al suo posto, nel mezzo della linea, dove faceva rafforzare con nuovi tronchi d’alberi le abbattute del nostro piccolo campo, e rotolar sassi delle macerie vicine. — Sei tu? — diss’egli, vedendomi e ricordandosi del nostro dialogo di quella mattina. — Che cosa mi porti? — Acqua; — risposi. — È dono del nemico. Vuol bere, signor colonnello? — Grazie, non bevo. Se incominciassi, dovrei vuotar la bottiglia. È meglio conservarla per quella povera gente che soffre lassù. Viglietti, — soggiunse, volgendosi al suo fedel servitore, — porta quest’acqua ai nostri feriti. — Paolo Viglietti prese la bottiglia e si avviò a malincuore verso la breccia, per cui si entrava nel castello. Ma poco lunge trovò qualcheduno, a cui affidare quella piccola cura, e ritornò immediatamente al suo posto. — Come? — gli chiese il colonnello, vedendoselo nuovamente daccanto. — Non sei andato? — Signor marchese, — ripigliò Paolo Viglietti, — a momenti saranno finiti i quindici minuti, ed io, se permette, amo meglio trovarmi vicino a Lei. — Ah, Viglietti, Viglietti! — mormorò il colonnello. — E non pensi che qualcheduno della mia casa ha pur da rimanere in vita, per portare un saluto a mia moglie e un bacio a mio figlio? — Signor Filippo.... — balbettò Paolo Viglietti, con le lagrime agli occhi. — Speriamo che andrà Lei, ad abbracciare la sua famiglia. Quanto a me.... — Via, via! — interruppe Filippo Del Carretto. — Non parliamo di queste cose. Fa conto che io non ti abbia detto nulla. — I tamburi del nemico incominciarono in quel punto a battere la carica. — Tutti a posto! — gridò il colonnello, sfoderando la spada. — Oggi è il gran giorno del terzo Granatieri. Laggiù grideranno: viva la repubblica; noi risponderemo: viva il re. Essi grideranno: viva la Francia; noi risponderemo: viva il Piemonte. Così potessimo dire: viva l’Italia! — — E perchè no? — proruppe il capitano Tibaldè. — Infine, è guerra di razze. Viva il re, viva l’Italia! Il rullo dei tamburi incalzava. Io corsi al mio posto di combattimento. Tenevo con la mia squadra l’ultimo lembo della collina; ma non mi bastò di vigilare sulla nostra piccola fronte, e collocai qualche scolta anche sul fianco, dove la balza scendeva più ripida, e dove i cespugli erano anche più fitti. Dopo il colloquio avuto con la vergine del reggimento, temevo molto da quella parte; non mi bastava più la vigilanza dei sostegni, nè quella degli uomini del generale Provera, che per tutto il ciglio delle rovine si collegavano a noi. L’immagine di quella donna mi passò davanti agli occhi, e sospirai. Per altro, fu l’unica mia debolezza, in quel momento supremo. Ero triste, ma risoluto; e mentre i tamburi, là sotto, battevano furiosamente la carica, palpavo la canna del mio fucile con le dita convulse. CAPITOLO VIII. Il Leonida di Cosseria. Quel nuovo assalto, annunziato dalla ripresa dei tamburi, fu anche appoggiato dal cannone, che incominciò ben presto a fulminare il castello. A cento cinquanta metri da noi, lo ricordate, era stata collocata la batteria francese, dietro un parapetto innalzato a furia presso un rialto della strada. L’opera improvvisata era sufficientissima al bisogno, perchè noi non potevamo opporre cannoni a cannoni, e perchè i soli che potessero trarre utilmente sugli artiglieri nemici erano i cacciatori austriaci, appostati tra le rovine, ma anch’essi in grande penuria di munizioni. Or dunque, il cannone lavorava a sua posta; i proietti battevano nei muri, non potendo colpire nei trinceramenti più bassi; ma rimbalzavano fino a noi, insieme con pietre smosse e frantumi, levando un polverìo maledetto ed accrescendo la confusione del nostro piccolo campo. Nello spesseggiare dei colpi, si affacciarono sul pendìo le colonne d’attacco. Io ero in uno stato d’animo che non vi posso descrivere oggi, avendo di quel momento un ricordo confuso, come di cosa veduta in un accesso di febbre. E dovevo averla senz’altro, con quella sua conseguenza immediata, che è la percezione inesatta delle cose o dei nessi delle cose, quando si crede di parlare e di operare, rimanendo muti ed immobili, o si parla e si opera a caso, credendo di obbedire alle norme della logica, e si ha in pari tempo una vaga coscienza di sognare. Spianavo macchinalmente il fucile e sparavo; macchinalmente ricaricavo l’arma e tornavo a sparare. Intanto, nel fragore della mischia, strane voci mi suonavano all’orecchio, e ad esse io rispondevo con una voce fioca e cavernosa, che non mi pareva la mia. — Bravo sergente! — mi disse qualcheduno daccanto. — È stato un bel colpo! — Che colpo? Che cosa ho fatto io? — rispondevo. — Perdio! La vivandiera... È stata pagata delle sue gentilezze, in lire, soldi e denari. — Pagata? La vivandiera? Che diavolo dite? — Sicuro; si è presentata alla testa della colonna, gridando: _en avant_! — Ah, sì, mi par bene; — balbettai. — E dopo? — E dopo, pàffete, un colpo che l’ha mandata ruzzoloni nella forra. — Ah, povera donna! E chi l’avrà uccisa? — Il primo colpo è stato il tuo; — mi risposero. Rabbrividii, a quelle parole di accusa. Ero dunque io, l’assassino? Mi prese allora una rabbia feroce. Come il colpevole, dopo aver commesso il primo delitto, si dà alla macchia e cerca di stordirsi, di soffocare la voce della coscienza tuffando le mani nel sangue di nuove vittime, mi diedi anima e corpo alla strage. Il sangue mi martellava alle tempia; la gola m’ardeva; bevetti un sorso d’acquavite, e mi parve tossico. Povera donna! Me lo aveva dato lei, quel refrigerio dei momenti terribili. Dovevo anche esser ferito. Un umor caldo mi gocciava dalla fronte sugli occhi. Lo credetti sudore, ed era sangue; certamente il suo, ricaduto su me! Frattanto, gli assalitori incalzavano. Per la scarsità del nostro fuoco, erano potuti venire fin sotto ai trinceramenti. Ah, perdio, ci si poteva sfogare corpo a corpo! Si afferravano i macigni, le schegge dei muri, di cui avevamo fatto provvista, e si avventavano nelle file nemiche, fracassando, squarciando, atterrando. In mezzo a quella tempesta, guizzavano fuori le baionette e tornavano insanguinate; grida, urli, bestemmie, rintronavano il monte. Tratto tratto, le voci degli ufficiali francesi si udivano: — Arrendetevi! Arrendetevi! — No, per Cristo! No, maledetti cani! — E la voce del nostro colonnello, dominando tutte le altre, tuonava: — Per il re, per la patria, granatieri! Alla baionetta! — Che orrore divino di battaglia! Davano indietro disfatti, i tracotanti assalitori; tornavano ingrossati, furibondi, all’attacco. Volavano i sassi a centinaia, rompendo le intiere ordinanze; le baionette trafiggevano il petto a coloro che avevano cansata la grandine, e nessun manipolo potè mai sormontare le nostre abbattute. I pochi temerarii che la fortuna ci sbalestrava nel trinceramento, erano finiti a colpi di baionetta, prima che potessero levar le braccia e ferire. Fu un momento che la mischia era più accanita sul centro e noi della destra ci sentivamo più sciolti. Il cavalier Corte, guardando verso il colonnello, temette che la posizione potesse, con uno sforzo supremo dei nemici, esser presa. — Là! un buon colpo di mano per liberar la Marina! — gridò egli, ispirato. — Saltiamo fuori e prendiamoli di fianco. In quel punto, una voce si udiva dal centro: — Il colonnello! Il colonnello è morto! — Guardammo tutti istintivamente il largo macigno, su cui poc’anzi avevamo veduto il nostro comandante, ritto e terribile come Aiace sul vallo. Egli era ancora là, ma caduto sulle ginocchia, e due granatieri lo sorreggevano. — Morto? — gridò il capitano Corte. — No, ferito, ferito soltanto; — rispose il capitano Tibaldè, che era il più vicino a noi. — Vendichiamolo! — Sì, vendichiamolo! — gridarono trecento voci. — Mille ferite per una! Viva Del Carretto e viva il re! — Noi, come vi ho detto, eravamo già fuori, in colonna serrata, pronti a caricare, e il nostro improvviso atteggiamento aveva scosso il nemico, che oramai doveva guardarsi il fianco, per non essere avviluppato e fatto a pezzi sotto la trincea. Tutto ad un tratto, le due compagnie della Marina scattarono fuori alla lor volta, mobile selva di baionette puntate. Fu uno spettacolo, che io non ho mai più veduto l’eguale in nessun combattimento, quantunque il genio e l’ambizione del Buonaparte mi abbiano fatto assistere a molte e più sanguinose giornate. Balzar di tigri dal covo, piombar di leoni sulla preda, avventarsi di fiere scatenate in un circo, tutte le immagini più spaventevoli del furore e della strage, che sogliono colpire più terribilmente la nostra fantasia appunto perchè non le abbiamo vedute mai, non bastano a dare un’idea di ciò che fu quel momento supremo della difesa di Cosseria. Una valanga umana si rovesciò sul nemico; un flutto enorme, pari a quelli che suscita l’uragano dalle profondità dell’Oceano, involse quella fronte di combattenti, che da un’ora, con assidui vicenda, si abbatteva e si rinnovellava, ritornando sempre all’assalto. Le grida feroci straziavano gli orecchi, le palle fischiavano d’ogni parte, i bagliori succedevano ai bagliori in mezzo ad un nembo di polvere e di fumo, e si andava oltre, furibondi, urtando con la baionetta, o battendo col calcio del fucile nella massa, guidati dall’istinto più che dall’occhio, e riconoscendo il nemico alla fuga. Il generale Augereau, il terribile uomo di guerra, comandava in persona l’attacco. Ed egli, immaginate con quanta rabbia, dovette retrocedere davanti a quell’impeto prepotente. Avevo veduto il suo cappello piumato, che sovrastava alle file dei francesi in tutte le alternative di assalti e di ritirate; riconobbi il comandante della divisione con cui avevamo a fare, vedendo i soldati che gli si affollavano intorno, facendogli scudo dei loro petti, e udendo le loro grida ripetute: «Salviamo Augereau! Salviamo Augereau!» Io non avevo più una cartuccia. Gli avrei assestato volentieri un colpo, a quindici passi di distanza, per vendicare il mio colonnello, ed anche (perchè tacerlo?) anche per lavar l’onta di aver fatto fuoco sopra una donna. Era poi vero che fossi stato io, il feritore? Le parole dei miei compagni mi risuonavano ancora all’orecchio, e mi facevano fremere. Ma non potevano essersi anche ingannati? Il nemico fu ricacciato in disordine giù per le falde del monte. Se avessimo avuto con noi il nostro colonnello, ci saremmo precipitati fin sopra la batteria ed avremmo presi a forza i cannoni. Ma a lui bisognava pensare, dopo la vittoria; a lui bisognava ritornare, per ricevere i suoi ordini. E a lui ritornerò io, col racconto, per farvi intender meglio quel che era accaduto. Filippo Del Carretto aveva preveduta l’importanza dell’attacco. Il giorno stava oramai per morire, e il nemico certamente voleva finirla con la nostra resistenza accanita, facendo contro di noi il suo sforzo maggiore. Dovevamo aspettarci l’assalto di una intiera brigata, fors’anche di tutta la divisione Augereau. Il nostro colonnello non temeva molto dalle spalle, dove la montagna scendeva quasi a precipizio verso la valle di Montecàla, e dove i difensori erano fin troppi a guernire una posizione formidabile; temeva bensì per il lato opposto, dove egli stava insieme con noi, dove già si erano sostenuti due assalti, e dove, per la poca pendenza del colmo, attaccati con forze quadruple, potevamo essere soverchiati dal numero, anche dopo aver fatto miracoli di valore. Le munizioni erano scarse; vi ho già detto che restavano quattro o cinque cartucce per uomo. Filippo Del Carretto doveva fare assegnamento sulle armi del furore e della disperazione, le baionette e le pietre. Molti erano già i feriti, e dei nostri granatieri e dei cacciatori croati. Ma tutte le compagnie gareggiarono di bravura, attendendo anche quella volta il nemico con la massima calma. Quando gli assalitori furono ad un tiro di pistola, si aperse il fuoco, e fu tanto micidiale, che la fronte d’attacco dovette rinnovarsi più volte. Ma il fuoco andava scemando, diradandosi sempre più, per difetto di munizioni. Ne trassero profitto i francesi, avanzandosi tra monti di cadaveri, e cacciandosi sotto alla nostra trincea. In quel momento supremo, il valoroso Del Carretto era salito sul colmo del macigno che sorgeva sul limite della difesa, dominando tutta la linea. E di là, veduto ed udito da tutti, aveva comandato ai suoi granatieri di difendersi fino all’estremo, con le baionette e coi sassi. I francesi avevano allora riconosciuto il comandante, e parecchi fucilieri aggiustavano le mira su lui. Paolo Viglietti, il suo fedel servitore di Camerano, gli si era gittato davanti, per fargli riparo col suo corpo, e aveva ricevuto egli nel fianco il colpo mortale destinato al padrone. Il povero Viglietti, esempio di fedeltà e di affetto domestico, era caduto riverso, lasciando il colonnello scoperto sul masso, contro del quale si affollavano in maggior numero gli assalitori. Due ne uccise di sua mano il marchese Filippo, menando la spada come un antico eroe; ma proprio allora, mentre stava per calare un fendente sul cranio del terzo, lo coglieva una palla nel petto. Fu visto balenare e si accorse a lui; fu visto cadere in ginocchio, e si gridò: è morto! — No, solamente ferito; — rispose il capitano Tibaldè; — vendichiamolo. — Il rimanente vi è noto. I temerarii che si erano cacciati fin là, pagarono con la vita il loro ardimento. Le schiere dell’Augereau erano in fuga su tutta la linea. Avevamo in pugno la terza vittoria, anzi la quarta, contando la bella e fortunata carica di Montecàla. Sgominato e messo in fuga il nemico, ritornammo ai nostri ripari. Io, seguitando il capitano Corte, volli anzi tutto avvicinarmi al colonnello. Filippo Del Carretto era là, disteso sulla pietra larga, con la testa sollevata fra le braccia di un granatiere, che non aveva voluto abbandonarlo in quel tristo momento. Aveva il viso smorto, le labbra scolorite e le palpebre chiuse; si sarebbe potuto crederlo già passato di vita, se non si fosse sentito il calor naturale della pelle, e il battito abbastanza frequente, quantunque irregolare, del cuore. I capitani Tibaldè, Lomellini, Corte, Alberione, Calleri, e tutti gli altri ufficiali del battaglione, si erano raccolti intorno al ferito, mettendo ai suoi servigi la loro esperienza; che non era molta in verità, ma pur sempre qualche cosa, in mancanza di medici. Subito si lavorò a slacciargli il cinturone, a sbottonargli la tunica, e una macchia nerastra con grumi di sangue, nel petto della camicia, indicò il luogo della ferita. Eravamo tutti percossi, esterrefatti da quella vista dolorosa. Ma bisognava trovar acqua per ripulire le labbra della ferita, acqua per dargli da bere, se mai quel piccolo ristoro avesse potuto richiamarlo alla coscienza di sè. Io rammentai la bottiglia, recata poc’anzi ai feriti, e corsi, volai tra i ruderi della chiesuola per rintracciarla. Non era anche vuota, come temevo, e m’affrettai a portare quel poco che rimaneva, per bagnarne la camicia e sciogliere il sangue che vi si era rappreso. La frescura improvvisa al petto e alcune gocce d’acquavite allungata della mia fiaschetta sulle labbra del nostro povero colonnello, gli fecero ricuperare i sensi smarriti. Sospirò, aperse gli occhi languidi, e si guardò lentamente dintorno. Quando mi vide, inginocchiato al suo fianco, attediò le labbra ad un mesto sorriso e con voce fioca mi disse: — Sei tu, buon amico? La tua acqua è ancora servita a qualche cosa. — Volevamo parlare, per confortarlo, ma non sapevamo che dirgli, e stavamo tutti chini su lui, con le lagrime agli occhi. Egli riaperse le labbra, accennando di voler parlare. — Viglietti.... — mormorò. — Dov’è il mio Viglietti? — E poichè ebbe osservati i nostri volti compunti, mise un sospiro faticoso, che significava tutte le pene della sua anima afflitta e del suo petto squarciato. — Paolo!... povero Paolo! — soggiunse. — Ma.... il nemico.... lo abbiamo respinto? — Respinto, rovesciato nel fondo della valle; — gridò il capitano Tibaldè. — Nel suo nome, signor colonnello, lo abbiamo costretto a fuggire, lasciandoci ancora mezzo migliaio di morti. — Gli occhi di Filippo Del Carretto mandarono un lampo di gioia. — No, nel mio nome; — diss’egli allora! — nel nome della patria. — Accennava, con le mani aperte e distese, di volersi rizzare sul fianco, e noi ci affrettammo ad obbedirgli, sollevandolo tra le nostre braccia. Com’egli fu seduto, volse gli occhi in giro, guardando il declivio tutto coperto di cadaveri, e sorrise. — Bravi granatieri! — esclamò, alzando a stento la voce, come se volesse con quello sforzo supremo dare efficacia al pensiero. — Ora si può morire. — Che dice, colonnello? Vivrà, vivrà per confortarci a nuovi cimenti; vivrà per vedere altre vittorie dei suoi granatieri. — Così dicevamo, tentando d’ingannar noi medesimi. Ma un fiotto di sangue gli venne gorgogliando alle labbra, mosse rapidamente le ciglia, quasi cercando ancora la luce che gli moriva negli occhi, reclinò la fronte sull’òmero e ci ricadde inerte tra le braccia. Filippo Del Garretto, il Leonida di Cosseria, aveva spirata l’anima invitta. Non vi descriverò la costernazione, le lagrime, lo strazio dei nostri cuori. Queste cose non si raccontano; si pensano. Il vecchio generale Provera, disceso dal suo posto di comando, era venuto a contemplare il nostro glorioso estinto, e un senso di profonda pietà gli inumidiva le ciglia. Noi volevamo trasportare la preziosa spoglia nel recinto del castello, e già stavamo per metterci all’opera, quando si udì uno squillo di tromba, che ci annunziava il solito parlamentario. Ah, per la croce di Dio, avremmo amato meglio il rullo dei tamburi e una nuova carica dell’esercito francese. Saremmo morti tutti volentieri, gittandoci a furia sulle baionette nemiche. L’uffiziale francese, invitato a farsi avanti, passò silenzioso e triste in mezzo a monti di caduti. Lo spettacolo, anche per occhi esercitati alle stragi, era veramente terribile. — Il comandante di Cosseria? — diss’egli interrogando, come fu davanti al crocchio dei nostri uffiziali. — Son io; — rispose malinconicamente, facendo un passo avanti, il vecchio generale Provera. — Non è più il marchese Del Carretto, col quale ho già avuto l’onor di parlare? — riprese l’uffiziale parlamentario. — Il marchese Del Carretto è morto da eroe, alla testa dei suoi valorosi granatieri; — replicò tristamente il vecchio guerriero. — Son io, il conte Provera, generale di S. M. Apostolica, che lo sostituisco per ora. — Il parlamentario s’inchinò, in atto di omaggio alla dignità del vivo e alla memoria del morto. — Che domandate? — soggiunse il Provera. — Per la terza volta, che vi arrendiate a discrezione. — Il vecchio generale si volse a guardar gli uffiziali, che stavano disposti a cerchio, dintorno a lui, muti, immobili, chiusi nel dolore e nell’ira. — Lo vedete? — ripigliò il conte Provera. — Davanti alla salma di quel glorioso, che volle resistere ad ogni costo, la volontà dei superstiti è una sola. Ciò che voi domandate è impossibile. — Badate; non vi daremo quartiere. Sarete tutti fucilati. — È una minaccia che abbiamo già udita, e che vorremmo, per l’onor vostro, dimenticare; — rispose nobilmente il Provera. — Nessun uomo di guerra giudicherà che meriti una morte ignominiosa chi resiste ad oltranza, per difendere la sua bandiera e la posizione a lui affidata. Ma voi farete ciò che vorrete, secondo la nuova legge militare che vi piacerà di stabilire. Noi ci difenderemo fino all’ultima cartuccia, terremo queste rovine fino all’ultima pietra. Che ne pare a voi, capitano? — soggiunse il vecchio generale, volgendosi al cavaliere Tibaldè. — Parole degne di Filippo Del Carretto; — rispose con voce ferma il nostro comandante. — Egli è morto, ma la sua anima è qui. — Sia come vorrete, signori; — disse allora il francese. — Io non ho da discutere con voi sulla legge che il vincitore avrebbe diritto d’imporre. La vostra resistenza, nelle condizioni in cui siete, è più che temeraria, e può parer degna di un castigo esemplare. Ma di ciò vedrà il nostro comandante supremo. Io ho frattanto qualche altra cosa da chiedere. — Parlate, signore. — Propongo una sospensione d’armi per due ore, tanto che possiamo raccogliere i nostri morti e i nostri feriti. — E sgombrare il terreno per la nuova carica; — soggiunse il Provera. Il parlamentario sentì la bottata, e amaramente rispose: — Vorreste voi tenere tanti valorosi a farvi scudo della loro agonia? — Me ne guardi il cielo; — replicò il generale. — Avevo fatto una semplice osservazione, di cui la vostra medesima risposta mi prova la giustezza e la opportunità; ma colgo volentieri l’occasione che voi mi offrite, con questa lezioncina di umanità, per mettere una condizione. Anche noi abbiamo dei feriti, dei valorosi che soffrono, senza assistenza, senza medici, senza ristoro d’acqua, o di cibo. Non raccoglierete voi anche i nostri? — Li raccoglieremo anzi per i primi, e con cuor da soldati; — disse l’uffiziale francese, assentendo. — Volete che mandiamo una squadra con le nostre lettighe a pigliarli? — Grazie, noi stessi li trasporteremo fuori, e saremo felici di confidarli alla lealtà ed alla generosità dell’esercito francese; — rispose il generale Provera, anch’egli rabbonito, e contento di avere ottenuta in quel modo la salvezza dei nostri feriti. Il parlamentario rispose alla lode con un inchino della vecchia scuola, di quella scuola cerimoniosa e cavalleresca, che i furori delle rivoluzioni non hanno potuto distruggere in Francia, e soggiunse: — Siamo dunque intesi; sospensione d’armi per due ore. — Fino alle sei; — rispose il generale Provera, dopo aver guardato il suo orologio. — Siamo d’accordo. — CAPITOLO IX. In fondo al burrone. Ero stanco, disfatto di corpo e di spirito; ma la ragione pietosa per cui era stata convenuta la tregua, facendomi ritornare alla mente quella povera donna che era ruzzolata poc’anzi nella forra, mi rese ad un tratto le forze perdute. E mentre i miei compagni, approfittando della sospensione d’armi, si coricavano sui trinceramenti, per prendere un riposo che avevano così ben meritato, io mi cacciai risolutamente dentro la palina dei castagni, donde, per il noto ciglione, balzai nella viottola nascosta. Quel tratto di sentiero, incavato nel burrone, offriva uno spettacolo orrendo. Ad ogni passo si vedeva un cadavere; e tra i cadaveri giacevano in gran numero i feriti, quali contorcendosi negli spasimi dell’agonia, quali rammaricandosi fiocamente, e implorando sul mio passaggio la carità di un sorso d’acqua, per chetare i tormenti della sete, più forti di ogni altra sofferenza in quell’ora. Era crudeltà non trattenersi, anche sapendo di non poter bastare a tanti bisogni. Ma io, udendo i gemiti e le preghiere, non potevo dare ascolto a nessuno, incalzato com’ero dal timore di non giungere in tempo, di non trovare abbastanza presto la povera donna, che i miei soldati avevano veduta cadere fulminata, e rovesciarsi dal ciglio della strada. Finalmente, alla prima svolta, dietro una ceppaia di castagno, mi si parò davanti agli occhi una forma conosciuta. Riconobbi il guarnello di panno azzurro, filettato di rosso, e corsi laggiù, con l’anima straziata da una grande paura. Era lei; la vergine del reggimento, la bionda viscontessa, travolta dal turbine della rivoluzione, affascinata dai sogni della divina libertà, giaceva riversa, insanguinata, fra i suoi compagni di fatiche e di pericoli, carne plebea del sobborgo di Sant’Antonio e dei campi di Borgogna, che il genio delle battaglie disseminava nelle oscure gole dei nostri Appennini, per fecondare anche qui il santo germe dei diritti dell’uomo. Scusate la riflessione, che parrà in questo luogo una stonatura. Posso parlare così, a tanta distanza di tempo, con serenità di giudizio; ma anche allora, difendendo casa mia e non amando ancora la libertà portata attorno col ferro e col fuoco, riconoscevo la nobiltà di quel popolo che combatteva contro di noi, rendevo giustizia a quel buon sangue che scorreva intorno alle rovine di Cosseria e si confondeva col nostro. Tremavo, già ve l’ho detto, tremavo, accostandomi a lei, che giaceva supina, con la testa arrovesciata fra le pietre. Raccolsi la bella persona sulle braccia e la trassi a me, per adagiarla un po’ meglio, contro la proda del sentiero. Il viso era livido, ammaccato, insanguinato dai colpi che quella poveretta aveva toccati, battendo tra i sassi e gli sterpi della balza. Il segno della ferita non si vedeva, ma doveva essere nel busto, poichè la sopravveste era tutta bagnata di sangue. Slacciai quella sopravveste con le mani tremanti, dubitando ad ogni istante di guastare, con la mia ruvidezza soldatesca. Nondimeno, ne venni a capo senza incomodarla troppo, e l’aria fresca della sera, alitandole sul petto, le trasse un sospiro di sollievo. Ma, insieme con la coscienza del proprio stato, si ridestò in lei il sentimento del pudore, e la sua mano corse istintivamente al seno, che avevo dovuto scoprire. — Non temete, signorina; — le dissi. — È per farvi respirare un po’ più liberamente. — Ella non parve riconoscere la mia voce. Muoveva la testa e le labbra, come persona dormente, che duri fatica a svegliarsi. Io allora le accostai la fiaschetta alle labbra, facendole scorrere in bocca un sorso della sua acquavite, che, dopo aver data a bere al nostro povero colonnello, non mi ero più attentato di assaggiare, per quanto bisogno ne avessi. Sciogliendo la sopravveste e allargando lo scollo del camicino che le copriva le spalle, avevo veduto rosseggiare la carne presso all’omero destro. La poveretta mise un gemito, quando io tentai di scoprire più avanti, distaccando il tessuto che si era appiccicato alle carni, per il sangue aggrumato intorno alla ferita. Giudicai, dalla posizione della piaga, che la palla, penetrando sotto all’òmero, avesse spezzata la clavicola. Infatti, anche il braccio destro era inerte, e spenzolava sul terreno, mentre ella si raccoglieva l’altro con tanta cura sul petto. Io mi sentivo morire, guardando quella povera carne lacerata, donde il sangue sgorgava. E che potevo fare per lei? Piangere, maledire, mentr’ella forse mi agonizzava tra le braccia. In quel mentre vidi venire in su per la viottola una squadra di francesi. Ah, benedetti! Anch’essi, appena bandita la sospensione d’armi, accorrevano da quel lato, a raccogliere la parte loro di morti e di feriti. — Venite! — gridai allora. — Affrettatevi! C’è una donna ferita. Morirà, se non si arresta il getto del sangue. — Alle mie grida disperate, quei bravi soldati presero tutti il passo di corsa. Era con essi un ufficiale, in cui riconobbi tosto un chirurgo di reggimento. Ah, lode al cielo! La povera donna poteva essere efficacemente soccorsa. Mentre il chirurgo, inginocchiatosi accanto a lei, stava esplorando la ferita, i soldati si ricambiavano le loro osservazioni. — _Ah, la vierge du régiment! La pauvre enfant! Qu’elle doit souffrir! Et on l’a frappée à la gorge, encore! Fallait ça, pour en voir un bout!_ — La prima medicazione non fu lunga. Tagliata alla svelta col filo del mio coltello la spalla della sopravveste, per denudar tutto l’òmero, il chirurgo aveva lavata la piaga con una posca d’acqua e d’aceto; poi, tolto dalle mani dell’aiuto un po’ di filaccia intrise d’unguento refrigerante, le applicò alla bocca della ferita. In quel punto la giacente aperse le palpebre e girò intorno gli occhi smarriti. — _Du courage, mademoiselle Adrienne!_ — le disse un soldato, curvandosi con fraterna sollecitudine verso di lei. — _J’en ai, mon brave;_ — rispose ella, sforzandosi di sorridere; — _j’en ai_. — _Ah, le lâche qui l’a blessée!_ — esclamò un altro ringhiando. — _Savait-il même de tirer sur une femme?_ — entrò a dire un terzo, che ragionava più calmo. — _Les balles sont aveugles._ — Quella riflessione venne in buon punto a rinfrancarmi. — Sì, diteglielo voi, che son cieche; — gridai. — Si tira a frullo, senza sapere a chi vadano. — _Ah, c’est toi, grenadier?_ — disse rabbonito quell’altro, che aveva fatta la stizzosa esclamazione e in cui riconobbi il soldato che la vergine del reggimento chiamavano col nome di _Louis_. — Son io; — risposi. — L’ho veduta cadere alla prima scarica, e, appena ho potuto, son corso per darle aiuto, per bagnarle la bocca. — _Tu lui devais bien ça, grenadier;_ — diss’egli ricordandosi. — _C’est la vierge du régiment qui a rempli ta gourde._ — Appunto per questo; — replicai. — E lo avrei fatto egualmente, trattandosi di una donna. — Gli occhi della giacente si erano posati su me. Ma quelle pupille fisse non mi dicevano nulla, ed io finsi di guardare altrove. — Si può trasportarla, dottore? — domandai al chirurgo, vedendo ch’egli, riposti i suoi ferri nella busta, si alzava per andarsene. — Sicuramente; — rispose; — non può rimaner qua esposta al freddo della notte. A voi; — soggiunse, volgendosi alla sua squadra; — andiamo, che pur troppo ci sarà molto da fare, anche in questo pezzo di strada. Due uomini vadano laggiù, alla cascina Calleri, e prendano una barella per questa donna, da trasportarla subito a Carcare, prima che la strada sia troppo ingombra di lettighe e di carri. — Detto ciò, ed aggiunta una parola di conforto alla povera bella, il chirurgo si mosse, per visitare gli altri feriti. Luigi e un altro soldato erano rimasti indietro, per andare a prendere la barella. — _A ta garde, grenadier, puisque tu es venu jusqu’ici;_ — mi disse Luigi, accennando la donna. — Vi aspetterò, non dubitate; — risposi. — Essi andarono svelti verso la cascina, che era poco distante, sul colmo di un colle, ed io rimasi solo, inginocchiato accanto alla vergine del reggimento. Ella aveva il seno mezzo scoperto, per gli strappi del chirurgo, ed io mi affrettai ad avvolgerle intorno al collo un fazzoletto di seta. — Che fortuna, — le dissi, — che io abbia conservato questo ricordo di casa mia! — Grazie, — mormorò ella, raccogliendo le due cocche sul petto. — Adriana! — ripresi allora più sommessamente. — Mi perdonate? Ella mi fissò in volto i suoi grandi occhi bianchi dalle iridi glauche fosforescenti, in cui si accennava una leggera espressione di maraviglia; poi lentamente mormorò: — Sai il mio nome? — Lo han detto poc’anzi i vostri compagni; — risposi. — O Adriana, se sapeste come son triste! È morto il mio colonnello, l’uomo che amavo di più sulla terra. E voi siete ferita... voi!... — Che te ne importa, di me? — Non ve l’ho detto? Non lo sapete oramai? Vi amo; — proruppi infiammato, prostrandomi a’ suoi piedi. — Come mi è nato questo grande amore? Vedendovi. Non è egli sempre così che ciò avviene? E un po’ prima, o un po’ dopo, quando una donna ci ha vivamente colpiti, non s’impadronisce ella, e per sempre, di noi? Infine, quand’è che ci accorgiamo di amare? Nei giorni tranquilli, fra tutte le piccole e vane cure dell’esistenza, si crede di meditar molto, perchè molto si ragiona intorno alle nostre sensazioni. Una donna è piaciuta, al primo vederla; pare che sia piaciuta di più, rivedendola; finalmente si conosce di esserne innamorati. Questa è l’apparenza; ma sapete voi qual sia la verità? Che da principio non si amava, e poi sì. Dietro a quel poi si nasconde il segreto dell’anima nostra; quel poi ci confonde e ci offusca la coscienza del moto subitaneo che ci ha trasformati, dell’attimo che ci ha trovati liberi e ci ha fatti schiavi. Immaginando dei gradi, non abbiamo fatto altro che allontanare la difficoltà; il fatto sembra più naturale, se dimentichiamo di studiarne i principii. Ma l’amore, badate, è istantaneo, o non è. Vi amo da due ore, Adriana, e mi pare di avervi sempre amata. Vorrei dedicarvi la mia vita, e già sento che è vostra. — Queste, ed altre cose consimili, andavo dicendo. Erano sottigliezze d’amore, che avrebbero potuto trovar luogo più adatto e tempo più opportuno di quello. A me facevano comodo allora, perchè mi sembrava di poter offuscare anch’io qualche cosa nella mente di quella donna: per esempio, il ricordo di un brutto momento, che doveva farmi un gran torto presso di lei, se pure mi aveva veduto far fuoco. La sua risposta non mi diede alcun lume intorno a ciò che io temevo. Andò in quella vece diritta in fondo al pensiero che mi aveva armata la mano contro di lei. — Tu hai la tua patria; — diss’ella, sorridendo freddamente. — Hai la tua bandiera... Segui quella... obbedisci ai tuoi re... vivi come un servo della gleba... È la tua sorte. — Rimasi avvilito, sotto quella lenta pioggia di sarcasmi. Le parole di Adriana mi dimostravano ch’ella era sempre in collera con me. Nella loro lentezza faticosa mi dicevano ancora che ella era affievolita dalla perdita del sangue, ed io non osai prolungare un discorso, che l’avrebbe affaticata di più. Chinai la fronte, sospirando, e stetti rannicchiato al suo fianco, guardando la sua mano sottile, così morbida e così bianca, sotto le macchie di sangue e di polvere, ond’era tutta insozzata. In quel mentre venivano su per l’erta i due soldati francesi, portando una piccola barella, che poco stante deposero presso a noi, nel mezzo della viottola. Più delicatamente che mi venne fatto, presi tra le braccia la povera Adriana, l’alzai di soppeso ed ebbi la consolazione di deporla sul lettuccio, senza farla soffrire. — Andiamo! — disse Luigi. — Di lì cominciano a venir giù gli altri feriti, e sarà bene che giungiamo dei primi a Carcare, per trovare un buon posto all’ospedale. Come vi sentite, madamigella Adriana? — Grazie, Luigi; abbastanza bene. — Ah, vedrete che ne faremo ancora delle altre. Che diavolo! — diceva il buon soldato, mettendosi sotto alle cinghie. — Se l’aveste veduta, sergente, come veniva svelta incontro a voi altri! È una vera Amazzone, la nostra vergine del reggimento! E così delicata, poi! Quantunque, — soggiunse egli, a mo’ di correttivo, — ella abbia appiccicato dei sonori schiaffi, con quelle sue manine da _ci-devant_! Ma già, ella potrebbe mettere nel suo blasone una pianta d’ortica. _Qui s’y frotte s’y pique._ — Madamigella Adriana, dolcemente cullata dai due portatori, ascoltava e taceva. Io provavo una gioia profonda, a sentir raccontare le sue verginali prodezze. Il burrone per cui eravamo avviati riusciva come una scorciatoia del castello alla strada maggiore, cioè a quella stessa che con giro più vasto scendeva dalla batteria dei francesi all’abitato di Cosseria. Quando fummo giunti al riscontro, il signor Luigi disse al compagno di fermarsi, per ricogliere il fiato; poscia soggiunse, rivolgendosi a me: — Sergente, sarà meglio che voi ritorniate indietro. — Vorrei accompagnare madamigella Adriana ancora un tratto di strada; — risposi. — Almeno fin laggiù, sull’aia della cascina. — No, no, tornate indietro; — diss’egli. — Se scendete più in là, dentro le nostre linee, potete correre il rischio di essere trattenuto come prigioniero di guerra. E questo sarebbe un cattivo servizio, da parte nostra, dopo tutto quello che avete fatto per madamigella. Capii che non potevo più insistere, e curvatomi verso Adriana, le dissi con accento malinconico: — Mi mandano via. — È giusto; — rispose ella asciutto. — Giusto, ma doloroso; — replicai. — Vi rivedrò ancora, madamigella? — — Ritorna alla tua bandiera; — ribattè quella bella sdegnosa. — Incontrerai ancora una volta la mia che io non potrò seguire lassù. Addio, granatiere! — No, a rivederci! — gridai. — Lasciatemi sperare, bellissima Adriana. — _Tiens, tiens!