Lutezia

By Anton Giulio Barrili

The Project Gutenberg EBook of Lutezia, by Anton Giulio Barrili

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Title: Lutezia

Author: Anton Giulio Barrili

Release Date: September 20, 2009 [EBook #30043]

Language: Italian


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LUTEZIA




            DELLO STESSO AUTORE;


  Racconti e Novelle--Vol. I: Capitan Dodero, Santa
      Cecilia, Una notte bizzarra. 1 vol. in-16.             L. 2 --
  -- -- Vol. II.- in-16 l'Olmo e l'Edera, Il libro  nero.    »  3 --
  I Rossi e i Neri, romanzo. 2 grossi vol. in-16.            »  7 --
  Val d'Olivi, romanzo, 1 vol. in-16                         »  2 --
  Le confessioni di Fra Gualberto, storia del secolo
      XIV. 1 vol in-16                                       »  3 --
  Semiramide. 1 vol. in-16   (2^a ediz.)                     »  2 50
  Castel Gavone, romanzo. 1 vol. in-16 (2.^a ediz.)          »  2 50
  Capitan Dodero. 1 vol. in-32                               » -- 50
  Santa Cecilia. 2 vol. in-32 (2^a ediz.)                    »  1 --
  L'Olmo e l'Edera. 2 vol. in-32 (2^a ediz.)                 »  1 --
  Il libro nero. 2 vol. in-32 (2.^a ediz.)                   »  1 --
  La legge Oppia, commedia, in-16                            »  1 --
  Come un sogno, racconto, in-16 (4.^a ediz.)                »  2 --
  La notte del commendatore. 1 vol. in-16                    »  4 --



            IN PREPARAZIONE:

  La conquista d'Alessandro.




                          LUTEZIA

                             DI

                    ANTON GIULIO BARRILI



                      SECONDA EDIZIONE




                           MILANO

                 FRATELLI TREVES, EDITORI.
                           1879.





                   Proprietà letteraria.

                        Tip. Treves.




                        AL

              BARONE GIORGIO SONNINO

              DEPUTATO AL PARLAMENTO

                         CON AFFETTO FRATERNO

                         ANTON GIULIO BARRILI.




LUTEZIA




I.

La ragione del viaggio.--Un'occhiata a Torino.--Savoia e Borgogna.--Il
deserto--Idea luminosa.--Parigi di sera.--Sul marciapiede.--Arabi
apocrifi e francesi autentici.--La storia del nastro.--Scaccini e
accattoni.--Tolleranza parigina.


                                Parigi, 15 settembre 1878.

Se d'ogni cosa che si è fatta, o si sta per fare fosse costume di
cercar le ragioni, si troverebbe alla stretta dei conti che queste
ragioni si restringono a poche, e non tutte sufficienti, come le
voleva il Rosmini. Io, per esempio, son venuto a Parigi senza un vero
perchè, senza un bricciolo d'interesse, o la scusa di una grande
curiosità, solamente per fare come tutto il mondo, in questi tempi
d'esposizione universale. Ed eccomi qui, con mezzo mondo alle costole.
L'altra metà c'è' già stata, povera lei, con un caldo assaettato,
mentre io ci son giunto e ci sto con un fresco che innamora.
Appartengo alla gran metà dei soddisfatti, non c'è che dire.

Il mio viaggio può essere il viaggio di tutti, perciò le descrizioni
tornerebbero superflue; ciò nondimeno, permettetemi di buttarvi giù
quattro righe di storia. Ho passato un giorno a Torino, col rammarico
di non poterci rimanere più a lungo. La vecchia capitale del regno si
è grandemente abbellita; è florida, operosa e popolata più che mai.
Esempio ed insegnamento notevole di una città che pareva condannata
alla decadenza, e che ha trovato in sè stessa, nel suo coraggio, nella
sua volontà, le forze riparatrici, non sempre facili ad attingersi
dalle ricette degli Esculapii ufficiali.

Della galleria del Cenisio ho poco o nulla da dirvi. L'ho dormita tutta
quanta, e mi è parsa poca. Mi sono risvegliato in Francia, al suono di un
«_vos billets, messieurs_» profferito allo sportello, da un conduttore
gallonato d'oro. Ho visto il gendarme, in luogo del mio prediletto
carabiniere; mi han fatto scendere dalla carrozza e traversare il
binario; mi han chiuso in una corsia, nel cui punto più stretto un
gendarme aggradiva i nostri biglietti di visita e ne faceva raccolta, a
mano a mano che gli sfilavamo davanti, o, per dire più esattamente, sul
petto; mi hanno trattenuto un'ora nella stia, con una moltitudine di
altri infelici, senza darmi neanche licenza di uscire per un minuto
all'aperto; e tutto ciò alla gloria _de l'administration, de la
régularité, des exigences du service_. In nome e alla gloria di queste
cose, qui si sopporta anche di peggio. In Italia si eserciterebbe la
pazienza con qualche dozzina di giaculatorie, non registrate nella _Via
del Paradiso_, nè in altro libro di preghiere alla mano.

Rammento, per debito di giustizia, che a Modane, come in ogni altra
stazione ferroviaria, od anche ufficio pubblico di Francia e Navarra,
la rigidità della consegna, l'austerità del regolamento, sono
temperate dalla gentilezza dei modi. Toccate la molla del «_s'il vous
plaît, monsieur_» e quella del «_veuillez avoir la bonté_» e fate
tutto quel che volete del conduttore, del guardiano, del gendarme, del
sergente, del brigadiere, e perfino (almeno, c'è chi lo assicura)
perfino del maresciallo.

In grazia dei «_monsieur_» serviti a tutto pasto e con ogni razza di
gallonati, ho potuto uscir primo dalla gabbia, trovare il meno peggio
dei posti nel treno francese, e schiacciarmi un altro sonnellino
attraverso la Savoia. Nella stazione di Ambérieu, dove giungemmo a
giorno chiaro, ho bevuto un latte, che meriterebbe il viaggio da solo.
Il paese tutto intorno è bellissimo, colle sue balze che torreggiano
impervie come rocche ariostesche, i suoi villaggi mezzo nascosti tra i
pioppi, e il Rodano pur mo' nato che gorgoglia (quasi sarei per dire
che balbetta) sul greto bianchiccio della vallata.

Che dirvi della Borgogna, attraversata nel giorno, con uno splendido
sole? È la campagna meglio pettinata del mondo. I prati, i vigneti, i
campi di grano turco, i casolari, i castelli signorili, ogni cosa è
lisciata, cincischiata, fatta a pennello; ma badate, a pennello di
scuola antica, e non già con certe spazzole da denti che so io, e che
voi non ignorate di certo.

Questi prodigi d'agricoltura non vi occorrono mica nel più fertile dei
terreni possibili. La campagna, dove è nuda, si mostra sassosa e
gessosa, che è una disperazione a vederla. Ma ogni poggio, ogni falda,
ogni piano, ha la sua coltivazione più acconcia; l'azoto vi si ficca
in abbondanza e sotto tutte le forme più dottamente putride; i corsi
d'acqua, numerosi e ben distribuiti, vi dànno de' pascoli così verdi,
così ricchi, così appetitosi, da farvi qualche volta desiderare
d'esser nato bue veramente, per contribuire, nella calma di una onesta
ruminazione, all'incremento, alla prosperità di questo suolo
benedetto. Quante volte e per quanti guastamestieri di cui è pieno il
mondo, non sarebbe meglio che la _natural selection_ avesse portato un
tal giro nella scala degli esseri?

Il pensiero dei cinque miliardi e la dimostrazione sott'occhi del modo
in cui poterono esser pagati ai Prussiani senza danno del paese, si
alternano nella mia testa con le belle vedute di Macon e di Digione, e
con lo spettacolo dei contadini che maneggiano la vanga qua e là,
ritti sulla persona alla maniera toscana, quasi eleganti in vista, con
la loro camicia bianca, la fascia di lana intorno alla vita e il
cappello di paglia sulla testa. La via è lunga; ma, come vedete, non è
punto noiosa.

Parigi si annunzia come Roma, con un vasto deserto. Ma questo di
Parigi non è desolato come l'agro romano. Scarseggiano i paesi; si
vedono a tratti poche case disseminate nel verde: ma la strada ferrata
corre in mezzo a vigne, orti, semenzai e frutteti. Ho notato per un
cinquanta chilometri di questa coltivazione intensiva.

Partito da Torino alle otto e cinquanta di sera giunsi a passar la
Senna, sopra Parigi, dopo le cinque pomeridiane del giorno seguente.
Alle sei, o giù di lì, per un ritardo reso necessario dalla affluenza
dei treni, smontavo alla stazione di Bercy, o di Lione, se vi piace
meglio. Novità inaudita; non un omnibus d'albergo ad aspettare i
forastieri, poche carrozzelle, e tutte colla scritta «_louée_» su
d'una banderuola piantata a cassetta, sulla sinistra del cocchiere. Ma
non invano si è nati nella patria dei grandi scopritori. Scendo una
scala, che mi mette sul _boulevard de Mazas_; m'imbatto in un piccolo
Gavroche, che vuol portarmi la sacca da viaggio per venti centesimi;
resisto e gli prometto una lira, se gli dà l'animo di trovarmi un
_fiacre_. Il biricchino stacca un passo di corsa da disgradarne un
bersagliere, e dieci minuti dopo, mentre vicino a me, su di un rialto
isolato che fa cerchio intorno ad un lampione, quattordici o quindici
viaggiatori appiedati rappresentano la scena dei superstiti della
_Medusa_, io ci ho il mio _fiacre_, col Gavroche trionfante a
cassetta. Non invito nessuno a tenermi compagnia; non torno indietro a
cercare il bagaglio; infilo Parigi alla corsa.

Parigi è una città.... Ma, adagio; debbo proprio descriverla?
Smontiamo prima all'albergo, che è abbastanza lontano dalla stazione;
intavoliamo coll'albergatore i negoziati preliminari d'ogni trattato;
diamo ad un cameriere il biglietto e la chiave del baule, perchè possa
andare a ritirare il bagaglio dimenticato; scendiamo, cerchiamo il
primo _passage_, o galleria, che ci metta in comunicazione colla
grande arteria parigina; ed eccoci finalmente sul _boulevard_, anzi
proprio su quello famoso _des_ _Italiens_, che abbiamo intraveduto un
po' tutti, all'età di quindici anni, nelle pagine d'un romanzo
francese, tradotto da un Enrico Tettoni, o da un Gaetano Barbieri.

Parigi, per la prima volta, vuol esser veduta sui _boulevards_ e di
sera. Immaginate una via, non affatto rettilinea, larga una quarantina
di metri, con due marciapiedi, ognuno dei quali occupa un quarto di
questa misura, avendo sui margini dei grandi platani malati
d'insonnia, frammezzati da chioschi di ferro, con pareti di carta, e
un lume dentro, che ve li fa trasparenti, permettendovi di leggere un
subisso di annunzi. Uno di questi chioschi non annunzia che spettacoli
teatrali, ed è tutto chiuso, come una colonna traiana. Un altro serve
di bottega ad un venditor di giornali; un altro ancora, circondato
d'un chiuso di ferro, alto forse due metri, nasconde nei fianchi
quattro o cinque settori, dove un uomo può stare benissimo in piedi,
dando le spalle al prossimo. _Ne m'en demandez pas davantage_. Accanto
ad alcuni di questi chioschi, è una chiave d'ottone con una secchia. I
cocchieri aprono la chiave e riempiono la secchia, per abbeverare i
cavalli, quando fanno sosta sui margini della strada. I casamenti
sterminati, che corrono lungo la via, bucherellati di finestre,
gremiti d'insegne, scintillanti di fiammelle di gasse, non formano a
pian terreno che un solo caffè, una sola trattoria. Metà del
marciapiede è invasa da sedie e deschetti di zinco. Le persone sedute,
che mangiano e bevono, sono per lo meno in numero uguale a quelle che
guardano e passano. Il gasse, come vi ho detto, è gittato a
profusione; della luce elettrica in alcuni punti si fa spreco; per
esempio nel crocicchio e nella piazza attigua dell'Opera, dove vi par
d'essere nel giardino di Margherita, quando sta per finire il
terz'atto del _Faust_. Qui, per altro, le Margherite passeggiano a
migliaia tra la folla, riconoscibili dall'andar sole, perchè, come
dice il libretto, «_non hanno d'uopo ancor--del braccio d'un signor_.»

M'avvedo d'aver rimpicciolito, col paragone d'un giardino, l'aspetto
di Parigi notturna. Era un sacrificio fatto alla luce elettrica e al
suo carattere teatrale. Parigi non può essere paragonata degnamente
che a Babilonia, alla Babilonia del convito di Baldassarre, che
abbiamo veduta nelle incisioni del Martin, o di Gustavo Doré. Quella
gran luce fa biancheggiare nel fondo le isole gigantesche dei
fabbricati. Gli alberi rompono un tratto quella gran mano di bianco;
ma sotto gli alberi, la luce dei chioschi, dei caffè, delle botteghe,
sforacchia per mille versi la frappa. Poveri alberi, quando dormono? E
quando cessa questo viavai di gente, e questo affollarsi di vetture,
di omnibus e di _tramways_?