_ — esclamò Luigi, ridendo. — Avremmo noi destata una passione nel cuoricino del granatiere piemontese? Ebbene, sergente, state di buon animo. Fate di cansare il nostro piombo, come vi è accaduto finora, e avremo tempo di passarne una parolina ai parenti. — Tu hai un bel ridere! — gli dissi io gravemente. — Sarà permesso di dolersi, vedendo soffrire una donna, mi pare, ed anche di sentire interesse per lei. — Sì, sì; — rispose egli, stendendomi la mano; — tu hai buon cuore, granatiere. _Sans rancune, et bonne chance!_ — Avrei baciata volentieri la manina morbida e bianca di madamigella Adriana; dovetti contentarmi di stringere quella ruvida e nera del cittadino Luigi, vecchio _troupier_ dell’esercito d’Italia. E ritornai verso la viottola, non senza voltarmi indietro a guardar la barella, che portava la vergine del reggimento. Pochi minuti dopo ella spariva dietro l’angolo della cascina dei Calleri, ed io sospirando affrettai il passo per restituirmi al mio posto. Tristi comitive erano in moto per tutti i sentieri che mettevano alla ròcca. D’ogni parte si trasportavano morti e feriti verso le falde del monte, i morti a due o tre per volta, su tronchi di castagno e di rovere, per deporli in cataste sui primi ripiani dell’erta, i feriti ad uno ad uno sulle braccia, per collocarli più giù nelle lettighe e nei carri. Tra i feriti era anche un uffiziale superiore. Ne chiesi il nome, e mi fu risposto: «l’aiutante generale Quentin.» Seppi più tardi che l’infelice era morto nella notte, mentre lo trasportavano in lettiga, da Plodio a Carcare. Bonel, e Quentin, due generali caduti in quella fazione! Altri v’ha aggiunto il generale Joubert, come gravemente ferito; ma non è punto vero, e gli storici hanno fatto errore per identità di cognome. Il ferito fu un fratello del glorioso estinto di Novi. Una pietra, scagliata dai nostri ripari, aveva rotta la testa al giovanotto. Il generale Joubert, che quel giorno non si era mosso da Carcare, dovendo apparecchiare i suoi uomini all’attacco delle posizioni di Dego, quando gli fu portato a Carcare il fratello malconcio e col capo bendato, andò su tutte le furie, come seppi di poi, e parlò anche lui di far fucilare dal primo all’ultimo tutti gli ostinati di Cosseria. La fucilazione, come vedete, era all’ordine del giorno. Per fortuna non ne fecero nulla, e la valle della Bormida non ebbe il suo Quiberon. Prima che io mi dimentichi, tiriamo le somme. Il generale Augereau aveva avuto in tutta quella giornata duemila settecento uomini fuori combattimento; noi, quantunque favoriti dalla elevatezza del luogo, contammo i nostri cent’ottanta, mancanti all’appello. Essi perdevano due generali e non so quanti ufficiali di grado inferiore; noi il nostro glorioso comandante Del Carretto, il prode cavaliere Rubin e un valoroso capitano dei cacciatori croati, che mi perdonerà, dal luogo di pace in cui si ritrova, e dove son merce ignota le vanità della terra, se io non ho tenuto a mente il suo nome, un po’ lungo e difficile. CAPITOLO X. Tra sera e mattina. Avrei più riveduto Adriana? Era in balìa del destino che la mia avventura amorosa avesse una continuazione, o restasse lì senza chiusa. Il destino, frattanto, non prometteva niente di buono ai superstiti compagni di Filippo Del Carretto; ma, per attutire i miei rimorsi di quel giorno, due cose erano assicurate: Adriana era viva; Adriana poteva risanare. Questo pensiero mi aveva recato un po’ di sollievo; e triste, come potete immaginarvi, ma abbastanza tranquillo, feci ritorno al mio posto. I nostri uomini, la più parte, riposavano ancora sui trinceramenti, ma senza abbandonare le canne dei loro moschetti. Vigilavano qua e là ritte in piedi le scolte; la squadra che aveva consegnati i nostri feriti al nemico rientrava allora nel campo. Il cavalier Corte sorrise malinconicamente, vedendomi apparire dal noto sentiero. — E così? Sempre in giro, come un saccheggiatore, o come un innamorato? — mi disse. — Io gli raccontai sinceramente ogni cosa, ed egli mi lodò con affettuose parole. Era così nobile, il mio capitano, ed aveva un cuore così ben fatto! — Riposati, ora; — soggiunse. — Non credo che i francesi vogliano riattaccarci questa sera; ma certamente dobbiamo aspettarci sul fare del giorno tutte le loro forze riunite. — Saranno un po’ troppe, signor capitano. E che cosa faremo noi altri? — domandai. — Mio Dio, quello che si potrà; — rispose il capitano, stringendosi nelle spalle. — Veramente, io dubito che saremo soverchiati, non avendo altre armi che i sassi, con cui si lavora a poca distanza, pur troppo! Ma non importa; guarderemo quella pietra grigia, là in mezzo, dov’egli è morto da eroe, e sentiremo la forza di fare il nostro dovere fino all’ultimo. — «Egli,» come avrete capito, era il nostro colonnello. Non occorreva nominarlo: era presente a tutti i nostri discorsi. Il capitano Corte si avviluppò nel suo mantello e si pose a sedere sul colmo dell’abbattuta, guardando ai quieti lumi della sera le ultime squadre francesi che si allontanavano dal prato. Le due ore di tregua non erano bastate a trasportare tutti i feriti e tutti i morti, assai più numerosi che il nemico non avesse giudicato in principio. Per tacito accordo, la sospensione d’armi era stata prolungata. Noi, d’altra parte, privi affatto di munizioni da fuoco, non avremmo potato denunziarla per i primi. Proseguendo la conversazione malinconica, mi ero seduto ad una rispettosa distanza dal mio capitano. Neanch’io sentivo il bisogno di dormire; mi ardeva la fronte, e l’aria fresca della notte mi era più grata del sonno. Il cavalier Corte non guardava più verso la strada; aveva levati gli occhi in alto, e contemplava il cupo sereno del cielo. La vista del firmamento stellato è un gran conforto a chi soffre. Ci hanno detto tante volte che lassù è la nostra patria futura, e quella patria è così vasta, così luminosa, che noi possiamo figurarcela a gran pezza migliore e più lieta della patria presente. Lo spirito dell’uomo, irrequieto per sua natura, o turbato dalle miserie che d’ogni parte lo incalzano, si allontana volentieri dalla terra, acquista, in quelle volate per lo spazio azzurro, la piena coscienza della sua libertà, si avvia fiducioso, trascorre, si sprofonda e dimentica. Il cavalier Corte, dei conti di Bonvicino, era poeta alle sue ore, come tutti i soldati. Quella sera incominciò a indicarmi le costellazioni più chiare: l’Orsa maggiore, e la minore, rassomiglianti a due carri, Cassiopea, che raffigura una M, trapunta di stelle, ed Orione, partito in due triangoli di vivissima luce, col suo cinto di tre diamanti nel mezzo. Tutto ad un tratto, interrompendo la rassegna, il mio capitano esclamò: — Dove sarà egli, in quest’ora? — Intesi la domanda, perchè il mio animo era in piena consonanza di pensieri e di affetti col suo. Filippo Del Carretto era una di quelle figure soavi e nobilissime, che fanno pensar volentieri e credere alla immortalità dello spirito, tanto esse, in qualunque condizione le abbia poste il destino, appariscono elevate, assai lungi dalle sciocche consuetudini e dalle volgarità della vita. Sì, era ben lecito, era anzi necessario domandarlo: — dove sarà Filippo Del Carretto, in quest’ora? — Sarà in quella stella laggiù; — risposi, accennandone una verso tramontana. — Veda, capitano, come scintilla più vivamente delle altre! Pare un lume che palpiti. — Tu hai letto Dante; — mi disse egli allora. — Il nostro divino poeta colloca in altrettanti astri fiammeggianti gli spiriti più puri che abbiano mai onorata l’umanità. E Dante ha ragione; deve averla! — soggiunse il cavalier Corte, come parlando a sè stesso, per rispondere con quella frase di autorità ad un dubbio della sua mente. Quel dialogo affettuoso e quella scena solenne mi avevano reso un altr’uomo. Anch’io, per un istante, ero librato a volo su questo mondo gramo, e assai più disposto ad escirne nobilmente. Quante volte, nelle ore lunghe di una guardia notturna, alla vigilia di una giornata campale, non mi sono io risollevato, confortato lo spirito con la domanda del cavalier Corte: — «Dove sarà egli a quest’ora?» — Là, rispondevo a me stesso, là, dove si dimenticano le ingiustizie, le infamie e le viltà del volgo umano, là dove si pensa, si contempla e si ama. Son là i veri vivi, quelli che hanno meritato di non morire mai più; agli altri il fango che hanno voluto, le tenebre eterne che hanno sognate per tutti. Ah, Filippo Del Carretto, anima gloriosa e felice, come si disprezza bene, in quei momenti supremi, tutti coloro che ci hanno lasciati soli alle fatiche, ai dolori, ai pericoli! tutta quella moltitudine di codardi, che sa gridar tanto, e non ha fatto mai nulla e trema così spesso di tutto, come se la sua vita valesse qualche cosa davvero! E di quei codardi, nel nostro povero paese, ce n’erano molti anche allora. Napoleone Buonaparte, l’ho udito raccontare più tardi, marciando nella notte sopra il 13 aprile del 1796 da Carcare a Plodio (la stessa notte che noi scendevamo da Montezemolo, per andare a Cosseria) diceva a un carcarese, al cittadino Viglione, che aveva preso per guida: — «Ci sono in Italia duecentomila poltroni; ma io li _impiegherò_.» Se parlava per quelli che ha veramente impiegati, il grand’uomo aveva torto, perchè quelli non erano poltroni, neanche prima d’imbattersi in lui, che potè farne, senza sforzo, un’ottima carne da cannone. Ma neanch’egli, onnipotente com’era, è mai venuto a capo di far muovere i poltroni veri ed autentici. Scusate la digressione, ma io son vecchio, e prima di morire intendo di vuotare il gozzo, di dire liberamente tutto quello che penso. Le nostre meditazioni furono interrotte dal capitano Tibaldè, che, come uffiziale anziano, aveva il comando del battaglione. Anch’egli immaginava che il nemico, sopravvenuta la notte, non sarebbe ritornato all’attacco; ma non sapeva egualmente che cosa significassero certi rumori, che salivano a lui dalle falde del colle. Il cavalier Corte si volse allora a me, che mi ero tirato rispettosamente in disparte e mi disse: — Vuoi andar tu in esplorazione? Tu conosci la scorciatoia meglio di qualunque altro. — Vado subito, capitano. — Ma bada, non troppo avanti, appena quanto basta per farti un’idea di ciò che avviene laggiù. — Volsi un’occhiata all’astro di Filippo Del Carretto, come per prender gli auspici da quello, e mi mossi. In quella scorciatoia, lo sapete, avrei potuto andarci ad occhi chiusi; ma li apersi due volte tanto, per corrispondere degnamente alla fiducia dei miei superiori. Disceso molto più giù del luogo in cui avevo poc’anzi prestate le mie cure a madamigella Adriana, sentii distintamente le voci dei soldati francesi, che si affollavano tra la cascina dei Calleri e il piede della salita. Insieme con le voci si udiva un cigolìo di ruote, ed io a tutta prima pensai che si avviassero gli ultimi feriti sui carri, non bastando più le barelle a trasportarli verso il Marghero e la strada di Plodio. Ma allora, perchè affollarsi verso le falde del monte? E che venivano a fare quei carri, lungo la salita? Non potevano esser pezzi di artiglieria e carri di munizioni? Il mio secondo pensiero fu quello di un assalto notturno, che si stesse preparando. Lo avevamo creduto impossibile, ed era in quella vece imminente? Io, per averne l’intiero, per non dover ritornare dal mio capitano con una mezza certezza, mi ficcai tra i cespugli a sinistra della viottola, donde mi appariva l’altipiano intieramente scoperto, ed ebbi modo di convincermi, che si portavano avanti dei letti di cannoni. Dei letti, dico, perchè veramente non si distinguevano i pezzi, e la leggerezza con cui si movevano le ruote faceva supporre che i cannoni fossero stati smontati. — Non vorranno certamente collocare una batteria alle falde del monte! — pensai. — Questa roba deve andare a rinforzo della batteria che ha lavorato senza frutto quest’oggi. — Fatto questo ragionamento, proseguii la mia esplorazione a sinistra, salendo gradatamente verso il colmo del contrafforte. Di laggiù, senza fallo, avrei veduto passare l’artiglieria, se proprio si fosse trattato di portare altri cannoni in sostegno. Ma qui, un altro pensiero mi passò per la mente. Se il nemico aveva disegnato di rinforzare l’artiglieria, di certo lavorava a fabbricare un nuovo parapetto, e un parapetto, perdinci, collocato in posizione migliore che non fosse quella del primo. Lassù, dunque, bisognava inerpicarsi, per avere un’idea giusta e precisa delle intenzioni del nemico. Anche di lassù mi giungeva all’orecchio un suono confuso di voci. Parendomi di esser tuttavia molto lontano, mi cacciai sotto, di cespuglio in cespuglio, e corsi risico di esser preso, perchè ad un certo punto mi ritrovai sul rialto della strada, a forse quindici passi dagli artiglieri francesi. Ero ai primi posti, perbacco, e qualche cosa dovevo sentire, dei loro discorsi, qualche cosa capire, delle loro intenzioni. — Se non portano legna abbastanza, bisogna abbattere qualche castagno; — diceva un uffiziale, che dirigeva i lavori. — L’abbattuta deve andare di qua fino al basso, per raggiungere il sentiero di destra. — Capii allora che cosa si stesse architettando contro di noi. Il nemico sospettava che noi, approfittando delle tenebre, volessimo aprirci un varco e fuggire; perciò asserragliava le strade. E quello che si faceva da quella parte là, doveva farsi egualmente dalle altre. Parendomi di saperne abbastanza, mi tirai indietro con molta precauzione, per ritornare verso la viottola. E la cosa mi andò bene per una diecina di passi, che furono fatti, si può dire, sotto gli occhi del nemico. Ma ad un certo punto, o fosse che io incominciassi ad affrettarmi troppo, o che battessi del piede in una pietra mal ferma, ruzzolai, trascinando la pietra smossa con me. L’attenzione del nemico fu prontamente svegliata, e parecchi artiglieri si fecero avanti da quella parte. — Chi va là? — mi gridarono. Io, non che rispondere, trattenni anche il respiro. Mi ero aggrappato con le dita a un ramo di ginepro, e stavo là, reggendomi appena, non senza temere che da un momento all’altro mi restasse in mano quel fragile appoggio di spine. — Niente; — disse uno degli artiglieri. — Sarà stata una lepre. — O un ramarro; — soggiunse un altro. — Il ramarro è l’amico dell’uomo. — Che! — disse un terzo. — Non è stagione di ramarri, nè di lepri. Qui sotto c’è un esploratore piemontese. — Diavolo! — pensai. — Ci voleva proprio il naturalista, per darmi noia! — Avanti, e prendiamolo! — ripigliò il naturalista, cacciandosi in mezzo ai cespugli. Io non durai fatica ad intendere che era tempo di andarmene, anche a rischio di far rumore, e mi lasciai sdrucciolare giù per la balza. Gli artiglieri erano entrati bensì nella macchia, ma dovevano andare guardinghi, non conoscendo il declivio del terreno, nè il numero dei nemici a cui davano la caccia, ed io potei mettere ben presto fra essi e me una considerevole distanza. Così, sdrucciolando da prima, poi saltando alla libera, giunsi al piede della scorciatoia a me nota, mentre i miei persecutori stavano ancora impigliati tra i cespugli della discesa. Ero in salvo, laggiù; ma, per aver tempo e modo di vedere qualche cosa ancora, traversai il sentiero e mi arrampicai dall’altra parte, nella palina dei castagni. Gli uomini che avevo veduto muovere verso di noi dalla cascina dei Calleri, si erano fermati a mezza strada, e lavoravano anch’essi a chiudere il passo con una abbattuta di legna e di carri rovesciati. Non c’era più dubbio, intorno alle loro intenzioni, ed io non avevo più altro da osservare; perciò ritornai speditamente alla posizione, per riferire ogni cosa al capitano Corte, che stava in grande ansietà, aspettando l’esito della mia esplorazione. — Ahimè! — esclamò il bravo cavaliere, quando io ebbi finito. — Si sarebbe potuto tentarlo, un passaggio a mano armata, se egli fosse vissuto, per condurci attraverso le linee nemiche. Ed anche sarebbero giovate poco, tutte quelle precauzioni, a trattenerci per via! Ma ora, e senza lui, che si farà? Basta, andiamo al consiglio di guerra, dove io porterò le tue preziose notizie. — Mentre io ero occupato in quella esplorazione, il generale Provera aveva chiamato gli uffiziali a consiglio, per ragionare intorno alle condizioni tristissime della difesa, e prendere, se pur si fosse potuto, una risoluzione per il giorno seguente. Di aprirsi subito una via tra le linee nemiche non era più il caso, e ne convennero tutti, dopo avermi fatto narrare partitamente tutto ciò che avevo veduto. Resistere ad ogni costo? Era l’idea del maggior numero; ma si domandava con ragione dove fossero le munizioni da fuoco, per ripetere le prodezze del giorno innanzi, dove fossero il pane e l’acqua per ristorare tanti poveri stomachi illanguiditi. Arrenderci? Ne parlarono alcuni, anche riconoscendo che di ciò si poteva discorrer meglio la mattina vegnente; ma fin d’allora si vedeva il lato brutto, anzi i parecchi lati brutti di quella debolezza, mentre forse era vicino un aiuto, e dalla nostra resistenza, dal nostro sacrifizio, dipendeva la salvezza di tutto l’esercito. — Perchè, — diceva a questo proposito il capitano Tibaldè, — io faccio un dilemma: o il generale Colli è in ritirata su Ceva, o sta facendo uno spiegamento di forze, per dar la mano al generale Beaulieu. Se è in ritirata (e domando perdono di questa supposizione offensiva, che io faccio soltanto per modo di ragionamento) dobbiamo dargli il tempo di sottrarsi davanti ai vincitori di Montenotte.... che pure han dovuto rodersi le unghie sotto le rovine di Cosseria. Se è in atto di spiegarsi, come io voglio sperare, dobbiamo dargli il tempo di giungere in linea, mentre Cosseria, o sulla sua destra, o sulla sua sinistra, ha forse da essere il perno delle sue operazioni. — Assai lente, quelle operazioni! — scappò detto al cavalier Corte. L’osservazione, che feriva un generale di S. M. Apostolica, non poteva piacere al vecchio Provera. — Pensi, signor capitano, — diss’egli con molta gravità, — che il general Colli non ha una compagnia da muovere, ma un esercito intiero. Egli è prudente quanto valoroso ed esperto. — Il cavalier Corte non rispose parola; ma io, che gli ero alle spalle, notai una scrollatina di testa che significava chiaramente ciò ch’egli pensasse di tante belle qualità messe in riga. — Lasciamo questi discorsi; — ripigliò il capitano Tibaldè. — Tutti i ragionamenti che noi potremmo fare intorno ai disegni e alle operazioni del generale in capo si restringono nel mio dilemma di poc’anzi. Io dunque propongo tre cose: rimandare a domani ogni deliberazione di resa; vegliare attentamente questa notte contro ogni possibile sorpresa del nemico; mandare un messaggero al general Colli, per significargli lo stato nostro, che è certamente cattivo, se non addirittura disperato, e chiedergli un pronto soccorso, o un’utile diversione, secondo che a lui potrà sembrare più acconcio. — Quello del capitano Tibaldè era il consiglio più assennato, e rispondente in pari tempo alle necessità del momento. Il generale Provera lo approvò senza indugio. Certamente, non era facile di passare inosservati attraverso la linea d’investimento, specie dopo i lavori che aveva fatti il nemico per asserragliare intorno a noi tutte le strade. Ma, osservando attentamente la posizione, si doveva ammettere che una strada fosse ancor libera, cioè da quella parte dove non erano strade. Un uomo ardito non poteva calarsi fino a mezza costa, di là, dove la balza scendeva più ripida? E da quel punto, piegando verso ponente, fino al bosco della Guardia, non poteva sfuggire alla vigilanza del nemico, o ingannarlo con qualche stratagemma? I soldati udivano i discorsi dei loro ufficiali, poichè il consiglio si teneva a piè del muro. Uno di essi, un caporale dei granatieri di Susa, si offerse volonteroso per tentare l’impresa. Era un giovane montanaro, dall’occhio accorto e dal garretto d’acciaio. Per esser pronto agli stratagemmi, il bravo caporale indossò l’uniforme d’un soldato francese, che era venuto a morire nel nostro trinceramento e che nessuno aveva pensato a toglier di là. Inoltre, sapeva il francese e lo parlucchiava abbastanza, come ogni buon piemontese nato alle falde del Cenisio. Se lo fermavano nell’atto di traversare il sentiero che da quella parte metteva alla ròcca, tra l’uniforme e la parlata poteva destreggiarsi ancora e passarla liscia. Di notte, poi, non è mica facile distinguere tra lupo e can bigio! Il giovinotto ardito si calò dalla balza, davanti alla porta castellana della ròcca, aggrappandosi ai cespugli che vestivano l’erta. Noi lo seguimmo a lungo con gli occhi, e lo vedemmo finalmente traversare leggiero la linea bianchiccia che c’indicava il passo pericoloso della strada battuta. Tendemmo l’orecchio, dopo che l’amico era sparito nell’ombra, e non ci venne udito nè un grido di scolte, nè un colpo di moschetto, nè altro che potesse far sospettare di un cattivo incontro per lui. — Se Dio vuole, — conchiuse il capitano Tibaldé, che stava con gli altri in ascolto, — ecco un uomo avviato. Ed ora, giovinotti, alla guardia! — Il resto della notte passò malamente, tra le ansie di una vigilanza continua e i tormenti di un digiuno prolungato, a cui non sorridevano le speranze del domani. Si stava con l’animo in soprassalto, udendo i rumori del campo francese e temendo ad ogni istante una sorpresa, a cui non avremmo potuto rispondere con una buona scarica a tiro di pistola, come quelle che ci avevano fatto così buon giuoco per tre volte di seguito. E si cascava dal sonno, e gli stimoli della fame non ci consentivano di chiuder gli occhi. Frattanto, i vapori che salivano dal fondo della valle assumevano davanti a noi forme fantastiche di combattenti, assiepati, incalzanti d’ogni parte fino al colmo del monte. Ma quelle ombre paurose si dileguavano nell’atto di avvilupparci, e il nemico, che avrebbe potuto coglierci in quell’ora e soverchiare il nostro campo, non venne. Lo teneva lontano l’ombra di Filippo Del Carretto, che a me pareva di veder sempre là, in prima linea, con la spada levata a minaccia. Povero colonnello! Noi gli avevamo scavata la fossa dall’altra parte della ròcca, a pochi passi da quella porta castellana, donde i suoi maggiori escivano a cacce o a gualdane, su cavalli riccamente bardati, con lieta comitiva di dame, e seguito numeroso di scudieri e di paggi. Dormiva là, più felice di noi, ravvolto nel suo mantello, come un guerriero che si corica sul campo e vuole esser pronto alla sveglia. Ma pur troppo la diana non lo avrebbe destato più, il nostro eroe prediletto, e una manata di terra, che ancora non avevamo ardito gettare su quella fossa, doveva nasconderci per sempre la sua cara sembianza. CAPITOLO XI. Sul tamburo. Il cielo incominciava a sbiancare dietro alle alture di Montenotte. Era l’alba del 14 aprile; un giovedì, se non erro. Quell’alba fu per noi una liberazione dalla oppressura della tristissima notte che avevamo passata, battendo la diana dal freddo, estenuati dal lungo digiuno e tormentati dalla sete. Di quei tre mali, uno sarebbe cessato tra breve; ci saremmo sgranchiti in una carica alla baionetta, l’ultima, forse, e la più disperata. Si doveva morire? tanto meglio. Per una volta ancora ci scaldavamo alla luce del sole; era questo il gran punto da vincere. Frattanto, l’apparire di quella luce mattutina ci aveva reso il coraggio. I tamburi del nemico presero a battere la sveglia. Ah, finalmente! Si verrà presto alle mani! Ma i minuti passavano, e quei tamburi non mostravano nessuna fretta di batter la carica. — Hanno ancora da far pulizia, i signorini! — E da mangiar la zuppa, poveracci! — Che fatica ha da esser quella! — Se ne ristoreranno con un sorso d’acquavite! — O col vino che avranno ritrovato nelle cantine dell’arciprete di Cosseria! — _Cosseria, Cosseria, ’na bella città! Si mangia, si beve, allegri si sta!_ — Così, a denti stretti, tentavano di celiare parecchi; ma la scelta delle arguzie non era fatta davvero per ingannare i tormenti dello stomaco. Finalmente, si udì dalla strada alta, verso la batteria, uno squillo di tromba. Era il solito parlamentario, l’eterno parlamentario, con la eterna ed uggiosa intimazione di arrenderci a discrezione. Aggiunta non meno conosciuta, e quasi inutile a ricordare, un quarto d’ora di tempo per risolvere! Fatta la sua ambasciata, l’uffiziale parlamentario si ritirò verso la batteria, per aspettare la risposta. I nostri uffiziali si radunarono a circolo intorno al generale Provera e al capitano Tibaldè; stettero cinque o sei minuti ragionando tra loro, quindi sfilarono sulla fronte delle nostre compagnie, osservando il contegno marziale e l’armamento dei soldati. Quei poveri uffiziali facevano veramente pietà, con le loro facce sparute e con quegli occhi fissi, che parevano aspettare un miracolo dal fondo delle nostre giberne. Il generale Provera veniva lentamente con essi, guardando di sbieco e tentennando la testa. — Insomma, — lo sentii dire al capitano Tibaldè, mentre mi passava daccanto, — non c’è più una cartuccia, e una lotta a corpo a corpo si decide troppo presto con la sproporzione del numero. Avremo cagionata una strage inutile. — Evitando la vergogna dell’arrenderci a discrezione; — rispose il capitano Tibaldè con rispettosa fermezza. Passarono e non udii più altro dei loro discorsi. Poco stante si fermarono, come se avessero trovato un punto d’accordo, e fecero chiamare il parlamentario. Appena egli fu giunto a mezzo il declivio, il vecchio Provera si avanzò dignitoso e gli disse: — Riferite al generale Augereau che noi siamo disposti a trattare, ma che intendiamo di uscire con l’onore delle armi. — L’uffiziale strinse le labbra e crollò il capo in un certo modo, che non prometteva niente di buono. — Che? — riprese il generale Provera. — Vi sembra egli forse che non lo abbiamo guadagnato? — Non dico questo e non lo penso, signor generale; — rispose il parlamentario. — Ma il generale Augereau è tal uomo, che quando ha detto di volere una cosa.... — Gli piacerà di trovar uomini della sua medesima tempra; — interruppe il Provera, che in quel punto ritornò a piacermi grandemente. — Portategli ad ogni modo la nostra risposta. Siamo disposti a trattare, ma da soldati che hanno respinto tre assalti, e ne respingeranno un quarto, in quella forma e con quell’esito che sapete oramai. — Ciò detto, si rivolse al cavalier Tibaldè, che gli stava daccanto, come per chiedergli: — siete contento di me? — La testa del nostro comandante si chinò tosto, in segno di assentimento. Il capitano malinconico, se mi è lecito di chiamarlo così, pareva rispondere con quel cenno di testa: — Bravo, generale! Io non avrei saputo dir meglio. — Il parlamentario si ritirò salutando. Noi aspettavamo da un momento all’altro che i tamburi battessero la carica, e dopo una diecina di minuti udimmo invece la solita tromba. Ma questa volta la novità di certe rifiorite annunziava un altro personaggio, qualche cosa di grosso, niente meno che il generale Augereau. A quel suono festoso, il conte Provera e il cavalier Tibaldè si avanzarono da capo fino all’estremità del declivio. Noi stavamo ritti sui trinceramenti, allungando il collo per veder meglio ciò che stava per accadere. Comparve il parlamentario, e subito si tirò in disparte, presentando il suo superiore. L’Augereau, un bell’uomo, ancor giovane, dalla faccia abbronzata e dal piglio soldatesco, stette immobile per un istante, guardando fissamente i due comandanti della difesa, poi fece una spallucciata, che a tutta prima mi parve alquanto plebea (non sapevo ancora che l’esempio fosse stato dato dal generale Buonaparte) e finì con lo stendere ad essi la mano. Che cosa si dicesse in quel primo incontro, non so. Si faceva giuoco serrato da una parte, e si gesticolava molto dall’altra. Il generale Augereau parlava alto, ma era troppo concitato, e a noi non giungevano che i suoni imperiosi e tronchi delle finali, da cui era impossibile di cavare un costrutto. Ad un certo punto, come Dio volle, parvero accordarsi in qualche cosa, e il capitano Tibaldè si mosse per ritornare al trinceramento. — Si tratta; — diss’egli ai nostri ufficiali, che si erano affollati intorno a lui. — Con l’onore delle armi? — chiese uno di essi. — Certamente, quantunque egli non la intenda così. — E allora, perchè tratta? — Ha proposto d’incominciare a scrivere, per mettere a riscontro tutto ciò che vogliamo noi con quel poco che egli si sentirà di concedere. Scriviamo dunque; — soggiunse sospirando il capitano Tibaldè. — Chi di voi altri ha un uomo che sappia scrivere sotto dettatura il francese ed abbia anche una bella mano di scritto? — L’ho io, quest’uomo; — rispose prontamente il cavalier Corte. E volgendosi a me, mi accennò di uscire dal trinceramento. — Eccolo; — soggiunse. — È il diplomatico della seconda Monferrato. — Venga dunque a scrivere il protocollo; — disse il capitano Tibaldè, accompagnando la frase con un nuovo sospiro, che faceva uno strano contrasto all’arguzia della osservazione. Povero Tibaldè! Egli sentiva in quel momento come fosse grave il succedere a Filippo Del Carretto. Nelle tristi circostanze a cui eravamo ridotti, e che ad ogni istante peggioravano, riconosceva oramai impossibile di tenere così alto il buon nome del terzo Granatieri, come aveva fatto, col generoso sacrifizio della sua vita, il nostro santissimo eroe. Seguitai il malinconico capitano fino all’estremità del declivio, dov’erano a consiglio i generali Provera ed Augereau. Due tamburi furono portati innanzi e collocati ritti sul prato. Un sott’ufficiale francese trasse alcuni quinterni di carta dall’astuccio di latta e ne passò uno a me. Inginocchiati di fronte, coi gomiti sul cerchio del tamburo, ci mettemmo ambedue in atto di scrivere. — Tirate una linea nel mezzo, — disse l’Augereau, — per modo che il foglio resti diviso in due colonne. Nella prima, a sinistra, sotto il titolo «_Rappresentanza dell’esercito repubblicano_» si scriveranno le mie condizioni; nella seconda, a destra, sotto il titolo: «_Risposta della guarnigione di Cosseria_» si scriveranno le vostre, signori Provera e Tibaldè. Va bene così? — È conforme agli usi; — disse il conte Provera, assentendo. — Ed ora incominciamo; — ripigliò il francese. — Sergenti, scrivete: «_Conoscendo la impossibilità in cui si trova la guarnigione di Cosseria, di difendersi ulteriormente, le si intima di arrendersi a discrezione._» Appena avemmo finito di scrivere, il generale Augereau fece un gesto che voleva dire ai comandanti del presidio: — Signori, a voi di rispondere. Il conte Provera, dopo aver parlato un istante sottovoce col nostro capitano, dettò alla sua volta: « — _Tutta la soldatesca che sta raccolta a Cosseria ne uscirà battendo il tamburo ed a bandiere spiegate, traversando la fronte dell’esercito francese, che le farà gli onori militari, e proseguirà la sua marcia con armi e bagaglio, per raggiungere i posti avanzati dell’esercito piemontese._» — È troppo! — gridò il generale Augereau, che si era contenuto a stento, mentre il conte Provera dettava la risposta. — Duemila e più francesi tra morti e feriti domandano ben altro; e dodicimila pronti all’assalto, mentre voi non avete più una cartuccia, possono ottenere con un lieve sforzo ciò che i caduti domandano. — Signor generale, — disse risoluto il capitano Tibaldè, — l’aver fatto il nostro dovere non è una buona ragione per chiederci ora un atto di viltà. — Nè io ve lo chiedo; — rispose l’Augerau. — Abbiate pure l’onor che vi spetta; a noi rimanga il frutto del sangue che abbiamo versato. Sergenti, scrivete: — «_La guarnigione di Cosseria sfilerà, battendo il tamburo e a bandiere spiegate, traversando la fronte dell’esercito francese, che le renderà gli onori militari; ma essa deporrà in un luogo indicato le armi e si renderà prigioniera in Francia sino alla sua permùta._» — Signori, — proseguì il generale nemico, rivolgendosi ai nostri comandanti, — io spero che riconoscerete la generosità della Francia. Essa ama i valorosi e sa onorare il coraggio sfortunato. Pretender di più sarebbe un disconoscere il suo diritto e la cura legittima de’ suoi interessi. La prigionia di guerra è una triste necessità delle battaglie, e non avvilisce punto il soldato. Aggiungete che questa prigionia può essere quistione di giorni, se austriaci a Dego e piemontesi a Ceva si batteranno come vi siete battuti voi altri a Cosseria. Prenda il generale Beaulieu la rivincita di Montenotte (cosa che io veramente non gli auguro) e voi potrete essere cambiati anche domani. — Le vostre ragioni hanno un gran peso sull’animo nostro; — disse il conte Provera, inchinandosi. — Noi, accettando il patto nel suo complesso, faremo tuttavia una piccola restrizione. È uso, quando si accorda l’onore delle armi, che si rimandino gli ufficiali sulla parola. — Aspettavo che lo proponeste voi; — rispose pronto il francese. — Ma scusate; — soggiunse il Provera. — Non avevo ancor detto ogni cosa. I nostri uomini hanno combattuto da valorosi, e combatteranno così fino all’ultimo sangue, se voi ci costringete a domandar loro il sacrifizio della vita per la tutela dell’onor militare. È dunque ben giusto che gli ufficiali non siano soli ad ottenere la libertà sulla parola. — E chiedereste?... — disse il francese. — Non molto; — rispose il Provera. — Appena il tanto che basti per riconoscere il valore di questi granatieri e cacciatori imperterriti, i quali, come voi ci avete lasciato intendere poc’anzi, hanno posto fuori di combattimento un numero d’uomini superiore del doppio al loro effettivo. Ecco, del resto, la condizione proposta da noi, che i sergenti avranno la compiacenza di scrivere: — «_Tutti gli ufficiali e un sott’ufficiale per compagnia conserveranno le loro armi, e potranno così rientrare in Piemonte, con promessa di non poter più servire, fino alla loro permùta._» — Eh! Non mi dispiace; — rispose l’Augereau, scuotendo ripetutamente il capo. — È una condizione democratica, infine! Sergenti, scrivete a riscontro, nella mia colonna: — «_Concesso._» — «_Sarà in potere della guarnigione_, — ripigliò il Provera, dettando, — _di portar seco il cadavere del colonnello Del Carretto_.» — Onore al prode! — gridò il francese, che era in vena di generosità. — Scrivete ancora: — «_Concesso._» — «_Saranno distribuite vettovaglie alla guarnigione_, — riprese il Provera, — _non appena avrà essa deposte le armi_». — Ancora e sempre: «_Concesso_» — replicò il generale francese. — Sempre! — notò il capitano Tibaldè. — Speriamo dunque per l’ultima condizione, che è necessario di aggiungere. — La detti Lei, signor conte di Rolasco, — gli disse con piglio cortese il generale Provera. — Ha avuto la sua parte di gloria; abbia la sua di fatica. — Il comandante dei granatieri si avanzò, e con voce ferma incominciò a dettare l’ultimo patto. — «_La presente convenzione non avrà effetto fin dopo mezzodì, perchè_, — soggiunse egli, rispondendo ad un gesto di stupore del generale nemico, — _se l’esercito piemontese corresse in aiuto di Cosseria, questa capitolazione s’intenderebbe annullata_». L’aggiunta dichiarativa non fu bastante a chetare il generale Augereau. — Signor capitano, — proruppe egli, — ho detto un «sempre» di troppo, e intendo ancor io di annullarlo. — Non prima di avermi ascoltato, signor generale; — rispose pacato il comandante dei granatieri. — Io non vi chiedo di esser generoso oltre misura; vi prego di esser giusto. La generosità è il lusso dei forti; la giustizia il loro obbligo. Vogliate intanto considerare alcuni punti essenziali. Che cosa siamo venuti a far noi, tra queste rovine? A tenere una posizione. Perchè? Per resistere al nemico. — Ma non oltre le forze che avete; — ribattè l’Augereau. — Infatti, ne abbiamo ancora. — Senza munizioni? — Abbiamo i sassi e le baionette, signor generale, ultime armi con cui abbiamo respinto iersera il terzo attacco della vostra divisione. — Concedo; — rispose l’Augereau. — Ma siamo in dodicimila, a circondarvi. Il generale Buonaparte è qui presso; il general Busca discende da Murialdo sui fianchi del vostro esercito; anche questi sono punti essenziali. Voi resisterete ad ogni modo, lo capisco; ne siete capacissimi. Ma se ieri il resistere era da temerarii, oggi sarebbe da pazzi. Aggiungo che ci costate già troppo sangue, e che noi, se vi ostinate, dovremo dare un esempio, passandovi tutti per le armi. — E sia; — disse freddamente il capitano Tibaldè — Ma, per giungere a questo, bisognerà prima averci snidati di qua. — Sicuramente; metto per principio che non potrete resistere. — Lo potremo, signor generale. Lasciatemi proseguire, e vedrò di convincervi. Il general Colli, io dico, ha avuto tempo di raccogliere le sue forze e d’incominciare la sua marcia strategica. Partito nel cuor della notte, può presentarsi in battaglia da un’ora all’altra; ne convenite? — Vorrei scommettere il mio grado di generale contro i vostri spallini da capitano, che questa marcia strategica è un’illusione del vostro cervello. Ma non si deve scommettere, quando si è certi. Il vostro general Colli è a quest’ora in ritirata su Ceva. — Se ne siete certo, — ribattè il capitano, — perchè vi dispiace tanto una condizione che onora la nostra fede, senza far danno alle vostre operazioni? A noi non è lecito di fare un così pronto giudizio intorno al nostro comandante supremo. Ci ha mandati avanti, all’onore del primo fuoco; dobbiamo aspettarlo ancora, dargli il tempo di giungere. Siamo privi di munizioni, voi dite. È vero; non abbiamo neanche un tozzo di pane, nè un sorso d’acqua. Ma siamo noi che vi diciamo: lasciateci pure fino a mezzodì in questa orribile condizione; noi sapremo sopportare i nostri mali in silenzio. — È una follia, vi dico. Torneremo all’assalto, e sarà di voi ciò che avrete voluto. — Senza offesa, signor generale, ne abbiamo respinti tre; — rispose nobilmente il capitano. — Respingeremo il quarto ed il quinto. Per noi, vivere o morire è tutt’uno, quando si salvi l’onore. Qualunque cosa avvenga, avremo guadagnato colla forza il tempo che voi non ci avrete voluto concedere per atto di giustizia. — Infine, — disse il francese, — sono sei ore che mi domandate? — Sì, generale; e se voi siete certo che il Colli è in ritirata... — C’è, per tutti i diavoli.... che abbiamo aboliti, — gridò, facendo un’altra delle sue spallucciate, il generale Augereau. — Quando mai si è visto un generale che manda un battaglione al fuoco e non pensa a sostenerlo dopo ventiquattr’ore, anzi dopo trentasei? È in ritirata, io lo so... Lo so tanto, che vi regalo anche le vostre sei ore. Sergenti, scrivete: «_concesso_» e non se ne parli più. Vi basta signori? O volete dell’altro? — Sì, generale; — rispose il cavalier Tibaldè; — vogliamo ancora ringraziarvi della vostra bontà. Riconosciamo in questa concessione la vecchia cavalleria francese. — Tutto per i valorosi, è la mia massima; — esclamò quel generale, che aveva, a detta di Napoleone, una cattiva testa e un cuore eccellente. — Siete gran diavoli, voi altri! E adesso, sergent_i, scrivete la data. — _Cosseria, il 25 germinale... o _il 14 aprile_, come vi piace; _dell’anno IV_, o _del 1796_, come vi torna; _alle ore 6 del mattino_, se l’orologio non mi dà in ciampanelle. Bene! Ed ecco qua la mia firma. A voi, signori; mettete la vostra. — Era di buon umore, il cittadino generale: segno evidente che noi dovevamo sperar poco o nulla di essere soccorsi dal Colli. In calce di ogni foglio, a sinistra, egli aveva scritto il suo nome: AUGEREAU. A destra, l’uno sotto l’altro, i nostri comandanti avevano scritto i loro; PROVERA, TIBALDÈ. — Vediamo questo granatiere, che scrive così bene; — soggiunse il generale, piantandosi davanti a me col suo piglio soldatesco e squadrandomi dal capo alle piante. Io mi irrigidii, come potete pensare, nella posizione del soldato senz’armi, e sostenni la sua guardata con tutta la fierezza d’un vecchio granatiere. In Piemonte eravamo assuefatti così e guardavamo perfino il re con aria feroce, come se volessimo farlo a pezzi e bocconi. Nella disciplina militare era quello il modo di mostrargli il nostro rispetto, e si diceva che fosse una costumanza presa da Federico di Prussia; ma, a parer mio, dev’essere più antica di molto. Come dovevano guardar Scipione, o Cesare, i fieri legionarii Romani? Il generale Augereau parve soddisfatto della sua ispezione. — Hai una bella mano di scritto; — mi disse. — E scrivi sotto dettatura abbastanza correttamente; il che non è facile, in francese. Dove l’hai imparato? — Nel seminario di Mondovì. — Ah, bravo! Sei stato seminarista? Ed anche tu hai buttato via la tonaca? — Sì, — risposi, — per difender la patria. — Anche questo è un frutto della nostra rivoluzione; — diss’egli. — L’avresti buttata egualmente cent’anni fa? — Ero rimasto interdetto e non sapevo che cosa rispondere; ma egli stesso mi cavò dall’impaccio. — Tu vuoi rispondermi che cent’anni fa non eri ancor nato; — soggiunse. — E per tutti i diavoli, anche questa potrebb’essere una buona ragione. — CAPITOLO XII. Presentate le armi. Partito il generale Augereau, ci trovammo soli soli, nella condizione più strana che si potesse immaginare per una soldatesca in campagna. Eravamo davanti al nemico, circondati da tutte le parti, e nessuno aveva l’aria di occuparsi dei fatti nostri; stavamo armati a custodia di una posizione che nessuno pensava a contenderci, e sulla quale regnavano con noi, rigorose compagne, la fame e la sete. Perchè non c’era neanche più da sperare nella facile bontà dei soldati francesi, che venissero a portarci qualche po’ di biscotto e di castagne, o qualche bottiglia d’acqua, come avevano fatto il giorno innanzi, nei momenti di tregua, quando essi, dovendo ad ogni istante riprender l’attacco, si trovavano più vicini a noi. Fatta la convenzione col generale Augereau, la consegna dei francesi era diventata molto severa; essi avevano dovuto ritirarsi tutti dietro la linea delle loro abbattute; dovevano rispettare la nostra solitudine, le nostre meditazioni, come se fossimo altrettanti anacoreti sul monte. E da anacoreti si visse, per tutta quella lunga mattinata. Ricordammo (che cosa non si ricorda in certi momenti?) ricordammo di aver sentito parlare delle proprietà nutritive di alcune radici; e avremmo volentieri sperimentata la cosa. Ma la primavera su quei monti era appena incominciata, e le erbe mostravano solamente i primi germogli; non si poteva fare assegnamento sui raperonzoli, sui terracrepoli e sulle cicerbite; unica pianta che offrisse un pascolo, anche perchè si vedeva correre in bianchi steli nodosi sul prato, era la codalina, la più comune e la più dura di tutte le gramigne. A quella ci attaccammo, lavorando con ogni cura a sradicarne le barbe serpeggianti; masticando le sue fibre legnose ma fresche, ingannavamo ad un tempo la sete e la fame. Il consiglio del capitano Tibaldè era stato nobile, la sua risoluzione eroica senz’altro; ma quell’ultimo articolo della nostra capitolazione mi ha fatto provare le sensazioni più angosciose della mia vita. Enrico IV, ricordavo allora, aveva fatto passare dei carri di viveri nella città di Parigi che egli stringeva l’assedio; perchè il generale Augereau, parigino schietto, non pensava di far distribuire a noi il rancio mattutino, come lo faceva distribuire alla sua divisione? Il generale Provera e il capitano Tibaldè non sentivano certamente gli stimoli acerbi che sentivamo noi altri. Essi erano andati sul colmo della ròcca, per vedere tutto intorno, nel fondo delle valli e sulla cima dei monti. Il mastio, nella distruzione del castello, ordinata ed eseguita dugent’anni addietro, si era rovesciato e rotto in tre pezzi, come mi pare di avervi già raccontato. Sul più voluminoso di quei ruderi erano andati ad arrampicarsi i nostri due comandanti, e da quel luogo eminente stavano osservando l’orizzonte lontano, verso il Cengio, Montezemolo e Mombarcaro. Di là ci dovevano venire gli aiuti, di là si aspettava la comparsa del Colli. Ma il cielo era coperto, e Mombarcaro manteneva la sua vecchia riputazione, consacrata da quel proverbio, popolare nelle Langhe: _Mombarcaro, Mombarcaro_, _Senza nebbia è un caso raro_. _Senza pane può stare e senza vino_, _Ma non senza la nebbia ogni mattino._ Se almeno il general Colli avesse pensato ad annunziare la sua presenza con qualche fucilata! Si sarebbe veduto il lampo perdiana! Ma niente, attraverso quel velo di nebbia che circondava le alture, e noi non avemmo neanche la consolazione di sapere se il general Colli fosse là, spettatore del nostro sacrifizio. Pensava ad altro, il generale in capo; aveva mandati due reggimenti, quello di Monferrato e quello della Marina, ma non verso Cosseria, per sostenere i granatieri che portavano il loro nome, bensì verso Dego, a sostenere l’esercito del Beaulieu, che la fuga dell’Argentau da Montenotte aveva messo in angustie; ed egli, poi, spaventato da una lieve dimostrazione di forze, si era ripiegato su Ceva, e Mondovì, donde aveva a ritirarsi anche su Cuneo e Fossano, dimenticando nella fretta due intieri reggimenti, quello delle Guardie e quello di Stettler, che, insieme con altri corpi rimasti a Mondovì, furono fatti prigionieri di guerra. Per quel grande capitano, regalatoci dall’Austria, ci eravamo sacrificati noi a Cosseria! Per aspettar lui, avevamo rimandato a mezzogiorno del 14 aprile la speranza di un sorso d’acqua e di un tozzo di pane! Povera fede e povera costanza del capitano Tibaldè! I francesi, sotto alla nostra posizione, si erano molto diradati. Sicuramente, il grosso della divisione Augereau era stato avviato su Montezemolo. Il generale nemico si era mostrato quella mattina abbastanza cortese con noi, accettando l’ultimo articolo della convenzione. Ma certe cortesie hanno anche la loro ragione nel tornaconto di chi le fa. Nessuno mi leverà dal capo che i francesi a Fontenoy, quando dissero la frase memoranda: «_Messieurs les Anglais, tirez les premiers_» ci avessero il loro bravo perchè. Essi dovevano avere, se non altro, la speranza che il nemico tirasse male, un po’ per la fretta, e più per il timore di una scarica generale, fatta con maggior calma e con maggior sicurezza. Certo, quella mattina, a Cosseria, un nuovo assalto avrebbe richieste le forze di tutta la divisione, e sarebbe anche riuscito ad una perdita di gente. Sei ore d’indugio, senza liberar noi, lasciavano più libero il generale Augereau. E si soffriva intanto, si soffriva tacendo, seduti sulla falda di quel prato, che Germinale incominciava a far muovere, ma che Floreale aveva ancora da rivestire. — Addio monti! E addio Colli! — esclamò ad un certo punto il sergente Achino, mio compagno di servizio nella seconda Monferrato. — Questa sera si parte per la Francia, muniti d’_indegnità_ di via. — Il soldato piemontese ha sempre celiato sulla indennità, chiamandola _indegnità_. — Preferisco la fame e la sete a Cosseria; — risposi. — Tu andrai a casa tua, fortunato! — Che ne sai tu? — Si capisce. Un sott’ufficiale per ogni compagnia se ne va liberamente per i fatti suoi. A quale, della seconda Monferrato, può toccare questa fortuna, se non a te, che hai scritta la capitolazione? Tu sei nato vestito, mio caro. Io non ti domando che un piacere: di andare a Ceva, dai miei, per dir loro che son vivo e sano e li saluto tanto. — Aspetta ancora un pochino a darmi i tuoi riveriti comandi; — risposi. — Vedrai che saremo soccorsi e ci batteremo ancora, prima di mezzogiorno. — Erano le dieci e mezzo, e il capitano Tibaldè chiamava a rapporto gli ufficiali del battaglione. In attesa del mezzogiorno, ma non più dei soccorsi sperati, si dovevano fare i preparativi di partenza. Io, diplomatico della seconda Monferrato, ebbi poco stante l’incarico di scrivere in altrettanti pezzetti di carta i nomi di tutti i sott’ufficiali del battaglione. Ogni compagnia doveva estrarre a sorte il suo uomo, il fortunato, a cui era permesso di serbare le armi, e di andarsene libero a casa. — Ecco a che serve avere una bella mano di scritto; — dissi allora ridendo, ma non senza un po’ di stizza in corpo, al mio collega Achino. — È la sorte che decide. — Hanno ragione a far così per tutte le altre compagnie; — rispose egli; — ma hanno torto per la nostra. La fortuna di andare con gli ufficiali spettava a te. Ma vedrai che essa ti favorirà ad ogni modo. — La fortuna non mi favorì; toccò invece a lui, proprio a lui, di essere estratto. Quel povero diavolo era felice, ma non ardiva manifestare la sua allegrezza. — Tu hai buon cuore, — gli dissi, — e ti sei meritato il favore della cieca dea. Non ti domando che un piacere: di andare a Mondovì Piazza, dai miei, per dir loro che son vivo e sano, e li saluto tanto. — Ma non ci fu bisogno di un messaggero, che andasse dai miei. Appena fatta l’estrazione, il capitano Tibaldè prese dalle mie mani il foglio su cui erano scritti gli otto nomi, sei di piemontesi e due di austriaci, allora sorteggiati, e soggiunse: — Scrivi anche il tuo nome; hai lavorato come sott’ufficiale addetto allo stato maggiore, ed è giusto che tu venga con gli altri. — Immaginate la mia contentezza. Ero libero anch’io, e si andava a Carcare, dove la sera innanzi avevano trasportata Adriana. — Dunque, — mi arrisicai di domandargli, — signor comandante, si parte? — Sono già passate le undici; — rispose il capitano malinconico. — Nessuno è venuto, nè accenna a venire in soccorso. Cederemo alla dura necessità. — Mezz’ora dopo, le compagnie erano disposte in ordinanza. Si fecero i fasci d’arme e ci fu concesso di andare divisi per isquadre, a salutare la tomba del nostro colonnello. Ricorderete che per entrar nelle rovine bisognava passare sopra un monte di macerie, attraverso una breccia del muro di cinta, poichè la porta castellana, presso cui Filippo Del Carretto era stato seppellito, si apriva dall’altro lato della ròcca. La capitolazione ci dava il diritto di trasportare la salma dell’eroe; ma il capitano Tibaldè aveva pensato che fosse meglio, nella incertezza della strada che si sarebbe dovuto prendere, e più nelle tristi condizioni in cui era tutto intorno il paese, di lasciare per qualche giorno il sacro deposito tra le rovine di Cosseria, donde egli avrebbe potuto levarlo poi, d’accordo con la famiglia dell’estinto. Perciò si era venuti nella deliberazione di dargli sepoltura, coprendo anche il terreno con un cumulo di sassi. I nostri commilitoni, con uno di quei delicati pensieri che nelle circostanze solenni vengono così naturalmente ai soldati, erano corsi a sbarbicare alcuni cespugli di rose salvatiche, di cui si vedevano ricoperte e inverdite le macerie della seconda cinta, e li avevano trapiantati intorno a quel cumulo di pietre. Si piangeva come fanciulli, davanti alla tomba del prode. — Orsù! — disse il capitano Tibaldé, frenandosi a stento. — L’ora è venuta. Povero Filippo! Povera Cosseria! Dobbiamo lasciarvi, obbedire al destino! — Ritornati ai fasci d’arme, ci disponemmo su due file e prendemmo i nostri fucili; a mezzogiorno in punto il capitano Tibaldè fece dar nei tamburi, comandò per fianco sinistro e avanti. Si escì dai trinceramenti al passo ordinario, prendendo il colmo dello sprone a sinistra, dove un largo sentiero andava per forse duecento passi verso il monte della Guardia, e quindi, piegando sotto il fianco occidentale della rocca, scendeva tra motte biancastre di tufo, qua e là macchiate da scarni ginepri e cespugli di timo disseccato, fino al passo di Montecàla. Presso la prima svolta, su in alto, era un posto di sentinelle francesi. Un ufficiale, accorso alla loro chiamata, era venuto a far rimuovere l’abbattuta che chiudeva il passaggio. A Montecàla, lungo la strada che metteva alla gola di Plodio, un reggimento aveva preso le armi e si era posto in ordinanza. I tamburi suonavano; la bandiera tricolore sventolava sulla fronte del reggimento; i soldati francesi, al comando dato da un generale, e tosto ripetuto con voce tonante dal colonnello e da tutti gli ufficiali delle compagnie, presentarono le armi. Fu un momento assai triste per noi, ma solenne, quando ci toccò di traversare la fronte dell’esercito francese, schierato lungo la via da Montecàla al Marghero. Procedevano in capo alla colonna il vecchio generale Provera e il capitano Tibaldè; seguivano le compagnie di Monferrato, della Marina e di Susa; venivano ultimi i Croati, povera gente, che il capriccio di un imperatore mandava così lontani da casa, a combattere in una guerra di cui non intendevano le ragioni e non potevano sentire gli entusiasmi, ma in cui, nondimeno, facevano prova di rara intrepidezza e di costanza ammirabile. Noi tutti, saldi e impettiti, come se avessimo voluto irrigidirci contro i colpi del destino, passavamo coi fucili diritti, a grinta dura, guardando i nostri nemici in quel modo che sapete. E loro, i vecchi soldati di Loano e di Montenotte, coi fucili sporgenti, che parevano formare davanti a noi una siepe d’acciaio, ci guardavano fissamente, tra curiosi e commossi. Molti avevano i luccioloni sugli occhi; quasi tutti, da principio a voce bassa, poi a mano a mano più arditi, ci salutavano con parole amichevoli. — _Vous êtes des braves, piémontais, vous êtes des braves! Allez, vous nous avez donné du fil à retordre._ — Capisco che era una consolazione per il nostro amor proprio, essere accolti così. Ma, perdio, anche l’esser soccorsi e il poterci aprire la via con le baionette spianate, ci avrebbero dato un gusto matto! Noi pensavamo in quel punto, e con un profondo rammarico, alle nostre povere compagnie, che avevano fatto così eroicamente il loro dovere, e frattanto, per colpa del general Colli, dovevano andar prigioniere di guerra. Sta bene che l’Augereau ci aveva detto quella mattina: «vincano i vostri capi una battaglia, facciano dei prigionieri, e i difensori di Cosseria saranno cambiati con altrettanti dei nostri». Ma a giudicarne dal modo in cui procedevano le cose, altro che fare dei prigionieri! Noi già vedevamo l’esercito francese sulla via di Torino. È stato detto e consegnato in qualche storia che i difensori di Cosseria furono traditi dal comando dell’esercito nemico e mandati prigioni in Francia, ad onta delle fatte convenzioni. Tutto ciò è stato ripetuto in buona fede da chi non aveva letto il documento e solamente sapeva che ai nostri granatieri fu concesso l’onore delle armi. I francesi non hanno tradito nessuno; essi quel che promisero mantennero. Non è colpa della Francia se i generali austriaci regalati al Piemonte non seppero ottenerci un sorriso della fortuna e neppur tanti prigionieri da fare il cambio coi nostri valorosi compagni. Giunti al Marghero, davanti alla stretta di Plodio, fummo condotti in un campo, dove i soldati deposero le armi, che non dovevano più toccare. Erano armi onorate, e le abbandonammo con le lagrime agli occhi. Alla presenza del generale Augereau, furono letti i nomi dei sott’ufficiali sorteggiati, i quali uscirono tosto dalle ordinanze. Eravamo in nove, come vi ho detto; ma il francese fu generoso, e concesse le armi e la libertà ad altri cinque sott’ufficiali croati, affinchè le due compagnie austriache, il cui effettivo era pari a quello delle sei piemontesi, avessero anche un numero pari di liberati. Abbracciammo i nostri sventurati commilitoni che restavano prigionieri di guerra, e che frattanto, più felici di noi, odoravano già il fumo delle pentole, poste al fuoco in onor loro nel vicino fossato; quindi ci avviammo verso Plodio, dove il generale Augereau ci diede una compagnia di scorta, per condurci al borgo di Carcare. Era laggiù, come vi ho detto, il quartier generale del comandante in capo, del vincitore di Montenotte, che soltanto da due giorni aveva un nome nel mondo. Ricorderete la sua frase, orgogliosa ma giusta: «la mia dinastia incomincia da Montenotte». Noi dunque dovevamo veder l’uomo al principio della sua gloria. Carcare, antico borgo aleramico, che è come dire dei marchesi Del Carretto, era passato insieme col Finale in balìa degli Spagnuoli, e poscia dei Genovesi. Piantato sulle due rive della Bormida, in luogo aperto e ridente, a cui dà luce ed aria la depressione del vicino colle di Cadibona, ha un aspetto singolare, mezzo ligure e mezzo piemontese, ligure per la forma e l’intonaco delle case, la più parte colorite ed ornate; piemontese per i tetti ricoperti di tegole. Luogo di passaggio, per il commercio che si fa continuamente tra la spiaggia del mare e le Langhe, possedeva già allora un gran numero di osterie, che noi per altro non avemmo tempo nè voglia di visitare. Cosicchè io, uno dei difensori di Cosseria, me ne andrò nel mondo di là senza aver bevuto, nè in quel paesello montuoso, nè a Carcare, un bicchiere del vino di Cosseria, che tutti, in quelle convalli del nostro Appennino, decantano per molto gustoso, quantunque aspretto, e passante a quel dio. Amici, beviamo questo, che è di Gattinara, se la scritta non mente. Ricordo, per averlo letto in seconda retorica, che Teucro, fuggendo da Salamina, prendesse terra alla prima spiaggia, per metter mano all’anfora amica, e fare suppergiù un discorsetto ai compagni. — «O forti, che avete sofferto tanti travagli con me, posiamo un istante e affoghiamo i tristi pensieri in un bicchiere di vino; riprenderemo il largo, domani.» Noi, non domani, ma oggi, dobbiamo andare alla presenza di Napoleone, cioè, non facciamo anacronismi, del «cittadino generale Buonaparte.» Il nome di battesimo escì fuori nel 1802 quando nella Consulta di Lione gli fu conferito il titolo di presidente della Repubblica italiana, e sei mesi dopo, a Parigi, quello di primo console a vita della Repubblica francese. Avanti, dunque; dalla valletta di Plodio si sbocca in quella più vasta della Bormida. Carcare è laggiù, alla svolta del fiume, co’ suoi tetti rossastri. Si passa rasente al collegio degli Scolopii e si entra in una piazzetta triangolare, che ha un pozzo nel mezzo. Di fronte, il lato maggiore del triangolo è formato da una casa signorile a due piani, dipinta di giallo, con quadrature e fregi barocchi che imitano il marmo. È la casa del signor Ferreri, e la bandiera tricolore, che sventola sull’arco del portone, indica il quartier generale dell’esercito repubblicano. CAPITOLO XIII. Ex ungue leonem. Passammo, lungo la strada, in mezzo ad una moltitudine di francesi. I soldati, sottosopra, sono gli stessi in tutti i paesi del mondo, cioè un pochettino invasori; ma i francesi, non faccio per vantarmi, poichè ho fatto parecchie campagne con loro, danno dei punti a tutti gli altri. Entrati appena in un paese, vanno frugando di qua e di là, per impadronirsi della posizione; un’ora dopo, hanno già fatto conoscenza con tutti gli abitanti, vi sbucano dai portoni e dai vicoli, vi appariscono dalle finestre e magari dai tetti; l’orto e il pollaio, la cucina e il tinello non hanno più segreti per loro. A Carcare, dov’erano da ventiquattr’ore, potevano già dirsi di famiglia. Il borgo, del resto, essendo stato tanto tempo sotto il dominio della Repubblica di Genova, non sentiva affatto di piemontese, e, come tutte le terre di Liguria in quegli anni, parteggiava a dirittura per l’esercito repubblicano, vessillifero delle idee liberali che dovevano fare tanta strada anche nei dominii del vicino Piemonte. Tutto intorno alla piazzetta i bottegai avevano messe fuori le sedie, e ufficiali e soldati sedevano mescolati ai cittadini, chiacchierando allegramente, comunicandosi le notizie del giorno, fraternizzando, infine, per esprimervi la novità della cosa con la novità del vocabolo. Il nostro arrivo, sul far della sera, destò una grande curiosità, non già perchè una quarantina di prigionieri fossero bestie rare per quel valoroso esercito a cui da parecchi giorni sorrideva la fortuna, ma perchè tutti, uffiziali e sott’uffiziali, portavamo la spada al fianco, e prigionieri che conservino le loro armi non sono in nessun luogo prigionieri da dozzina. A buon conto, eravamo «quei di Cosseria,» e le nostre grinte dure meritavano di essere guardate con una certa curiosità, dopo due giorni di resistenza ad una intiera divisione, e tante perdite inflitte al nemico. — _Tiens! Les officiers de Cosseria!_ — esclamavano d’ogni parte intorno a noi. — _Une poignée d’hommes avec qui il a fallu compter! Voilà des braves!_ — Dico _braves_ così per dire, ma veramente era un altro vocabolo più energico, e molto più usato nel gergo militare francese, che indica ad un tempo la fierezza, l’ostinazione e il valore, e nella sua stessa volgarità rende più vivo, più scolpito l’elogio. Meno male; questo avevamo guadagnato noi, resistendo. Giungemmo, così salutati, davanti al portone della casa Ferreri, e l’uffiziale della scorta si avvicinò alla sentinella. — Il cittadino generale? — chiese egli. — Non è ancora rientrato. — Tarderà molto, che tu sappia? — Non so. È partito stamane per Dego, dove per tutta la giornata ha brontolato il cannone. — Ah! diavolo! — esclamò l’uffiziale. — E che notizie si hanno? — Le hanno portate un’ora fa, e sono eccellenti. Vittoria su tutta la linea. _L’Autrichien en a eu pour son argent, et même au delà._ — _Bon!