La moltitudine che si pigia sui marciapiedi è in gran parte di
forastieri. La nota dominante è spagnuola; segue l'italiana, con una
certa sovrabbondanza d'elemento veneto. Inglesi pochi; tedeschi
pochissimi; americani così così; qua e là qualche algerino col
turbante, e un'aria di Beni-Mouffetard che consola. Sapete che cosa
sono i Beni-Mouffetard? Alessandro Dumas ha raccontato in uno dei suoi
mille volumi l'origine di questo nome, appioppato agli Arabi apocrifi,
nati nella via Mouffetard, che è, od era, tra le più centrali, tra le
più parigine di Parigi. Anche i francesi autentici si conoscono
facilmente. La più parte hanno il nastro rosso all'occhiello. Si può
credere che tutti i decorati della Legion d'Onore si siano dati la
posta a Parigi, per fare una esposizione dell'Ordine.

Dicono molti che il nastro sia necessario qui, per essere trattati con
qualche riguardo. Parecchi italiani accettano il consiglio e mettono
fuori il nastro verde, o bianco e vermiglio, o tutt'e due di costa. Io
credo che non ce ne sia proprio bisogno. Ho anzi sperimentato che il
mio scudo e il mio marengo hanno un valore uguale a quello di tanti
cavalieri visibili, e che un «_pardon_» e un «_s'il vous plaît_»
ottengono sempre ogni cosa da questo popolo gentile, anche quando
questo popolo s'accorge che siete italiano e ricorda di vedervi
volentieri come il fumo negli occhi.

Intorno a questo sarebbe necessaria una parentesi; ma la farò un'altra
volta. Vi basti sapere che il francese è pieno di amabilità con tutti
e che non occorre di mettere il _ruban_, salvo che lo si faccia per
cavarsi la voglia. Nel qual caso, nessuno ride, come si riderebbe in
Italia. Il _ruban_ è la cosa più naturale del mondo e se ne fa qui un
grande consumo, come da noi di prezzemolo. Perfino gli alabardieri
delle chiese principali sono cavalieri della Legion d'Onore. Andate
alla Trinità, come ci sono andato io, per veder tutto, e potrete
ammirare un bel pezzo d'uomo, giovane ancora, con la mazza dal pomo
d'argento, portare in processione per la chiesa la sua brava
decorazione, mentre dietro lui, un prete sagrestano va attorno a
raccattare i soldi dei divoti, durante l'elevazione dell'ostia.

A proposito di chiese, noto il particolare abbastanza curioso, ma per
contro non abbastanza bello, che, per farvi vedere una cripta, una
sagrestia, od anche semplicemente il coro, i preti vi sottopongono ad
una tassa di cinquanta centesimi. Anche in questo caso c'è il vecchio
sergente giubilato, avanzo glorioso di Magenta e di Solferino, che si
adatta all'ufficio di guardia del tempio, per mostrarvi le ceneri di
santa Genovieffa, o la tomba del signor di Voltaire. Questi due santi
sono uguali, davanti ai cinquanta centesimi; purchè ve li piglino, i
custodi del santuario non abbadano al modo. Noi, nelle nostre chiese,
ci abbiamo la piaga del cicerone; ma questo si può mandarlo al diavolo
come e quando si vuole, e i signori forastieri non si fanno pregare,
per appigliarsi a questo espediente. Qui c'è la tassa di veduta, e non
c'è modo di salvarsi, bisogna pagarla. A _Nôtre Dame_ accade anche
peggio; la porta laterale, unica aperta, strettita a bella posta, è
occupata militarmente da venditori di coroncine, da mendicanti
ufficiali colla piastra d'ottone, da monache le quali vi chiedono la
carità _pour leurs pauvres_, da sagrestani che ve la chiedono _pour
l'obole de saint Pierre_, e finalmente da un personaggio ambiguo, che
intinge un pennello nella pila dell'acqua santa e ve lo mette
gentilmente sotto il naso, perchè con una mano possiate dare al segno
della croce la quantità d'umido che è necessaria a quest'atto, e con
l'altra abbiate occasione di fargli aggradire un paio di soldi. Tutto
ciò riesce molesto agli uni, offende il sentimento religioso degli
altri. Io, per me, preferisco la beghinella romana, che vi s'accosta
vergognosa alla svolta d'una colonna, e vi dice a bassa voce:
«signore, la carità; sono una povera madre disgraziata.» Non mi
parlino più con tanta sicumera dell'accattonaggio italiano; li ho
visti alla prova, e mi tengo cari i miei cenci.

Del resto e dopo tutto, un popolo curioso e grazioso. C'è qui la buona
grazia di chi vive allo stretto, e la tolleranza di chi può svoltare
la cantonata e trovarsi subito al largo. Pazzie ed atti ragionevoli,
virtù e vizi, qualità e difetti, mettono qui ogni cosa in comune,
dandosi a vicenda del gomito e dicendosi «_pardon_.» C'è del buono, vi
dico io, c'è del buono. Impariamo.




II.

Il cervello del mondo.--Caso e necessità politica.--Una fioritura
colossale--L'_article de Paris_--La virtù del cartellone.--La caccia
al compratore.--Gli occhi della padrona.--La scala dei prezzi.--L'arte
di pelare un pollo senza farlo stridere.


Che cosa sia questa città lo sanno tutti, anche senza averla veduta.
Della sua importanza molti si fanno un concetto più grande del vero, e
tra costoro ce ne sono parecchi che l'hanno veduta e ci vivono. Non è
forse Vittor Hugo che l'ha battezzata di suo capo «il cervello del
mondo?»

Essa non è altro, in verità, che il cervello della Francia e ci si
vede il frutto di quattro secoli d'accentramento, tirannico dapprima,
indi spontaneo, per forza di consuetudine. Oggi i re e gli imperatori
sono spariti; ma tant'è, il popolo francese ci ha fatto il verso e
continua a lavorare, a spogliarsi, a levarsi il pan di bocca, per la
grandezza di Parigi, come avrebbe fatto nel Medio Evo, per pagare la
decima a' suoi gloriosi castellani.

Parigi, prendendola _ab ovo_, è la figlia del caso, maritato ad una
necessità politica di Giulio Cesare. Il vincitore delle Gallie doveva
convocare in un punto del territorio conquistato i capi delle varie
genti. Le maggiori città erano cadute in sua mano e distrutte; una
meschina borgata, costruita di paglia e di mota in un'isola della
Senna, ebbe l'onore di accogliere quella prima forma di congresso.
L'esempio di Cesare, come molti altri del grand'uomo, fu seguito dagli
imperatori romani, taluno dei quali vi pose anche dimora. Costanzo vi
fabbricò un palazzo; Giuliano vi fu proclamato imperatore; Graziano vi
perdette la vita. Vennero i re franchi, Merovingi, Carolingi e
Capetingi. Parigi era diventata il centro religioso e teologico della
Francia. In un tempo come quello, che dava tanta parte delle cose
umane alla Chiesa, il primato di Parigi fu assicurato. Dapprima col
benefizio delle scuole, che attiravano scolari da ogni punto d'Europa,
poi con le grandi opere di Francesco I e de' suoi successori, la sua
fama e la sua potenza si accrebbero a dismisura. La monarchia dei
Valois, rassodandosi in Francia alle spese dei grandi vassalli, fece
di Parigi una nuova Atene ed una nuova Roma, alle spese delle
provincie, ridotte in obbedienza, o delle terre straniere,
saccheggiate quando ne capitava l'occasione. Anche adesso, Parigi si
sostiene così, sebbene coi mutamenti portati dalla civiltà; si nutre
di provinciali e di forastieri, senza volerlo, quasi senza saperlo,
come noi di cavallo, o d'altro animale non destinato agli onori
dell'ecatombe alimentaria. In tutta la Francia si lavora e si produce
a gran furia; qui solamente si appiccica il bollo della fabbrica. I
lavoratori di Francia, nelle settimane di riposo, vengono qua per
vedere i musei, i giardini, i palazzi, le luminarie in continuazione,
il loro sfoggio, insomma, quello sfoggio che non si farebbero lecito
in casa. E ci lasciano allegramente i loro quattrini, qualche volta
dell'altro, come a dire la salute, per andarsene via tutti orgogliosi
di questa perla, di questo diamante, di questa meraviglia del mondo
moderno, che è unica, laddove quelle del mondo antico erano sette.

Madrid non fu così splendida, quando Carlo V poteva credersi il
padrone dell'Europa. E si capisce. Madrid era più nuova, come
capitale, e comandava con la forza, rinfrancata dalla superbia; mentre
Parigi ha sempre comandato con la grazia e con le moinerie, facendosi
perdonare perfino la sua gloria, con una cert'aria trionfale che non
escludeva il sorriso. Così come l'hanno fatta gli anni, gli uomini e
le donne, è una fioritura colossale, sproporzionata per ogni nazione
che non chiamasse le altre a goderne la parte loro. Si può maledirla
coi filosofi; bisogna riconoscerla coi diplomatici. C'è chi pretende
di assegnarle un termine, come a Ninive, a Babilonia, a Persepoli, a
Tebe; ma io credo che il parallelismo non corra. Parigi è il fiore
della Francia, e la Francia avrà sempre in qualche cosa il primato. Ci
saranno delle altre Madrid; Carlo V rinascerà in altri monarchi
fortunati; ma Parigi trionferà ancora, perchè cospireranno a
sostenerla altri Bajardi, altri Jean Goujon, altri Palissy ed altre
madame d'Etampes. Sicuro, anche le donne, e che donne! Anche questa è
stata una specialità, un _article de Paris_, composto di un terzo di
bellezza, e di due terzi di grazia. «E la bellezza è vinta dal lavoro»
direbbe il poeta.

Parigi ha i suoi barbari, i suoi odiatori domestici, peggiori a gran
pezza dei nemici e degli invidiosi di fuori. È da vedersi qui il punto
nero; ma, per istudiarlo a dovere, ci vorrebbe tempo d'avanzo, ingegno
addestrato a questa maniera d'indagini. E poi, basterebbe ciò, per
venire con qualche fondamento ai pronostici? Si ragiona male con certe
classi di moralisti, che gridano contro una corruzione da cui non
sanno sottrarsi eglino stessi, non si può capire dove mirino certi
artefici del lusso, che potrebbero contentarsi di meno, tornando
all'aratro, e non vogliono, perchè essi pure hanno nell'anima il baco
dei desiderii smodati, e credono di poter domandare come un loro
diritto ciò che agli uni concede la fortuna, agli altri il lavoro
accumulato di tre o quattro generazioni. Questa confusione di
dottrinarii e d'ignoranti sfugge ad ogni esame, manda a male ogni
calcolo. Ieri vi hanno sopportato un Dionigi; quest'oggi vi rovesciano
un Washington.

Torno all'_article de Paris_. Qualunque sia, a qualunque industria
appartenga, esso è la forza di questa città; ed è qui che la cosa
s'intende. La città è tutta un'insegna; ad ogni bottega, ad ogni
piano, ad ogni finestra, si vede una scritta in grosse lettere d'oro.
Il parrucchiere, il tabaccaio, il liquorista, affittano le loro
vetrine alla pubblicità di altre industrie, bisognose di richiamo.
Dove c'è un muro maestro che aspetta l'addentellato d'una casa nuova,
si legge sempre qualche avviso che ha le lettere alte due palmi. Il
_Petit Journal_, un foglio niente migliore di molti altri, vi annuncia
così la sua tiratura di 600,000 copie al giorno. Altrove non ne
annuncia che 500,000; in certi luoghi si mette a cavallo delle
550,000; dappertutto fa precedere il numero delle copie da queste
parole orgogliose: «_le plus grand succès de l'époque_». Scommetto che
qui farebbe fortuna un giornaletto il quale sapesse spendersi
venticinque mila lire per far scrivere su tutte le cantonate
disponibili: «_Le plus petit succès de l'époque! Le...., _n'importe
quoi_, journal politique quotidien: tirage de 999 exemplaires_». Si
riderebbe dei pochi, come si ride dei molti, ma il giornale avrebbe
uno spaccio incredibile. Tanta è qui la virtù dell'annunzio!

Che dire del foglietto che si distribuisce a mano su tutti i
marciapiedi, su tutti i crocicchi di strada? Il cappellaio che si
serve di questo richiamo non vi annunzia mica un cappello da dieci
lire; tutt'altro! ve lo annunzia da sedici, o da venti. Voi, che avete
appunto bisogno d'un cappello, dite in cuor vostro:--se questo me lo
vende a sedici lire, Dio sa quante ne vorrà il cappellaio che non
manda attorno i foglietti!--E andate subito da quell'altro e pagate
sedici lire, certo di aver cansato una spesa di venticinque. Nè solo
per questo, ci andate, ma anche per un poco di gratitudine. Certi
foglietti son meraviglie d'arte tipografica, e abbondano di utili
indicazioni. L'altro giorno, per esempio, vi davano in questo modo il
piano della rassegna militare a Vincennes. Molti, da quattro mesi, vi
danno quotidianamente la pianta topografica dell'Esposizione. Un mio
amico, presidente d'un Club Alpino dell'Alta Italia, fa raccolta di
tutte queste offerte gratuite, con intenzione di custodirle. Ne avrà
presto una montagna, e potrà farne l'ascensione.

L'_article de Paris_ è la cosa fatta con maggior garbo, il libro nuovo
meglio stampato, il drappo meglio tinto, la veste meglio aggiustata.
Una certa grazia biricchina, una certa sprezzatura artistica, un certo
modo di presentare l'oggetto, ve ne raddoppiano il valore. E questo è
il grande vantaggio. Del resto, qui i prezzi variano secondo le
strade. Il _boulevard_ è una ladronaia galante. Entrate in una bottega
per comperare una cravatta, o per farvi stampare un centinaio di
biglietti di visita; c'è dentro una donnina di garbo, che ragiona a
lungo con voi, vi fa strabiliare col suo buon gusto, e con la scoperta
del vostro. Non ve ne eravate accorto, ed avevate anche voi un gusto
squisito, sopraffine, _non plus ultra_. La signora, quando vi ha
lisciato e ridotto per benino, chiama il commesso, un artista fallito,
elegante di aspetto e rispettoso di modi, che è incaricato di darvi il
colpo di grazia. Vi si domandano cento lire per ciò che a casa vostra,
od anche cinquanta passi lontano, vi costerebbe a mala pena
venticinque. Ma come dirgli che è un indiscreto, là, sotto gli occhi
della padrona, che vi abbozza con le labbra un sorriso? Rinunziereste
al vostro buon gusto, di creazione così recente, vi gabellereste da
voi per un barbaro?

Altro esempio. Come ritornare in Italia, non potendo dire di aver
pranzato da Bignon, o al caffè _Riche_? Bisogna dunque passare sotto
le Forche caudine; andare al _Riche_, o da Bignon. Eppure, chiuso là
in una di quelle scatole che chiamano sale, pigiato fra venti o trenta
persone ad uno di quei deschetti che chiamano tavole, avrete pagato
trenta lire, o giù di lì, una scarsa _julienne_, due piatti di carne,
o di pesce, e una bottiglia di vino. Andate in quella vece al _Diner
parisien_ o al _Diner Valois_, e pagate cinque lire un pranzetto più
compito di quello, quantunque meno ricco di principii e di frutte che
non sia il pranzo a cinque lire d'una trattoria italiana. Andate da
Tissot, o da un altro del _Palais Royal_, e lo stesso pranzo vi costa
a mala pena due lire e cinquanta centesimi. In via della Borsa c'è un
pulitissimo ristoratore coll'insegna _Au Rosbif_, che promette di
farvi pranzare per una lira e quaranta. Io non ci sono andato, come
non sono andato da quell'altro che ieri faceva annunziare i suoi
pranzi a una lira e venticinque; ma il timore di essere avvelenato non
c'entrava per nulla, bensì quello di non trovare cinquanta centimetri
di spazio. Infatti, non crediate che si tratti in queste trattorie
(parlo di quelle a cinque lire, e di quelle a due e cinquanta) di
mangiare della roba avariata. Ve la danno misurata, ecco tutto; vi
obbligano a sceglierne due o tre piatti in una carta che ne ha tre o
quattro di entrées, due o tre di pesce, due o tre di arrosti, e che
manca di certe primizie, di certe ghiottonerie peccaminose. Le frutte
sono pochine; potete scegliere tra una bella pera, una brutta pesca e
un mezzo grappolletto d'uva. Ma infine, anche da Bignon, o al caffè
_Riche_, se siete una persona a modo, non mangerete mica tutto quello
che vi portano in tavola. E il vino? Qui i vini, poco più, poco meno,
si somigliano tutti. Grossi e piccoli ristoratori, vi servono una
_piquette corrigée_, che deriva la sua maggiore o minore bontà dal
cartellino. Ed anche qui bisogna far l'atto di fede che si fa in
Italia, quando si prende per vin di Chianti il Toscanello, il suo
vicino della campagna pisana.

Dunque io dico, l'_article de Paris_ varia secondo le strade e le
insegne. Potrei parlarvi dei libri, che comperate a caro prezzo dal
libraio, e che avete a stracciamercato sui muricciuoli, quantunque si
tratti della medesima edizione, e spesso della medesima freschezza; ma
il capitolo si è fatto lungo oltre misura. Ritenete questa verità
apodittica, che dappertutto si pela, ma che soltanto a Parigi si
conosce l'arte di _plumer un poulet sans le faire crier_. Al gran
prezzo ed al piccolo; e nessuna borsa si salvi.




III.

Poliglottismo commerciale.--Eccezioni alla regola.--Orgoglio
legittimo.--La fratellanza dei popoli e la razza latina.--Non e ne
'ncaricà.--Retorica onesta.--La parabola del buon levatore.--_Laboremus_.


    _English spoken,_
    _Man spricht Deutsch,_
    _Men spreeckt hollands,_
    _Se habla español,_

e chi più n'ha più ne metta; io ci rinunzio, avendo dimenticato il
testo preciso della medesima frase in russo, in polacco e in
ungherese, che ho avuto la fortuna e il piacere di leggere su certe
vetrine di via Lafayette.

In questo poliglottismo commerciale di Parigi tutte le nazioni sono
rappresentate, ove se ne eccettui la nostra. Non mi è occorso di
vedere in nessun luogo il desiderato «si parla italiano», salvo in via
Castiglione, entro l'insegna d'un fotografo...italiano. L'eccezione
conferma la regola.

Lo fanno apposta? Non credo. Quando un francese sa scrivere «come
statte?» o farvi sapere che l'italiano «attrapare» corrisponde al
francese _attraper_ (preziosa notizia che ho trovata sul _Pays_, in un
articolo filologico di Granier de Cassagnac padre) si suol dire a
Parigi che costui parla l'italiano «_comme le Dante_». È dunque da
credere che il desiderio di parer versati nella nostra lingua,
evidente in certuni, escluda la possibilità del dispregio. Aggiungerò
una prova convincente. Ieri il mio parrucchiere mi domandava con aria
di profondo interesse: «_est-ce vrai, monsieur, que l'italien
ressemble beaucoup au latin?_»--«_A quelque chose près;_--gli
risposi;--_et c'est vraiment dommage que ce ne soit du latin tout
pur_.»--

Il fatto è questo, che i francesi ignorano la nostra lingua e non
sentono il bisogno d'impararla. L'italiano, quando esce fuori di casa
sua, s'ingegna come può; bene o male, ma più spesso con mediocre
infamia, spiccica la lingua degli altri. Ogni altro popolo d'Europa,
quando varca i suoi naturali confini, parla volontieri la propria e
mostra di stimar poco coloro che, interrogati, non gli rispondono in
quella. È un nobile orgoglio, secondo certuni; ma io lo definisco
l'orgoglio dell'ignoranza. Quando sono in un paese che non è il mio,
amo parlare la lingua di quel paese; quando sono in casa mia,
m'ingegno di farne gli onori, parlando al forastiero la lingua sua, se
ho la fortuna di masticarne un pochettino. Questo era, dopo tutto,
anche il gusto di Byron, che scriveva mirabilmente nella lingua di
Shakespeare, ma si sarebbe vergognato di parlarla sul continente,
avendo l'aria di imporre ai forastieri l'idioma di Wellington e di
Hudson Lowe. Al diavolo dunque l'orgoglio della lingua patria, del non
volerne saper altra e del pretendere che tutti parlino la nostra.
Superbia per superbia, teniamoci quella del sapere qualche volta la
lingua degli altri, del potere dare, col Mazzini e col Ruffini, degli
scrittori all'Inghilterra, col Fiorentino e con altri parecchi, alla
Francia. Qualche volta abbiam fatto di più, dando ai nostri vicini
degli uomini di Stato, come il Mazzarino, degli imperatori, come il
Buonaparte, dei dittatori, come il Gambetta.

_C'est nôtre orgueil à nous_, anche quando di questi uomini si dicono
corna. Bisogna leggere per esempio ciò che si scrive qui del Gambetta,
trionfante a Romans. _Le rusé gênois, l'opportuniste italien_, sono i
titoli più alla mano. E non sanno il piacere che ci fanno, quando
scrivono e dicono di queste cose. A buon conto scoprono il loro mal
talento e rendono a noi ciò che è nostro.

Ritorno al mio tema. I francesi, dirà taluno, non conoscono la nostra
lingua perchè non hanno interesse a studiarla. Per una parte è vero,
amando noi di parlare il francese, quando siamo in casa dei nostri
vicini. Per l'altra non lo è più tanto, dovendosi ammettere che un po'
d'obbligo dovrebbero sentirlo anche loro, e notando inoltre questa
sollecitudine con cui tanti bravi bottegai si affannano a notificare
_urbi et orbi_ che essi hanno il dono delle lingue, meno la nostra. E
perchè questa esclusione, di grazia? Non è lecito di conchiudere che
ci amano poco?

Per me, e senza mestieri di tante licenze, conchiudo addirittura così.
L'ho accennato in uno dei capitoli precedenti e lo ripeto in questo.
Chiacchiere di fratellanza, di razze latine, d'interessi paralleli e
via discorrendo, ne sentirete molte anche qui; ma non c'è da crederne
un frullo. Sono i giornalisti che svecchiano queste anticaglie, e noi,
_qui_, dobbiamo accordare ai giornalisti quella fede che ottengono
qui. Consentitemi la ripetizione dell'avverbio; è proprio qui che si
sente questo difetto d'amore per noi; esso traluce, trapela, traspira
e trasuda per ogni verso, nella sua forma più naturale e più schietta.
Non è odio, non è malumore, è freddezza.

Che cosa importa a voi della donna che non vi piace? Può passarvi a
lato quanto vuole, ma non avrà da voi che un'occhiata distratta. Può
esser bella come pare a lei e agli altri, ma a voi non farà nè caldo,
nè freddo; non negherete la cosa, ma non penserete neanche ad
ammetterla; farete come Mastro Raffae', consigliato dalla canzone a
non _incaricarsene_ punto.

Ho parlato di freddezza, intendiamoci; ho detto che l'odio e il
malumore non c'entrano. Qui non odiano nessuno di fuori via, neanche i
tedeschi. Quando leggete su pei giornali o nei libri, i dolorosi
accenni alla guerra del 1870, non vi fidate di certe frasi; sono
abbellimenti rettorici. I tedeschi, forse, odieranno questo popolo,
che si è rialzato così presto, troppo presto, mostrando di possedere
una vitalità straordinaria; ma questo popolo non odia loro. Potrà
darsi che un nuovo padrone lo spinga a tentare la rivincita,
soffiandogli in cuore uno sdegno che giovi alle proprie ambizioni; ma
sarà uno sdegno fittizio, un semplice innesto, come quello del
vaiuolo. Per il momento, il nuovo padrone non c'è', nè sembra vicino,
checchè ne dicano i giornali monarchici e i bonapartisti; c'è la
repubblica con l'esposizione universale e la pace. _Man spricht
Deutsch!_ Chi avrebbe potuto prevederlo sette anni fa?

Aspettando che altri preveda il giorno e l'ora del «_si parla
italiano_», diciamo dunque che delle lingue ignorate a Parigi la più
ignorata è la nostra. Per chi aspetta la fratellanza dei popoli,
questo è un cattivo segno, sicuramente; ma restringendo la nostra
prospettiva, e contentandoci di restar parenti in dodicesimo grado con
tutti (che sarà sempre abbastanza e a taluni parrà anche d'avanzo) si
può ammettere che il male non sia poi così grave. Non dimentichiamo
che i francesi, se non istudiano ora la lingua nostra, l'hanno pure
studiata in _illis temporibus_, e la loro letteratura se ne è tanto
imbevuta da portarne i segni entro e fuori, nella sostanza e nella
forma, nelle frasi e nella ossatura dei periodi. Gli scrittori
francesi del Cinquecento riboccano d'italianismi, e i più famosi tra
loro sono anche i meglio formati sul gusto italiano. Inoltre, l'arte
francese non è suppergiù che una derivazione dell'arte nostra. Come
corteggio alle nostre principesse fiorentine, abbiamo mandato a Parigi
i nostri pittori, i nostri scultori, i nostri orafi, i nostri
architetti, e via via gl'insegnatori di tutte le utili discipline. La
seta, i velluti, le maioliche, industrie italiane trapiantate in
Francia; la pittura e la scoltura anche oggi sono studiate a Roma; per
l'architettura si è formata qui una vera scuola, italiana nel
complesso delle forme, sopraccarica negli accessorii, a cui giovano i
facili insulti del clima, che annerisce e confonde nelle linee
generali quell'abuso di ornati, non imitato certamente da noi.
Emancipati dall'Italia nell'industria e nell'arte, hanno un pochino
dimenticato la balia, ecco tutto. Saliti su su, mentre noi cadevamo
sempre più in basso, e non al tutto per colpa nostra, pensarono per
lunga pezza che noi non fossimo più necessarii nel mondo. Ad onor
loro, va notato che furono i primi ad accorgersi dell'errore e che in
un buon quarto di luna ci hanno anche data una mano a risorgere. Se
ricompensati ad usura, non importa cercare; il benefizio è di quelli
che non si possono attenuare, rammentando ciò che costano. Nè vuolsi
andare ad almanaccare come e perchè, ad ottenerci il benefizio, ci
volesse un tiranno, dopo che i nostri vicini, costituiti in
repubblica, avevano aiutato a ribadirci le catene. Non siamo noi che
dobbiamo guardare in bocca al cavallo donato; alla fin fine, i torti
della seconda repubblica francese li ha cancellati la terza.