_ — disse l’ufficiale, che subito dopo si rivolse a noi, per farci entrare nel vestibolo. Lo seguimmo taciturni e ci schierammo ad un suo cenno contro la parete. Quelle notizie di Dego, raccolte a volo, ci avevano profondamente addolorati. Il generale Beaulieu sconfitto! Sconfitto come l’Argentau! Erano i due austriaci con nome francese. E il Colli, quell’altro austriaco con nome italiano, se ne era rimasto inoperoso sulle alture di Montezemolo! — Signori, — ci disse l’ufficiale francese, — mi duole che dobbiate aspettare. Ma il generale in capo non può tardar molto, oramai. — Si è trattenuto a San Donato; — aggiunse un aiutante di campo, che era giunto allora allora. — Hanno trasportato dei feriti nella chiesa, ed egli ha voluto vederli; ma fra pochi minuti sarà qui. — Tanto meglio; — riprese l’ufficiale che ci aveva condotti. — Io volevo domandarvi, signori, se avevate appetito, per farvi portare almeno un po’ di pane e un po’ di formaggio; il cibo della pazienza, — soggiunse egli, sorridendo, — a cui siamo stati condannati per due giorni anche noi. Ma anche per trovare questa roba ci vuole il suo tempo, in mezzo a tanta confusione, e il generale Bonaparte arriverà molto prima del nostro fornitore. — Non c’è premura; aspetteremo; — rispose filosoficamente il conte Provera. — Noi non sappiamo neanche più di avere uno stomaco. — Frattanto, nel vestibolo e su per le scale si erano accesi i lampioni; e noi ci vedevamo assai gialli, a quel lume. — L’hai tu, uno stomaco? — bisbigliò il cavalier Corte, voltandosi a me che gli stavo dietro, con le spalle appoggiate al muro. — Signor capitano, non so; ma sento di avere una testa, perchè mi gira maledettamente. — In quella che noi ci ricambiavamo i nostri pensieri a bassa voce, si udì uno scalpitìo di cavalli sul selciato. L’ufficiale di scorta si avanzò sulla soglia del portone e tese lo sguardo verso tramontana. — Dev’esser qua; — diss’egli. — C’è tutto lo stato maggiore. — Vittoria! vittoria! — gridavano intanto i soldati, per via. — Evviva il cittadino Bonaparte! Evviva il vincitore di Dego! — Di Dego! — esclamai. — Hanno vinto anche là! Vinceranno dunque da per tutto? — Che farci? — mormorò il cavalier Corte, sospirando. — Sono i loro bei giorni! I cavalli si erano fermati sulla piazza. Noi udimmo tintinnire gli sproni e battere sul lastrico le spade dei cavalieri che balzavano di sella. Il vincitore di Dego era giunto; ancora un istante e lo avremmo veduto anche noi. Eravamo schierati, ed anche abbastanza pigiati, da una parte del vestibolo; ma dovemmo stringerci dell’altro, per lasciare uno spazio sufficiente al passaggio dei nuovi arrivati. Entrò allora un uomo piccolo e scarno, che portava un mantello grigio sull’uniforme verde cupa, e che mi parve, in quel suo modesto abbigliamento, un aiutante del generale in capo. L’ufficiale di scorta si avanzò, mettendo la mano al cappello, e gli presentò il generale Provera; quindi, accennando la nostra schiera, soggiunse: — Sono gli ufficiali e i sott’ufficiali della guarnigione di Cosseria, che debbono, secondo la capitolazione d’oggi, essere rimandati in Piemonte. — Quell’uomo piccolo e scarno si fermò su due piedi e stette un istante a guardarci; fece alcuni passi sulla nostra fronte; ritornò indietro con un rapido movimento, e si piantò davanti a noi, ficcandoci addosso due occhi neri, che luccicavano come diamanti, sotto le ciglia aggrondate; poscia, con voce stridente da cui traspariva la collera, gridò: — Ah, siete voi, i difensori di Cosseria? Di quella bicocca, che ci ha dato da fare come una piazza forte? — A quelle parole avevamo riconosciuto il generale in capo. Nessuno fiatò; guardavamo tutti il vincitore di Montenotte, che, dopo una breve pausa, soggiunse: — Avete combattuto da barbari. Sì, da barbari; — replicò, notando lo stupore che cagionava in noi quel biasimo inaspettato. — Non posso congratularmi con voi di un valore che ha passata la misura. Cacciati lassù, accerchiati, incalzati come la fiera nel covo, privi di ogni soccorso e di ogni speranza, era inutile di resistere con tanta ostinazione, di uccidermi i miei generali, di decimarmi il fiore dell’esercito. — Il capitano Tibaldè si muoveva già per rispondere a quella invettiva; ma il vecchio Provera lo chetò con un gesto, e gli rispose egli in sua vece: — Signor generale, non intendiamo il rimprovero. Ci sostiene la coscienza di aver fatto il nostro dovere. — Il Buonaparte si rivolse a guardarlo, mentre egli parlava; poi fece una spallucciata, come quella che avevo già visto fare al generale Augereau, e con voce ancor burbera rispose: — Il vostro dovere! Bella cosa, far sempre il proprio dovere! E avrete fame, ora? — Come si può averla dopo cinquanta ore di digiuno; — disse il generale Provera. — Ostinati! — brontolò il Buonaparte. — Venite a cena con me. La mensa, vi avverto, sarà molto frugale. — Ciò detto, si mosse per andare nel tinello, che era al pian terreno, daccanto alla cucina. Gli ufficiali, che erano entrati con lui, si tennero indietro, per lasciarci passare dopo il grand’uomo. — Uhm! — mormorò il cavalier Corte. — Questo è come le pere bugiarde; non bisogna fermarsi alla buccia. — Entrammo nel tinello, dov’era la mensa imbandita. Sebbene la camera fosse vasta, e la tavola proporzionata alla camera, non potevamo averci posto tutti quanti, e la maggior parte dei sott’ufficiali andarono a sedersi in una stanza vicina. Il generale Buonaparte si pose in capo alla tavola e chiamò alla sua destra il conte Provera, alla sua sinistra il cavaliere Tibaldè. Noi altri sedemmo in giro, mescolatamente, come ci aveva distribuiti il caso. Avremmo voluto far posto ai generali francesi; ma essi, quantunque pregati con insistenza, ricusarono. — Qualcheduno ha da servire in tavola, perbacco! — dicevano essi. — Lasciateci l’onore di farvi da camerieri e di darvi da mangiare. — Dopo avervi affamati, è il meno che possiamo fare; — aggiunse ridendo il generale Augereau, diventato tutto fiori e baccelli con noi. Così avvenne che i difensori di Cosseria, minacciati tante volte di fucilazione, avessero per servitori a tavola, pronti a distribuire il pane, a mescere il vino, a presentar le vivande, a levare i piatti, i primi ufficiali dell’esercito nemico. I sopravvissuti di quei camerieri improvvisati diventarono tutti marescialli di Francia. E spinsero, quei valorosi, la loro cortesia a tal segno, da non fare il menomo cenno della strepitosa vittoria che avevano riportato poche ore prima nella stretta di Dego. La ragione di questo delicato riserbo la intendemmo più tardi, quando sapemmo che i due reggimenti piemontesi di Monferrato e della Marina, essendo stati mandati in sostegno al generale Beaulieu, avevano preso parte a quella terribile giornata. Poveri nostri compagni d’armi! Anch’essi, non ostante la loro bella difesa, avevano dovuto arrendersi. Ma non si può sempre tacere, in una comitiva di soldati, intorno alle imprese che essi hanno compiute. Ad un certo punto, ne parlò risolutamente il Provera, reputando necessario di congratularsi col Buonaparte. Si era nemici; le vittorie sue erano nostre sconfitte; ma all’ingegno e al valore bisognava render giustizia. Il Buonaparte fu modesto, e attribuì l’esito della giornata alla sua buona stella. — Lasciatemi sperare, — diss’egli, — che essa mi assista ancora, perchè le difficoltà sono molte, e noi non abbiamo fatto che la prima parte di ciò che è necessario, per ottenere alla Repubblica francese una pace onorevole con l’Austria e col re di Sardegna. A proposito di Dego, — soggiunse il nostro ospite, volgendosi al cavalier Tibaldè, — a che corpo appartenete voi, capitano? — Al reggimento della Marina. — Era dunque della Marina un valoroso ufficiale che trovai ferito per via; — riprese il Buonaparte. — Ad onta delle ferite, ond’era crivellato, serbava una calma meravigliosa. Non avevo mai veduto un uomo più tranquillo, in mezzo a così acerbe sofferenze, e mi sono fermato per attestargli il mio profondo rammarico. — Che grado aveva, signor generale? — chiese allora il cavalier Tibaldè. — Era capitano, come voi. — Chi sarà, dei tanti? — disse il cavaliere Tibaldè, volgendosi al collega Lomellini. Ma un altro, accanto al capitano Lomellini, si mostrava profondamente colpito da quella notizia, ed era il sottotenente cavaliere Birago. — Cittadino generale, — cominciò egli, non potendo più stare alle mosse, — permettete che io vi domandi qualche particolare, intorno a questo ferito? — Il cavaliere Carlo Birago, mio sottotenente; — entrò a dire il capitano Tibaldè, parendogli necessario di far precedere a quel dialogo due parole di presentazione. — Domandate pure, — rispose affabilmente il Buonaparte. — Mi sembra già di capire che siete in ansietà per qualche vostro congiunto. — Sì, generale; ho due fratelli, capitani ambedue, uno nel reggimento di Monferrato e l’altro nel reggimento della Marina. Era alto, di capel bruno, il ferito? — Se fosse alto non saprei dirvi, poichè lo vidi sdraiato a terra, contro un ciglione di strada. I capegli erano bruni, di sicuro; l’occhio scintillante, il naso aquilino. — Ah, non c’è dubbio, è lui, mio fratello. E il suo stato è grave, voi dite? — Grave, sì, per il sangue che ha dovuto perdere da tante ferite. Ma egli era in sensi, molto tranquillo, come vi ho detto, e mi ha fatto maravigliare con la serenità delle sue risposte. Del resto, cavalier Birago, — soggiunse il Buonaparte, con una grazia che finì di soggiogare tutti i suoi ascoltatori, — andate voi a cercarlo. Un mio aiutante di campo vi accompagnerà per tutti i luoghi dove abbiamo feriti. Se voi lo trovate, come credo, e se egli è in caso di seguirvi, come gli auguro, vi permetto di portarlo con voi in Piemonte, libero alle medesime condizioni che sono state fatte a voi ed ai vostri compagni. — Grazie, generale! Voi permettete che io non indugi un minuto? — V’intendo e vi approvo; — disse il Buonaparte. — Dessolles, accompagnate il cavaliere, ve ne prego. Potete guardar prima nelle chiese qui vicine, fino alla Madonna della Neve, dov’è più probabile che siano stati portati i feriti di Dego. Se non è di qua, bisogna andare nel borgo, sull’altra riva del fiume, dove abbiamo i feriti di Cosseria. — Quelle ultime parole del Buonaparte mi scossero. Approfittando della confusione che cagionava l’escita del cavalier Birago e dell’aiutante Dessolles, mi alzai e corsi anch’io nel vestibolo. — Posso accompagnarla, signor cavaliere? — dissi al sottotenente Birago. — Sì, vieni; — mi rispose. Le strade erano buie e si camminava in mezzo a file d’uomini coricati, che non avevano trovato ancora un ricovero al coperto. Il capitano Dessolles ci condusse a visitare la chiesa degli Scolopii e quindi la parrocchiale di San Giovanni. In nessuna delle due trovammo il capitano Birago del reggimento Marina. Alla Madonna della Neve, che è un dugento passi fuori dell’abitato, sulla strada di Cairo, trovammo invece l’altro capitano Birago, del reggimento Monferrato, ma con ferite piuttosto lievi, e ignaro affatto della sorte di suo fratello. Il capitano Dessolles lo raccomandò vivamente alle cure del chirurgo, e ritornò indietro con noi, per andare nel borgo, sull’altra riva del fiume. Si era quasi certi di trovar là il ferito più grave, poichè il chirurgo aveva detto che poco prima era passato per l’appunto un carro, con parecchi feriti di Dego, che non aveva potuti scaricare, essendo già piene tutte le chiese e tutte le scuderie della riva sinistra. La sollecitudine fraterna del sottotenente Birago ci faceva correre speditamente da un angolo all’altro del borgo. Andammo a far capo in una scuderia di là dal ponte, presso la chiesa di Santa Rosalia, dove ci avevano detto che fossero stati scaricati gli ultimi feriti di Dego. E là veramente trovammo il capitano Birago del reggimento Marina, con tre palle in corpo e due colpi di baionetta, steso sulla paglia, vergine ancora di ogni soccorso e intieramente depredato. Il capitano Dessolles mandò subito a chiamare un chirurgo. Venne quello di Santa Rosalia, un bel giovanotto, chiamato Nougarède. — Visitate subito questo ferito, che è particolarmente raccomandato dal generale in capo. Il cittadino Bonaparte vuole che sia rimandato libero in Piemonte, appena si possa trasportarlo senza pericolo. — Non domani, nè doman l’altro, di sicuro; — rispose il chirurgo, mentre stava esplorando le ferite. — Il capitano è un uomo forte, come vedo, e pieno di coraggio, ma le ferite son cinque. — E ne basta una per andare all’altro mondo; — aggiunse il ferito. — Speriamo che non sia il caso, capitano; — disse il chirurgo. — Per intanto, appena fatta la prima medicazione, vedremo di trasportarvi nel nostro alloggio, dove il mio collega Durosier vi prodigherà le sue cure. — Non potete curarlo voi, Nougarède? — chiese allora il bravo Dessolles. — Per ora sì, ma domattina debbo andare a Savona, con un convoglio di feriti molto gravi. Bisogna sgomberar le chiese di Santa Rosalia e di San Sebastiano, per far posto a tutti i nuovi clienti che ci avete mandati da Dego. — E ne avete da condur molti, a Savona? — domandai io al chirurgo. — Sì, un centinaio, che allogheremo laggiù, nell’ospedale di San Paolo. — Sono feriti di Cosseria? — Per l’appunto. — E, perdonate alla mia curiosità.... ci sarebbe tra quei feriti una donna? — La vivandiera? — Sì, madamigella Adriana. — Sapete anche il nome? E chi ha detto a voi, piemontese, che fosse ferita? — L’ho raccolta io per il primo, sotto i nostri trinceramenti, e l’ho consegnata ai soldati del suo reggimento. — Ah, bravo! — disse allora il Nougarède, stendendomi la mano. — Avete compiuto un atto di umanità. Se volete vedere la vostra protetta, venite domattina a San Sebastiano, verso le sei, che è l’ora della partenza. — Grazie; — risposi. — E va meglio, la poverina? — Sì, abbastanza. Dorme molto. Il sonno è riparatore. — Consolato da quella buona notizia, animato dalla speranza di rivedere madamigella Adriana, seguitai al quartiere generale il capitano Dessolles e il sottotenente Birago. Quando fummo alla casa Ferreri, trovammo ancora il generale Buonaparte in mezzo ai nostri compagni, sul punto di congedarsi da loro, non per andare a riposo, ma per dettar l’ordine di marcia al suo esercito, che sulle prime ore del mattino doveva levare il campo da Carcare. Egli si mostrò lieto di sapere che il cavalier Birago avesse trovati due fratelli ad un tempo; la qual cosa permetteva a lui, Buonaparte, di rendere due servizi in una volta al vecchio marchese Birago di Vische. — È una bella cosa per un padre, — diss’egli, — che tutti i suoi figli capaci di portare le armi si siano trovati al fuoco nel medesimo giorno, partecipando in egual modo all’onore e al pericolo. È una bella cosa; — ripetè, con quella energia di accento che soleva mettere in ogni discorso. — Quando le necessità della patria domandano i maggiori sacrifizi, tutti debbono essere al loro posto, e le grandi famiglie si onorano a dare di questi nobili esempi. Non conosco nelle aristocrazie un ufficio più alto e più efficace di questo, se pure esse vogliono conservarsi, dimostrare la loro utilità, in mezzo a tanta rovina di vecchie istituzioni. Qui è veramente il caso di osservare che il vostro Piemonte ha una aristocrazia vigorosa, intelligente, degna del posto che occupa. La vorrei solamente più aperta a tutte le nuove glorie, a tutti i nuovi ed eminenti servigi. Nella storia dei popoli che sentono la loro gioventù e non hanno una tiepida fede nel futuro, ci dev’essere sempre luogo per un capostipite. In questo, o signori, la vecchia Inghilterra dà lezione all’Europa. Ognuno che accresca d’un fiorone o d’una gemma la corona di Riccardo Cuor di Leone e di Elisabetta, ha il suo posto naturalmente assegnato nel più alto consesso della nazione. — Noi ascoltavamo ammirati quel giovane soldato repubblicano, che rendeva così nobilmente giustizia ad un governo nemico che egli aveva testè combattuto in due grandi giornate, e che ragionava con tanta serenità intorno ad istituzioni e consuetudini, di cui la Francia era in quei giorni, o pareva, la negazione trionfante. — Ma noi abbiamo conversato abbastanza; — riprese egli, dopo un istante di pausa; — e i miei doveri di comandante in capo mi fanno rinunziare al piacere d’intrattenermi ancora con voi, nobili difensori di Cosseria. Il mio capo di stato maggiore darà gli ordini perchè i due capitani Birago, appena si possa farlo senza danno della loro salute, siano trasportati a Torino, dove saremo lieti di consegnarli alla loro famiglia. Mi permetterete, — soggiunse egli, sorridendo, — di sperare che ciò avverrà presto, e di fare ogni poter mio per mutare la speranza in realtà. — I soldati fanno il loro dovere, — rispose nobilmente il cavaliere Tibaldè. — Iddio concede la vittoria a chi l’ha meritata. — Il generale Buonaparte approvò le parole del nostro comandante con un cenno benevolo. — Mi duole, — aggiunse egli, — che dovrò cagionarvi un piccolo disagio. Il mio esercito sarà domattina tutto in marcia per Ceva e Mondovì. Non potrò dunque lasciarvi andare agli avamposti piemontesi senza qualche precauzione, di cui, soldati come siete, non vorrete disconoscere la suprema necessità. — Occhi bendati, generale? — disse il conte Provera. — Sì, e per molte ore; forse per più di un giorno, secondo i casi; — replicò il Buonaparte, tentennando malinconicamente la testa. — Me ne duole davvero, credete, ma non potrei operare altrimenti. — Quelle parole del generale Buonaparte furono come un raggio di luce per me. — È dolente; — bisbigliai all’orecchio del cavalier Corte. — E se noi gli offrissimo di passare da un’altra parte, per evitargli il dispiacere? — Da un’altra parte! — esclamò il cavalier Corte, stupito. — Avresti tu, per caso, mutata la geografia del Piemonte? — No, capitano, — risposi; — il Piemonte sta bene dov’è. Ma se noi andassimo a Savona, e di là c’imbarcassimo per Genova, donde ci sarebbe facile di restituirci a casa per la via di Alessandria, si guadagnerebbero due punti in uno: non si andrebbe con la benda agli occhi, che è tanto incomoda, e si farebbe un piacere al generale Buonaparte. — Perbacco, hai ragione! — esclamò il capitano. E senza por tempo in mezzo, si accostò al cavalier Tibaldè, per riferirgli la proposta. — È una trovata del sergente diplomatico; — gli aggiunse il bravo cavalier Corte, che mi amava molto e coglieva volentieri le occasioni di farmi figurare. Il cavalier Tibaldè approvò il disegno e lo espose subito al generale Buonaparte, che del resto aveva già udita la conversazione dei due capitani. — Per far piacere a me, — diss’egli allora, — voi rinunziate ad un vostro diritto e andate a cercare la vostra libertà per un tragitto molto più lungo e fastidioso. — Generale, — riprese il nostro comandante, — non dobbiamo noi corrispondere in qualche modo a tante vostre cortesie? Poichè uno dei nostri ha avuto una buona idea, permettete che ci affrettiamo a cogliere l’occasione di farvi cosa grata, risparmiandovi una piccola noia. — Eh, non tanto piccola! — esclamò il generale Buonaparte. — Voi sapete come siano gelose certe faccende, e in particolar modo il segreto delle marce. Io dunque accetto la vostra offerta, e ve ne ringrazio vivamente. Il mio capo di stato maggiore preparerà subito i passaporti per il vostro tragitto fino a Genova. — Ciò detto, si mosse per ritirarsi nelle sue stanze. Ma, nel passare in mezzo a noi, volle conoscer tutti per nome. Quando toccò a me di essergli presentato, il generale Augereau aggiunse ridendo queste note caratteristiche: — _Ancien seminariste! Il y a de l’étoffe._ — Ah! — disse il Buonaparte, volgendosi a me. — Eri destinato alla vita ecclesiastica? — No, cittadino generale; — risposi. — Facevo solamente i miei studi classici, ma avevo tutt’altra vocazione. — Quella del soldato, non è vero? È la condizione dell’uomo libero; sarà presto quella di tutti gli italiani. Perchè ti chiamano il sergente diplomatico? — Ero impacciato e non sapevo che cosa rispondere; ma il generale Augereau fu pronto a darmi una mano. — È un calligrafo eccellente; — rispose egli per me. — Ha scritto sotto la nostra dettatura il protocollo della resa di Cosseria e si può dire che abbia fatto della diplomazia sul tamburo. — Il generale Buonaparte si degnò di sorridere a quella spiegazione delle mie qualità diplomatiche. — Ah, se non ci fosse altra diplomazia che questa! — esclamò egli, muovendosi per uscire. — Sarebbe una diplomazia da valere tant’oro. Sbrigativa, sbrigativa vuol essere. — E se ne andò, ripetendo ancora un paio di volte quel gustoso aggettivo. Fu questo il mio primo incontro col grand’uomo, il cui genio portentoso ha scosso tutti gli uomini della mia generazione, la cui immagine ci è rimasta viva nella mente, e il cui ricordo ci strappa ancora le lagrime. Io non so se vedo il Buonaparte d’allora con gli occhi stessi che videro poi Napoleone imperatore dei Francesi e re d’Italia. Forse, rispetto a ciò, nell’animo mio si è fatto un pochino di confusione. E tuttavia mi sembra di potervi assicurare che il generale Buonaparte ci appariva già un miracolo d’uomo. Montenotte e Dego, due strepitose vittorie in due giorni, erano presenti al nostro spirito profondamente turbato, e il nome di fulmine di guerra, che lo dipingeva con tanta evidenza, era già in tutte le menti, prima di essere su tutte le labbra. Notate che nulla, nel suo aspetto esteriore, annunziava il grand’uomo, se non forse la modestia somma del vestire, in mezzo a tanto sfarzo di mostreggiature, di sciarpe, di colletti arrovesciati e di penne, per cui si distinguevano i suoi generali, e che la sua personcina grama non ispirava certamente quella vaga curiosità, quel desiderio di analisi, che ci fanno ritrovare qualche volta i segni di un forte carattere e i presagi di una grandezza imminente sotto la grigia velatura di una mediocrità che non ha speranze per sè medesima, e non ne lascia concepire agli osservatori superficiali o distratti. Quel profilo d’imperatore romano che tanti hanno veduto in lui, glielo dovevano comporre più tardi, e neanche ben chiaro, ma vagante tra Cesare ed Ottaviano, i pittori e gli scultori come l’Appiani e il Canova. L’uso del potere supremo e gli agi della vita fastosa aiutarono nel corso degli anni a favorire il concetto degli artisti. Per allora, debbo confessarlo, il romano non c’era. Aveva le labbra e il naso sottili, più che non si convenisse all’ampiezza e alla prominenza della fronte, e gli zigomi sporgevano poco. Ma gli occhi, neri e vivi, con quella loro mobilità fulminea, resi anche più vivi e più neri dalla magrezza e dal pallore del viso, gli occhi, sicuro, promettevano Giulio Cesare, Ottaviano Augusto, e quant’altri grand’uomini ha dato Roma alla storia sua, alla storia del mondo. CAPITOLO XIV. Sulle orme di Adriana. Come ci avrebbero invidiata i legittimisti di Francia la nostra mattinata del 15 aprile 1796! Già da oltre un’ora splendeva il sole sopra la valle della Bormida e noi ci aggiravamo ancora, maledettamente seccati, intorno al pozzo della piazzetta triangolare di Carcare, aspettando un passaporto che ci era stato promesso per l’alba e che nessuno si degnava di rilasciarci. Gli Austriaci, che speravano forse di non essere troppo lontani dall’esercito del Beaulieu, si erano rassegnati alla benda sugli occhi, e quella stessa mattina erano stati avviati per Acqui ed Alessandria. Il capitano Tibaldè incominciava a credere che gli Austriaci fossero stati più furbi di noi, ed anch’egli, se non fosse stato per la proposta della sera innanzi, che lo vincolava davanti al generale Buonaparte come una parola d’onore, avrebbe chiesto di poter mutare il viaggio a Savona in una corsa a mosca cieca da Ceva a Mondovì. La qual cosa, come potete immaginare, non conveniva punto a me, che quella mattina sull’alba avevo veduto madamigella Adriana, ma non altrimenti potuto parlarle. La vergine del reggimento era sempre assopita; lo era almeno in quei pochi minuti che avevo rubati alla compagnia de’ miei superiori per correre all’ospedale di San Sebastiano, e il chirurgo continuava a fidar molto in quel sonno riparatore. — Ho trovato una carriuola che pare fatta a bella posta per lei; — mi disse il chirurgo Nougarède. — C’è molta paglia ed anche un materasso; la povera ragazza non sentirà troppo le scosse e potrà anche dormire dell’altro. — Madamigella Adriana era dunque partita, e noi eravamo ancora a Carcare. Quant’altro tempo ci saremmo rimasti? E prima di tutto, chi doveva rilasciarci il passaporto? Aiutanti di campo ed ufficiali di stato maggiore ne erano usciti parecchi, dal quartier generale; ma nessuno sapeva niente, nessuno aveva ordini, nessuno voleva cercare informazioni per noi. Avevano tutti da correre; saltavano in sella, e via di galoppo, o dalla parte di Millesimo, o da quella di Cairo. Dopo un’altra ora di quella aspettazione, perdemmo a dirittura la pazienza e risolvemmo di andare dal generale in capo. Egli non doveva essere uscito ancora dal suo quartierino; lo assicuravano quelli della nostra comitiva che non si erano mossi dalla canna del pozzo, e che nella piazzetta triangolare avevano perfino passata la notte. — Perdio! — esclamò uno dei nostri ufficiali. — Non sarà mica un recargli offesa, se andremo a chiedergli ciò che egli ci aveva promesso e che nessuno si è curato di darci. — Detto e fatto, ci avviammo su per le scale. La sentinella, che ci aveva veduti ragionare con tanti ufficiali del quartier generale, non pose ostacolo al nostro passaggio, e noi giungemmo al primo piano, dove il general Buonaparte era alloggiato. Bussammo discretamente con le nocche all’uscio socchiuso, e nessuno ci rispose, nessuno si mosse per venirci a ricevere. Allora entrammo risolutamente, e da una anticamera vuota passammo in un salotto che era deserto egualmente. Bussammo ad un altro uscio, socchiuso anche quello, e, non avendo udito una voce per farci andar oltre o restare, spalancammo la portiera e riuscimmo in un’altra anticamera, dipinta a fregi ed ornati barocchi, con un grande camino di pietra bigia da un lato, un nuovo uscio daccanto al camino, e due di rincontro. Andammo a tastare quei due; mettevano a due ripiani di scale interne, l’una verso il pianterreno, l’altra verso il piano superiore. Non ci restava che di andare a quel terzo uscio, per cui si doveva entrare in una camera da letto, dalla parte del giardino. Nuova bussata e nuovo silenzio; pareva di essere in un palazzo incantato. Si prova allora a girar la maniglia; l’uscio si apre senza rumore; siamo sul limitare di una camera sontuosamente ornata, con quadri e specchi dalle cornici di stucco dorato, che si girano in capricciose volute, aderenti alla superficie dei muri. Spingiamo l’uscio, e vediamo il piede d’un letto, col copertoio di seta verde a fiorami. C’è là qualcheduno che dorme, e ne sentiamo il respiro misurato e monotono. — È il generale Buonaparte; — disse il capitano Corte, che si era affacciato nel vano; — ritiriamoci. — Il vincitore di Montenotte e di Dego dormiva solitario in quella casa, che per una strana combinazione era rimasta senza custodi. Ricordando i molti e fieri nemici che aveva a suscitargli la sua immensa fortuna, non posso trattenermi dal pensare che una così bella occasione di coglierlo non si offerse mai più agli uomini della reazione, che dovevano far capo, qualche anno più tardi, al tristo espediente della macchina infernale e alla congiura del Drake. Al rumore dei passi e delle voci, il dormente si scosse, si svegliò in soprassalto, e, levandosi sul gomito, chiese ad alta voce: — Chi è là? Dessolles? — Scusate, cittadino generale, — disse allora il cavalier Corte, che era rimasto il primo sull’uscio, — siamo noi, gli ufficiali piemontesi. — Ah! E che cosa volete? — Il passaporto che ci avete promesso, e che nessuno ci vuol rilasciare. Ci mandano tutti da Erode a Pilato, e noi veniamo ad appellarci direttamente da Cesare. — Il cavalier Corte non sapeva in quel punto di parlar così bene e di andare così diritto al cuore del generale repubblicano. — Avete fatto benissimo, — rispose egli, ridendo. — Non capisco perchè sia andato fuori anche il mio aiutante. Aspettate un momento; mi vesto. — Fate il vostro comodo, cittadino generale; noi andremo ad aspettare nel vestibolo. — No, no, restate pur lì; — riprese egli, che era già sceso dal letto e si vestiva in fretta. — È affare di due minuti. Aspettammo, com’egli desiderava, felici di essere riesciti nel nostro intento, senza averlo troppo disturbato. I due minuti erano appena passati, che il generale Buonaparte, mezzo vestito, comparve nell’anticamera. — Buon giorno, cittadino generale! — gli disse il cavalier Tibaldè. — Veramente ci rincresce di avervi dato noia a quest’ora... — Che! che! Non importa. Il guaio è che mi sono coricato un po’ tardi, e diciamo pure sull’alba. Dove sarà andato, quel diavolo del mio aiutante? Ma basta, ecco qua la carta; è l’essenziale. Così dicendo si era seduto alla tavola, che stava nel mezzo dell’anticamera, e con la sua rapidità prodigiosa scriveva il nostro passaporto. Mi pare di vederlo ancora, piantar la penna nel grosso calamaio bianco di maiolica di Savona, che aveva un bel putto a cavalcioni sul manico. — Ecco fatto; — riprese, porgendo il foglio al capitano Tibaldè. — Non era una gran fatica, in verità. Ma bisogna perdonare ai miei ufficiali, che avevano troppi ordini da spedire. Del resto, — soggiunse argutamente, — bisogna anche ricordare il proverbio italiano: chi comanda e fa da sè, è servito come un re. — Ho dimenticato di dirvi che il generale Buonaparte, con noi, parlava sempre italiano. In fondo, era la sua lingua materna, e tutti sanno che egli non lasciò passar mai le occasioni di parlarla. Ringraziammo commossi, e prendemmo congedo dall’insigne capitano. — Buon viaggio, signori; — diss’egli, accompagnandoci cortesemente fino alla soglia; — e siate felici, in seno alle vostre famiglie. Confusi dalla bontà del grand’uomo, che veramente possedeva il segreto di conquistare gli animi con la gentilezza dei modi, come quello di conquistare i regni col genio delle combinazioni militari, scendemmo finalmente in istrada, e senza altri indugi ci avviammo verso la collina, a mezzogiorno di Carcare. Mezz’ora dopo, eravamo al ponte della Volta, presso Ferrania; un’altra mezz’ora più tardi, traversavamo il borgo operoso di Altare, donde, guadagnata l’erta del vecchio castello, riuscimmo al passo di Cadibona e alla vista della torre quadrata che segnava il confine e portava dipinto lo stemma della Repubblica genovese. Di là s’incominciava a discendere, e lo spettacolo era meraviglioso davvero, per l’ampia distesa dell’orizzonte, sul cui lontano confine azzurreggiava il mare, e per la lieta ghirlanda dei paeselli, delle rocche merlate e dei ceppi di case campestri, che biancheggiavano sul colmo dei poggi, o lungo le falde boscose delle convalli, digradanti in dolce pendìo fino alla verde spiaggia ligustica. Alla giocondità dei luoghi facevano un doloroso riscontro lunghe file di carri, che trasportavano sempre nuove compagnie di feriti a Savona, incrociandosi con le artiglierie, i treni, le munizioni, le proviande e i drappelli di soldati, che venivano in su, per raggiungere l’esercito repubblicano. L’ingombro della strada non permetteva di correre; nè gli ufficiali piemontesi avevano fretta al pari di me. Se fossi stato solo, che corsa! Avrei forse raggiunto il carro su cui era adagiata la bella Adriana, e che era partito dei primi da Carcare. Ma noi andavamo tutti insieme, al passo ordinario, e rallentando anche di più, dove la strettezza delle svolte rendeva meno facili i baratti dei carri. Solamente dopo due ore di discesa giungemmo al borgo di Lavagnola, donde, per una strada più larga, tutta fiancheggiata di ville signorili, entrammo dal ponte dello Sbarro nella gentile Savona, candida gemma incastonata fra i negri pini di Montecurlo e i flutti azzurri del Tirreno. L’arrivo di tanti soldati piemontesi liberi ed armati destò la curiosità e la meraviglia di tutto il borgo che dovevamo traversare, innanzi di giungere alle porte della vecchia città. Le mura di Savona, già anguste ai tempi di Gabriello Chiabrera, erano ancora in piedi al tempo mio; ma la città si stendeva fuor della cinta, sfogava il soverchio della sua popolazione in due fitte contrade, una a ponente, lungo la marina, che portava il nome di Borgo da basso, l’altra a settentrione, verso l’Appennino, detta Borgo da alto, per cui passavamo appunto noi altri. Ma non ne uscimmo subito, poichè, prima di giungere al largo della Concezione, avevamo adocchiata la locanda della Posta, che con la bella apparenza del fabbricato e la maestosa grandezza dell’insegna ci prometteva un ristoro, di cui tutti sentivamo il desiderio. La sera innanzi, al quartier generale dell’esercito francese, si era piuttosto assaggiato il cibo, che mangiato per il bisogno dello stomaco. Si ordinò dunque da pranzo, e, nel tempo che si stava preparando ogni cosa, il capitano Tibaldè risolse di condurci, secondo l’uso militare, a riverire il comandante della piazza. Prendemmo lingua dal primo soldato francese in cui c’imbattemmo, e questi ci condusse dalla porta di San Giovanni fino a mezza la via di Fossavaria, dov’era alloggiato quell’uffiziale superiore; il quale ci accolse benissimo, con le più grandi e sincere dimostrazioni di stima, dolentissimo per altro di non poterci offrir nulla. — Son qua da due giorni soltanto, — ci disse il comandante, — e a mala pena insediato. Non posso far altro che mettermi a vostra disposizione, per tutto il tempo che rimarrete in questa città. — Grazie, signor comandante; — gli rispose il capitano Tibaldé. — Non ci occorre altro che un imbarco, e noi vi saremo gratissimi, se con la vostra autorità ci aiuterete a trovarlo. — Si mandò subito al porto, e si trovò una feluca, che era disposta a far vela in quel giorno, per trasportarci a Genova. Il bravo comandante la fissò tosto per noi e ci ottenne un nolo conveniente allo stato delle nostre povere borse. Preso congedo da lui e detto al padrone della feluca che ci saremmo imbarcati prima di sera, ritornammo alla locanda, dove il pranzo ci aspettava. Io frattanto avevo preso lingua per conto mio, ed avevo anche veduto, a poca distanza dal palazzo del comandante, la via dell’ospedale di San Paolo. Il desiderio di fare una corsa fin là era grande nell’animo mio. Per veder subito Adriana, avrei rinunziato anche al pranzo. Ma il capitano Corte, a cui mi ero aperto, non approvò quella fretta. — Vieni a ristorarti; — mi disse. — Avrai tempo a ritornare, mentre noi faremo quattro chiacchiere bevendo l’ultimo bicchiere. Anche la tua Clorinda, arrivata da poco, avrà bisogno di riposo. Quell’ultima ragione finì di convincermi, e perciò seguitai la comitiva. Il pranzo era allestito e ci sedemmo subito a tavola. Si mangiò con molto appetito e si bevve a proporzione. Ma io, appena vidi le frutta, chiesi licenza al mio capitano e mi alzai per andare a San Paolo. Giunto all’uscio, dovetti fermarmi. L’androne era pieno di gente, che si affollava per entrare. — Che cosa vorranno questi importuni? — pensai, mentre mi tiravo da banda per lasciare il passo libero. Due o tre che venivano primi avevano la sciarpa tricolore intorno alla vita. Seguivano parecchie guardie di città; il restante erano camerieri, sguatteri e ragazzaglia curiosa. — I rappresentanti del popolo; — disse un cameriere, annunziando quella visita inaspettata. — Vengano; — rispose il capitano Tibaldè, levandosi in piedi. — Che cosa comandano? — Gli uomini della sciarpa tricolore si erano inoltrati nel mezzo della sala. Uno di essi, che era il capo, cominciò in questa forma: — Cittadini uffiziali.... — Il capitano Tibaldè lo interruppe. — Dica signori uffiziali, perchè siamo sudditi e soldati di Sua Maestà il re di Sardegna, e questo suo cerimoniale non è fatto per noi. — Tutti sono cittadini, oramai; — rispose quell’altro, parlando italiano con uno spiccato accento piemontese; — anche voi, del resto, siete debitori della vostra libertà all’esercito della rivoluzione, che ha cambiato tante cose, e tante altre ne cambierà nei felicissimi Stati. — Signor cittadino rappresentante, — replicò il capitano Tibaldè, — l’avverto che noi siamo debitori della nostra libertà a due giorni di risoluta difesa e ad una onorata capitolazione. Ma non è di queste cose che dobbiamo disputare con lei. Ci dica piuttosto in che possiamo servirla. — Io avrei potuto escire, in quel momento, poichè i nuovi venuti occupavano il mezzo della sala, e il passo era libero; ma una giusta curiosità mi tratteneva presso i miei superiori e compagni d’armi, così improvvisamente disturbati nella prima ora di riposo. — Dovremmo chiedere prima di tutto se hanno le loro carte in regola; — rispondeva frattanto il rappresentante del popolo, seguitando a parlar l’italiano con uno spiccato accento piemontese, e mostrando uno strano accanimento contro un manipolo dei suoi concittadini onorati. — Abbiamo presentato testè il nostro passaporto al comandante francese; — disse il capitano Tibaldè. — Possiamo mostrarlo anche a lei e alle persone che l’accompagnano. Eccolo qua; — soggiunse, spiegando il foglio sotto gli occhi dei tre inquisitori; — come vedono, è scritto dal generale Buonaparte, e tutto di suo pugno. — È in regola, sì; — replicò il primo rappresentante, che parlava per tutti. — Ma noi abbiamo altri doveri, che un semplice passaporto non può farci dimenticare. — E sarebbero?... — chiese il capitano Tibaldè. — Ecco, — rispose il rappresentante, mettendosi sul grave e volgendo uno sguardo baldanzoso sulla nostra brigata, — noi dobbiamo investigare se tra loro, in apparenza uffiziali piemontesi, non ci fosse per caso qualche emigrato francese. È chiaro, — soggiunse con arroganza il molesto personaggio, — che se un emigrato francese si nascondesse tra loro, nessuna capitolazione di guerra, fatta soltanto per soldati piemontesi, potrebbe sottrarlo alla legge repubblicana, e nessun passaporto coprirlo. — La legge contro gli emigrati, che doveva essere abrogata qualche anno più tardi dal Buonaparte diventato primo Console, era molto severa, e nessuno di noi la ignorava. Essendo la città di Savona sotto il dominio delle armi francesi, quella legge malaugurata poteva essere applicata anche a Savona, e un emigrato francese, dato il caso che fosse tra noi, in uniforme di uffiziale piemontese, esser condotto davanti ad una commissione militare, giudicato sommariamente e passato per le armi. Ora, davanti alla quistione posta con tanta asseveranza dal rappresentante del popolo, era naturale di chiedere se ci fossero emigrati francesi tra noi. A tutta prima mi era sembrato di no; ma pensandoci meglio, mi ero ricordato del cavalier Buonadonna, luogotenente della mia compagnia. Il cavalier Buonadonna non era piemontese, ma côrso, e perciò soggetto alla legge francese. Da parecchi anni aveva preso servizio in Piemonte, ma non tutti avevano dimenticata la sua nazionalità, ed era anche possibile che il cittadino rappresentante del popolo, piemontese egli stesso, lo avesse riconosciuto per via, mentre andavamo ad ossequiare il comandante della piazza. Diavolo d’un rappresentante! Ci voleva proprio lui, per venire a scovare nella nostra comitiva un povero côrso, che era sfuggito all’occhio d’aquila del generale Buonaparte! Dio sa quanto fiele antico, qual lievito di rancori ignoti, fermentasse nel cuore del nostro concittadino e nemico! Non si odia mai tanto bene come tra fratelli, pur troppo; e quell’astioso rappresentante era capace di tutto. A quei tempi ancora, nella repubblica francese, i circoli e le congreghe patriotiche comandavano agli eserciti; nè il comandante di piazza, che si era mostrato tanto cortese con noi, avrebbe potuto salvare il cavalier Buonadonna, se il cittadino rappresentate del popolo gli avesse domandato solennemente di far rispettare contro di lui le leggi della Repubblica. CAPITOLO XV. All’arme bianca. Ritto in piedi e con le spalle appoggiate al muro, stavo guardando il cavalier Buonadonna, mentre il così detto rappresentante del popolo aspettava una risposta alla sua intimazione. Il mio luogotenente era fermo al suo posto e in apparenza tranquillo, ma di sicuro aveva detto qualche cosa sottovoce al suo vicino di destra, poichè questi, che era il conte Giovanni Olignani, luogotenente nella prima compagnia dei granatieri di Susa, saltò su a rispondere per tutti. Ah, signor conte Olignani, come vi avrei abbracciato volentieri, in quel punto! E come son dolente di non ricordar più oggi il riverito nome di quel rappresentante da strapazzo, nel quale voi riconosceste uno dei più rabbiosi gridatori delle vie di Torino! Anche la capitale del Piemonte, in quegli anni difficili, aveva avuti i suoi tribuni, e fra i tribuni, fra gli amici caldi e sinceri della libertà, a cui fin d’allora si poteva far di cappello, non mancava mica la roba di scarto. Ma basta, mettiamo, per i bisogni del dialogo, che il personaggio si chiamasse Tiravia. Il conte Olignani, prendendo a rispondere per tutta la brigata, lo apostrofò in questa guisa: — Cittadino Tiravia, siamo venuti a fare il chiasso fino a Savona? E appoggiati alle baionette francesi, non è vero? — Il rappresentante si volse stizzito al conte Olignani, che egli non conosceva, e da cui si vedeva in quella vece così ben conosciuto. — Che c’entrate voi? — ribattè. — Risponda chi deve alla nostra domanda. Ci sono tra voi, o non ci sono, emigrati francesi? Il resto non importa, e alle sciocche impertinenze degli ufficialetti del re di Sardegna oppongo il più alto disprezzo. — Il conte Olignani, già poco paziente per natura, non ci vide più lume. — Ah, tu disprezzi? — gridò, afferrando il primo arnese che gli venne alle mani. — Ah, tu disprezzi, buffone? Prendi qua, e ripuliscimi il piatto. — Così dicendo, gli scaraventò quel disco di maiolica con tutta la forza del suo braccio, moltiplicata da quella del suo sdegno. Il piatto, descritta velocemente la sua curva, andò a rompersi proprio sul grugno del rappresentante. Il dado era tratto; non si poteva più dare indietro, nè parlamentare. Tanto meglio, del resto, perchè io non so veramente che cosa si sarebbe potuto rispondere, per salvar la testa del cavalier Buonadonna. Il ferito si disponeva a ribattere, spalleggiato dai suoi. Allora ci affrettammo tutti a prender le parti del conte Olignani. Il nostro parco era ben fornito di proietti. Volarono i piatti, da prima; seguitarono le posate, poi le bottiglie e i bicchieri. Sarebbe volato anche il trionfo di tavola, grazioso gruppo di maiolica savonese che raffigurava il ratto di Proserpina, se il nemico, oppresso da quella grandine fitta, non avesse abbandonato il campo di battaglia, fuggendo in disordine per le scale. Qualche altro po’ di cocci che scagliammo dalle finestre, persuase gl’importuni cercatori d’emigrati ad allontanarsi in fretta anche dai pressi della locanda. Felici della nostra vittoria, riprendemmo posto a tavola, chiedendo altre bottiglie ed altri bicchieri. Non eravamo ricchi, davvero, ma avevamo ancor tanto da pagare i danni di quel tafferuglio improvviso, e bevemmo, senza darci pensiero delle conseguenze di una avventura, che si poteva credere burlesca. Infine, non avevamo risposto nulla, che ci potesse compromettere, alla domanda del cittadino rappresentante. Il cavalier Buonadonna, evidentemente, non era stato riconosciuto; altrimenti, il cittadino Tiravia, così invelenito contro di noi, non avrebbe tralasciato di nominarlo. Si doveva credere in quella vece che il nostro avversario, genericamente informato della presenza di emigrati francesi nell’esercito del re di Sardegna, volesse col suo zelo inquisitorio farsi un merito presso gli uomini della rivoluzione, ma senza essere ben certo di fare una presa tra noi. E noi, dopo tutto, mettendo mano ai proietti, non avevamo già inteso di rispondere con vie di fatto ad una intimazione legale, ma solamente di respingere e di castigare una plateale insolenza. Non si potevano chiamare ufficialetti i difensori di Cosseria, senza esporsi ad uno scoppio naturalissimo del più giusto risentimento; ed ogni giudice imparziale doveva darci ragione, primo fra tutti il comandante di piazza. Il guaio, pur troppo, era questo, che io non potevo più muovermi di là, per correre all’ospedale di San Paolo. A tutta prima, non ascoltando che la voce del cuore, avevo chiesto licenza di escire; ma il cavalier Corte non durò fatica a dimostrarmi il pericolo grandissimo di andare da solo per via, in uniforme di soldato piemontese, dopo ciò che era avvenuto, e più la vergogna che sarebbe toccata a tutti loro, se mi fosse torto un capello. Ed era molto probabile che, se io cascavo nelle unghie di certa gente, mi si torcesse anche dell’altro. — Caro mio, abbi pazienza; — conchiuse il capitano. — Bisogna escire tutti insieme, dalla locanda, e vedere il comandante di piazza, che ha una faccia da galantuomo. Poi, se sarà il caso di poter dare una scorsa all’ospedale, vedremo di appagare i voti del tuo tenero cuore. — Ella ride, signor capitano; — risposi — Ma io.... — No, non rido; — riprese il cavalier Corte; — chiamo le cose col loro nome. Amare è una cosa naturalissima; innamorarsi in mezzo alle schioppettate è strano, ma non a dirittura impossibile. Credo perfino che sia il modo di innamorarsi davvero. Dorare a fuoco, sigillare a fuoco, non sono i modi riconosciuti, per rendere queste operazioni più salde? Eccoti dunque innamorato a fuoco, mio povero sergente! Ed ecco un messaggero che porterà notizie interessanti, anche per la tua impresa amatoria. — Le ultime parole del cavalier Corte erano ispirate dall’apparizione di un soldato francese alla porta d’ingresso. Era un’ordinanza del comandante di piazza, e portava una lettera di lui al capitano Tibaldè. Prese questi il foglio, lo aperse in fretta e vi diede una scorsa con gli occhi; poi lesse ad alta voce lo scritto. Il degno comandante ci si mostrava abbastanza informato delle accoglienze toccate ai rappresentanti del popolo, ed anche delle parole insolenti che ci avevano fatto dare nei lumi. Soggiungeva la notizia, veramente poco piacevole, che il cittadino Tiravia percorreva la città, raccontando la cosa a modo suo, per metterci in mala vista, e spingeva quanto più poteva di gente alla Marina, dov’era il luogo d’imbarco, per aizzarla contro di noi. Disgraziatamente, il comandante di piazza non aveva una forza militare da opporgli; raccomandava ai cittadini assennati di concertarsi, d’intromettersi, di scongiurare il tumulto; frattanto, egli aveva fatto il proposito di unirsi a noi, risoluto di correre la nostra medesima sorte, per attestare in tal guisa che l’esercito francese non aveva preso parte in quella selvaggia imboscata. Conchiudeva, pregando il capitano Tibaldè d’indicargli l’ora della nostra partenza e di attenderlo per quell’ora all’albergo. In verità, non si poteva procedere più nobilmente, e il capitano Tibaldè, commosso al pari di tutti noi, rispose subito a quel leale soldato che i piemontesi erano pronti fin d’allora a’ suoi ordini. L’ordinanza francese accettò un bicchiere del nostro vino, prese il viglietto del nostro comandante, e partì. Non era più il caso di rimanere a tavola, ma di fare i nostri preparativi di partenza. Pagato lo scotto al locandiere, e la giunta dei danni arrecati al suo vasellame, ci restò appena tanto da pagare il nolo al padrone della feluca. A me, poi, non restava neanche più un ritaglio di tempo, per correre a San Paolo e dare un addio alla bella Adriana. Povero amor mio, sigillato a fuoco! Bisognava escir tutti insieme dalla locanda, andar serrati in colonna attraverso le vie della città, in mezzo ad un popolo ostile, ad una plebe aizzata contro di noi, fors’anche metter mano alle armi, e darne e buscarne, prima di raggiungere la calata del porto. Ero tutto stizzito, avevo un diavolo per occhio. Se fossi stato io il comandante, prima di andare al luogo d’imbarco, si sarebbe fatta una conversione a destra, fino a San Paolo, anche a risico di farci tagliare a pezzi sull’uscio dell’ospedale. Tanto, non c’era il pericolo di andarci egualmente, per farci rammendare gli strappi? Mentre stavamo per infilar le tracolle e per mettere i cinturoni al fianco, secondo i nostri gradi rispettivi, venne il comandante francese, e fu accolto da noi con tutto il rispetto di cui era degno. Il capitano Tibaldè voleva raccontargli l’accaduto e dimostrargli come noi, irritati dalla strana pretesa del cittadino rappresentante, e provocati dalle sue impertinenze, meritassimo davvero quella protezione che il valoroso soldato di Francia era venuto così nobilmente ad offrirci. — So tutto; — diss’egli, senza lasciarlo parlare; — un galantuomo, che per ragione d’ufficio aveva dovuto trovarsi nella comitiva del cittadino Tiravia, mi ha riferito ogni cosa. Ad un passaporto del generale Buonaparte e ad una capitolazione come la vostra, si ardisce di fare delle restrizioni? Ma io avrei voluto che foste tutti emigrati francesi, scambio di essere ufficiali del Piemonte. Che ci hanno da veder loro, in queste faccende? Il generale in capo dell’esercito d’Italia rappresenta qui il governo della Repubblica; dove egli dice «lasciate passare», a noi non resta che di presentare le armi. E poi, le insolenze non si sopportano, che diavolo! Avete fatto, bene; io, nel caso vostro, non mi sarei diportato altrimenti. Dunque, eccomi qua. Non ho forze disponibili per proteggere il vostro imbarco. L’ultimo battaglione che era in città l’ho avviato ieri a Cadibona. Qui non è rimasto che il numero d’uomini necessario per ricevere i feriti e provvedere alle sussistenze. Bella condizione, per un comandante di piazza, non è vero? Ma niente paura; si va egualmente alla marina e vi si mette a bordo. Un soldato francese è sempre abbastanza provveduto, quando ha la spada per compagnia e l’onore per guida. — Parole stupende, e che non erano quelle di un millantatore! Il degno uffiziale sostenne le sue nobili promesse coi fatti. — Siamo ai vostri ordini, comandante; — disse allora il capitano Tibaldè. — Andiamo, dunque; — ripigliò prontamente il francese. — Ho già mandato avviso al padrone del legno di tenersi pronto a partire. — In fondo alla scala il capitano Tibaldè si volse a noi, per farci un’utile raccomandazione. — Amici miei, non facciamo bravate, vi prego. Andiamo tranquilli e modesti, come pacifici borghesi a passeggio. Ci guardino pure in cagnesco; purchè non c’impediscano il cammino, noi dobbiamo andare per i fatti nostri, senza voltarci di qua o di là a raccogliere le ingiurie, a restituire le provocazioni. Siamo intesi? — Non dubiti, capitano! — rispondemmo. — Sarà obbedito qui, come in piazza d’armi. — E come a Cosseria; — soggiunse egli, tentennando malinconicamente la testa, al fresco e doloroso ricordo di una nobile sventura. Esciti sulla strada, incontrammo un gran numero di cittadini al largo della Concezione. Ma erano curiosi e non mostravano intenzioni ostili. Quasi tutti salutarono con molta urbanità il comandante francese, che procedeva a capo della nostra colonna. Così uniti, e rispettati da tutti, ci avviammo alla porta di San Giovanni. A que’ tempi non era ancora scavata nel fianco grigio di Monticello la breve galleria che mette oggi speditamente dal Fosso alla Marina; e noi, per giungere al luogo d’imbarco, dovevamo attraversare la città. Sotto l’arco della porta era una sentinella francese, che presentò le armi. Otto o dieci soldati di diversi corpi venivano incontro a noi; e, dopo averci fatto ala come tutti gli altri curiosi, ritornavano sui loro passi, in apparenza per seguitar la corrente, nel fatto poi per custodirci le spalle. Il comandante, pover’uomo, non aveva sotto la mano tanto di forze da comporre un drappello di scorta; ma si era affrettato a far correre la voce nell’ospedale, nel deposito delle sussistenze e dovunque fossero soldati suoi, che avrebbe vedute volentieri le uniformi francesi per le vie, nell’ora in cui dovevano passare i difensori di Cosseria, avviati al luogo d’imbarco. I soldati avevano capito a volo; a taluni era giunto anche all’orecchio qualche cenno del tafferuglio avvenuto alla locanda della Posta. Perciò accorrevano tutti alla spicciolata, stavano a vederci passare e si collocavano tosto alla coda del cortèo, segnando il passo, come fanno i ragazzi dietro ai concerti militari, e senza aver l’aria di venire in nostro sostegno. Per altro, anche quella incominciava a parermi una precauzione inutile del comandante di piazza. Lungo la strada di San Domenico molta gente si affacciava sugli usci delle botteghe, per vederci passare, ma non c’era alcun segno di fermento nel popolo. All’angolo dell’Annunziata, dove io mandai un’occhiata ed un sospiro verso l’ospedale di San Paolo, stavano in fila quindici o venti cittadini, che non mostravano affatto intenzioni ostili a noi, e che anzi salutarono cortesemente il bravo ufficiale francese. Nella Fossavaria, lunga e stretta contrada, tutta fiancheggiata di bei palazzi antichi, che avrebbero guadagnato un tanto ad essere cinque metri più indietro, la popolazione si vedeva pigiata nel vano degli usci, sulle soglie delle botteghe, ai davanzali delle finestre, in atto di guardare, ma senza alcuna voglia di gridare contro di noi. Quella era, insomma, la gentil Savona, la colta e garbata città che voi conoscete, e «del ligustico mar gemma seconda» come l’hanno chiamata pochi anni fa in un sonetto, stampato, se non m’inganno, per l’inaugurazione della sua civica biblioteca. — Guardate che disdetta! — andavo borbottando tra i denti. — Se non erano le paure di questo comandante, potevo andare a San Paolo ed esser già di ritorno. Addio, bella Adriana! — A San Francesco, nobile quadrivio della vecchia Savona, fummo salutati da un gran numero di persone civili, che si mossero volonterose e fecero schiera con noi. Così rinforzati scendemmo verso la piazza Colombo, o della Canapa, come più comunemente si dice, che ha da un lato il palazzo della Dogana e nel fondo la calata del porto, con la sua selva di antenne. Laggiù c’era calca di popolo minuto; di laggiù venivano voci minacciose. — Ci siamo! — disse il capitano Corte, voltandosi a noi, che chiudevamo la marcia. — Amici stringete il passo, e andiamo in colonna serrata. — Al nostro apparire sul largo della calata, crebbero le grida e incominciò a volare qualche sasso. Ci fermammo, vedendo fermarsi il comandante di piazza. Ma questi, facendo una conversione a destra che noi non dovevamo seguitare, andò risolutamente incontro ai rivoltosi. — Cittadini! — gridò egli severo. — Lasciate passare i soldati piemontesi. Essi hanno fatto bravamente e lealmente il loro dovere; fino a tanto che non siano restituiti alle loro case, sono affidati alla guardia della Repubblica francese. — La moltitudine si era fermata, non comprendendo bene la lingua del comandante di piazza, ma intendendo benissimo che egli non amava punto la sassaiuola. Uno, per altro, non la intendeva così, ed era per l’appunto quegli che aveva condotto laggiù tanta gente, incitandola contro di noi. Al viso enfiato e ancora sanguinante dalla rottura del piatto che gli aveva scagliato il conte Olignani, riconoscemmo il cittadino Tiravia. Anch’egli si fece avanti baldanzoso, e così ribattè le nobili parole del comandante di piazza: — La Repubblica francese non protegge gli emigrati, e non si lascia insultare dai loro amici. Essa protegge i buoni patrioti e dà loro facoltà di vendicare gli oltraggi ricevuti. — Che discorso è questo? — replicò il comandante inasprito. — Chi parla in nome della repubblica francese? Essa, per il momento, in Savona, è rappresentata da me. Vi comando di rispettarla. — Noi vi rispettiamo, cittadino comandante; — rispose quell’altro. — Vogliamo dare una lezione agli ufficialetti del Piemonte, agli aristocratici, ai degni puntelli della tirannide. Voi non avete sofferto, come noi, delle loro angherie. — Come voi e più di voi ha sofferto la Francia, e si è lealmente vendicata; — disse il comandante. — Lasciate a lei la cura di far giustizia anche in Italia. E per ora, indietro! — Così dicendo, il comandante si volse a noi, per invitarci a seguirlo sulla calata. Ma le grida della moltitudine ripigliarono allora più forti, volarono i sassi da capo, e qualcheduno dei gentili cittadini che ci accompagnavano ne fu sconciamente ferito. Avremmo sopportato, se non si fosse trattato che di noi; ma non volevamo che un atto di umanità costasse la vita a tante brave persone. Perciò, vedendo che quei furiosi si serravano addosso alla nostra piccola schiera, tentando di romperla a di prenderla in mezzo, mettemmo mano alle sciabole, alle baionette, e caricammo all’arma bianca, come avremmo fatto un’ultima volta a Cosseria, se ancora fossimo stati lassù, e non al punto d’imbarco. La moltitudine, che il cittadino Tiravia ci aveva aizzato contro, era quasi tutta di ragazzi. E questi, com’erano i primi ad attaccare, così furono i primi a dare indietro, a fuggire, rovesciandosi sulle ultime file e trascinandole nella loro medesima fuga. Contento di quella dimostrazione, e vedendo il cittadino Tiravia che fuggiva più presto degli altri, il comandante di piazza collocò tra noi e quella gente i soldati francesi che ci avevano seguitati, e ci condusse speditamente alla feluca, il cui capo di banda, molto basso, si appoggiava alla calata e poteva essere facilmente scavalcato. Quella operazione durò forse un minuto. La folla se ne avvide, mentre si stava riordinando più lungi, e volle ritornare all’assalto. I cortesi cittadini, che ci avevano accompagnati fin là, si erano intromessi, e con le loro esortazioni tentavano di calmare quell’energumeno Tiravia. Ma, egli che oramai non temeva più una seconda carica all’arme bianca, respinse ogni mite consiglio, e la folla incitata da lui alla riscossa, rovesciò quelle brave persone che cercavano di frenarla, soverchiò i pochi soldati francesi che avevano fatto argine ad una certa distanza dal punto d’imbarco, e venne ad assaltarci più inferocita che mai. La feluca di padron Cabotto aveva sciolto il provese. I marinai poggiarono forte coi remi contro gli orli della calata, e quella spinta gagliarda bastò perchè il nostro legno, che era leggerissimo e pescava assai poco, si allontanasse di lancio una diecina di metri. Il cittadino Tiravia doveva appiccare la sua voglia all’arpione. La moltitudine inviperita seguitava a vociare, a mostrarci i pugni, a scagliarci improperii e sassate. Ma la gran vela latina incominciava a prendere il vento e secondava il lavoro dei remi lunghi, usati a gran forza da quattro marinai, per condurre il legno sulla imboccatura del porto. I furibondi non potevano nulla contro di noi, e il comandante di piazza, ritto ed impavido sul ciglio della Marinella, ci salutava con la mano, augurandoci il buon viaggio. Tutto ad un tratto vedemmo un lampeggio sulla riva, e cinque o sei palle fischiarono in aria. Erano i meglio armati della folla, che scaricavano contro di noi le loro pistole. Ma essi avevano mirato troppo alto, e i loro colpi non ci cagionarono maggior male delle loro imprecazioni. Avanti la feluca! Avevamo oltrepassata la gran torre del porto, e salutata la bella immagine del Tempo, dipinta a buon fresco sotto la sua merlatura. Pochi minuti dopo eravamo in vista di Albissola, e, serrando il vento, che spirava piuttosto gagliardo da tramontana, andammo a forza di vele sotto il capo di Celle. CAPITOLO XVI. Piccola Odissea. Padron Cabotto, armatore e comandante della feluca su cui avevamo preso imbarco, era un vecchio lupo di mare, che da cinquant’anni almeno batteva la costa. Qualche volta si spingeva da levante fino a Viareggio, qualche altra da ponente fino a San Remo, ma per solito andava a Genova, carico di terraglie savonesi, o di pentole d’Albissola. Faceva insomma il piccolo cabotaggio, ignorando probabilmente la relazione etimologica che esisteva tra il suo nome e l’ufficio, ignorando sopra tutto di appartenere ad una stirpe di famosi navigatori, che l’Inghilterra e la Francia si attribuivano a gara. Vecchio ed amico delle vecchie istituzioni, che non gli avevano mai proibito di navigare con ogni vento, nè di apprender voti o regalar libbre di cera a Santa Lucia, patrona del suo legno e guardiana del porto di Savona, padron Cabotto non poteva veder di buon occhio i furibondi che ci avevano data la caccia, e li chiamava liberamente mascalzoni, non risparmiando al rappresentante del popolo il nome di affamato, ma soggiungendo o premettendo sempre la formola rispettosa: «con loro buona licenza.» Ne ridevamo, noi altri, ignorando dal canto nostro che quel titolo di affamato lo regalavano allora gli abitanti della marina ai loro vicini e consanguinei d’oltre Appennino; donde la necessità di chiederci scusa, ogni volta che gli veniva in taglio di applicare il solito dispregiativo al cittadino Tiravia. Gentilissimo con noi, padron Cabotto ci offerse di assaggiare il cappone di galera, strana vivanda di biscotto inzuppato con olio ed aceto, a cui si mescolavano capperi, acciughe ed olive in salamoia. Era il piatto dei marinai, che s’alternava allora con lo stoccafisso nei due pasti quotidiani di bordo, e a noi parve detestabile senz’altro, forse perchè gli mancava il condimento della fame di Cosseria, e noi eravamo caldi caldi di un buon pranzo alla locanda della Posta. Il qual pranzo.... Ahimè, come debbo io esprimermi, per farvi intendere tutti gli affanni e le angosce che ci costò prima di sera? Tranne il cavalier Buonadonna, isolano di Corsica, eravamo tutti piemontesi, cioè nati dentro terra, e quelle onde verdastre che non istavano mai ferme, se ci avevano rallegrati da principio come una graziosa novità, riuscivano poi ad intronarci la testa e da ultimo a rivoltarci lo stomaco. Aggiungete che con quel battere continuo dei marosi contro il fianco del naviglio non potevamo tenerci ritti in coperta, e che quando eravamo sdraiati ci pareva di tornar bambini in fasce e di essere cullati dalla balia. Io, come permettevano le fisiche sofferenze, mi rifacevo spesso alle sofferenze morali, e pensavo alla bella Adriana. L’avevo perduta, irremissibilmente perduta, e dopo aver tanto lavorato, con arte sopraffina, per ravvicinarmi a lei! Perchè, veramente, quell’alzata d’ingegno del viaggio a Savona era stata mia, e tanta scaltrezza e tanta fortuna, senza giovare a me, erano tornate a danno di tutti. Avevamo corso il rischio di farci accoppare per le vie di Savona, e là, su quel mobile elemento, sostenevamo una nuova battaglia, di cui doveva soffrire il nostro stomaco, ma più ancora il nostro orgoglio militare, davanti ai quattro marinai della feluca, i quali andavano da poppa a prora e tornavano da prora a poppa, dondolandosi sulle gambe inarcate e non perdendo mai il loro centro di gravità. Adriana! Adriana! La _Santa Lucia_, girato il capo di Celle e oltrepassata la spiaggia di Verazze, costeggiava le balze rocciose e biancastre d’Invrea. Non si vedeva più, come prima, nereggiare da ponente la fortezza di Savona, e a me, sparito appena dall’orizzonte il profilo di quel vecchio castello, pareva di essere spiccato per sempre dalla donna dei miei pensieri, di affondarmi nelle regioni iperboree, di andare agli antipodi, in un mondo senza luce, senza calore, senz’aria. Frattanto, alla tramontana fresca rispondeva un vento gagliardo di mezzogiorno, contrasto non raro nel golfo ligustico: e il mare, di agitato che era sul capo di Albissola, diventava furioso davanti alla costa rocciosa d’Invrea. Vedevo il mare per la prima volta, e quei flutti mobilissimi, del color dell’acciaio, coronati di creste bianche, mi parevano animati, tanta era la rabbia con cui muovevano l’uno contro l’altro, tanto l’accanimento con cui si azzuffavano, rompendosi nel cozzo e distruggendosi a vicenda. E quei marosi enormi, che andavano impetuosi a frangere nelle scogliere del lido, levando in alto le candide spume, come facevano parer piccoli i nostri sdegni umani davanti a quelli del mare! Il matematico vede le forze motrici in atto, le masse moltiplicate per le velocità, calcola le resistenze, trova gli angoli, le curve, e tante altre diavolerie di quella fatta, con cui si sciolgono tutti i problemi della dinamica; il modesto osservatore non vede che gl’impeti, e immagina le guerre dei flutti, le collere di un popolo di mostri. Un soldato di Cosseria, davanti a quei cavalloni che d’ogni banda incalzavano su noi con le fauci aperte e spumanti, doveva pensare che fosse meglio aver da respingere un quarto assalto di tutta la divisione Augereau. — Perchè non cerchiamo di tirarci più in fuori? — chiese il cavalier Corte a padron Cabotto. — Ho sempre sentito dire che al largo si naviga meglio. — Eh, signor capitano! — rispose il vecchio lupo di mare. — Non dico