Questa è rettorica onesta; ma intanto l'amicizia non c'è, e
l'ignoranza delle cose nostre rimane all'ordine del giorno. È un bene?
è un male? Vediamo il bene; io non credo inutile questa indifferenza
per noi, da parte del cervello del mondo; riconosco che c'è del buono,
del gustoso, in questo risveglio non osservato del nostro paese. Meno
abbaderanno a noi, e meglio faremo i fatti nostri. Le donne di cui
tutti parlano, a cui tutti tengono dietro, non sono quelle che
vantaggiano di più la famiglia.

Vedete il buon levatore; è desto e lavora, mentre tutti gli altri
dormono ancora della grossa. È quella l'ora più felice della casa,
senza faccie torbide e coi sorrisi dell'aurora al balcone; ogni cosa
si fa presto e bene, quando non ci sono fastidii, nè inciampi.
Chiunque ama il mattino (e tutti i lavoratori lo amano), m'intenderà
facilmente, e vedrà di primo acchito l'utilità di lasciar dormire chi
vuole, e di lavorare inosservati al nostro risorgimento politico ed
economico.

Godiamoci dunque la nostra mezza solitudine e approfittiamone per
rimetterci all'opera. Ci guadagneremo di sicuro qualcosa; per esempio
di non avere a concorrer più all'Esposizione mondiale come abbiam
fatto quest'anno, pochi, dappoco e mal serviti per giunta.

Ci siamo, all'Esposizione, direte; il salmo doveva finire in gloria.
No, lettori umanissimi; sarà per un'altra volta. Oggi s'è fatto per
celia.




IV.

All'Esposizione mondiale.--Il Trocadero.--Le branche
dell'astaco.--Babilonia veduta di giorno.--L'insalata dei
popoli.--Tentazioni e ritegni.--La Via delle nazioni.--Le sezioni
industriali--Il caos.


Ho promesso, ed ogni promessa è debito; andiamo all'Esposizione.

Ve ne hanno parlato tutti ed io non potrò dirvi nulla di nuovo. Ma,
Dio buono, che cosa c'è egli di nuovo sotto il sole? Neanche il
Trocadero genuino ed autentico, che, se non m'inganno, è a Cadice ed è
stato preso anche un pochettino dal re Carlo Alberto, in penitenza de'
suoi peccati di gioventù.

Perchè abbiano dato il nome di Trocadero al palazzo delle feste,
edificato sulla riva destra della Senna, davanti al Campo di Marte,
che è sulla riva sinistra, non so e non mi son presa la briga di
chiedere. Forse lo hanno chiamato così, perchè il nome suonava bene,
come quell'altro di Alcazar, già entrato nelle grazie e nelle
consuetudini di Parigi. Lasciamola lì e diciamo che fa un bel vedere,
con la sua massa tondeggiante a varii piani e con le sue braccia
allargate a semicerchio, di rincontro all'Esposizione. Lo spazio che
corre tra i due fabbricati è immenso, circa cento cinquantamila metri
quadrati. Il Trocadero ha un acquario nelle viscere, smisurata
esposizione di pesci, che si vedono nella piena libertà delle loro
occupazioni domestiche girando i meandri di una grotta; ha una cascata
che gli esce dal grembo, una gran sala di concerti, di balli e di
conferenze nel petto. Che cos'abbia nella testa non rammento più bene;
so invece che ha nelle braccia una esposizione retrospettiva dell'arte
europea, dall'età della pietra lavorata fino ai tempi moderni, e ci ho
ammirato le incisioni fatte dai pastori di venti mil'anni fa sulle
corna delle renne e sui denti di mammutte, gli elmi dei Galli, i
coltelli dei Druidi, i bronzi e le terre cotte dei Romani, il giaco
del Conte Verde, l'armatura di Cristoforo Colombo, l'elmo di Boabdil,
ultimo re di Granata; insomma, un mondo e mezzo di curiose e preziose
anticaglie.

Quella del Trocadero è un'architettura tutta bucherellata, che mi
piace poco, veduta ne' suoi particolari; le lunghe braccia
dell'edifizio son molto, ma molto, lontane dalla dignità di quel
doppio colonnato in cui il Bernini ha rinchiusa la basilica di san
Pietro, e arieggiano piuttosto le branche sottili di un astaco. Se il
Trocadero fosse dipinto di rosso, vi parrebbe infatti di vedere un
_homard_. Ma collocate tutta quella massa su d'un poggio, seminate qua
e là, per l'immenso declivio, delle cascate, delle fontane, dei
chioschi, dei castelli algerini, la cui grandezza è un nulla a petto
di quella mole gigantesca, ed essa finirà col piacervi, come è
piaciuta a me. Aggiungo che il Trocadero, essendo nuovo, è bianco;
cosa rara a Parigi, dove ogni superficie di marmo, o d'intonaco,
annerisce nello spazio d'un inverno; donde la necessità d'imbiancare
di tanto in tanto le case, ma non già col pennello, sibbene col
rastiatoio.

La qual cosa non è punto piacevole all'orecchio; _experto crede
Ruperto_. Appunto ora, mentre scrivo, cinque o sei muratori, sospesi a
certe funi spenzolanti dal tetto, rastiano la facciata d'una casa
vicina, e cantano in coro la canzone alla moda:--_Madame Langlumé, j'
viens demander vot' fille._ Non so quale dei due suoni sia più....
laceratore. E la mia prosa ne risente, come vi sarà facile di
riconoscere.

Dunque, dicevamo.... Ma badate, qui si salta di palo in frasca, senza
tanti complimenti; la vita, come il discorso, è tutta lardellata di
parentesi. Da principio ci si confonde un pochino; questi indugi,
questi perditempi su d'ogni marciapiede, ad ogni canto di strada, vi
fanno bestemmiare perfino Giulio Cesare, che ha fatto di Lutezia una
città importante, e Giuliano che aveva la debolezza di starci
volentieri; ma poi ci fate la piega, vi accomodate all'indugio, che vi
trattiene così poco, alla, noia incontrata, che ve ne fa cansare
un'altra, aspettata pur troppo. In questa benedetta città potete dare
un appuntamento e dimenticarlo, senza pericolo di passare per uno
screanzato. _C'est la règle_; mentre l'andarci, composto di
ricordarsene e di venirne a capo, in questo viavai di gente, in questa
rete tessuta d'ostacoli inopinati e d'incontri fortuiti, _c'est
l'exception_. Riuscite a mantener la parola data? Siete una
_exception_. Non riuscite? Siete _en règle_.

Esco, se Dio vuole, da questa parentesi e ritorno al Trocadero. Vi ho
detto in una delle mie lettere precedenti che sul _boulevard_, al
crocicchio dell'Opera, con tutta quella illuminazione elettrica, par
di vedere Babilonia di notte. Orbene, sul ponte di Jena, guardando un
po' al Trocadero, un po' al palazzo dell'Esposizione, avete Babilonia
di giorno; Babilonia per le grandi linee in distanza, Babilonia per
tutti quei ciuffi di verde, che, disseminati a varie altezze, vi dànno
un'idea degli orti pensili, Babilonia finalmente per la gran
confusione di gente che va e che viene, parlando, fischiando,
cincischiando, latrando, cinguettando tutte le lingue della terra.

Disegni del palazzo dell'Esposizione non cercherò di farvene; in primo
luogo, perchè tutti i giornali illustrati li dànno, secondariamente
perchè non credo nella efficacia delle descrizioni. Bevuta una tazza
di cioccolata al caffè spagnuolo, o di cicoria al caffè algerino,
m'inoltro sul ponte di Jena, allargato del doppio con possenti
travature laterali, e ammiro il gran palazzo che non vi descriverò;
noto che è quasi tutto di ferro e di cristallo, che quei grandi
padiglioni del mezzo e degli angoli, con le loro ampie lunette
invetriate, arieggiano gli archi a tutto sesto della facciata di San
Marco; dò una guardata distratta ad una ventina di nazioni,
allegoricamente rappresentate in colossali statue di creta; non mi
commovo per una tozza Repubblica francese, di marmo bianco, seduta su
d'una cattedra ateniese in capo alla gradinata che è davanti
all'ingresso, e di là mi volgo indietro, come il naufrago dantesco, a
guardare la sponda opposta. Quello è davvero uno spettacolo
meraviglioso. Chioschi, fontane, praterie, castelli africani,
padiglioni di zinco, baracche, depositi di marmi francesi, anche
lavorati a statue, per far vedere a tutti che l'unico marmo statuario
possibile è quel di Carrara; giù giù, sui lati, le tettoie
dell'esposizione agricola, le stufe per le piante esotiche, e i
fortieri delle ostriche, detti alla francese _parchi d'ostricoltura_;
la testa dell'Indipendenza americana, principio d'una statua
arcicolossale in bronzo, che i francesi regaleranno agli Stati Uniti
nell'anno.... vattelapesca; poi il gran maglio della fonderia del
Creuzot; poi un altro acquario per l'ittiologia marina, e finalmente
una fabbrica di sidro di Normandia col suo banco di vendita al minuto,
che io, feroce bevitore di sidro al cospetto di Dio, rammenterò sempre
con gratitudine; eccovi la decima parte di quello che si vede, e la
ventesima di quello che non si vede, accatastato, ammonticchiato,
pigiato, in un disordine che non manca d'eleganza, sul vasto pendio
del Trocadero e sulla riva sinistra della Senna, in giro
all'Esposizione e sempre fuori del suo magno recinto.

Vorrei dirvi qualche cosa delle aiuole di fiori, vere esposizioni
orticole, di cui non si potrebbero immaginare le più splendide; ma qui
c'è proprio da confondersi, tra i pelargonii dalle foglie tricolori,
le araucarie imbricate, le creste di gallo sesquipedali, le jucche, le
latanie, i bambù giganteschi, lo vigne nane sopraccariche di grappoli.
Cesso da inutil opra, come direbbero i classici; rinunzio a questa
fatica da cani, come si dice in volgare.

Entriamo, se vi piace, nel gran palazzo di cristallo, detto del Campo
di Marte, perchè ne occupa tutto lo spazio, cioè a dire una superficie
di quattrocento ventimila metri quadrati. Questo palazzo ha due
facciate, l'anteriore e la posteriore, e per conseguenza due grandi
vestiboli, ognuno dei quali è largo ventiquattro metri e lungo
trecento cinquanta, cioè quanto la facciata medesima, «sotto le cui
tre cupole--ei corre e si dilata--fiume di cento popoli--che fanno....
un'insalata».

L'insalata dei popoli è un'immagine che il Preti e l'Achillini
m'invidieranno dalla tomba. Ma per descrivere questa roba ci vuole a
dirittura lo stile del Seicento. In mezzo al vestibolo, davanti
all'ingresso, c'è un orologio monumentale, che fa fronte da quattro
lati ed ha quattro statue, rappresentanti i quattro elementi degli
antichi. Il pendolo, indipendente dall'orologio, ma pendente dalla
cupola, ha una lunghezza di ventiquattro metri, e consta d'un
complesso di sfere, collegate in modo da formare una specie di
bilanciere. Scusate la rima; qui si diventa poeti senza volerlo.

Amate meglio diventar milionarii? Tentate un colpo su quella vetrina
ottagona che si vede alla sinistra dell'orologio, sormontata da un
baldacchino rosso. Ci sono dentro i diamanti della corona; il
Reggente, che pesa cento trentasei carati e vale cinque milioni, non
un soldo di meno; i sette diamanti del cardinal Mazarino; un diadema
in diamanti e perle, che valgono cinquecento mila lire l'una; poi
turchesi e brillanti; collane di perle; diamanti e rubini; stelle in
diamanti, ricevute da Napoleone III in regalo da parecchi sovrani; la
Giarrettiera; l'Elefante di Siam; un'impugnatura di spada, eseguita
per Carlo X; un orologio tempestato di diamanti, destinato in
principio al Dey di Algeri, che fu poi tempestato (il Dey, non
l'orologio) di palle da trentasei e di altri oggetti sferici dello
stesso valore; finalmente un diadema in diamanti che può
all'occorrenza trasformarsi in collana. Vi avverto, per altro, che ad
una cert'ora di sera la preziosa vetrina discende sotto il pavimento,
in un misterioso nascondiglio, il cui orifizio si ricopre con spesse
lastre di ferro fuso. Uomo avvisato, mezzo salvato.

Non ci perdiamo nel vestibolo d'onore, detto del ponte di Jena;
usciamo all'aperto, nella via interna, detta la via delle Nazioni.
Essa corre rasente alla sezione centrale, dove è l'esposizione di
belle arti di tutti i popoli d'Europa, ed ha sull'altro fianco
l'esposizione industriale di tutti i popoli dell'Europa, suddetta, e
di parecchi dell'Asia, dell'Africa, dell'America e dell'Australia.
Ognuna delle nazioni che concorrono all'esposizione ha la sua facciata
su questa via. L'Inghilterra ci ha riprodotto lo stile della sua
architettura ai tempi della regina Anna, o giù di lì; gli Stati Uniti
un _quid medium_ tra il _dock_ e lo scalo di ferrovia; la Svezia e la
Norvegia due casette di legno in stile romando del XII secolo;
l'Italia un portico di palazzo milanese del Cinquecento; il Giappone
una casa di campagna; la Cina una porta del palazzo imperiale di
Pechino; la Spagna un frammento dell'Alambra; la Russia una casa di
Mosca, quella stessa in cui è nato Pietro il Grande; la Svizzera una
casa del cantone d'Argovia, nello stile suo del XVII secolo; il Belgio
un palazzo magnifico, nello stile del Risorgimento, e in marmi e
pietre delle sue cave; la Grecia una casa Policroma del tempo di
Pericle; l'Austria un palazzo ad archi e colonne, che è suo come il
Trentino, o come l'Istria, con una facciata a graffiti, elegantissima,
di cui si potrebbe vedere il tipo originale a Pistoia, o in qualche
altra città della Toscana.