veramente di no ma ci vorrebbe un altro legno, e sopra tutto un altro timone. Qui, sotto alla costa, abbiamo il mezzogiorno, che ci dà noia; più al largo avremmo anche la tramontana, che si farà più gagliarda quanto più andremo verso notte. Piacerebbe a lei di barattare l’approdo di Genova con un naufragio a capo Corso? — No, davvero; — disse il mio capitano; — preferisco l’approdo a Genova, poichè voi ce lo promettete. — Quanto a promettere, lasciamola lì, — replicò padron Cabotto. — In terra, alle nostre gambe comandiamo noi soli; in mare comandiamo noi, comanda il vento, e comanda qualche volta il timone, quando non vuole obbedire. — Il mio capitano, che durava già molta fatica a discorrere, come a tenersi ritto, non ribattè parola, e padron Cabotto, che doveva stare attento alla barra, non aggiunse più altro alle sue profonde considerazioni. Eravamo giunti in vista di Cogoleto, che è una delle sette patrie di Cristoforo Colombo. Di là da Cogoleto ci aspettava la gola del Leirone, con un refolo diabolico, che fece scricchiolare l’antenna e piegar la feluca sul fianco. — Padron Cabotto! — disse il cavalier Corte, dopo essersi aggrappato ad una caviglia del capo di banda. — Se non si può andare in alto, stringiamoci alla terra. A questi giuochi d’equilibrio non si regge. — Un po’ di pazienza! — rispose quell’altro. — Val meglio fare un po’ di ginnastica qui, che andare a rompere nei frangenti della costa. Vedrà, del resto, che sotto il promontorio di Arenzano il vento ci darà un po’ di respiro. — Così avvenne di fatti. Passato il Leirone, e venuti a ridosso della pineta di Arenzano, il legno si raddrizzò; poscia, serrando il vento di mezzogiorno, corse in una sola bordata fino alla spiaggia di Voltri. Ma laggiù doveva essere un altro guaio; per lungo tratto di mare, davanti a noi, non si vedeva che spuma. — Diavolo! — esclamò il mio povero capitano, levando gli occhi dal capo di banda. — Quella è peggio del diavolo; — rispose padron Cabotto, — è la suocera. — Come sarebbe a dire? — Sicuro, la suocera che litiga con la nuora. Qui la discordia è come in casa sua. — Il cavalier Corte ed io non intendemmo che a mezzo il linguaggio figurato del vecchio marinaio. Solamente più tardi io dovevo sapere che i liguri chiamano Suocera la Cerusa, torrente e valle omonima, a ponente di Voltri. Ma fin d’allora, mentre la _Santa Lucia_ era costretta a passare in mezzo a quel diavoletto, capii che il nome volgare di Suocera non poteva esser meglio applicato. Del resto, Suocera più, Suocera meno, ogni gola di quei monti ci mandava la sua ràffica, e fra mezzogiorno e tramontana si faceva un ballo continuo. Nelle acque di Voltri bisognava prendere il largo, per andare con due o tre sapienti bordate ad infilare la bocca del porto di Genova. Ma il contrasto dei venti era più forte che mai; padron Cabotto, fermo alla barra, batteva le labbra e scuoteva ad ogni tanto la testa. — Boridda, — diss’egli finalmente, rivolgendosi ad un vecchio marinaio che vigilava alla scotta, — non vorrei mica pagare il pedaggio al gatto mammone! — Eh, padron Cabotto! — rispose quell’altro, con accento malinconico e calmo. — Questa è la volta che si bacia! — Per intendere questa celia vernacola, non basta sapere che il gatto mammone è una grossa scimmia; bisogna ricordare che _Gatto maimone_ si chiamò volgarmente, nel Medio Evo, un feroce corsaro, forse Gaid el Memun, saraceno di Spagna, che diede gran noia ai genovesi sul mare. L’assonanza del nome mutò facilmente l’uomo in bestia; la fantasia popolare, dopo che ebbe compiuto il prodigio, diede alla bestia un alloggio conveniente al passo della Lanterna, e finse che per entrare in Genova bisognasse pagare al _Gatto maimone_ un pedaggio; curioso pedaggio, che levava ai fanciulli di Liguria la voglia di andare alla metropoli, poichè si diceva loro che, prima di entrare in città, dovessero baciare quella brutta bestia; e non sulle gote, pur troppo. Ora che avete inteso la mia spiegazione, sentite quella di padron Cabotto. Il vecchio lupo di mare (bisogna sempre dir così, quando si parla di un marinaio) si volse al capitano Tibaldè, che stava seduto a piè dell’albero, in mezzo ad un crocchio di ufficiali, e gli disse: — Signor comandante, per guadagnare il porto di Genova, sarà necessario prendere una bordata in fuori. Ma, a dir le cose come stanno, con questa mareggiata, io non rispondo di nulla. — Che pericolo ci vedete? — chiese il capitano Tibaldè. — Eh, per dire le cose come stanno, ce ne vedo parecchi; quello, per esempio, di lasciarci la tela, e l’altro più grave, di farci spezzare la barra del timone. E allora come si governa? L’uomo in terra, il timone in mare, e Dio da per tutto. Ora, se il timone ci manca e Dio non ci assiste, mi par già di vedere questa povera feluca nella scogliera della Lanterna. — Diamine! E che cosa proporreste di fare? — Di agguantar Pegli, signor comandante; — rispose padron Cabotto. — A Pegli c’è buona spiaggia, e noi portando la _Santa Lucia_ un miglio più sotto, avremo anche meno contrasto di mare. Vede quel fortino laggiù, sulla destra del paese? Girato quello, si mette la prora in terra e il mare stesso ci porta. Che gliene pare? — Fate quel che credete meglio; — disse il capitano Tibaldè. — Voi ne sapete più di noi. Mi rincresce soltanto di non poter andare a Genova. — Capisco, ma come si fa? Per girar la punta della Lanterna, con questo tempaccio, e mettendo che ci riesca, ci vorranno due ore, fors’anche tre. Da Pegli, per la via di terra, in un’ora di marcia, si può arrivare in città, e senza pericolo. — Vada per Pegli; — disse il capitano Tibaldè, con grande consolazione di tutti noi, che avevamo lo stomaco affranto e la testa intronata dal mal di mare. Padron Cabotto non se lo fece dire due volte, e affrettò a dare i comandi per quel cambiamento di rotta. Tirato un bordo in alto, verso il Deserto di Sestri, la _Santa Lucia_ girò sul fianco verso sinistra, mettendo la prora tra il fortino di Pegli e la foce della Varenna. La povera feluca ballò per un pezzo il trescone sui flutti; finalmente arrivò in acque meno sconvolte, ed entrata a ridosso del fortino, potè gittare il provese ai pescatori che si erano affollati sulla spiaggia. — Avete fatto bene a prender terra; — dicevano tutti. — Questa notte vuol essere una tempesta da romper le ossa a più d’uno. — Non era facile afferrare la spiaggia, con quelle ondate lunghe che coglievano la poppa del naviglio, facendolo girare di qua e di là, e allontanando ad ogni tratto il burchiello che i pescatori avevano messo in acqua per noi. L’operazione del trasbordo fu lunga e pericolosa parecchio, non essendo noi avvezzi a sostenerci in aria con le funi, mentre il mobile appoggio di uno schifo si sottraeva al nostro piede, proprio sul punto che eravamo per raggiungerlo. Come Dio volle, in un’ora di stenti, e dopo qualche tuffo a mezza vita nell’acqua, ci ritrovammo tutti sul lido, ma stanchi, rifiniti, più morti che vivi, così debole era in noi la volontà e così fioco il pensiero. Altro che andare a Genova! Era notte, del resto, e bisognava pensare a trovarci un ricovero. — Povera gente! — dicevano i pescatori. — Dove alloggiarli? Hanno bisogno di confortarsi lo stomaco e di passare la notte al caldo. — Al convento dei Cappuccini! — propose uno di loro. — Non c’è che il convento dei Cappuccini, che possa avere alloggio per tutti. — Guidati da quei bravi Pegliesi, ci trascinammo al convento dei Cappuccini. Udito il caso e riconosciuto facilmente il nostro bisogno, quei frati ci accolsero con molta amorevolezza, ci condussero a riscaldarci presso una buona fiammata e ci prepararono un’ottima zuppa. Eravamo in venerdì e non poteva esser zuppa di brodo; ma a stomachi vuotati dal mal di mare e sorpresi dal freddo di quella serata tempestosa, non poteva apparir differenza tra la zuppa e il pancotto. Un bicchier di vino e sei ore di sonno sulla paglia finirono di restaurarci. La mattina seguente, ci parve di esser tutt’altri da quelli della sera innanzi. Fatto quel po’ di pulizia che potevamo lassù, mangiato un tozzo di pane e bevuto un bicchier d’acqua, ringraziammo quei buoni Cappuccini e ci rimettemmo in viaggio. Passavamo per luoghi amenissimi, in mezzo a ville sontuose, che ci davano una prima idea della grandezza genovese. Multedo, Sestri, il Deserto, Corneliano, che pezzi di paradiso! Ma noi si correva come cani frustati; quelle delizie non erano per noi, poveri viandanti stranieri, che dovevamo recarci a Genova, per prendere la via del Piemonte, e pensavamo con angoscia ai pochi soldi rimasti nelle nostre tasche, insufficienti a farci vivere per mezza giornata. Ma infine eravamo giovani; la fortuna non aveva l’obbligo di aiutarci? A Corneliano, proprio sull’estremo confine del paese, ci fermammo qualche minuto ad ammirare un gran palazzo giallo, il più grande che avessimo veduto mai, dopo il palazzo Reale di Torino. Un vecchio signore, che faceva la sua passeggiata mattutina nel piazzale, ci vide e si accostò al cancello per chiedere chi fossimo e se egli potesse servirci in qualche cosa. Rispose per tutti noi il capitano Tibaldè. E lì, di discorso in discorso, il vecchio signore, che già aveva fatto aprire il cancello e ci aveva invitati ad entrare nella sua villa, venne a riconoscere nel nostro comandante il figlio d’un gentiluomo piemontese, da lui molto conosciuto a Torino. — Molto belle ore ho passato in compagnia del conte di Rolasco; — diss’egli. — Quando sarete di ritorno a Torino, signor cavaliere, vogliate salutarlo a nome del marchese Durazzo. Per intanto, non sarà detto mai che tanti valorosi uomini siano passati davanti a casa mia, senza onorarla di una loro visita. — E ci tirò dentro, con quel suo garbo signorile, e ci fece passare due ore bellissime. Noi ammirammo la sua villa principesca, che si stendeva per lunghi viali, fiancheggiati di querci, fino alla riva del mare e alla sponda destra della Polcevera; visitammo nel sontuoso palazzo una ricca biblioteca e una strana collezione di animali; da ultimo sedemmo alla tavola imbandita per noi, rendendo piena giustizia alla cucina, ed anche alla cantina dell’egregio marchese. Le oneste accoglienze di casa Durazzo ci tornarono di buon augurio. Dice un vecchio proverbio che chi ride in venerdì piange in domenica. Noi, il venerdì, avevamo passato una cattivissima giornata. Il sabato incominciava bene; la domenica doveva esser magnifica. Il degno gentiluomo volle ad ogni costo farci accompagnare a Genova da uno de’ suoi camerieri, per agevolarci l’entrata e servirci in ogni nostro bisogno. Sarebbe venuto egli stesso, se ragioni di famiglia non lo avessero trattenuto laggiù. Preso congedo da lui, ci avviammo per il bellissimo ponte della Polcevera, che quattro anni più tardi doveva acquistare una fama europea dalla capitolazione del generale Massena, e dopo un’altra passeggiata in mezzo ad alti cancelli di ville patrizie e di palazzi monumentali, giungemmo al passo della Lanterna, che la Serenissima Repubblica genovese non aveva mai voluto allargare, e che offriva allora l’aspetto di una viottola campestre. Forse i reggitori di Genova erano stati consigliati a ciò dalle ragioni della difesa militare, forse da quelle, non meno forti in anime liguri, del rispetto alle consuetudini antiche. E certamente le une e le altre concorrevano a produrre un effetto stupendo. Accessibile a stento per quella viottola, che in tempo di guerra poteva essere facilmente difesa e magari anche colmata, la città dominante di Liguria, coperta dalla balza rocciosa di San Benigno e dal balzo della Lanterna, appariva inespugnabile per i mezzi d’attacco di quei tempi. Inoltre, varcata quella stretta, senza pagare il favoloso pedaggio al gatto mammone, riuscivate alla porta vecchia della Lanterna, donde vi si parava davanti agli occhi la scena meravigliosa della grande città, disposta ad anfiteatro sulle colline, intorno allo specchio azzurro del suo porto, protetta da una vastissima cerchia di mura e di forti, e chiusa a levante dalla lunga collina d’Albaro. La regina del Tirreno ci accolse con la cortesia tranquilla e maestosa che è sempre stata nelle sue consuetudini. I patrizi, poco amici dei re di Sardegna, che già qualche volta avevano tentato d’impadronirsi della vecchia repubblica oligarchica, ma niente affatto persuasi della libertà francese, che ancora sapeva di sangue e d’anarchia, vedevano volontieri i difensori di Cosseria, che avevano saputo resistere per due giorni al vincitore di Montenotte. Il popolo, già in parte guadagnato dalle nuove idee, ma sempre costante negli usi del vecchio reggimento, non poteva venir meno alla sua fama di schietta cordialità. I genovesi hanno il far largo, come tutti quelli che son nati signori. Mi si dice che qualche volta amino beccarsi tra loro, e, se la cosa e vera, si può dire che proseguono le tradizioni della loro medesima storia, e non copiano niente da nessuno. Ma è certo altresì che coi forastieri sono molto buoni e nobilmente liberali, secondo il vecchio costume. Non parlerò dei signori, di coloro che potevano usarci cortesia senza sforzo, e che diffatti ci furono larghi di generose profferte; dirò invece dei modesti abitanti di Prè, del Molo vecchio e d’altri quartieri popolari, ove tutti c’invitavano a gara, e volevano sempre condurci a bere, senza lasciarci metter mano alla tasca. È anche vero che nelle nostre borse noi avevamo frugato invano, e che presto ci avvezzammo a non fare neanche l’atto di cercare i quattrini. Ricordo che in una via stretta e popolosa, tra il piano di Sant’Andrea e la piazza di Sant’Agostino, mi ero fermato a guardare certe melarance di Sicilia, molto appariscenti e tali da far venire l’acquolina alla bocca. La fruttaiuola, giovine bella e cortese, rivolgendomi il discorso in italiano, mi offerse di scegliere nel suo canestro, e non fu contenta finchè non mi vide accettare almeno una coppia d’arance, le più vistose e le più colorite del colmo. Non chiesi il suo nome, per mandarle almeno un ringraziamento; non seppi più nulla di lei; ma ne ho sempre conservata una dolce memoria nell’anima. Se ci rivedremo un giorno nelle isole Esperidi, le dimostrerò tutta la mia gratitudine e fors’anche le potrò rendere la pariglia, spiccando per lei dall’albero più gelosamente custodito la ciocca più colorita e più fitta. Ma io andrei troppo per le lunghe, se dovessi qui raccontarvi partitamente ogni atto cortese di quei nobili genovesi. Alcuni egregi cittadini, saputo che noi eravamo affatto sprovveduti di danaro, e che per mero impulso di gentilezza verso il generale Buonaparte avevamo proposto di restituirci in Piemonte per la via di Liguria, ci offersero ragguardevoli somme. Il capitano Tibaldè non volle accettare che il danaro strettamente necessario per il nostro viaggio da Genova a Torino, una quarantina di doppie, se non erro, che furono subito spartite fra tutti noi, e che il buon cavaliere Tibaldè e il conte Olignani s’impegnarono a restituire, a mala pena fossimo rimpatriati. Ma qui, per non averlo a dimenticare nel corso del racconto, soggiungerò che quella somma non ebbero a restituirla i due generosi ufficiali. Il re di Sardegna, saputa la cosa, si affrettò egli stesso a far rimborsare puntualmente il gentil genovese che l’aveva fornita, non senza aggiungere alla restituzione la testimonianza della sua gratitudine particolare. Tre giorni dopo, eravamo a Torino. E là, consegnato al comando militare il protocollo della capitolazione di Cosseria, avemmo parole di lode, a noi più care di ogni ricompensa, e libertà di restituirci alle nostre case, poichè le condizioni della resa non ci permettevano di servire per un lungo spazio di tempo contro l’esercito repubblicano di Francia. Io partii subito per Mondovì, e là, nel seno della famiglia, tra le affettuose dimostrazioni dei congiunti e degli amici, mi consolai degli affanni patiti. Ma non di una pena più acerba, che mi durava nel profondo del cuore. Dopo una settimana di riposo, io non reggevo più dall’idea di star chiuso laggiù. Il mio spirito varcava i monti delle Langhe, scendeva alla marina, guizzava per le corsie di un ospedale, cercando una immagine cara, sperando una felicità che mi era tanto necessaria quanto più mi sfuggiva. Il tormento del desiderio mi divenne ben presto insopportabile. Un giorno, che fu il 28 aprile, corsa appena la voce dell’armistizio di Cherasco, mi presentai al comando francese di Mondovì, e chiesi ed ottenni un passaporto per Savona. Il giorno seguente ripassavo sotto le rovine di Cosseria, e non mi bastò l’animo di salire sulla costa memoranda, dove tanti valorosi dormivano il lungo sonno della morte. I borghi di Carcare e di Altare ospitavano ancora molti feriti, francesi, piemontesi ed austriaci, ma la più parte convalescenti, e già in volta coi loro bastoncelli per le vie, sulle piazze, o lungo le poetiche rive della Bormida. Al tiepido soffio di primavera rinasceva la natura, e in mezzo al suo verde rifioriva la vita. Quello spettacolo mi parve di lieto augurio per la salute di Adriana, a cui sempre ricorreva il pensiero, sulle famose ali del desiderio. Giunsi poco prima del mezzogiorno a Savona, col cuore pieno di speranza e di allegrezza. Ero in abiti civili, che dovevano rendermi irriconoscibile anche al cittadino Tiravia, se pure quell’alto personaggio avesse avuto tempo e voglia di osservare un povero sergente mio pari. Del resto, possedevo il mio bravo passaporto francese, e con esso mi presentai subito al comando di piazza. Il degno comandante, a cui esposi la mia qualità e il mio desiderio di visitare i feriti dell’ospedale di San Paolo, mi riconobbe tosto e volle sapere da me, insieme con le notizie dei miei compagni, tutti i particolari della piccola nostra odissèa. Egli, dal canto suo, mi raccontò di aver rimesso a posto il cittadino Tiravia. Il giorno dopo la scenata del porto, gli erano giunte parecchie compagnie di soldati da Nizza, ed egli, fatto forte da quel po’ di presidio, aveva mandato il troppo rumoroso rappresentante a dar rappresentazione altrove della sua dignità improvvisata. — Noi vogliamo distribuire i benefizi della libertà a tutti i paesi d’Europa; — mi disse in quella occasione il bravo comandante; — ma in Francia, e dovunque, il tempo dei matti furiosi è finito. — Ottenuto un permesso in iscritto, mi congedai da quel gentilissimo ufficiale, e corsi all’ospedale di San Paolo. Con che cuore mi accostassi a quel luogo, immaginatelo voi. Il soldato di guardia vide il permesso del comandante e mi accennò la scala, che era in fondo al vestibolo. Feci i quindici o venti gradini in un attimo, e trovai sul pianerottolo un custode, che mi condusse dal capo infermiere, ultima autorità a cui dovevo presentarmi per essere introdotto nell’ospedale. Il capo infermiere lesse il foglio del comando di piazza, e, mentre mi accennava di entrare nella sala di ricevimento, disse ad uno de’ suoi uomini che passava in quel punto dal pianerottolo: — Scendete in giardino e chiamate madamigella Adriana. C’è qualcheduno che domanda di vederla. — Come? — esclamai. — È già alzata? — Sì, da quattro giorni; e ieri ha incominciato a fare qualche passeggiata in città. — Ah, sia lodato il cielo! — gridai. — Ecco una guarigione miracolosa. — Il capo infermiere non potè trattenersi dal ridere. — Ignorate il meglio; — mi disse. — I francesi guariscono tutti, qua dentro. — Non era il caso di ricordare che io ero piemontese, e che nell’ospedale di San Paolo ci potevano essere dei feriti piemontesi. — E come va, questa faccenda? — domandai. — La vittoria è una gran medichessa; — rispose il capo infermiere. — Si è potuto dire ai feriti che il generale Buonaparte marciava su Cherasco, di vittoria in vittoria, che il re di Sardegna aveva dovuto chiedere un armistizio, e le piaghe si sono cicatrizzate di prima intenzione. — CAPITOLO XVII. Scuola d’amore. Il capo infermiere mi avrebbe sciorinata una teorica compiuta intorno alla influenza della vittoria sulla guarigione delle ferite, se non fosse stato interrotto dall’arrivo di Adriana. Io riconobbi il passo leggiero e svelto di lei, che era giunta allora sul pianerottolo, e subito dopo udii la sua voce argentina. — Chi mi chiama? — diceva ella al custode. — Un giovane cittadino, che è venuto con un permesso del comando di piazza; — rispose il custode. — Forse è un parente, cittadina. — Che! — replicò ella. — Io non aspetto parenti. — Ed apparì allora nel vano dell’uscio, dove fu trattenuta dal capo infermiere che ritornava alle sue faccende. — Buon giorno, cittadina; — le disse costui. — Si va di bene in meglio? — Come vedete, Roland. Ieri ho fatta una lunga camminata verso il mare. Sono anche entrata in un bel giardino, dove mi hanno regalato un mazzo di fiori. Oggi, dopo la zuppa, ci ritorno. Fa così bene passeggiar tra le siepi fiorite! — Benissimo! Fortificatevi, cittadina Adriana; — riprese il capo infermiere. — Vi lascio col vostro visitatore. — Io la guardavo, tutto confuso e palpitante, cercando e non trovando la frase, con cui attaccare il discorso. Ero colpito in una nuova maniera dalla sua gentile figura, che mi pareva tutt’altra da quella che avevo veduta ed amata sul colmo di Cosseria. Era sempre Adriana, con le sue belle fattezze, co’ suoi capegli biondi, la sua voce melodiosa e i suoi moti vivaci; ma, dopo tanti giorni di separazione, mi era diventata quasi straniera, e mi pareva di vederla allora per la prima volta. Era più bianca dell’usato, e ciò si poteva intendere facilmente, pensando che non faceva più la vita faticosa del campo; ma il suo aspetto non aveva punto sofferto, o si era prontamente rifatto dei danni patiti. Portava il braccio sospeso al collo e la testa leggermente inclinata sull’omero; ma quel nuovo atteggiamento la rendeva più bella, le conferiva una grazia incantevole. I capegli, non più coperti da quella berretta di panno, piantata alla sgherra, che dava un’aria così bizzarra al suo volto giovanile, mostravano tutta la loro pompa luminosa di oro filato. Per dirvi ogni cosa in poche parole, la vivandiera del reggimento era sparita: restava la vergine, e, se volete, anche la viscontessa Adriana. Io la vedevo benissimo, poichè ella, entrando nella sala, era colta in pieno dalla luce della finestra. Ma ella non vide in me che un profilo oscuro, poichè, rivolto verso di lei, davo le spalle alle luce. — Non mi riconoscete più, madamigella Adriana? — le dissi, con voce tremante di commozione. Ella si avanzò, guardandomi con gli occhi socchiusi, come se volesse accrescere in tal modo la sua potenza visiva. Inutile sforzo; io restavo un enigma vivente per lei. Allora mi avvicinai, tirandomi un poco da banda, per modo che la luce mi cogliesse nel viso, e soggiunsi: — Ebbene, madamigella? Non riconoscete ora il sergente piemontese di Cosseria? — Ah! — esclamò ella, sorridendo. — È vero. In quegli abiti borghesi non vi avrei più ravvisato. Che buon vento vi ha portato a Savona? — Il desiderio di saper vostre nuove, signorina. Son proprio felice di vedervi ristabilita e di sentire che siete già andata fuori, a passeggio. — Sicuro, e con che gusto! Mi pareva di rinascere. Ancora dieci giorni di questa vita, e ritorno al reggimento. — Ancora? — esclamai. — Che volete? È la famiglia; — mi rispose. — La famiglia! In mezzo a tanti uomini più disposti a riconoscere la bellezza che a rispettarla! — Non dite male dei miei compagni! — gridò ella, interrompendomi. — Nel reggimento mi amano e mi rispettano tutti egualmente. Non vi dirò che sui primi giorni fossero tutte rose; no, certo, ed io ho dovuto rimettere a posto più d’uno. Ma il soldato non ha che una brutalità superficiale; nel fondo è quasi sempre un buon ragazzo; risente della famiglia e delle sue oneste consuetudini, che ha lasciate da poco. Basta mostrargli di non voler essere per lui che una sorella, all’occorrenza una madre, e se ne fa quel che si vuole. Io amo il mio reggimento e ci sto bene; non ho più altro appoggio nel mondo e non voglio avere che quello. Se anche volessi cambiare, dove mi troverei più tranquilla e più sicura? Io lo domando a voi. — Rimasi perplesso, non volendo andar contro alla sua opinione. Ma mi premeva egualmente di ricondurre la conversazione ad un argomento più intimo, e ripigliai, dopo un istante di pausa: — Vi ricordate del giorno che ci siamo conosciuti? — Certamente; — mi rispose. — Un gran giorno, e faceva anche un gran caldo. — E allora, — soggiunsi, — voi mi davate del tu. — Ah sì! — esclamò ella, mostrandomi in un’allegra risata due file di candidissimi denti. — Mi avviene spesso di passar sopra a certe cerimonie. — Perchè non ci passate ancora? — Ma... Non saprei, veramente. Non siete più soldato. A proposito, e come va che avete abbandonato il servizio? — La capitolazione di Cosseria ha voluto così. Non posso più ritornare sotto le armi fino a che la mia parola non sia cambiata con quella di un sott’ufficiale francese, il quale si ritrovi nella mia stessa condizione. Ora, con l’andamento che ha preso la guerra, mi par difficile che un certo numero di francesi abbia a finire come noi di Cosseria. Per effetto di un semplice armistizio il generale Buonaparte è già diventato padrone delle nostre piazze forti. — Quell’uomo farà molto cammino; — disse Adriana. — Purchè sia fedele alla libertà, come la fortuna è fedele a lui! — La fortuna del generale Buonaparte e la causa della libertà mi premevano poco, in quel punto, e cercai un’altra volta di ravviare il discorso. — Dunque, — ripresi, — voi siete risanata; questo è l’essenziale. Ero tanto in apprensione per voi! — Perchè? Le palle piemontesi, come vedete, non fanno mica troppo male. — Ah, maledetta palla! — gridai. — Ecco un nobile sentimento; — diss’ella — Ma viene un po’ tardi! — Cattiva! — mormorai, chinando la testa fin presso al suo braccio. — Siete sempre in collera con noi? — Adriana levò la fronte e mi fissò addosso i suoi grandi occhi bianchi, che luccicavano come diamanti. — Scommetto, — diss’ella, — che siete venuto per dirmi delle sciocchezze. — No, davvero; — risposi. — E allora, sentiamo, perchè siete venuto? — Così dicendo, la bella Adriana fece l’atto di adagiarsi meglio sul canapè, e volse la faccia annoiata alla statua giallognola di un benefattore dell’ospedale, che decorava una gran nicchia, nella parete di rincontro. Io avrei dato non so che, per essere quel gentiluomo di marmo e non sentire la ferita che quella sdegnosa domanda mi faceva nel cuore. Ma quella domanda, sdegnosa o no, mi era stata rivolta; io non ero di pietra, dovevo farmi forza, e rispondere. — Son venuto per aver vostre nuove; — le dissi; — e un atto di amicizia come questo, se non è per avventura un gran fatto, non merita neanche il brutto nome che voi vorreste applicargli. Sceso coi miei compagni a Carcare, dopo la nostra capitolazione, e giunto alla presenza del generale Buonaparte, ebbi la fortuna di ottenere che noi ritornassimo alle nostre case per la via più lunga del mare, anzi che per quella dei monti. Vi avevo cercata in ogni ricovero di feriti; vi avevo seguita a Savona; speravo di vedervi qui, di conoscere il vostro stato, e di ritornarmene al mio paese con qualche speranza nel cuore. Un fatto disgraziato, di cui forse sarà giunto l’eco fino a voi, ci costrinse a partire tutti insieme, ad imbarcarci la sera medesima, senza concedermi il tempo di venire al vostro capezzale. Da Genova a Torino, da Torino a Mondovì, non ebbi più un momento di pace. Un aspro desiderio mi consumava, lontano da voi; volli ad ogni costo ritornare dove voi eravate, vedervi, sapere di voi, che avevo raccolta morente sotto i nostri ripari e consegnata ai vostri buoni compagni. Voi lo vedete, Adriana; queste non sono sciocchezze. — Ne promettono, per altro; — rispose ella, inflessibile. — Al sentimento dell’amicizia sarebbe bastata una semplice nuova, chiesta ed ottenuta per lettera. Perchè venire fin qua? Perchè volermi vedere ad ogni costo? — Perchè vi amo. — Ah! La vecchia storia? — È sempre nuova. Vi amo, come il primo giorno che vi ho veduta. — Ella si scosse, a quelle parole, e mi gittò l’elemosina d’uno sguardo. — È troppo poco, allora! — soggiunse. — Rammento di avervi chiesto qualche cosa, quel giorno. Ma il vostro amore, questo maraviglioso amore di cui oggi vi empite la bocca, era ben piccolo ancora! Eppure.... — Eppure?... Continuate! — Eppure, in quel punto, non so come, tu mi avevi interessato, _blanc-bec_! Avevo detto tra me: Ecco un ragazzo, che può essere il destinato. L’uomo che ama davvero, si conosce all’occasione, ed anche l’uomo che si dovrà amare; se costui fa un sacrifizio per me... se mi butta a’ piedi tutto quello che ha di più caro... — L’onore, Adriana! Non lo dimenticate; era il mio onore di soldato. — Ebbene? Ed io non ti davo in ricambio il mio di fanciulla? Non hai voluto, e tal sia di te. Non mi ricordare quel giorno; non toccar più quella corda, che rende mal suono. Oramai è finita. — Se l’aveste veduta in quel punto! Si era fatta pallida in viso, come una morta; le labbra scolorite tremavano; le pupille dilatate mandavano lampi. Dimenticato il luogo in cui eravamo, non vedendo che quello sdegno, non pensando che a quella dolorosa sentenza, mi buttai in ginocchio davanti a lei, tentando di afferrar la sua mano. — Oh, non parlate così, Adriana! — gridai. — Mi fate troppo soffrire. Il mio amore per voi non ha meritato questa severità di linguaggio. — Su, via! — diss’ella sottovoce, ma con accento imperioso, e levandosi a mezzo, per obbligarmi a ripigliare il mio posto. — Anche il vostro onore d’uomo potrebbe soffrirne, se qualcheduno vi vedesse. Ma torniamo al vostro onor di soldato. Sapete che è veramente grazioso? Scommetto che sareste capace, se le circostanze ve lo permettessero, di riprender le armi contro di noi. — Per la difesa della mia patria, senza dubbio! — risposi. — Ebbene, la vostra patria è liberata dalle nostre armi; ma domani potrebbe essere invasa da uno sforzo supremo dell’Austria, e tutti i germi di libertà che vi ha deposti la Francia rivoluzionaria potrebbero essere soffocati. Perchè non entrereste nell’esercito francese? — Sarebbe oggi una viltà; il Piemonte esiste tuttavia, e vive e regna a Torino il suo re. — Il Piemonte! Il suo re! Quanti giorni dureranno essi ancora? In verità, ecco un acciecamento singolare. Il tuo paese sei tu, che non leggi nel libro del destino, già aperto davanti all’Europa; che non senti la voce della gloria, chiamante all’armi ogni valoroso, per la conquista di tutti i diritti; che intendi soltanto le ragioni della servitù, della abiezione in cui sei nato e cresciuto. Il tuo re... Parliamone, del tuo re. Egli è il vassallo dell’Austria, che lo ha condannato alle sconfitte e sarà lieta di farlo sparire dal numero dei sovrani d’Italia. Non capisce nulla, il tuo re. Aborre la Francia, ed ha ricusata la sua alleanza, perchè, dice lui, la più vecchia dinastia d’Europa non può far patti con la rivoluzione, nè avere amicizie con la canaglia repubblicana. Ce ne sono, dei nomi illustri, ed antichi quanto il suo, che hanno accettata l’alleanza col popolo, che hanno abbracciati gli immortali principii della redenzione sociale. Il mio, per esempio; — soggiunse Adriana, levando superbamente la testa. — Ho sangue dei Montmorency nelle vene, e i Montmorency risalgono al diluvio. Invenzioni degli armeristi, sicuramente; ma di queste invenzioni son tessute le genealogie dei principi di corona come quelle dei loro ufficiali più illustri. Comunque sia, — conchiuse la bella ragionatrice, scendendo da quelle altezze vertiginose, ove io non avrei potuto seguirla, — vediamo il presente. È un tiranno, il tuo re. Ci vedi onore a servir la tirannide? — Il giuramento è sacro; — risposi. — Il giuramento! — replicò ella con piglio sarcastico. — Di qual giuramento mi parli? Il giuramento dello schiavo al padrone non tiene; la rivoluzione è passata e lo ha distrutto col soffio. La rivoluzione è la luce, è la giustizia, è la verità. Ribellarsi alla verità per difender l’errore, ecco il delitto e l’infamia. Questo avevo il bisogno di dirti, _blanc-bec_! Tu potevi ottenermi, quel giorno, e salvare anche la vita a tanti soldati della libertà. Invece, che cosa è avvenuto? Migliaia di preziose esistenze sono state mietute, e per giungere allo stesso risultato, alla resa! Ma infine, tu hai fatto ciò che hai creduto meglio, ed io sono ben sciocca a dolermi. Volevo dimostrarti soltanto che non era una gran fiamma la tua, e che male ti vanti oggi di un amore, il quale non ha saputo umiliarsi. Ma questo, non te lo avevo io già detto, lassù? C’era bisogno di dirtelo ancora? È vero, non ti è bastato allora; hai voluto una nuova lezione. Basterà finalmente? Sarà necessario offenderti, per guarirti di questa tua sciocca passione, che non sa vivere, nè morire degnamente? Ecco qua: sei ridicolo, non mi piaci, non voglio saperne di te. — Lo stato dell’animo mio, sotto quella pioggia fitta di amari sarcasmi e di superbi dispregi, non si descrive, s’immagina. Ella aveva detto bene pur troppo; la mia passione non sapeva nè vivere nè morire degnamente. E cercavo una via, e brancolavo miseramente nel buio. — Povero amor mio! — mormorai, singhiozzando. — Ed ero venuto a voi con tante speranze? — Torna indietro con quelle, o lasciale in un canto; è tutt’uno; — rispose ella, sdegnosa. — Vedete la pretensione di questo soldato! A quanti non è avvenuto di sperare invano? E che tesoro credevi tu di portarmi, con quel tuo carico di speranze? Va, piemontesino, va; tu non conosci le donne. Quanto era meglio per te il farti prete, e non sapere dei loro segreti se non ciò che t’avrebbero raccontato in confessione! Le donne, ragazzo mio, sono creature bizzarre, il cui modo di essere e di operare sfugge alle norme della vostra logica mascolina, rigorosa e meschina. Bisogna prenderle, quando vogliono concedersi; guai a non indovinare, a non saper cogliere il punto! C’è tale che le ha, e non le possiede, e non le possederà mai intieramente; perchè questo è il diritto, questa è la difesa dei deboli: di poter chiudere il cuore, di poter suggellare e sottrarre ai profani, ai violatori prepotenti, il tesoro delle proprie tenerezze, i sentimenti più dolci, le fragranze più soavi dell’anima. Se amerai un giorno, fa di meritare la donna che ti avrà resistito. Ma tu non la meriterai, tenendo gelosamente per te una parte di te. Darsi intieramente, buttarsi a capo fitto, senza riguardi umani e senza restrizioni mentali, commettere un grave errore ed una solenne pazzia, non temere di farsi deboli e vili, quando si poteva esser forti e grandi, questa è l’unica via per esser amati. Vedi? ti ho data una lezione. E valga il carico di speranze, che mi avevi portato. Ti va? — Siete molto cattiva! — esclamai. — No, sono sincera; un po’ selvaggia, se vuoi, ma non ti misuro la verità. Un’altra donna più raffinata, ma niente migliore di me, ti parlerebbe più accortamente, per giungere al medesimo fine; ti farebbe un lungo e melato discorso, tanto onorevole per lei quanto inefficace per te. Tu hai perduto un buon punto, e non vuoi persuadertene. Giovine inesperto, ma guidato dalla cieca fortuna, giungevi di primo lancio dove nessuno era giunto fino allora; l’occasione, in quel mentre, passava daccanto a te, e tu non hai saputo afferrarla. _Blanc-bec!