Ho detto che a tutte questo facciate, e ad altre che ommetto per
brevità, corrispondono le rispettive sezioni industriali. Ho detto
altresì che nel mezzo dello sterminato edifizio è la corsia delle
belle arti di tutti paesi, ed aggiungo che essa s'interrompe nel
centro, per dar luogo al padiglione speciale della città di Parigi.
Aggiungo ancora che dall'altro lato di questa corsìa, e parallela alla
via delle Nazioni, corre la via di Francia, con tutta l'esposizione
delle industrie francesi, che costituisce la metà di tutto il palazzo.
Ve ne siete formati un'idea? No. Lo capisco; ma non è colpa mia.

Lo ripeto, qui c'è da confondersi. Vorrei veder voi, lettori
umanissimi, dopo una prima gita, tutta consacrata a formarvi un'idea
del complesso, ed anche dopo una seconda, tutta spesa a vedere di
corsa statue e gruppi di zinco, stivalini, manipoli di grano,
ombrelli, aratri, velluti, ostriche, porcellane, lenti telescopiche,
pelliccie, rastrelli, molini a vento, borse, bauli, pietre dure,
scatole, mobili, bacheche, paraventi, conserve alimentari, arnesi
scolastici, sottane, guanti, concimi, seghe, farine, carboni,
diamanti.... e quasi quasi sarò per aggiungere, col Burchiello,

    ...... Zaffiri ed ova sode
    Nominativi fritti e mappamondi.

Io, dopo aver fatto il viaggio e perduta la bussola, sono andato a
rifugio nella corsìa delle belle arti, e in quell'altra, che non è
molto lungi, delle industrie italiane.

Giunto là, ho sentito il bisogno, come ora, di ricogliere il fiato.




V.

Industrie italiane.--Lombardi e Genovesi.--I canditi del
Giappone.--Libri e pianoforti.--Scoltura piccina.--Un primato in
pericolo.--_Exemplaria graeca_.--Un pronostico al condizionale.


C'è del buono, mi affretto a dirlo. Non sono pessimista per progetto
ed amo render giustizia a tanti bravi industriali, che modestamente,
ma indefessamente, lavorano a rialzare il credito delle manifatture
italiane. Gran lode va data, per esempio, a tutti quei valenti
setaiuoli comaschi e milanesi che hanno esposto i loro prodotti,
mirabili per bontà di tessuto e per vivezza di colore, sotto il titolo
comune di _Associazione della tessitura serica italiana_; allo
Schlöpfer di Salerno pe' suoi tessuti ad uso di vestiario; al
Piccaluga di Gavi e al Bancalari di Chiavari pei loro filati di seta,
veramente notevoli; ai Gérard e ai Casa, genovesi, per la bellezza e
la solidità delle loro tele; al Trapolin di Venezia e al Levera di
Torino per la sfoggiata magnificenza dei loro damaschi. Firenze e Roma
si sono mantenute al primo posto, per l'artistica lavorazione delle
pietre dure. Nei mobili siamo giunti ad una bella altezza, e tutti,
italiani e forastieri, ammirano lo stipo intarsiato del Bertolotti di
Savona; il quale stipo, appunto perchè è la cosa artisticamente meglio
riuscita di questo genere, che sia nella esposizione italiana, non ha
avuto dal giuri, che una medaglia di terz'ordine.

Ma passiamo oltre, che i giurì son tutti compagni. Ricordo a titolo
d'onore le belle mostre ceramiche e vetrarie, del Ginori di Firenze,
della Società Faentina, della Società di Murano e del Salviati di
Venezia; non senza notare che, rispetto a queste industrie gentili,
siamo rimasti un po' stazionarii di rimpetto ai francesi. Sèvres e il
Baccarat informino! Non così per l'industria dell'orafo e del
gioielliere, che corre gloriosa e trionfante, con Alessandro
Castellani ed altri parecchi. Le filigrane son belle, ma poche, come i
versi del Torti e come in genere gli espositori genovesi, che io cito
qui per ragione di cittadinanza.

A proposito di genovesi, e le paste? e i canditi? Ho veduto una
piccola mostra di quelle, mandata dal Ghigliotti, ed una piccolissima
di questi, mandata dal Ferro. La più parte dei canditi, di Genova e
d'altre parti d'Italia, sono giunti in pessimo stato, e non sostengono
il paragone dei giapponesi, che pure son venuti.... dal Giappone. Ma
qui bisogna osservare una cosa. Coi saggi delle industrie giapponesi
son venuti a Parigi anche gli autori, che si sono presi una cura
gelosissima dei loro prodotti e vi esercitano su una vigilanza
quotidiana. I nostri espositori (e non parlo solamente di quelli che
mandarono conserve alimentari) hanno il torto di non esser venuti loro
a Parigi. I francesi sono quasi sempre davanti ai loro banchi, alle
loro vetrine; e ciò si capisce, poichè questa è casa loro. Ma anche
gli espositori delle nazioni vicine son tutti qui, intenti a ripulire,
a cambiare, a rinnovare. La Spagna ha fatto qualche cosa di più; ha
mandato un paio di soldati di tutte le armi del suo esercito, vera
esposizione ambulante della sua eleganza in materia d'uniformi, e
lusso non indegno di un paese che si rispetta.

Per ritornare all'Italia, il ministero della marina ha mandato qua un
modello del balipedio di Muggiano, cavi, cordami, sagome di
bastimenti, e un bel saggio d'attrezzatura di nave da guerra, che
forma l'ammirazione di tutti i visitatori. Quello della guerra
(almeno, credo che sia lui) ha spedito il cannone automatico
dell'Albini e una stupenda carta fisica dell'Italia, eseguita in
rilievo dal capitano Cherubini. Ma queste medesime citazioni mi
obbligano a ricordare che si poteva far molto di più. Cito ancora una
volta, come termine di confronto, la Spagna, che ha inviati parecchi
cannoni delle sue fonderie, e molti modelli di fortificazioni, campi
trincerati, cantieri, bacini, arsenali, eseguiti in notevoli
dimensioni e con una accuratezza superiore ad ogni elogio, dalla sua
_Academia de Ingenieros del Ejército_.

Non prendete queste note per un esemplare di diligenza, a cui abbia
dato rincalzo il catalogo. Tocco solamente e di volo le cose che mi
hanno colpito di più, che mi offrono appiglio a qualche modesta
osservazione, e non pretendo di fare un esame minuto, nè una scelta
_ex cathedra_ di tutto ciò che l'Italia ha esposto nella sua sezione
industriale. Dimenticavo, per esempio, la bella vetrina di libri
esposta dal Sonzogno, e meritamente lodata da tanti; la mostra del
Civelli, che ha ottenuto il primo premio, a cagione d'un gran
vocabolario italiano stampato a proprie spese e cent'anni prima di
quello della Crusca; le edizioni del Casanova, dello Zanichelli, del
Salmin, e via discorrendo; gli strumenti musicali del Pelitti e i
pianoforti di non so chi, ai quali non mi sono accostato, _et pour
cause_. Figuratevi che ogni giorno, dalle dieci del mattino fino alle
cinque di sera, eccettuate poche battute d'aspetto dedicate alla
colazione, un professore vi suona continuamente laggiù la medesima
arietta. Mi hanno detto che si tratta d'un valzer nuovissimo,
l'_Exposition-Valse_, che tutti vogliono sentire e comprare. Tutti,
meno il sottoscritto, che, perseguitato, rincorso da quel motivo per
tutte le sale attigue, non ha voluto saperne di avvicinarsi alla
nicchia dei pianoforti, per leggervi i nomi dei fabbricanti e
tramandarli alla più prossima posterità.

C'è del buono, lo ripeto, in questa esposizione italiana, e pare anche
meglio quando si è data una corsa in altre sezioni industriali; che non
tutte possono avvicinarsi per merito alla Francia, all'Inghilterra, al
Giappone, al Belgio, all'Austria-Ungheria, alla Cina. Nuovi in tante
arti e mestieri, o scaduti per colpa non nostra dall'antico primato, non
possiamo far miracoli in tutto, e a questi lumi di luna. Si aggiunga,
per molti industriali italiani, la poca voglia che avevano di mandare i
saggi delle loro manifatture in paese lontano; si badi alla ristrettezza
del luogo assegnato all'Italia; non si dimentichi la sonnolenza
proverbiale di chi avrebbe dovuto e potuto dare a tanti oggetti una
migliore collocazione, e si converrà facilmente che, date tante
circostanze contrarie, l'esito non è stato infelicissimo. Ma io, dopo
tutto, sostengo e dico che se, in parecchie cose, anzi in molte, si
poteva dicevolmente restare in terza e in quarta fila, almeno in talune
non dovevamo restar secondi a nessuno, e in una di queste _secondi a noi
stessi_, che è peggio.

Vi sembrerà un indovinello, ma non lo è. Dico che ci fa torto di esser
rimasti secondi in pittura, poichè nessuno dei nostri grandi pittori
ha mandato un palmo di tela; dico che ci fa torto di non aver fatto
meglio in scoltura, e di apparire i primi, sì, ma inferiori alla
nostra fama del 1867.

Sia lodato il cielo, esclameranno gli ottimisti; in qualche cosa
abbiamo il primato. Sicuramente, ma perchè ad altri non è ancora
balenata l'idea di strapparcelo, battendoci colle nostre medesime
armi. La Francia, verbigrazia, la Francia che ci ha raggiunti da
cinquant'anni nel campo della pittura, perchè ci ha oltrepassati da
venti? Perchè, impadronitasi dei meccanismi dell'arte, ha avuto il
coraggio di rifarsi dallo studio del vero, aggiungendovi poi tutte le
grazie della _modernità_, tutti i lenocinii del pennello. Ora,
lasciate che essa intenda nella scoltura tutti i meccanismi dell'arte
e tutti i lenocinii dello scalpello; anzi, fate che voglia andar per
le spiccie, a pigliarsi a cottimo un centinaio dei nostri bravi
finitori, di quei tali che fanno i capegli, i pizzi, i rasi, le sete,
i velluti, e vedrete che non tarderà molto a raggiungerci. Non ci
oltrepasserà, lo capisco; non ci oltrepasserà, perchè la scoltura non
è come la pittura, che sembra contentarsi solamente del vero, ma vuole
anche dell'altro, cioè l'idealità, la grandiosità, la magnificenza,
compagne inseparabili di un'arte essenzialmente monumentale, e perchè,
grazie al cielo, ci sono ancora in Italia degli scultori giovani, che,
non disdegnando di fare la mammina, il bambino, il cagnolino
(esemplari eccellenti per le terre cotte, che un giorno o l'altro
vinceranno la mano a questo genere di scoltura da salotto), sentono
ancora e mantengono il culto dell'ideale, del grandioso, del
magnifico, a cui l'arte divina s'informa.

Disgraziatamente, all'odierna esposizione di Parigi, gli artisti di
questa fatta son pochi, o bisogna dire che quasi tutti si sono
contentati di entrare in lizza con lavorucci di poco momento. C'è qui
in abbondanza l'arte piccina, l'arte da salotto, la roba da vendere.
L'arte grande, l'arte monumentale, l'arte che mira alla gloria, si è
fatta viva con pochi e direi quasi timidi saggi. Che cosa ha esposto
il Monteverde? Lo Jenner, bellissimo, pieno di verità, ma non certo
rispondente all'ideale dell'arte; l'Architettura statua destinata al
monumento Sada, opera magistrale, ma che bisognerà giudicare messa a
posto, mentre qui non è altro che una donna seduta. Il modello in
gesso del monumento Massari col suo angelo poggiato sulle palme al
sarcofago, non finisce di contentarmi. Anche lasciando da parte quello
sconcio di due linee che s'incontrano ad angolo retto (l'angelo e il
morto), che cosa significa quell'appoggiarsi dell'angelo, a cui, per
star ritto, dovrebbero bastare le ali? Si dirà che il vero vuol
proprio così, ed io non son qui per negarlo. Ma allora, perchè le ali,
che non son vere, fuorchè per gli uccelli e per le nottole? A
concepimento ideale mezzi ideali; è la regola dell'arte greca, che ha
sentito così intimamente ed espresso così efficacemente il vero, ma
che, quando effigiava gl'Iddii, non li faceva mai colle estremità del
bipede implume, da cui pure toglieva a prestanza le forme.

Parlo con libera schiettezza al Monteverde, perchè lo amo e lo stimo.
È un artista con cui si possono citare i Greci, senza essere
sospettati di voler fargli dispiacere, nè torto. La quistione del
resto non risguarda punto la valentia dell'artista; risguarda
semplicemente la scuola, i confini in cui deve restringersi lo studio
e l'imitazione del vero. Rammento qui, poichè mi viene a taglio, un
altro grande artista italiano, di cui ho ammirato, a Genova, nella
necropoli di Staglieno, un bellissimo genio, anch'esso colle ali e coi
piedi da biricchino scalzo. Quei piedi erano copiati dal vero; non si
poteva far meglio di così, volendo fare dei piedi di ragazzo
dodicenne, che dimentichi troppo spesso le scarpe a casa. Ma, per un
angelo, quei piedi mi stonano un poco. Imitate il vero dalla testa ai
piedi, non dico di no; ma, nel caso di cui sopra, bisogna toglier le
ali; anzi, meglio, non far angeli, mai, nè altre figure allegoriche. I
Greci, a cui mi piace di ritornare, i Greci, che erano naturalisti in
arte quanto noi, se non per avventura più di noi (me ne appello alla
Venere di Milo), davano estremità convenienti, e per conseguenza men
vere, agli immortali abitatori dell'Olimpo. E la ragione s'indovina:
corpo nutrito d'ambrosia non può pesare ottanta chilogrammi, o giù di
lì. Il dio pesante non va. Negate Dio, in vostra malora; ma in tal
caso astenetevi anche dal modellarlo in creta, com'egli ha modellato
voi, in un momento di soverchia bontà. Se lo fate, ammettetelo qual è,
o quale lo ha immaginato un popolo di credenti.

Aperto così l'animo mio sulla quistione di scuola vi dirò che il
Monteverde è qui molto ammirato nelle opere sue. Io lo ammirerei anche
di più, se per l'esposizione universale di Parigi egli avesse fatto
del nuovo, e a bella posta per essa. Alle corte, per mandar del gesso,
come egli ha fatto col monumento Massari, avrei voluto, ne' panni
suoi, mandarla io, ai francesi, una Repubblichetta di gesso, ma
veramente coi fiocchi. Se ne sarebbero innamorati senz'altro; me
l'avrebbero subito commessa in marmo. E che male ci sarebbe stato, se
una statua monumentale di Giulio Monteverde, italiano, avesse dovuto
adornare una piazza di Parigi?

Del Tabacchi, scultore insigne che possiede tutte le mie simpatie, si
ammirano qui tre lavori, la Peri, l'Ipazia e Tuffolina; le due prime
concepite con grande altezza di pensiero e tutte poi eseguite con un
sentimento del vero, con una maestria di scalpello, da non potersi
desiderare di più. Anche al Tabacchi dirò: artista dall'ingegno
poderoso, mirate in alto. Fate pure dell'arte minuta, come nella
Tuffolina, ma non dimenticate l'arte grande, l'arte magnifica, della
Peri e dell'Ipazia.

Lode al Barzaghi pel suo _Mosè salvato dalle acque_, una composizione
elegantissima ed anche una vera trovata. Altri si ferma con maggior
compiacenza davanti alla sua _Mosca cieca_ e alla sua _Vanerella_; io
noto il fatto, me ne congratulo coll'artista, e dico a lui, come a
tanti altri valenti apostoli della scoltura di genere, di cui mi passo
per amore di brevità:--«tutte cose bellissime, e si venderanno; anzi,
andranno a ruba senz'altro; ma badate, artefici illustri del primato
italiano in materia di scoltura, un giorno o l'altro, se tiriamo
avanti col piccolo, ci batteranno, ve lo assicuro io, ci
batteranno».--




VI.

Dolenti note.--La pittura italiana.--Pittura di genere, pittura
degenere--La quarta figura.--I veristi del Cinquecento.--_Vox audita
est in Rama._--Finanzieri e ciabattini.--Il fazzoletto di cotone.


Vengo alla pittura. Qui non ci batteranno, spero; ci hanno battuti,
battuti sonoramente, battuti _à plate couture_, come si dice sulla
faccia del luogo.

Parlandovi della esposizione pittorica dell'Italia, amerei farmi
intendere appuntino. Ora, per farmi intendere, debbo trovare un
paragone con qualche città secondaria; per esempio, con Genova, che
certamente non si lagnerà di essere citata dopo Parigi, per ragione
d'importanza. E tuttavia, il paragone non reggerebbe. Genova, in
alcune esposizioni della sua Società promotrice di Belle Arti, ha
avuto delle tele come la _Consolatrice degli afflitti_ di Nicolò
Barabino, come la _Morte di Alessandro de' Medici_ del Castagnola, o
del Bellucci, come il _Bernabò Visconti_ del Giannetti, e via
discorrendo. Ma lasciamo andare; poichè il paragone non m'è venuto
esatto, e a trovarne uno migliore dovrei sudarci parecchio, fate conto
che l'esposizione pittorica dell'Italia a Parigi sia una delle
migliori di Genova, ma senza Castagnola, senza Giannetti, senza
Bellucci, senza Barabino.

E adesso che vi sarete formati un'idea approssimativa della cosa,
intenderete ciò che sono per dirvi. A voler prendere questa per
un'esposizione di città provinciale italiana, dove possa anche
capitare uno straniero e derivarne qualche giudizio intorno all'arte
nostra, si può ammettere che qui ci sia molto; ma, per una esposizione
universale, a cui potevamo e dovevamo prepararci come ad una giornata
campale, decisiva, in cui potevamo e dovevamo impegnare tutto
l'esercito, la prima, la seconda linea, ed anche le riserve, c'è'
poco, anzi meno del poco.

Ora, questo pochissimo appartiene tutto alla così detta pittura di
genere, salvo due o tre quadri che appartengono alla gran pittura....
degenere. Parlo liberamente, perchè non ho peli sulla lingua; e cui
non piace mi rincari il fitto. Un valente artista italiano, che ho
incontrato l'altro dì nella sala di belle arti della Grecia (un altro
paese, che non è tornato ancora all'altezza del nome), mi diceva
pietosamente che nei quadri italiani si vede lo studio, l'indagine, la
ricerca del vero, il desiderio di trovare una strada, mentre in altre
scuole, già più avanti della nostra, si nota il periodo della
decadenza, del mestiere ben fatto, ma sempre mestiere. Non ho voluto
dirgli di no; mi sono contentato di rispondergli che le scuole di cui
parlava erano almeno rappresentate al Campo di Marte da tutti i loro
più grandi e più famosi artisti, laddove la nostra aveva il doppio
torto di non aver messo tutti i suoi in linea di battaglia. Se ciò
fosse stato fatto, chi sa? avremmo forse vinto, certamente sostenuto
l'onore della bandiera. Così come ci siamo presentati, facciamo la
quarta figura, e tutti coloro che giudicano l'arte del nostro paese
dai quadri che sono esposti nella sezione italiana, possono dire
queste due cose di noi: che nei meccanismi dell'arte siamo rimasti
indietro, e che non ci salviamo neanche per la nobiltà degli intenti.

Sento già un'aria di burrasca che consola. Ecco il paladino della
grande pittura; della pittura accademica! Sì, signori, della grande
pittura; quanto all'accademia, l'ho in un calcetto, ve la regalo, e
tanto più volentieri, immaginando che spesso vi accadrà di averne
bisogno, per correggere gli errori dei vostri occhi, quando travedono,
deturpano, assassinano il vero. Mi si dirà ancora: volete dunque e
sempre della pittura storica? Non sempre, sebbene la quantità non
guasti; domando dell'arte che miri alto, intesa a contentar l'occhio
fin che volete, ma anche a sollevare lo spirito. L'opera che non fa
pensare, è un'opera inutile.

Del resto, non volete fare della grande pittura? Non ne fate: anzi,
buttatevi tutti a imitare il Meissonier, e diventate milionarii, che
Iddio vi benedica e i mercanti di quadri vi aiutino! Sia pure arte
piccola, ma fatela bene. Diventate maestri in quell'arte

    Che alluminar è chiamata a Parisi,

ma battetevi seriamente, per Dio; ma fatevi ammirare dai Filistei che
oggi comandano, col loro buon gusto, nella Terra promessa di Raffaello
e di Tiziano, del Correggio e di Leonardo da Vinci. Intanto, che cosa
vuol dire che qui a Parigi, al Campo di Marte, tutti, maestri e
dilettanti, dotti e ignoranti, _connaisseurs.... et américains_, vanno
in folla e si pigiano nella sezione austriaca? Non già nella francese,
signori, per intenerirsi coi Meissonier; non già nella spagnuola, per
sdilinquirsi nei Fortuny; nell'austriaca, proprio nell'austriaca, che
del resto ci ha poco di buono, ma che ci ha pure un quadro, un quadro
solo, un gran quadro, origine e suggello di tutta la sua straordinaria
fortuna.

Parlo di Giovanni Makart e della sua _Entrata di Carlo V in Anversa_.
Come composizione, il quadro è pieno di difetti; come fattura, manca
di originalità. Ma come tutto ciò è compensato! Come tutto ciò si
dimentica, alla vista di quella tela smisurata! L'artista ha sentito
largamente il soggetto, e questo è già un bel merito, in questi tempi
di gretteria applicata alle arti. Poi, sapete che il quadro non l'ha
dipinto lui? Vi dico una cosa strana, contro cui protesterebbe
volentieri il medesimo autore. Ma il fatto è questo, e non si muta, il
quadro gliel'hanno dipinto in due, e tutt'e due italiani, ma del buon
tempo antico, Paolo Veronese e Tiziano. Ci pensi l'autore, e finirà
col darmi ragione; dirà che non si ricorda bene, che forse dormiva,
davanti alla sua composizione abbozzata, e che quei due grandi, non
nemici suoi, certamente, hanno approfittato del buon momento, per
fargli quel tiro mancino. Benedetti i sonni di un nobile artista,
consolati da cosiffatte apparizioni! Io penso con dolore che fra
duecento e trecent'anni non si potrà dire, neanche d'un quadro
d'artista cinese, che gliel'hanno dipinto due pittori italiani,
espositori a Parigi, nella mostra universale del 1878!

Tiziano Vecellio e Paolo Veronese! Che si fa celia? Due realisti, due
naturalisti, due veristi del tempo loro; che facevano dell'arte larga,
dell'arte grandiosa; che volevano lode e fama, anche accettando le
commissioni dei potenti, e si sarebbero vergognati di fare un
quadruccio, anche quando, non che venderlo ad un borghesuccio
arricchito, dovevano regalarlo a qualche poeta di strapazzo, loro
compagno di cena.

L'arte è così; divina, o nulla. L'arte piccola confina col mestiere,
ci fa le sue scorribande, ci piglia gusto (come lo si piglia, pur
troppo, in tutte le discese!) e finisce col metterci casa. Io, per me,
non intendo l'artista altrimenti che col cuore aperto a tutti i nobili
sentimenti, l'anima a tutti gli alti concetti. Quando ama restringere
il suo orizzonte, lo stimo ancora, se è bravo; ma lo rimando al
disegno industriale, che dopo tutto ha tanto bisogno d'aiuto, per far
fruttificare un altro ramo dell'operosità nazionale.

«Una voce s'è udita in Rama; è Rachele che piange i suoi figli; e non
vuol essere consolata, imperocchè essi non sono più». Così le
Scritture. Ed io sono un po' come la biblica Rachele; piango la
grand'arte italiana, e non so consolarmi di vederla assente da Parigi.
Perchè non è venuta? È così che l'Italia ha tenuto l'invito? Mi dolgo
del fatto co' suoi pittori più famosi; ma mi dolgo sopratutto col suo
governo, accuso la trascuranza di coloro che erano al potere, quando
fu annunziata l'esposizione, indetta la gara di Parigi. Ci voleva
tanto a chiamarsi intorno una mezza dozzina dei.... non dozzinali, per
sapere se intendevano di concorrere, e all'occorrenza per incitarli a
concorrere? Si poteva, per esempio, dir loro in molta confidenza:
«lavorate per la solenne occasione: smettete i quadretti di salotto,
le pale d'altare, le medaglie a buon fresco, per una volta tanto; fate
qualche cosa di grande, che sia degno della mostra universale,
dell'Italia e di voi; se i vostri cinque o sei quadri, per la mole
loro o per la natura del soggetto, non si venderanno laggiù, penseremo
noi, penserà il paese, a cui avrete guadagnata la medaglia d'oro, e,
che più monta, assicurata la fama».

Sicuro, si poteva dir questo. Ma allora.... allora sedeva sulle cose
della pubblica istruzione un uomo.... e su quelle della finanza sedeva
un altr'uomo.... Non li nomino, perchè, in fin de' conti, non sono
essi solamente i colpevoli, e perchè troppi altri, al posto loro,
avrebbero fatto lo stesso. Che serve biasimare Tizio o Caio, quando è
tutta la scuola dei nostri uomini politici che ha mestieri di
rinnovare il suo _credo_? In materia di finanza, i nostri uomini
politici hanno un poco del ciabattino; voglio dire che adoperano
troppo la lesina, salvo a buttarla via, ed anche a rovesciare il
bischetto, in un momento di buon umore, che è per solito nella
domenica del pareggio, e dura qualche volta tutto il lunedì della
sbornia. In materia di istruzione, e per conseguenza anche d'arte, che
cosa aspettarti da loro, se non vivono d'arte e coll'arte? Questa è
libera, si capisce, e non ha più da mendicare la sua vita da un
Augusto, nè da un Leone X. Ma qui, con buona pace dei dottrinarii,
abbiamo un fatto nuovo, che non si giudica coi loro vecchi criterii.
In quella guisa che le grandi reti ferroviarie e le potenti
associazioni di credito hanno dovuto scrollare un tantino l'autorità
dell'antico aforismo economico dei fisiocratici «lasciate fare,
lasciate passare», così le grandi esposizioni internazionali mutano un
poco, per non dir molto a dirittura, le condizioni di assoluta
libertà, e di assoluta trascuranza, in cui sono lasciate le arti. Se
lo Stato provvede a spese ragguardevoli per concorrere ad una di
queste esposizioni, perchè non s'intrometterebbe anche nella bisogna
di stimolare i grandi ingegni, che in quelle mostre, in quelle gare
d'operosità, possono recare il lustro maggiore e l'aiuto più poderoso?
Torno a dirlo; i nostri uomini politici hanno torto; e certuni tra
loro, a cui giova il tenere il portafoglio dell'istruzione pubblica,
hanno torto marcio a non avere intelletto d'amore per l'arte. Capisco
che hanno da godersela coi loro provveditori e colle quistioncelle
burocratiche; una nuova classe di sventurati da aumentare e da
tormentare; gli istituti tecnici da insidiare e da digerire. Ciò basta
alla loro operosità; dopo di che, rimane appena il tempo di spiegare
un fazzoletto di cotone e soffiarcisi il naso. Ma ciò non è bello, no,
non è bello; nè il trascurar l'arte patria, nè il soffiarsi il naso
con un fazzoletto di cotone; specialmente se è giallo.