_ — soggiunse ella ghignando, — _Tu as failli me blesser au coeur. Heureusement tu n’as touché qu’à l’épaule._ — Ah! — gridai. — Per questo mi odiate? — No, non è per questo; — rispose. — Tu hai fatto il tuo dovere, in quel punto. — Non ho mirato, per altro; — ripresi. — Non potevo credere che voi foste così ostinata, da presentarvi in prima linea, allo scoperto. — La vergine del reggimento alzò sdegnosamente la spalla che il mio piombo aveva rispettata. — Ecco un altro torto che ti sei fatto a’ miei occhi; — diss’ella. — Volevo esser mirata, amata ed uccisa. Per tua norma, io amo la tragedia e i suoi fieri contrasti. — Ahimè! — risposi. — Voi amate anche un altro. — T’inganni; non amo nessuno. Sono stati parecchi, i pretendenti; che ci vuoi fare? Ma nessuno ha mai saputo cogliere il buon punto. Ed altri lo cerca, che non lo ha trovato ancora. — Chi, per esempio? — Ah, pretino fallito! Debbo io confessarmi a te? Ebbene, sia. Credi forse di aver occhi tu solo? Metti anche il medico che mi ha curata. — Il Nougarède? — Ah, tu lo conosci? — chiese Adriana, stupita. — Sì; egli è il primo che a Carcare mi ha dato notizie di voi, la sera del nostro arrivo al quartiere generale. — Senti, — diss’ella, con un tono di voce da cui traspariva una sottile ironia. — Eri dunque tu la persona di cui egli mi parlava ancora ier l’altro? In un momento di affettuosa espansione il mio galante chirurgo mi ha detto: — «E pensare che io ho corso il rischio di non vedervi più, ventiquattr’ore dopo avervi prodigate le prime cure! Se qualcheduno, parlandomi con molta premura di voi, non mi avesse fatto pensar meglio al vostro stato, io non sarei venuto nella determinazione di condurvi coi feriti men gravi a Savona, e voi sareste rimasta a Carcare, nella piccola infermeria di San Sebastiano. In questo modo, Adriana, voi eravate separata per sempre da me.» Un bel pensiero, il suo, non è vero? Povera me, se il pietoso Nougarède non pensava a mettermi nel suo convoglio, per trasportarmi all’ospedale di San Paolo! Io perdevo l’occasione dei suoi sospiri e delle sue dichiarazioni irresistibili. — È un bel giovane; — osservai, non bene persuaso della sincerità di quella canzonatura. — Che ne sai tu? — mi disse di rimando Adriana. — Il bello che riconoscete voi altri non è quasi mai il bello che piace alle donne. Ed anche quello che può piacere a novantanove donne non piace alla centesima. Se così non fosse, povere noi! Una medesima tentazione dovrebbe perderci tutte. Io ho potuto osservare, nella bella tranquillità del mio spirito, che ogni donna la quale sia nulla nulla appariscente, o solo per qualche lato piacevole, è circuita, insidiata, direi quasi covata da cento adoratori, più o meno vicini, più o meno in vista, ma tutti assidui, tutti costanti ad un modo. Voi non la vedete, questa caccia, quando siete indifferenti; non ne vedete neanche la decima parte, quando siete interessati nel giuoco; eppure è così, e per via, nei teatri, nelle conversazioni, dovunque la donna va e gli uomini possono seguirla, è una gara di piccole attenzioni, di occhiate assassine, di manovre sapienti, che debbono far capitolare la piazza. Ella non bada a tutti quei fuochi incrociati; qualche volta ne ride; qualche altra volta si annoia; raramente le avviene di riconoscere i pregi personali di uno fra tanti; più spesso l’uomo che essa sceglie non è quello che a tutta prima le era sembrato il più bello. Che ci vuoi fare? La scelta, in amore, è quasi sempre istantanea. Un lampo improvviso che guizzi dagli occhi, un sorriso che fiorisca sul labbro, una parola che prorompa dal cuore, e sopra tutto il momento opportuno, il momento fatale perchè quei nonnulla sian colti in aria e facciano colpo qua dentro, ecco le ragioni della vostra vittoria e della nostra sconfitta. Tu l’hai avuto, piemontesino, il momento fatale; e quel momento è fuggito. Sei un altro, ora; sei uno dei cento, a’ miei occhi. Perchè ti preferirei al Nougarède? Perchè preferirei il Nougarède ad un altro? Nessuno di voi vale la prima pena del mio cuore; nessuno di voi vale la libertà divina, a cui mi sono votata, per cui corro il mondo, figlia adottiva dell’esercito repubblicano, vergine del reggimento, e se occorre casco ferita in un fosso, per essere raccolta in un carro d’ambulanza e finire in una corsìa d’ospedale. — Così ragionava quella strana creatura, il cui linguaggio immaginoso e vivace contrastava chiaramente con l’atteggiamento stanco e rimesso, quando apparve sull’uscio il Nougarède. _Lupus in fabula!_ CAPITOLO XVIII Si dà nei lumi. Il chirurgo Nougarède era un bel giovanotto di statura giusta e di membra snelle, bianco di carnagione, ma il viso leggermente abbronzato dal sole e dall’aspra vita del campo. Aveva i capegli biondi, ma corti; bionda la barba, non folta, e tagliata a punta. Perciò la sua faccia dava piuttosto nel lungo, e il naso aquilino e le labbra finissime, sormontate da due baffettini sottili, gli conferivano un’aria molto elegante, ma anche un tantino presuntuosa. Io feci questa osservazione vedendolo allora per la terza volta e guardandolo più attentamente che non avessi fatto alle prime. Quella volta, poi, mi appariva anche arcigno e niente disposto ai convenevoli. Così accigliato e duro, il Nougarède rimase un istante sulla soglia, mentre Adriana, sempre appoggiata alla spalliera del canapè, si voltava un pochino dalla sua parte, con una grazietta incantevole, a cui la inclinazione forzata della testa sull’òmero, dava un’espressione canzonatoria che mai. Per altro, egli non poteva stare più a lungo ritto impalato sull’uscio, a fare la controscena, come un personaggio da tragedia; e si mosse, finalmente, venne a due passi da lei, senza curarsi punto del visitatore importuno, e l’ammonì in questa forma: — Adriana, lo sapete pure, che non potete ancora parlar troppo! — La familiarità dell’apostrofe mi diede maledettamente sui nervi. E poi, sotto quella severità dottorale, avevo fiutato il geloso, quel personaggio meschino, dalla faccia scura, dagli occhi sospettosi e dai modi impacciati, che dove capita porta la sensazione del freddo. Non siate gelosi mai, o almeno fate di nasconderlo. L’uomo più garbato, più spiritoso e piacevole del mondo, se è geloso e si lascia scorgere in flagrante, perde ad un tratto tutte le sue belle qualità, per diventare uggioso, o ridicolo, e qualche volta l’uno e l’altro ad un tempo. Adriana non si era mossa dal suo posto nè dal suo atteggiamento; ma aveva sentita la necessità di farmi capire che era seccata di quel tono severo e che tanta familiarità non era permessa neanche al suo medico. — E chi vi dice, cittadino Nougarède, — replicò ella, battendo sul titolo, — che io abbia parlato troppo? — Il cittadino Nougarède rimase un po’ sconcertato; ma si riebbe subito, e rispose: — Il capo infermiere m’ha riferito che siete da oltre un’ora nella sala di ricevimento. Voi sapete che le passeggiate vi sono concesse, perchè possono farvi del bene. Un moto regolare, mettendo in opera tutti i muscoli, non ne stanca in particolar modo nessuno. Può recarvi incomodo uno sforzo parziale, specialmente quello del soverchio discorrere, perchè il polmone è costretto a lavorare di più, dilatando con troppa frequenza il torace, dove s’innestano tutti i muscoli della spalla, e in particolar modo il... — Finitela una volta coi vostri paroloni, cittadino Nougarède! — interruppe Adriana. — Io non son fatta per capire tutta questa anatomia. Del resto, — soggiunse ella, con accento più rimesso, — io non mi son mossa un momento di qua; e parlo e lascio parlare, secondo le circostanze e l’umore. Quando vi capita una vecchia conoscenza, non bisogna mica lasciarsela sfuggire così presto! A proposito, debbo fare una presentazione. Eccovi qua una persona che dovete conoscere. — Messo così alle strette, il Nougarède non potè più astenersi dal guardare verso di me. Stentava per altro a riconoscermi, e Adriana fu costretta a rinfrescargli la memoria. — È il piemontese di Cosseria; — proseguì Adriana; — quello stesso che mi ha raccolta sul campo, per consegnarmi all’ambulanza, e che poi vi ha parlato di me, a Carcare; non ricordate? — Ah! — diss’egli allora, accennando un sorriso. Ma quel sorriso, che era fatto a contraggenio, gli morì sulle labbra. Nè aggiunse altro il cittadino Nougarède, nè fece alcun movimento cortese verso di me. In fondo, egli si trattenne, come io mi ero trattenuto, nè più nè meno. E ci eravamo fatti tanti complimenti a Carcare! Era bastata la presenza di una donna tra noi, per inimicarci di schianto. Le nostre mani, che si erano già strette con tanta effusione d’amicizia, provarono allora una ripulsione invincibile; non che restar penzoloni, cercarono istintivamente le tasche. La ripugnanza del signor Nougarède non poteva sfuggire all’occhio attento di Adriana. E il diavolo volle che la capricciosa donna ne fosse annoiata, lì per lì, e che prendesse gusto a tormentare il geloso. — Sì, — soggiunse ella insistendo, — è stato tanto gentile da ricordarsi di me. Che volete, cittadino? Pare che anche su lui io abbia fatto impressione. — Anche su lui! — ripetè egli stizzito. — Le vittime sono dunque più d’una? — Si era avanzato sotto misura, il poveraccio, e Adriana non volle risparmiargli il colpo di grazia. — Vi fa meraviglia? — riprese. — È ciò che capita facilmente alle donne. Stavo per l’appunto dicendolo, quando voi siete giunto. Anche in questi tempi di sincerità repubblicana, gli uomini fanno tutti la corte coi metodi dell’antico regime. La buona novella è sparsa per tutto il mondo; ma in certe cose restiamo sempre ligi all’antico Testamento. — E ciò vi dà noia? — chiese il Nougarède, che oramai non sapeva più a qual santo votarsi. — No, anzi mi fa ridere. Mi avete trovata che ridevo. Il riso fa buon sangue. E poi, è così bello sentirsi dire certe cose! — Il Nougarède perdette la tramontana senz’altro. — Veramente, — diss’egli, — non è una cura prescritta in un ospedale militare. E mi meraviglio.... — Così dicendo, si era rivolto a me. Io ero là ritto, seccato la parte mia, poichè non giungevo ad intendere che gusto o che ragione ci avesse madamigella Adriana a seguitare su quel tema scabroso. Forse si compiaceva di stuzzicarlo; forse voleva rimetterlo a posto, dimostrando anche a me che il signor Nougarède non aveva nessun diritto a fare il geloso. Comunque fosse, quel volgersi a me, e quella gran meraviglia, accompagnata da una reticenza così minacciosa, volevano una pronta risposta. — Di che cosa, cittadino? — gli chiesi, con un piglio non meno arcigno del suo. Ma egli s’inalberò. Di sicuro, il povero giovanotto aveva perduta la bussola. — Una interrogazione, a me? — gridò egli, inasprito. — Vi avverto ch’essa è fuori di luogo. — Una cosa è fuori di luogo tra uomini; — replicai; — cominciare e non finire una frase di dubbio significato. — Caro il mio cittadino Nougarède! Egli non sapeva come io fossi rimasto male, esposto ai sarcasmi e ai dispregi della bella Adriana, e che buon vento me lo avesse portato tra le unghie. — Vi trovo ridicolo; — diss’egli, crollando sdegnosamente le spalle. — Io trovo voi impertinente e sciocco; — risposi. A quelle parole, che gli rendevano raddoppiata l’ingiuria, fece per avventarmisi contro; ma si trattenne tosto, o perchè io paressi più forte e tale da respingere con vantaggio l’attacco manesco, o perchè gli venisse in mente di non dover fare una sfuriata là dentro. Si trattenne, dico, stringendo i pugni e le labbra; poi, abbassata la voce, mi disse: — Sareste capace di ripetermi quelle parole con le armi alla mano? — Sicuramente, quando vorrete; e meglio oggi che domani. — Anche subito; v’intenderete coi miei secondi. — Poscia, volgendosi a madamigella Adriana, soggiunse: — Vi lascio ai vostri amori; ma, come medico, debbo insistere sulla raccomandazione di non parlar troppo. — Sono stata zitta, finora! — rispose ella, senza punto scomporsi. — Voi mozzate le parole in bocca, con le vostre scenate. Avete il diritto di farle? — Se vi piace, dico di no; ma le ho fatte. — Non siete garbato, cittadino Nougarède. — Egli voleva rispondere; ma io ero là, e non gli parve conveniente di proseguire il battibecco alla presenza di un terzo. Fece anche lui una spallata buonapartesca e diede una giravolta sui tacchi. — Un momento! — gli dissi, vedendolo andar via. — _Plait-il?_ — chiese egli, voltandosi a mezzo e fermandosi a guardarmi con piglio altezzoso. — Siete un nemico, e tale vi voglio; — risposi; — ma siete francese e gentiluomo. Io, qui, son fuori di casa mia; non ho compagni d’armi, nè amici, nè conoscenti a cui rivolgermi, per chiedere la loro assistenza. — Che intendete, con ciò? — Non già di ritirarmi, come mi pare che abbiate capito. Volevo domandare a voi il servigio che io stesso vi renderei, se fossimo a Torino, o in altra città del Piemonte. Pregate due dei vostri francesi che vogliano accompagnarmi sul terreno. — Il cittadino Nougarède stette pensieroso un istante; poi mi rispose asciutto: — Sta bene; li avrete. — E salutò, freddamente cerimonioso, ed uscì. Io mi volsi allora a madamigella Adriana, per prender commiato da lei. La vergine del reggimento era sempre immobile al suo posto, appoggiata alla spalliera del canapè, e mi guardava cogli occhi semichiusi, come una bella dama dell’antico regime. Lo era infatti, ad onta delle mutate consuetudini. _Bon sang ne peut mentir_, dicono i francesi. — Dunque, — incominciò, sorridendo, — battaglia? — Come vedete; — risposi. — Debbo io dirvi, — continuò ella, — che mi rincresce di essere stata cagione di questo litigio? — No, non mi dite nulla. Capirete che il signor Nougarède è venuto in buon punto a levarmi d’angustie, con la sua furia gelosa. — Ah, davvero? Ecco un servigio che egli non sapeva di rendervi. Diteglielo, al primo incontro; lo farete andar in collera più che mai. — E rideva, la bizzarra creatura, rideva d’un suo risolino arguto, guardandomi con quegli occhi semichiusi, come una gran dama, molto bella e molto miope (secondo l’uso del secolo scorso), in atto di dirmi: «_Vous êtes parfait!_» — Non io certamente; — risposi. — Diteglielo voi, viscontessa! — Lascia i titoli antichi; — ribattè ella prontamente, ritornando nella voce e negli atti la vergine del reggimento. — Chiamami cittadina, ed anche semplicemente donna. È un nome di cui sono orgogliosa, quantunque lo avviliscano tanto, con le loro debolezze, le mie sorelle in Eva. — Siete uno spirito forte. Perchè non posso esserlo io? — le dissi allora, sospirando. — Lo sei, senza avvedertene, piemontesino astuto! Tu, a buon conto, ti cavi d’impaccio con uno sfogo di collera. Lo hai confessato poc’anzi, e in questo momento i tuoi occhi truci promettono un cattivo quarto d’ora a quel povero Nougarède. Ma bada, per altro; egli non è meno inviperito di te. Come maneggi la spada? — Non saprei dirvelo; so che mi sta forte nel pugno. — È già molto, e tu forse ne sai più di quello che dici. Ma come siete carini, voi altri, con le vostre durlindane! E per una donna, poi! Questo è _ancien régime_, e del più schietto che io mi conosca. Lui soldato repubblicano e tu regio, lui della libertà e tu della tirannia, siete pari; non vi battete per un’idea, ma per una donna; e a farlo apposta, per una donna che ride. — È vero; ma che farci? — replicai. — Se non posso mutarvi il cuore, Adriana!... A proposito, per chi vi degnerete di far voti? Una piccola preferenza è naturale, è inevitabile. — Naturale, sì; inevitabile, no. Ed io per questa volta non ne avrò nessuna; starò a vedere, imparziale come la giustizia, o come l’indifferenza. Mi ha raccontato un viaggiatore che nei deserti africani la leonessa assiste tranquilla sul margine di una fontana e sotto il verde ombrello di una palma gigantesca, al combattimento di due leoni innamorati e rivali, aspettando senz’ombra di ansietà che l’esito della pugna le riveli il suo signore e padrone. — Vincerò! — gridai infiammato. — Non ti fidare; — rispose la bella schernitrice. — È bene paragonarsi alla leonessa, quando l’uomo si paragona tanto volontieri al leone. Ma nel fatto io sono una donna, e la vergine del reggimento potrebbe star ferma nel suo quadrato e non appartenere a nessuno. Ciò ti offende? Ti rivolta? Dillo! Va in collera, insultami! Non sai nulla di nulla, _blanc-bec_! Una buona insolenza, e detta a tempo, rivela il carattere.... quando ce n’è! Tu non sai trovar l’una, e manchi affatto dell’altro. — Era cattiva, quella donna? Era pazza? E quali cause nascoste l’avevano resa pazza, o cattiva? o solamente era da vedere in lei il fenomeno psicologico (benedetti ricordi scolastici!) di una libertà sconfinata e d’una educazione sviata? L’uso, si sa, conduce per una insensibile china all’abuso. In una donna che a tutte le audacie rumorose della filosofia del suo tempo congiungeva tutte le superbie istintive della nascita, e che per il suo genere di vita libera e vagabonda era più esposta d’ogni altra alle insidie di cui sempre e dovunque è circondata la bellezza, questa bizzarria di umore doveva esser fatale. Un paragone militare vi dirà meglio il mio pensiero intorno a questo argomento delicatissimo. Al soldato nelle ordinanze si chiede di esser docile, obbediente al comando, freddo e impassibile al fuoco, anzi che ardente e voglioso di fare. La sua calma è la sua forza e quella di tutta la colonna, che, secondo il bisogno, attacca o retrocede. Al soldato in avanguardia, all’esploratore, al fiancheggiatore, si chiede per contro di essere agile, ardito, fin anche temerario. Egli deve essere pronto a ficcarsi da per tutto, a snidare il nemico, a fargli fronte, a girarlo, a intimorirlo con ogni maniera d’artifizi, non prendendo norma che dal proprio coraggio. La sua forza non è più nella calma e nella prudenza; è nella sua furia, nella sua temerità. Così doveva essere Adriana, audace, temeraria, per ragione di difesa, per simulazione di forza. Presa in tal modo la piega, non era possibile che Adriana si mutasse mai, nè per me, nè per altri. La piega, nel carattere, è una seconda natura. Sentivo queste cose molto confusamente, e, più assai che ferito, ero profondamente addolorato da quello scherno feroce. — Ah, per esempio, questo è troppo! — gridai. — Sono un soldato della tirannide e nato plebeo, davanti a voi, legionaria della libertà e nata viscontessa; ma i miei re, che vi spiacciono tanto, furono tutti cavalieri, e non m’insegnarono mai ad insultare una donna. Se avessi a dirvi liberamente ciò che penso di voi.... — Ah, vivaddio, ecco un buon principio! — esclamò ella, rizzandosi di colpo sulla vita. — Sentiamo ciò che tu pensi di me. — Direi, — soggiunsi allora, stimolato da quella esortazione, donde traspariva sempre la beffa, — direi che portate nel culto della vostra repubblica, della libertà, della fraternità e perfino della eguaglianza, l’orgoglio, la fierezza e la prepotenza di una razza dominatrice. Scesa dal ponte levatoio del vostro castello per confondervi col volgo dei combattenti, avete dovuto troppe volte custodirvi contro le noie di una familiarità, che è sempre molesta, e riesce offensiva anche quando non è a dirittura brutale. Indossata l’armatura, e veduto che vi andava bene alla vita, non avete più voluta deporla. Siete un’Amazzone, una Marfisa, una Bradamante, una Clorinda moderna, pronta a correre in tutti i passi d’arme, a mettere lancia in resta, sia Mandricardo o Ruggero, Rinaldo o Tancredi il nemico. La dolcezza è nel vostro cuore, o Clorinda, e non potrebbe non esserci; ma una corazza d’acciaio nasconde gelosamente il tesoro. — Adriana era stata a sentire con molta attenzione, guardando benignamente il predicatore e accompagnando le frasi con qualche cenno del capo. — Sai che come stile non c’è malaccio? — esclamò quando io ebbi finito. — Dite che non è vero! — soggiunsi. — Lasciamola lì; non dirò niente. — E che ci sarà un momento in cui vi darete per vinta. — «Ci sarà» non vuol dir nulla; mi basta che non ci sia. — Badate al futuro, Adriana, e che l’uomo a cui crederete non sia poi il peggiore. — Alto là! — gridò essa. — La lingua ti tradisce, o la dottrina ti manca. Che cos’è il peggiore? Che cos’è il migliore? Accetta ancora una lezione, piemontesino mio. In amore, non c’è nè la buona, nè la cattiva scelta. Dammi il turbamento e l’ansia, la paura e l’estasi, il sacrifizio e la beatitudine; tutto il resto è nulla. Che importa a me che Saint-Preux sia uno spirito fiacco, se Giulia ha conosciuto l’amore? Che importa a me che Lovelace sia un tristo, se Clarissa ha vissuto un’ora di cielo? L’essenziale non è l’uomo che si ama, è l’amore che si sente. — Chi ve l’ha detto? — Qualche libro; e me lo ripete il mio cuore. — C’è dunque da augurarsi di essere un tristo e di piacervi, Adriana! — conchiusi io, malinconicamente. — Questo poi è un madrigale e non mi piace; — diss’ella. — Non hai delle frasi più sonore, come poc’anzi? — Stanco di quella inutile scherma, non risposi più nulla. In quel mentre, e per mia grande fortuna si udì uno strepito di sciabole e un rumore di voci sul pianerottolo. Poco stante, si affacciarono sull’uscio della sala di ricevimento due ufficiali francesi, a cui il custode diceva: — Se non è quel cittadino laggiù.... — Capii che il Nougarède non aveva perduto il suo tempo, e interruppi prontamente la frase del custode. — Chi mi cerca? — domandai. — Vi manda forse il cittadino Nougarède? — Per l’appunto; — risposero gli ufficiali. — Sono ai vostri ordini; — replicai. — Andiamo subito, allora; — disse uno di loro, — perchè gli altri sono già al posto. — Ah, bene! Non c’è dunque da andar lungi? — No, qua di rimpetto, dove alloggia uno di noi. C’è un giardino abbastanza vasto, dove non scende mai nessuno. Le spade, se vi piace, saranno le nostre d’ordinanza. — Mi piace tutto, e vi seguo. — Adriana, a cui mi ero rivolto per salutarla, mi parve commossa. Si era alzata dal canapè, ed era molto pallida in viso. — Cittadina, buon giorno; — le dissero gli ufficiali, inchinandosi. Io mi accostai, mentre essi andavano verso l’uscio, presi la sua mano e la sfiorai con le labbra. — Signorina, siate felice! — le dissi. Ella non mi rispose parola. Mi guardò fissamente, quasi volesse dirmi o farmi intendere qualche cosa; poi torse lo sguardo e scosse sdegnosamente la testa, come chi cerchi scacciare un molesto pensiero. Io feci un saluto ossequioso, e mossi rapidamente verso l’uscio, per seguire quei due, che mi aspettavano sulla scala. CAPITOLO XIX. Indovinarla! Giunti nel vestibolo dell’ospedale, i miei due secondi si fermarono, per far conoscenza con me. — L’amico Nougarède ci ha pregati di servirvi da testimoni; — mi disse uno di loro, dopo che io gli ebbi dato il mio nome e cognome. — Siamo ai vostri ordini. Ma la ragione dello scontro, qual è? — Non ve l’ha esposta il vostro amico? — domandai. — No, egli ci ha detto soltanto, combinandoci per via: «Ho quistione con un borghese, già soldato nei granatieri di Cosseria; vorrei finir subito, ma egli è nuovo nel paese, non ha secondi e li chiede a me; mi fareste un piacere a servirgli; andate su all’ospedale; egli è là che vi aspetta.» Abbiamo accettato e siam qua; ma non sappiamo nulla di nulla, e voi converrete che è poco. — Se non vi ha detto lui quello che è stato, — risposi, — come dovrei dirvelo io? — È giusto; ma non vogliate averci per curiosi indiscreti, se insistiamo nella nostra domanda. Potremmo anche supporre, indovinare il motivo.... averlo già indovinato.... Ma intanto, per venire alle condizioni dello scontro, dobbiamo almeno essere intesi con voi, intorno alla gravità dell’offesa. E prima di tutto, da chi parte l’offesa? — Mettete pure da me; immaginatela pure gravissima. — E sia; — replicarono gli ufficiali. — Ma ce ne sono di diverse specie: e la gravità, secondo la specie, ha pure le sue gradazioni. È gravissima offesa aver dato all’avversario uno schiaffo; è gravissima, eppure non paragonabile all’altra: avergli rapita una donna. Qui, poi, è da vedere se la donna gli apparteneva legalmente, o se era soltanto un’amica. Lo schiaffo, od altra maniera di percossa, non ci pare che sia in quistione; il Nougarède non ci ha parlato che di un alterco, d’uno scambio di parole vivaci. Perchè? Per una donna, forse? E in che grado l’avete offeso? Insidiando a mala pena, o prendendo a dirittura? Ecco il punto. — Cittadini; — risposi, — se la intendete così, non ci siamo più. Mi avete veduto or ora a colloquio con una donna, che è qui, sotto la cura del vostro amico Nougarède. Non debbo calunniarla, lasciandovi credere che io potessi rapirgli una conquista, o che egli avesse qualche diritto a contrastarmela. Ecco invece la verità pura e semplice. Ero venuto a salutare una donna, rimasta ferita in campo mentre combatteva contro di noi, e che io stesso avevo raccolta da terra, per consegnarla ai suoi compagni d’armi. Il cittadino Nougarède avrà molta dottrina, non lo nego, ma voi mi permetterete di credere ch’egli non abbia un carattere eccellente. È venuto con aspre parole a dolersi della lunghezza del colloquio; io ho prese quelle parole per me; ne è venuto uno scambio di motti pungenti, e a questi è seguita la sfida. — Tanto meglio, allora! Due colpi alla svelta, e basterà il primo sangue. — No, ora non basta a me; voglio un combattimento ad oltranza. Ci sono state parole assai gravi. Mi ha detto ridicolo. — Nell’ira, è un epiteto di poco significato; e ad ogni modo, voi non avete l’aria di meritarlo. — Grazie! — risposi. — Ma non ve lo sembrerò io in questo punto medesimo, accettando con tanta facilità il vostro complimento? Mettete, vi prego, mettete che sia stata una parola grave. — La mia insistenza li fece ridere; ma io ottenni quel che desideravo. — Vada per la parola grave; — rispose uno di loro, che parlava per tutt’e due. — Scenderete in campo come due cavalieri erranti, e vi batterete a tutto spiano, come Rolando e Oliviero di Vienna. — Ah! questa volta, grazie di cuore! — esclamai. — Dove si va? — Dall’altra parte della strada. Vedete quell’uscio? Il campo chiuso è là dentro. — Proprio di rimpetto all’entrata dell’ospedale di San Paolo, la strada si allargava per otto o dieci metri in forma di piazzuola, e un muro grigio ed alto, sormontato da un po’ di verde, indicava tra due case alte, che sorgevano sui lati, lo sfogo di un piccolo orto, o giardino, o cortile che fosse. Bussammo all’uscio, che ci fu prontamente aperto e con eguale prontezza richiuso dietro a noi. Erano là ad aspettarci due ufficiali e il chirurgo Nougarède, che ci salutarono, egli contegnoso e freddo, gli altri più liberali, ma anche molto cerimoniosi. Non ci sono che i duelli, per render gli uomini straordinariamente garbati. L’esagerazione è visibile, la caricatura evidente, e la gravità della circostanza ci stende su la sua pompa (stavo per dire la sua pàtina) funerale e grottesca. Ma così è, amici miei, e nessuno ha ragione di dolersene. La civiltà ha fatto un gran cammino, da un migliaio d’anni a questa parte. O non ammazzarsi, dice essa, o ammazzarsi con tutte le regole della buona creanza. Il giardino era abbastanza grande, e lo faceva parere più grande lo stato di desolazione in cui lo avevano lasciato a gara i suoi proprietarii ed inquilini. Correva un lungo pergolato nel mezzo, ma scarso di viti, sguernito di pali e con la vòlta in più luoghi disfatta. Nel fondo era un grand’albero di fico, dalle braccia squallide e nere, che parevano cresciute per far venire la voglia d’impiccarsi, anzi che per dar frutti alla gente. Di fiori e d’erbe non si vedeva più traccia, su quella vasta superficie di terra grigia e polverosa, che attestava l’incuria di parecchie generazioni d’uomini spensierati, e il mal governo d’altrettante, se non più, di lombrichi gaudenti. Era un brutto giardino, insomma, e uggioso che mai; degnissimo campo ad una impresa come la nostra. I secondi stettero un bel pezzo a colloquio; poi vennero sotto l’albero di fico, dove io e il Nougarède facevamo dieci passi avanti e dieci indietro, senza guardarci mai, e ci comandarono di metterci in maniche di camicia. Obbedimmo prontamente e ci avanzammo tutti e due ad un tempo verso il luogo assegnato. Uno dei secondi aveva presa una coppia di spade, e la portava incrociata nel forte delle lame, per offrirci con bel garbo la sua merce dal lato della guardia. Come fu davanti a me col suo gesto grazioso, ne afferrai una, salutando; e così fece il mio avversario. Frattanto un altro dei secondi, nominato mastro di combattimento, così prese a parlare, con la solennità conveniente all’ufficio: — Cittadini! Noi non conosciamo che molto superficialmente la vostra quistione, ma abbiamo dovuto conformarci alla vostra espressa volontà di scioglierla con le armi, ad oltranza. Speriamo tuttavia non si tratti che di un equivoco, di un malinteso, come ne occorrono tanti tra uomini d’onore, facendoli trascorrere a parole acerbe, di cui ognuno si duole in cuor suo, ma che nessuno vuol più ritrattare. Ad ogni modo, poichè non vedete altra forma di aggiustamento tra voi, fuor quella di tagliarvi la faccia, noi confidiamo che ciò avverrà lealmente, da buoni cavalieri, con franco ardimento, con tutti i bollori del sangue, se vi piace, ma senza odio barbaro, senza animosità, senza rancore, tutte passioni indegne di valorosi soldati. Avete le armi nel pugno. Al comando «_allez!