VII.

Arte francese.--Cabanel, Durand, Meissonier.--Dumas figlio in
libreria.--Povero nudo!--Effetti di colore.--Pei miopi e pei
presbiti.--Giusto giudizio sugli Italiani.--Ai pittori dell'avvenire.


E notate, se mai ci fu tempo di vincere, era questo di certo. I
francesi, che, un po' con l'arte vera, un po' con l'altra
dell'_affichage_, del _bavardage_ e del _colportage_ giornalistico,
hanno ottenuto il primato nella pittura e possono vantarsene da per sè
nella lingua più intesa del mondo e nel mercato per tante ragioni più
frequentato d'Europa, i francesi, dico, sono nella pittura ciò che
molti dei nostri sono diventati nella scoltura, dei _faiseurs
agréables_. Vuoi per una trentina d'anni in cui la _Bohème_ artistica
ha spadronato a sua posta, uccidendo coll'arma del ridicolo i
classici, vuoi perchè gli Ingres, i Delacroix, i Delaroche, non
nascono tutti i giorni, vuoi perchè si fanno volentieri i quadretti
quando c'è' un mercante di tele che li compra per rivenderli ai
piccoli salotti borghesi, come si fanno volentieri gli articoli
spiritosi di giornale quando il gusto del pubblico ha sostituito
all'opera pensata i quattro segni quotidiani in punta di penna, il
fatto sta ed è che l'arte francese si trova al lumicino. Hanno qui un
famoso pittore che travia tutti gli altri con l'amore e con la scienza
del piccolo. Non c'è che dire, _c'est un grand petit peintre_. Dei
corazzieri lunghi un dito mignolo, un filosofino, un sergentino, un
piccolo posto di guardia, una vedetta da guardarsi col microscopio,
ecco le tele del signor Meissonier. Son belle, non lo nego; stanno
così bene in un salotto, sopra la spalliera del canapè! Cinquanta
centimetri di lunghezza, cinquantamila lire di prezzo, è roba
regalata. Dunque, tutti Meissonier; così vuole la moda. Chi non può
avere Meissonier, si contenta d'un imitatore fortunato.

Anche il ritratto è in onore e trattato per benino. Cabanel, Carolus
Durand, lo stesso Meissonier, lo hanno elevato a dignità di quadro. Ed
è naturale che sia così. Come ritratto, si preferisce una bella
fotografia del Disdori, o di Numa Blanc, ambedue fotografi sul
_boulevard des Italiens_, e degni di questo centro dell'universo.
Dunque, il ritratto a olio deve ricattarsi sugli accessorii, per
vivere, e Tiziano Vecellio, Paris Bordene, i grandi ritrattisti del
volto, Antonio Vandick, il gran ritrattista del volto e delle mani,
possono andarsi a riporre. Per ciò vediamo Alessandro Dumas figlio
collocato là dove meno si sarebbe immaginato, in una libreria.
Capisco, il Meissonier lo avrà posto in mezzo alle sue commedie e a'
suoi romanzi, rilegati alla foggia dei libri vecchi, _en reliures
d'amateur_, come si chiamano qui. Ma tuttavia, Alessandro Dumas
figlio, rappresentato in una libreria, lui che ha sempre studiato nel
mondo, anzi nel mezzo mondo, _allons donc!_

Quanto ai ritratti di donna, la pittura ad olio si spiega anche più
facilmente. La fotografia non rende l'impasto della carne, e un abito
scollacciato vuole la sua mostra di carne. Sappiate impastare le
carni, dunque. Ci sono qui molti pittori che fanno assai bene le
carni, specie le carni che hanno ricevuta la debita impiastricciatura
di _cold cream_. Per contro, non ce ne sono due che sappiano fare il
nudo. La grazia confonde la bellezza e per conseguenza anche la
verità. Per amore della grazia, qui si dipingono le Veneri e le Ninfe
con un fianco che sporge e l'altro che rientra; Veneri sciancate, a
cui Paride non darebbe neanche una fetta del suo pomo. Ninfe zoppe,
che nessun Fauno s'attenterebbe d'inseguire, per tema di vederle
cadere troppo presto.

Si notano anche le grandi composizioni; e un amico della verità non
deve passare sotto silenzio la Salomè, la Sfinge, la Vestale, il Papa
Formoso, il Carnefice moresco, l'eccidio di Corinto, l'Entrata di
Maometto II in Costantinopoli. Hanno tutte la loro parte di buono, ma
il quadro che vi trattenga e vi comandi l'ammirazione non c'è. I più
ragguardevoli non sono quasi altro che effetti di colore; piacevoli o
no, legittimi o meno, ma effetti di colore. Questa è la malattia degli
artisti moderni in Francia, e la si vede anche meglio nei quadri di
paese, dove la figura è secondaria e non richiede ombra di disegno, o
manca affatto per deliberato proposito dell'artista che rammenta la
massima di Teofilo Gautier: «_l'homme! ça gâte le paysage_». Si dicono
veristi, ma in questi loro paesi, in queste loro marine, il vero non
c'è; solamente l'effetto del vero, a chi si contenti di guardare in
distanza, se è miope. I presbiti soli possono accostarsi; anzi la cosa
è espressamente raccomandata.

Il buono c'è, lo ripeto, e mi pare di averlo anche detto in principio;
ma poichè l'ottimo è sparito, era questo per l'Italia il tempo di
farne lei, presentando cinque o sei quadri, largamente concepiti,
magistralmente eseguiti, come sanno fare certuni. Che cosa, infatti,
non avremmo potuto sperare se ci fosse stato all'esposizione di Parigi
bravamente condotto a olio, il _Galileo davanti al Sant'Uffizio_,
composizione del Barabino, che si ammira a Genova, condotta a fresco,
nella palazzina Celesia? un'altra _Cacciata del duca d'Atene_, opera
dell'Ussi, che merita da per sè sola il viaggio di Firenze? o un altro
_Barbarigo_, come quello che il Giannetti ha dipinto a Venezia, per la
fondazione Querini Stampalia? _J'en passe et des meilleurs_, come dico
Don Ruy Gomez de Silva.

Come va questa faccenda che nessuno, o quasi, dei nostri grandi
pittori di storia ha esposto nulla? Le colpe del governo le ho dette,
e senza riguardi; ma ci sono anche le colpe degli artisti sullodati, e
mostrerei di aver due pesi e due misure, se non calcassi anche su
queste dopo averle accennate di volo nella lettera precedente. Quando
si ha un nome nell'arte bisogna essere presenti a tutte le gare, a
tutte le battaglie, se non a tutte le feste dell'arte. Non ci sono
scuse che tengano; l'Italia non incorona i suoi migliori, perchè essi
nelle occasioni solenni se ne rimangano a casa, o si coprano coi
pretesti del tempo, che è loro mancato. _Noblesse oblige_. Però Enrico
IV poteva scrivere al duca di Crillon, dopo una giornata campale:
«_pends-toi, brave Crillon: on s'est battu et tu n'y étais pas_». Ma
allora il Bearnese aveva vinto, e il rimprovero poteva farsi per
celia; qui siamo nel caso contrario, ed io non fo celia, appioppo un
rimprovero.

È stata indolenza? è stata paura? A buon conto, i pochi buoni che
hanno mandato anche poco, e non del loro meglio, non isfigurano qui.
Si guardano con piacere il _Ripudio di Giuseppina_ del Pagliano e la
_Ragione di Stato_ del Didioni, una medesima scena colta felicemente
da due artisti in due momenti diversi. Sempre uguale alla sua fama
l'Induno, di cui si osserva l'_Italia_ nel 1866, bella composizione
fra il soldatesco e il campestre, già veduta e degnamente encomiata
fra noi. È ammirato il Pasini colle sue scene di Costantinopoli e il
Vertunni con le sue Piramidi, la sua Sfinge nel deserto e le sue
Paludi pontine. Non cito il Michetti, pittore che mi dicono di vaglia,
ma di cui non vedo che un quadro, la _Primavera_, trasparentissimo di
colore, ma troppo bizzarro nel suo concetto allegorico. Lascio il De
Nittis che meriterebbe gran lode per le sue brume londinesi e pel suo
_Ritorno dal bosco di Boulogne_, ma che vive da lunga pezza a Parigi e
a Londra, e non mi pare di scuola italiana. Il _Petit Journal_, in una
sua esecuzione sommaria di tutti i pittori italiani, non manda salvi
che il Pasini e il De Nittis, gabellandoli quasi per artisti francesi,
smarriti, a quanto pare, nella sezione italiana.

Quanto al Pasini, mi pare che l'Aristarco francese abbia torto. Il
Pasini sarà stato lungamente a Parigi, com'egli afferma; cionondimeno
si è conservato un artista italiano. Quanto al De Nittis, non c'è che
dire, l'Aristarco francese ha ragione. E ripeterò con lui, quantunque
di mala voglia, che le tele del De Nittis rialzano un pochettino
l'esposizione italiana, non già la scuola italiana, «_car il est trop
visible que l'Italie, qui a compté successivement tant d'écoles
immortelles, n'en a plus une seule aujourd'hui_». E dedico queste
linee, che non mi dà l'animo di voltare in lingua nostra, a quei
valenti infingardi, che non si sono fatti vivi per l'onore dell'arte
nazionale.

Grazie alla loro mancanza, l'Italia è stata sconfitta. Da chi? _Vatt'a
pesca chi t'ha dato_, sarebbe il caso di ripetere con un sonetto del
Belli. Per me, credo che da tutti potevamo lasciarci battere, fuorchè
dagli austriaci. E quando si pensa che tutto ciò è avvenuto per un
pittore, per un solo pittore di più che hanno mostrato loro, e per uno
di meno che abbiamo mostrato noi, si corre involontariamente col
pensiero a Lissa e a Custoza. In fondo in fondo, è sempre andata così,
tra paese e paese. Date ad una nazione due uomini, uno che sappia
provvedere, ordinare, preparare, un altro che abbia molta fede in sè,
e ne ispiri ne' suoi soldati altrettanta, ed una guerra è vinta, dieci
o vent'anni di primato si ottengono. Il mondo, che giudica ogni cosa
dall'esito, si contenta di queste prove fortunate; donde la
conseguenza che un paese ha mestieri di questi uomini, e guai a lui
quando questi uomini non ci sono, o si nascondono.

Si consolino intanto i veristi d'_à peu près_. Nel paese che più
d'ogni altro deve la sua fama pittorica ai veristi, essi hanno avuto
la lode che meritano e probabilmente la sola che ambiscono. Cito
ancora il famoso articolo del _Petit Journal_. «_Ce ne sont pas les
ruines majestueuses de sa grandeur artistique d'autrefois que l'Italie
nous invite à contempler; c'est un art tout battant neuf, un art à la
mode, qui tient beaucoup du métier et qui a l'éclat tapageur d'une
ville de parvenu. Est-ce à dire que..._ (seguono le citazioni) _ne
soient pas des oeuvres agréables et amusantes à regarder avec leur
papillotement de couleur et l'allure affectée de leurs personnages?
Assurement non. Ces imitations de Fortuny tiendraient honorablement
leur place dans tout exposition qui ne serait pas l'exposition
italienne; mais on s'attriste de les voir, ou plutôt de ne voir
qu'elles, dans les envois de la patrie de Raphaël, de Titien et de
Veronèse_».

Lascio i veristi _sullodati_, per non guastarmi più il sangue, e parlo
ai giovani dell'avvenire. Si diano all'arte grande, se hanno cuore;
studino il vero, senza dimenticare i sommi maestri e il modo in cui
essi hanno saputo renderci il vero. Imitare per imitare, val meglio
andare in traccia dei fulgidi esemplari, per cui l'Italia ha un nome e
desta ancora tanta invidia nel mondo.

E quind'innanzi facciamo come fo io, povero profano, che oramai,
quando vorrò vedere dell'arte buona, sentire la scossa elettrica del
sublime, se sarò a Firenze andrò a Pitti, o agli Uffizii, se sarò a
Roma pellegrinerò apostolicamente fino ai Musei Vaticani, se sarò a
Parigi come ora, domanderò ospitalità in casa nostra.... al Louvre.