_» sarete padroni di assalirvi; al comando «_arrêtez!_» dovrete fermarvi, e vi meriterebbe un’accusa di fellonia il non farlo in sull’atto. Avete capito? — Sì; — rispondemmo ambedue ad un tempo. — Da bravi, dunque; _allez!_ — Andammo, come portava il comando. Il Nougarède, forse più astuto che impetuoso per natura, mi saltò subito addosso per darmi un taglio di primo appetito. Ma avvenne che io volessi la medesima cosa, e che noi ci trovassimo faccia a faccia e pugno a pugno, coi ferri in aria e impotenti a colpire. Io ero quattro o cinque dita più alto, ed anche più forte di lui; nè mi sarebbe stato difficile un guadagno di lama. Sentì egli il pericolo, e spiccò un salto indietro, tirandomi un colpo di traverso che io parai istintivamente, mettendo il pugno in linea, cosicchè il taglio della sua spada si arrestò sulla mia guardia. Sorrisi, mandando a vuoto il terribile disegno, e quel sorriso lo esasperò. Si morse le labbra, stette alcuni secondi fermo con le membra raccolte, guardandomi fiso come una tigre sul punto di scagliarsi; poscia tornò all’assalto con un paio di finte. Io non feci altro che mettergli la punta al petto, e lo costrinsi a dare una seconda volta indietro; quindi incalzai, minacciandogli un colpo alla testa. Credette di potermi cogliere con una puntata, ma toccò un soprammano che gli fece abbassare il pugno, e subito dopo, avendo io potuto guadagnargli la lama, vide calare un fendente, che parò ritirando la testa ed il petto, ma dimenticando di ritirare egualmente il piè destro. La mia lama, scendendo impetuosa senza trovare nessuna parte nobile (scusate il termine di macelleria cavalleresca), lo ferì invece alla gamba, poco sopra il ginocchio. — _Arrêtez!_ — gridò il mastro di combattimento. Io mi fermai subito, mettendomi in posizione di difesa. — Niente, niente! — esclamò il Nougarède. — È una miseria, una sciocchezza. — Ma sottovoce aggiunse, parlando co’ suoi secondi, che erano accorsi col chirurgo: — Non è stato neanche un colpo di scuola. — È stato un fendente; — risposi io, che avevo udito il commento. — Non era di scuola sottrarsi a mezzo, lasciando una gamba sul posto. — Là, là, cittadini! — ammonì il mastro di combattimento. — Non dimenticate che siete due lame mute, e che qui il diritto di chiacchierare lo abbiamo solamente noi altri. — Frattanto, il chirurgo esaminava la ferita. Essa era più lunga che profonda, e, come diceva quel giovane alunno d’Esculapio, «non interessava che gl’integumenti.» Il panno, di certo, aveva ammorzata la furia del colpo. E a quel panno il nostro chirurgo fece anche più lungo lo strappo, per poter condurre alla svelta la medicazione di un taglio, che senza alcun dubbio si sarebbe saldato di prima intenzione. — Ebbene, Nougarède, come ti senti ora? — chiese egli al ferito, dopo avergli annodata la benda intorno alla gamba. — Ti dico che non è nulla; — rispose quell’altro. — Vedi? Mi muovo benissimo. — Il chirurgo si strinse nelle spalle e diede un’occhiata espressiva ai secondi, come se volesse dir loro: — Fate quel che vi pare; io non c’entro. — Va bene, — disse il mastro di combattimento, dopo aver udito il parere dei colleghi. — Cittadini in guardia; _allez!_ — Il Nougarède dimostrò subito col fatto che quella ferita non lo incomodava punto. Per altro, stette più fermo alla posizione, non si sbracciò più tanto, come aveva fatto prima. Io, per rendergli la pariglia, ed anche un poco per cansargli la fatica (tanto è vero che in ogni cuore umano si conserva un briciolo di compassione!) attaccai a mia volta, senza troppo incalzare. Ci buscai, a quel giuoco, una botta rovescia alla parte interna del braccio, che guai al mio bicipite, se niente niente la lama avesse potuto scorrervi sopra col filo. Il colpo doveva intormentirmi il muscolo; ma proprio allora anche la mia spada era in aria, ed ebbe il tempo di giungere il Nougarède alla faccia. Però, mentre io sentivo il dolore del colpo ricevuto, che a tutta prima mi parve una piattonata, sul volto del mio avversario appariva uno sberleffe, che dal mezzo della fronte, attraversando la radice del naso, gli scendeva in fondo alla guancia. Fummo tosto fermati, come potete immaginarvi, e tutti si strinsero intorno al Nougarède, per veder la ferita e udir la sentenza del chirurgo. Anche quella volta poteva darsi che fossero interessati a mala pena gl’integumenti. Ma lo squarcio era largo e ne sgorgava molto sangue; inoltre, poteva essere intaccato l’osso frontale, o semplicemente il periostio, magari anche l’etmoide, e Dio sa quale altra diavoleria. Mentre il chirurgo esaminava, e i secondi stavano tutti attenti alle sue spiegazioni, io davo un’occhiata pietosa al mio braccio. Nessuno se ne era avveduto, poichè l’attenzione dei testimoni aveva dovuto rivolgersi alla ferita molto visibile del Nougarède; ma io avevo la manica tagliata, e il pesce, o bicipite che vogliam dire, segnato da una linea sanguinosa, per tutta la sua lunghezza fin quasi alla piegatura interna del braccio. Se le spade d’ordinanza, usate da noi, fossero state più curve e affilate, o se il mio avversario avesse avuto tempo di tirar l’arme a sè, facendola strisciar meglio sulla mia carne, vi so dir io che mi affettava per bene. Tirai prudentemente a posto i lembi della manica, accostai il braccio al fianco, e giustificai quella nuova posizione mettendo la mano in tasca. Anzi per dirvi tutto, non ci misi neanche la mano intiera, ma solamente il pollice, e finsi con le quattro dita libere di battere il tamburo sulla coscia. Non era una operazione piacevole, in verità; ma mi premeva di nascondere i danni sofferti, e la vanità soddisfatta comandava al dolore. — Dunque, è una ferita grave? — chiese il mastro di combattimento al chirurgo. — Abbastanza; — rispose questi. — Si può ripigliare? — Sul mio onore, no. Io non consiglierò mai la continuazione dello scontro in queste condizioni. — Il mastro di combattimento rimase alcuni istanti a colloquio coi tre colleghi, e poi profferì la sentenza: — L’onore è salvo; cittadini, deponete le armi. — Io ero già per accostare la mia ad un palo di vite, quando vennero i miei due secondi a raccoglierla. — Avete avuto fortuna! — mi disse uno di loro. — Perchè? — domandai. — Perchè il Nougarède è un forte schermitore, e avrebbe potuto spaccarvi la testa, così scoperto come eravate quasi sempre. Ma oggi egli era troppo riscaldato, e non ha fatto neanche la metà del suo giuoco. — Gradii poco il complimento dei miei rispettabili secondi; e il malumore che n’ebbi, fu cagione che io dimenticassi perfino di ringraziarli della cortesia che mi avevano usata, prestandomi i loro servigi. Ho sempre veduto nel corso della mia vita avventurosa che l’uomo si contenta di apparire secondo in molte cose, ma che nelle imprese di guerra, e nella scherma, che è una piccola guerra, vuol far sempre lui la prima figura, e non sa rassegnarsi nè dall’idea di aver dato con l’aiuto del caso, nè a quella di aver ricevuto per l’abilità dell’avversario. Egli ha sempre la dottrina e la pratica dalla sua, l’occhio accorto, il braccio fulmineo, e tutte le altre qualità maestre dello schermidore eccellente; ferito, potrà ammettere di aver avuto sfortuna; feritore, non ammetterà mai che la fortuna lo abbia assistito. Vanità, il tuo nome è.... uomo! Io, per allora, avevo quella di nascondere il colpo ricevuto. Infilai frettolosamente la sottoveste e il soprabito, voltandomi in guisa da non lasciar vedere la manica insanguinata, che feci passare per la prima al coperto. Infine era una cosa da nulla, e i secondi non ci avevano neanche badato; che bisogno c’era egli di accusar ricevuta? Povero orgoglio umano! Come sarebbe stato meglio un pochino di modestia ed anche di sincerità! I miei due secondi mi chiesero se fossi disposto a riconciliarmi col Nougarède, stringendogli la mano, secondo l’uso. — Viene da lui la proposta? — domandai. — No, — mi risposero. — Facciamo la domanda a voi, mentre a lui la fanno gli altri secondi. — Io esitavo, pensando ad Adriana. E forse avrei detto di sì, rammentando che il vincitore era in obbligo di mostrarsi generoso, se in quel punto Adriana non fosse capitata in mezzo a noi. Com’era potuta entrare nel giardino? L’uscio di certo era semplicemente chiuso col saliscendi. Ella entrò frettolosa, ed io mi tirai da un lato per lasciarla passare. Ma ella si fermò davanti a me, mi squadrò dal capo alle piante, e mi disse: — Come? Non vi siete ancora battuti? — Abbiamo finito; — risposi. — E non siete ferito? — No, signorina. — Ah! — gridò ella. — Nougarède?... — E corse, così dicendo, verso il crocchio che gli altri due secondi e il chirurgo facevano intorno al ferito. — Vi prego, cittadina; — disse il chirurgo, volgendosi a lei; — non turbate il nostro povero amico. — Il Nougarède era adagiato sopra un seggiolone, che avevano portato poc’anzi dalla casa vicina. Il suo collega aveva finito allora di lavargli la ferita. — Adriana! — diss’egli, sforzandosi di sorridere. — In che stato mi vedete!... — Ah, Edmondo! — esclamò ella, piangente. — E per cagion mia? — Datevi pace, Adriana; — rispose il Nougarède; — io ho veduto scorrere il vostro sangue, e voi ora vedete scorrere il mio. — Povero Edmondo! — riprese Adriana. — Vorrei esser morta io, anzi che vedervi soffrire così. — Io mi ero avvicinato per un moto istintivo di curiosità. A quelle parole di Adriana, intesi che il mio posto non era laggiù, e me ne andai stizzito verso l’uscio. Ma il chirurgo, inflessibile, aveva allontanata anche lei. Doveva cucire le labbra della ferita, e la presenza di quella donna dava noia a lui, mentre poteva turbare il ferito. Senza volerlo, mi ritrovai di bel nuovo al cospetto di Adriana. Chinai umilmente la testa e le dissi: — Abbiate compassione! — Compassione, di te? — mi rispose. — Perchè non ti sei fatto ferire? — Adriana, il duello è come la guerra; si è colti, o si è risparmiati, senza sapere il perchè. — No; — diss’ella, con accento sdegnoso. — Dovevi farti ferire. Hai preferito avere il vantaggio anche qui. Va, piemontesino orgoglioso, che ferisci tutti, che ferisci sempre, e porti la pelle salva da tutti gli scontri! Hai troppo orgoglio, per vincere anche in amore. Va, io avrei potuto amarti, e se t’odio, è colpa tua! — Non so che cosa avrei potuto risponderle. Balbettai qualche parola vuota di senso; ma essa non volle neanche sentirmi, e tornò verso il ferito. — Edmondo, — mormorò ella, appena il chirurgo ebbe compiuta l’operazione, — mi perdonate voi? — Che cosa? — disse il Nougarède, stendendole la mano. — Io debbo chiedere scusa a voi, per le parole che mi sono lasciato sfuggire in un momento di collera, mentre io non avevo nessun diritto su voi. — Li avete tutti, ora, — rispose Adriana, — perchè vi amo. M’intendete voi bene? — soggiunse incalzando, e quasi con l’anima sulle labbra. — Vi amo! — Io non potevo e non volli udir altro. Salutai col gesto i miei secondi, e fuggii da quel triste luogo, maledicendo alla mia sciocchezza, e a tutte le umane passioni, dall’amore all’orgoglio. Strana creatura, che io ero destinato a non intender mai! Ella mi avrebbe amato, se io mi fossi lasciato ferire dal bel Nougarède! Ma bisognava indovinarla, Dio santo; ed io, non che indovinar quella, dovevo farla bassa in molte altre congiunture della mia vita. Che dire, amici miei? Non ero nato per le donne. Potevo farmi prete, come mi consigliava la Vergine del reggimento; ma voi sapete che io avevo già perduta l’occasione. Se fossimo vissuti in altri tempi, ve lo confesso, dopo quella triste scena, mi sarei fatto volontieri frate, per dimandare al chiostro la pace del cuore. I tempi nuovi e grossi vollero altro da me; mi rifecero soldato. — CAPITOLO XX. Un pizzico di filosofia. Arrivato a questo punto della sua narrazione, Monsù Tomè fece un gran sospiro, prese il suo quinto bicchiere, stette un pochino a guardarlo, e poi lo accostò lentamente alle labbra. Aveva gli occhi turgidi, il bravo veterano, e una lagrima gli cadde nei vino; lagrima vecchia, lagrima dimenticata, che aveva trovata l’occasione di escire. Così temperato d’amaro il suo calice, Monsù Tomè lo bevve d’un fiato. Pensando a tutti quei casi ch’egli ci aveva raccontati, e rispettando la sua commozione, ci eravamo raccolti, io e l’amico Tommaso, in un religioso silenzio. Ma io ero giovane, e impaziente nella mia curiosità. Dopo tre o quattro minuti liberalmente concessi alla mestizia dei ricordi, non potei più stare alle mosse. — E non l’avete più riveduta? — incominciai. — Monsù Tomè non rispose alla domanda. Evidentemente, bisognava lasciarlo fare a suo modo e contentarci delle notizie che egli voleva dare seguendo un filo determinato da lui. — L’armistizio di Cherasco, — diss’egli, — era stato firmato il 26 di aprile. Cedute le fortezze, non c’era da far altro che accettare la pace, che fu difatti conchiusa il 15 di maggio a Parigi. Da quel giorno il Piemonte, spogliato della Savoia e della contea di Nizza, rimase sotto la dipendenza della Repubblica francese. Le scorrerie, le imposizioni, le estorsioni, le angherie d’ogni maniera, commesse a danno nostro dagli invasori, mentre il generale Buonaparte aveva condotta la guerra in Lombardia, abbreviarono i giorni di Vittorio Amedeo III. Morto lui nel novembre, gli successe Carlo Emanuele IV, a cui, dopo la caduta della fortezza di Mantova, ultimo baluardo dell’Austria, fu gran ventura conchiudere con la Francia un’alleanza offensiva e difensiva, che in verità si sarebbe potuto stringere con più vantaggio sei anni prima. Dovevamo fornire diecimila uomini all’esercito francese, e la pace di Leoben e il trattato di Campoformio ci liberarono dall’obbligo; ma l’Austria ci serbò rancore di quella clausola, e la Francia non ebbe occasione di mostrarsi grata dei nostri servigi. Passo rapidamente sulle cose minute, come a dire sulle continue noie che ci cagionò la politica del signor Ginguené, ambasciatore francese a Torino. Dovevamo ristabilir l’ordine ad ogni tratto qua e là, dove apparivano bande d’insorti, e più particolarmente sui confini liguri e lombardi; ma anche questo parve un cospirare contro la Francia, e fummo costretti a dare in pegno la cittadella di Torino. Un bel giorno s’inventa la storiella di una lettera scritta da un nostro uomo di Stato, nella quale si accennava ad un accordo tra le corti di Torino e di Napoli, per assalire simultaneamente e schiacciare l’esercito repubblicano. Il presidio francese si chiude in cittadella; l’ambasciatore fa partire la moglie per Genova, fingendo di non crederla sicura a Torino, e il generale Victor marcia con dodicimila uomini sulla nostra capitale. Si tenta di persuaderlo a più miti consigli, ma invano; è guerra dichiarata e non si torna più indietro; soltanto si può fare una convenzione, per assicurare la partenza ai reali di Piemonte e metterli in via per l’isola di Sardegna. E bisognò passare di là. Il 9 dicembre 1798 la famiglia reale escì dal palazzo, donde fu scortata per tutto il viaggio da Torino a Parma, e da Parma a Bologna, fino alla frontiera toscana, in mezzo a continui pericoli. Imbarcata a Livorno, e protetta da una fregata inglese contro la caccia dei corsari francesi, prese terra finalmente a Cagliari, il 13 marzo del 1799. Io ero rimasto qualche tempo a casa, sopportando i miei dolori e assistendo a quelli del nostro povero paese. Vincolato dalla convenzione di Cosseria, non avevo potuto nel primo anno riprender servizio; potei farlo dopo l’alleanza conchiusa tra il nuovo re e la repubblica francese, e partecipai nel 1798 alle ripetute spedizioni dell’esercito piemontese contro le bande giacobine, che il signor Ginguené ci tirava abilmente in casa, dai confini della repubblica Ligure e da quelli della repubblica Cisalpina. Poi vennero i tristi giorni della monarchia, e noi fummo licenziati, restando il Piemonte sotto l’amministrazione francese. Seguirono gli errori del Direttorio e le sue guerre sfortunate in Italia. Il generale Buonaparte era andato a cercar gloria in Egitto; l’Austria spadroneggiava da capo sul Ticino e sul Po; rinascevano da per tutto le speranze della reazione europea e quelle della restaurazione piemontese ad un tempo; perchè, a farlo a posta, la causa cattiva si confondeva colla buona, e noi, non ancora educati dalla esperienza, dovevamo aspettare dalle vittorie austriache la libertà del Piemonte. Ritornò il Buonaparte, cacciò l’imbelle Direttorio, fu primo Console, vinse a Marengo, e col trattato di Luneville assicurò la sua prima conquista. Molti ne furono lieti a Torino, o perchè amassero la Repubblica, o perchè sentissero l’aria fecondatrice dei tempi nuovi. Noi, vecchi soldati della monarchia, si capisce, eravamo mal veduti e lasciati in disparte. Ma potevamo noi restare di buona voglia segregati dal mondo? Non dovevamo vivere la vita del nostro paese anche noi? Nel 1804 il Primo Console diventava imperatore; nel 1805 scendeva in Italia, per cingere a Milano la corona di ferro. Fu anche a Torino, e il generale Menou, che comandava la piazza, radunò per quella occasione al palazzo reale i notabili della città, non dimenticando i vecchi soldati. Strano uomo, quel generale Menou! Per amore della moglie, che era egiziana, aveva abbracciato l’islamismo al Cairo, e si faceva chiamare Abdallah. Or dunque, Abdallah Menou volle a palazzo Reale tutti coloro che avevano servito con qualche onore nell’esercito, e tra gli altri anche noi granatieri del 1796, e difensori di Cosseria. Napoleone (perchè oramai bisogna chiamarlo così) venuto a fermarsi davanti a noi, ci riconobbe all’uniforme, e ricordò la bella resistenza che avevamo fatta, usando parole che ci toccarono il cuore. Ah, se fosse stato là il nostro colonnello, l’eroe di Cosseria, ad udirlo! — Il valore è da onorarsi sempre, dovunque si trovi; — disse tra l’altre cose il grand’uomo, — Stamane ho provveduto con un decreto, perchè sia assicurata una pensione alla vedova di Filippo Del Carretto, morto da eroe per la gloria d’Italia, che è oramai gloria della mia stessa corona. Il giovine marchese Del Carretto avrà per mia prima cura una educazione militare, degna del padre suo e delle nobili tradizioni della sua illustre famiglia. — Fattosi quindi a parlare con ciascheduno di noi, chiese al cavalier Birago perchè, così giovane, avesse lasciato il servizio. — Sire, — rispose questi, — ho due fratelli feriti ed invalidi; una madre, di età molto avanzata, richiede tutte le mie cure. — L’imperatore fece la sua solita spallata e bisbigliò qualche parola al fido Abdallah. Mi parve d’intendere che gli raccomandasse di vincere la ritrosia del cavaliere, facendogli accettare un grado nell’esercito. — E voi, chi siete? — soggiunse poscia, rivolgendosi a me. — Sire, — risposi, — ero sergente a Cosseria, ed ebbi l’onore di sedere alla vostra mensa, nel quartier generale. — Ah, il diplomatico! — esclamò egli, sorridendo. Proprio così! Quell’uomo maraviglioso si ricordava perfino di quel ridicolo particolare. — Vediamo; — ripigliò; — anche voi avete impedimenti di famiglia. — No, Sire, nessuno. — Ah, bene! Sergente dei granatieri piemontesi, passerete sottotenente nell’esercito d’Italia, per combatter presto contro i nemici della vostra patria ampliata. — Così dicendo, mi posò una mano sulla spalla, come aveva fatto nove anni prima Filippo Del Carretto, e a me parve di aver già un secondo spallino. Ma questo, pur troppo, indugiò molto a venire. Non ebbi per un pezzo occasioni di avvicinare il grand’uomo e di destare la sua attenzione. Mi parve già una grande fortuna, dopo Ulm ed Austerlitz, esser chiamato a far parte del drappello che portava a Parigi le bandiere ed i trofei della doppia campagna contro l’esercito francese ed il russo. Era una grande ricompensa, esser mandati a Parigi in que’ tempi, e molti prodi del grande esercito morirono senza ottenerla. Fui dunque alla capitale della Francia, anzi, per allora, del mondo civile; e là, una mattina, sulla piazza delle Vittorie, m’imbattei nel chirurgo Nougarède. Egli aveva lasciato il servizio ed era vestito alla borghese; ma io lo riconobbi facilmente allo sfregio del viso e alla guardata di stupore che mi diede nell’atto di ravvisarmi. Sperando di non essere osservato da me, tirò di lungo per la sua strada; ma certamente non tacque ad altri di avermi incontrato a Parigi, poichè il giorno dopo ricevetti una graziosa letterina. La persona che l’aveva scritta, desiderava vedermi e dirmi un mondo di cose, epperciò mi pregava di essere ad una cert’ora della mattina seguente al Palais Royal, sotto gli archi della Galleria d’Orléans. — Ah! — esclamai io, sentendo fremere da capo le corde tese del dramma. — Lo credereste? — seguitò tranquillamente il narratore. — Non andai, non risposi, non mi feci vivo coi morti. — Coi morti! E perchè? — Perchè io li avevo per tali, i miei poveri affetti d’una volta; — rispose il veterano. — A che frugar nelle ceneri? C’è sempre da scottarsi, o da tingersi. Amico mio, credete a me, non è bene rivedere la donna che si amò inutilmente. Già troppo male avevo ripetuta a Savona la scena di Cosseria. Pensate forse che non avrei fatto qualche altra sciocchezza a Parigi? Sciocchi si nasce e sciocchi si muore. Del resto, vediamo: se ella fosse stata felice, mi avrebbe addolorato per un verso; se fosse stata infelice, mi avrebbe addolorato per un altro. Ed io, pieno di tristi presentimenti, mi sono sottratto ad una terza sconfitta, ho lasciata la vergine del reggimento nel limbo dei ricordi giovanili, bella immagine luminosa, e strana per giunta, come era tutto strano in quel tempo eroico e pazzo, che si è dileguato oramai, e che vive soltanto nella memoria d’un migliaio d’invalidi. — Beviamo! — diss’io, rassegnato. — Sì, beviamo; — riprese Monsù Tomè. — Infine, la gioia più vera e costante è qua dentro. Si arriva agli onori, e si trova la noia nel fondo; o non si arriva, e la vita è sciupata egualmente. Non c’è altro di buono, nel mondo, che la gioventù e la speranza; ma questa è vana, e l’altra è passeggera. La morte delle passioni è lo stadio vitale più lungo; ora, questo misero stadio vuole la quiete; ama il caldo e gradisce un bicchiere di buon vino. A chi vi dice che ciò è volgare, rispondete: E noi che cosa siamo? Angioli, forse? E poi, nel vino è una dolce ebbrezza, un principio d’oblìo, immagine del grande, e nero, e freddo, oblìo, che tutti ci attende alla svolta della strada. — Quello è per la vile argilla; — osservai. — Già, — rispose egli, — perchè tutto si restituisce. Abbiamo preso alla terra; rendiamo dunque alla terra. — Pensiero giustissimo! — replicai. — Il corpo dunque alla terra, e lo spirito ai cieli. Ho questa fede io, e mi auguro l’abbiate anche voi, che sulla terra avete amato, sofferto, operato; sopra tutto operato! — Sicuro; — conchiuse Monsù Tomè; — incominciando da tutti i fiumi della Russia. E nella speranza dei giorni immortali, non abbiamo paura d’un bicchiere di vino. — Così dicendo, il nostro vecchio amico si recò il sesto alle labbra. Io non istarò a riferirvi i discorsi che si fecero, o le frasi scucite che si barattarono tra il sesto e il decimo della serie, perchè non hanno che fare con la storia narrata, e, se Dio vuole, finita. Vi basti sapere che l’eroe filosofo finì secondo l’uso la sua giornata festiva, cioè sotto la tavola. Per quella volta, via, egli se l’era guadagnato, un momento di riposo! Teresina, la nerboruta fantesca, venne alla sua ora, raccolse quel sacco d’ossa e di memorie, e lo portò _more solito_ a letto. Per un valoroso della campagna di Russia, che era ritornato da Mosca, quella conclusione domenicale si poteva chiamare «il passaggio della Teresina.» Monsù Tomè, vecchio e venerato fantasma della mia adolescenza, ho aspettato molti anni a parlare di voi, e almeno da trenta voi bevete il nèttare al banchetto dei celesti, senza pericolo di andar sotto la tavola. Bevete in pace, nobile amico, che mi avete fatto pensare tante volte con calma filosofica, non disgiunta da qualche sorriso, alle grandezze e alle miserie del mondo. Beato voi, che saprete tante cose, a me rimaste oscure, non che ai lettori discreti! Adriana, per esempio, è stata amata dal Nougarède così fortemente come fu amata da voi? E per contro, sarebbe stata amata così e ricordata da voi per tutta la vita, se vi fosse caduta nelle braccia come una povera sciocca, e vi avesse tolto ciecamente per suo signore e padrone? Ecco un problema, perbacco! Lo aggiungeremo a tutti quelli che già affliggono l’umanità, e che la scienza, bontà sua, promette ad ogni tanto di risolvere. FINE. INDICE CAPITOLO Pag. I. La presentazione dell’eroe 1 II. Lo sguardo dell’aquila 15 III. Il battaglione d’acciaio 26 IV. «Avanti Monferrato!» 43 V. Chi comanda, a Cosseria? 61 VI. Giornata calda 77 VII. La vergine del reggimento 92 VIII. Il Leonida di Cosseria 115 IX. In fondo al burrone 133 X. Tra sera e mattina 149 XI. Sul tamburo 167 XII. Presentate le armi 185 XIII. Ex ungue leonem 201 XIV. Sulle orme di Adriana 225 XV. All’arme bianca 241 XVI. Piccola Odissea 259 XVII. Scuola d’amore 282 XVIII. Si dà nei lumi 302 XIX. Indovinarla! 320 XX. Pizzico di filosofia 338 DEL MEDESIMO AUTORE: =Capitan Dodero= (1865). _Settima edizione_ L. 2 — =Santa Cecilia= (1866). _Quinta edizione_ » 2 — =I Rossi e i Neri= (1870). _Seconda edizione_ » 6 — =Il libro nero= (1871), _Quarta edizione_ » 2 — =Le confessioni di Fra Gualberto= (1873). _Seconda edizione_ » 3 — =Val d’Olivi= (1873). _Terza edizione_ » 2 — =Semiramide=, racconto babilonese (1873). _Terza edizione_ » 3 50 =La legge Oppia=, commedia (1874) » 1 — =La notte del commendatore= (1875). _Seconda edizione_ » 4 — =Castel Gavone= (1875). _Seconda edizione_ » 2 50 =Come un sogno= (1885). _Settima edizione_ » 3 50 =Cuor di ferro e cuor d’oro= (1885). _Quarta edizione_ » 3 50 =Tizio Caio Sempronio= (1877). _Seconda edizione_ » 3 — =L’olmo e l’edera= (1867). _Ottava edizione_ » 3 50 =Lutezia= (1878). _Seconda edizione_ » 2 — =Diana degli Embriaci= (1877). _Seconda edizione_ » 3 — =La conquista d’Alessandro= (1879) _Seconda edizione_ » 4 — =Il tesoro di Golconda= (1879) _Seconda edizione_ » 3 50 =La donna di picche= (1880) _Seconda edizione_ » 4 — =L’undecimo Comandamento= (1881). _Seconda edizione_ » 3 — =Il ritratto dei diavolo= (1882). _Seconda edizione_ » 3 — =Il biancospino= (1882) » 4 — =L’anello di Salomone= (1883) » 3 50 =O tutto o nulla= (1883) » 3 50 =Fior di Mughetto= (1883) » 3 50 =Dalla Rupe= (1884) » 3 50 =Il conte Rosso= (1884) » 3 50 =Amori alla macchia= (1884) » 3 50 IN PREPARAZIONE: _Il lettore della principessa._ NOTE: [1] «_La garde meurt et ne se rend pas_» è stato fatto dire, a Waterloo, dal valoroso Cambronne. Ma la frase di Filippo Del Carretto ha diciott’anni di precedenza; ed è autentica. Nota del Trascrittore Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici. *** END OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK MONSÙ TOMÈ *** Updated editions will replace the previous one—the old editions will be renamed. Creating the works from print editions not protected by U.S. copyright law means that no one owns a United States copyright in these works, so the Foundation (and you!) can copy and distribute it in the United States without permission and without paying copyright royalties. Special rules, set forth in the General Terms of Use part of this license, apply to copying and distributing Project Gutenberg™ electronic works to protect the PROJECT GUTENBERG™ concept and trademark. 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START: FULL LICENSE THE FULL PROJECT GUTENBERG LICENSE PLEASE READ THIS BEFORE YOU DISTRIBUTE OR USE THIS WORK To protect the Project Gutenberg™ mission of promoting the free distribution of electronic works, by using or distributing this work (or any other work associated in any way with the phrase “Project Gutenberg”), you agree to comply with all the terms of the Full Project Gutenberg™ License available with this file or online at www.gutenberg.org/license. Section 1. General Terms of Use and Redistributing Project Gutenberg™ electronic works 1.A. By reading or using any part of this Project Gutenberg™ electronic work, you indicate that you have read, understand, agree to and accept all the terms of this license and intellectual property (trademark/copyright) agreement. If you do not agree to abide by all the terms of this agreement, you must cease using and return or destroy all copies of Project Gutenberg™ electronic works in your possession. 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Except for the limited right of replacement or refund set forth in paragraph 1.F.3, this work is provided to you ‘AS-IS’, WITH NO OTHER WARRANTIES OF ANY KIND, EXPRESS OR IMPLIED, INCLUDING BUT NOT LIMITED TO WARRANTIES OF MERCHANTABILITY OR FITNESS FOR ANY PURPOSE. 1.F.5. Some states do not allow disclaimers of certain implied warranties or the exclusion or limitation of certain types of damages. If any disclaimer or limitation set forth in this agreement violates the law of the state applicable to this agreement, the agreement shall be interpreted to make the maximum disclaimer or limitation permitted by the applicable state law. The invalidity or unenforceability of any provision of this agreement shall not void the remaining provisions. 1.F.6. 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It exists because of the efforts of hundreds of volunteers and donations from people in all walks of life. Volunteers and financial support to provide volunteers with the assistance they need are critical to reaching Project Gutenberg™’s goals and ensuring that the Project Gutenberg™ collection will remain freely available for generations to come. In 2001, the Project Gutenberg Literary Archive Foundation was created to provide a secure and permanent future for Project Gutenberg™ and future generations. To learn more about the Project Gutenberg Literary Archive Foundation and how your efforts and donations can help, see Sections 3 and 4 and the Foundation information page at www.gutenberg.org. Section 3. Information about the Project Gutenberg Literary Archive Foundation The Project Gutenberg Literary Archive Foundation is a non-profit 501(c)(3) educational corporation organized under the laws of the state of Mississippi and granted tax exempt status by the Internal Revenue Service. The Foundation’s EIN or federal tax identification number is 64-6221541. Contributions to the Project Gutenberg Literary Archive Foundation are tax deductible to the full extent permitted by U.S. federal laws and your state’s laws. The Foundation’s business office is located at 809 North 1500 West, Salt Lake City, UT 84116, (801) 596-1887. Email contact links and up to date contact information can be found at the Foundation’s website and official page at www.gutenberg.org/contact Section 4. Information about Donations to the Project Gutenberg Literary Archive Foundation Project Gutenberg™ depends upon and cannot survive without widespread public support and donations to carry out its mission of increasing the number of public domain and licensed works that can be freely distributed in machine-readable form accessible by the widest array of equipment including outdated equipment. Many small donations ($1 to $5,000) are particularly important to maintaining tax exempt status with the IRS. The Foundation is committed to complying with the laws regulating charities and charitable donations in all 50 states of the United States. Compliance requirements are not uniform and it takes a considerable effort, much paperwork and many fees to meet and keep up with these requirements. We do not solicit donations in locations where we have not received written confirmation of compliance. To SEND DONATIONS or determine the status of compliance for any particular state visit www.gutenberg.org/donate. While we cannot and do not solicit contributions from states where we have not met the solicitation requirements, we know of no prohibition against accepting unsolicited donations from donors in such states who approach us with offers to donate. 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