VIII.

Il Louvre e le Tuileries.--Soluzione di continuità.--Storia
eroicomica.--Una etimologia da lupi.--L'architettura del
Risorgimento.--L'arte nostra al Louvre.--Regine, ministri, imperatori
italiani.--Compre e rapine.


Un cortile immenso, tre volte più lungo che largo, in cui potrebbero
esercitarsi comodamente cinque seimila soldati, e in cui s'entra e da
cui si esce, per tre arcate da una banda, verso il centro di Parigi,
per tre arcate dall'altra, verso la Senna; in mezzo al cortile, ma
verso le estremità, due boschetti tondeggianti da un lato, rinchiusi
entro cancelli di ferro, e un arco di trionfo dall'altro, che, con
tutta la sua mole, sembra un giocattolo di bambino sull'orlo di una
tavola da pranzo; intorno a quest'area, due file di fabbricati di
vario stile, fusi oramai nella tinta grigia del tempo, in parte
abbelliti dalla giunta di nobilissimi porticati con terrazze
sovrapposte e grand'uomini di marmo che incoronano le balaustrate, e
qua e là interrotti armonicamente da certi padiglioni, le cui facciate
sporgono in fuori un pochino e i tetti si spingono in su, oltre la
linea normale, co' loro cappelli di piombo; finalmente, a lontano
riscontro, sui due lati minori dell'immenso parallelogrammo, due
palazzi di gran lunga più rilevati, più ornati e più nobili; uno
severo nella sua venerabile antichità, ma vivo ancora e sano, l'altro
più gaio di linee, più giovine all'aspetto, ma morto, col cranio
scoperchiato e le occhiaie vuote; eccovi il Louvre con le Tuileries,
che gli sono.... cioè, diciamo meglio, che gli erano appiccicate da
prima.

La soluzione di continuità rappresenta qui le tradizioni interrotte
tra il passato monarchico della Francia e il suo presente
repubblicano. In questi ultimi anni fu ricostrutto quel po' delle due
ali che l'incendio della Comune aveva scamozzate; ma la saldatura tra
le ali e il corpo delle Tuileries non è stata più fatta, quantunque
governassero i Versagliesi, nè si farà certamente ora che accennano a
voler governare i repubblicani conservatori. Si direbbe, al vedere
così rispettata la sentenza di Erostrato, che la Francia abbia paura
di rifare il nido alle aquile, o il covo alle vipere. Imperocchè
dovete sapere, che alle Tuileries c'è stato un po' delle une e delle
altre, senza contare gli animali di minor conto. E ciò sia detto per
amore della metafora continuata, senza la menoma intenzione di far
torto a chicchessia.

Come palazzo regio, le Tuileries erano cosa moderna. Le aveva ideate
Caterina de' Medici, che, dopo la morte disgraziata di suo marito in
una giostra, non voleva più saperne del palazzo delle Tournelles, e
non amava ancora abbastanza il vecchio Louvre, in cui si era ridotta.
Enrico IV prosegui l'opera incominciata da Caterina, ma non volle
uscire dal Louvre. Maria de' Medici, sua moglie, andò, lui morto, ad
abitare nel Lussemburgo, fabbricato da lei sul gusto del palazzo
Pitti, suo nido natale. Nè Luigi XIII, nè il suo figliuol putativo
abitarono le Tuileries; solamente, e per poco, Luigi XV, fin tanto che
rimase sotto tutela. In quei tempi, la Corte dimorava a Versailles.
Alle Tuileries fu impiantata l'Accademia reale di musica; poscia la
Commedia francese, e Voltaire ci fu incoronato d'alloro. Fu la
rivoluzione (vedete stranezza) che allogò nelle Tuileries i re di
Francia, con un decreto dell'Assemblea costituente. È vero bensì che
l'intenzione non era di lasciarceli a lungo. Infatti, essa li mandò
ben presto alla prigione del Temple e di là al patibolo, con una
doppia sentenza, in cui sì punivano nei figli le malefatte dei padri.

La Convenzione, diventata sovrana, andò lei ad alloggio nel palazzo
destinato per burla all'ultimo dei Capeti. Colà il cittadino
Chaumette, in un momento di georgica ispirazione, domandò che il bel
giardino di Lenôtre fosse ridotto a coltivazione utile, piantato a
ricino, a rabarbaro, ed altri medicinali, per uso degli infermi. Il
rabarbaro non attecchì, e Robespierre potè in quel giardino salvato
celebrare la sua festa idilliaca dell'Ente Supremo, in cui si degnò di
proclamare l'immortalità dell'anima. Colgo l'occasione per dirvi che
il giardino delle Tuileries è al di fuori del palazzo omonimo e non ha
nulla a che fare con gli altri due accennati più sopra, piccole oasi
moderne, con cui si è voluto correggere uno sconcio di prospettiva,
entro la corte magna che si dilunga tra i due palazzi affrontati.

Soltanto con Napoleone I le Tuileries incominciarono ad essere dimora
stabile di monarchi. Seguirono, come sapete, due Borboni, un Orléans e
un altro Napoleone: _après quoi on a tiré l'échelle_. Almeno, così
dicono. E la reggia, abbruciata dai Comunisti, che poco mancò non
incendiassero anche il Louvre, è stata conservata nella sua maestà di
rovina solitaria. Essa non mi dispiace neanche così. È, dopo tutto, un
brano di storia affumicata, che può servire ad ogni classe
d'ignoranti. Gli uni guardano e temono; gli altri guardano e sperano;
il tempo passa e canzona tutti quanti. Gran filosofo il tempo; assai
più filosofo che galantuomo.

Andiamo via e voltiamoci al Louvre; casa nostra, come ebbi l'onore di
dirvi. Era anticamente una torre, e Filippo Augusto ci teneva chiuse
con molta gelosia le sue carte, i suoi sparagni e i suoi prigionieri
di Stato. Come e perchè si chiamasse Louvre un luogo per solito così
poco aperto, non so. Nel latino dei notai si disse _Lupara_, e il
Dizionario di Trévoux pretende che il nome derivi appunto da serraglio
di lupi. Per un dizionario stampato nel secolo XVIII, con approvazione
e privilegio del re, non c'è male; che ne dite?

La torre di Filippo Augusto si moltiplicò in processo di tempo. Quando
Carlo V ci venne ospite di Francesco I, il Louvre contava tredici
torri, murate in cerchio, e coronate dalle loro banderuole di ferro.
Si narra che, per la solenne occasione, Francesco I facesse indorare a
nuovo le banderuole in discorso. Ma siccome non parve a lui che ciò
bastasse ad abbellire la dimora dei re di Francia, pensò bene di
abbattere ogni cosa e di far sorgere _ex novo_ un palazzo degno di lui
e di madonna Diana di Poitiers, favorita di due generazioni, le cui
iniziali e le lune falcate dello stemma dovevano poscia vedersi
scolpite sulla fronte dell'edifizio, immaginate voi con che gusto di
due legittime mogli.

Il vecchio Louvre è un vero miracolo dell'arte del Risorgimento in
Francia. Gli architetti erano Francesi; il gusto italiano. Francesco
II fu il primo ad abitarvi con tutta la sua corte. Enrico IV edificò
il braccio lungo Senna, per congiungere la sua reggia alle Tuileries
edificate da Caterina de' Medici. Luigi XIII, Maria de' Medici, Anna
d'Austria, condussero a compimento la corte quadrata e decorarono gli
appartamenti. Luigi XIV non fu da meno di loro, quantunque non ci
abitasse mai. Pel re Sole era quella una reggia borghese, troppo in
mezzo alla bordaglia dei sudditi; e il re Sole edificava Versailles.

Ma di questo più tardi. Debbo strigarmi dalla storia del Louvre,
narrando che Luigi XIV destinò una parte del palazzo all'Accademia
francese, a quella delle scienze, e ad altre consimili, magnificamente
istituite da lui; un'altra parte alla stamperia reale, alla zecca
delle medaglie, agli archivii e via discorrendo. Così ebbe principio
la nuova vita del Louvre, non più dimora di re, ma santuario delle
scienze e delle arti. La Rivoluzione compì l'opera; il Consolato e
l'Impero l'arricchirono in modo straordinario. E si capisce;
Napoleone, gran cacciatore d'uomini, ma altresì di quadri e statue al
cospetto di Dio, doveva essere pel Louvre un provveditore eccellente.

Tutta la roba nostra, o almeno un due terzi della roba nostra in
materia di pittura, è qui dentro. Mettete insieme le gallerie Vaticane
di Roma, Pitti e gli Uffizi di Firenze, il Museo Nazionale di Napoli e
cinque o sei pinacoteche delle corti minori della penisola; tutti i
capolavori nostrani, raccolti in questi santuarii del bello, non
raggiungono la metà dei quadri italiani del Louvre. Se poi si lasci in
disparte il numero e non si badi che al pregio maggiore o minore delle
opere, la proporzione riesce ancora più notevole a vantaggio del
grande museo parigino. Il quale, se possedesse ancora, come gli
avvenne in un periodo di epiche ruberie, la _Trasfigurazione_ di
Raffaello, la _Comunione_ del Domenichino, la _Madonna di San
Gerolamo_ del Correggio, ed altri due o tre quadri consimili, sparsi
ora nelle gallerie d'Europa, potrebbe vantarsi senz'altro di aver
tutto il meglio delle scuole italiane.

Certo, un sottile accorgimento ha presieduto, per molte generazioni di
re e di ministri, all'incremento della sterminata raccolta. Ministri e
re dovevano aver di continuo i loro segugi e bracchi in giro per le
nostre città, a fiutare la selvaggina e _levarla_, dovunque ella
fosse. Poi, due figlie dei Medici non andarono impunemente a sedersi
sul trono di Francia, nè un Mazzarino sullo scanno di Richelieu. Tutti
quegli Italiani portavano la loro arte con sè, vecchia e nuova, senza
misericordia, senza carità per la patria. E tele rapite all'Italia, e
tele dipinte in Francia da artisti chiamati dall'Italia, andarono di
mano in mano arricchendo le collezioni del Louvre. _Lupara_; serraglio
di lupi! Ma che lupi raffinati, Dio buono! E come fiutavano il genio!




IX.

Cortesia da padroni di casa.--La scuola francese.--Un viaggio a
ritroso.--Le glorie italiane.--Monna Lisa.--Cristo e la Maddalena.--Le
nozze di Cana.--Un saluto a Raffaello.--Il Correggio, Luca Giordano e
il Panini.--Un capriccio del Rubens.


Che i francesi sappiano essere, col più lieve sforzo di volontà, il
popolo più cortese del mondo, è noto per lo meno fin dal giorno 11
maggio del 1745, giorno della battaglia di Fontenoy e del famoso:
«_messieurs les Anglais, tirez les premiers_.» Qui, negli appartamenti
del Louvre, la cortesia francese non si è punto sbugiardata. I padroni
fanno gli onori di casa; l'arte paesana è tutta nelle prime sale, con
la manifesta intenzione di dare all'arte forastiera il luogo più
nobile.

I maligni potrebbero dire che i francesi fanno così, per non essere
ammazzati da tanti capolavori. E i maligni stavolta avrebbero torto.
Anche l'arte francese dei secoli andati e del principio di questo può
vantare un discreto numero di grandi pittori, che non sfigurano in
nessun luogo e davanti a nessun paragone di scuola. Cito il David,
autore d'intendimenti classici, fors'anche in parte accademici, come
nel _Leonida_ e nelle _Spose Sabine_, ma pieno del sentimento della
natura, come nel parlante _ritratto di Pio VII_. Cito il Gros, pittore
di battaglie napoleoniche, degno illustratore di quella nuova epopea
militare; il Girodet, di cui amo l'_Endimione_ e il _Seppellimento di
Atala_, due scene soavi, l'una del classicismo antico, l'altra del
romanticismo moderno, sentite con una giustezza non comune da un
pittore poeta, che tra romantici e classici intravedeva la pace
futura, solo che gli uni buttassero via un po' del loro contegno
sforzato e gli altri della loro stravaganza cercata. Giunto tardi per
le guerre di scuola, mi commovo pochino pel famoso _Radeau de la
Méduse_ di Géricault, che in cinquantanove anni d'esistenza ha avuto
il torto di annerire maledettamente, come certi uomini hanno quello
d'imbiancare, anche prima di questa età rispettabile. Ma torno ad
intenerirmi per Boucher, Watteau, Fragonard, pittori delicatissimi,
l'ultimo dei quali è anche notevole per un magnifico impasto di
colori; saluto con memore affetto il Poussin e Claudio di Lorena,
eccellenti ingegni scaldati al nostro sole, e mi fermo con rispetto
davanti ai ritratti di Filippo di Champagne. Il migliore tra questi vi
rappresenta il cardinale di Richelieu; di Ricciliù, come dicevano gli
storici italiani del tempo.

Lo Champagne è un pittore di quel Seicento, che fu così manierato in
arte, così amico dei panneggiamenti spezzati e svolazzanti e delle
posture acrobatiche; ma del Seicento non ritragge nulla, e lo si
direbbe piuttosto un pittore di dugent'anni più addietro, se le foggie
de' suoi modelli non tradissero l'età. Lo accusano di freddezza nella
composizione, e in generale di poco movimento nelle figure. A me non
sembra; ci vedo piuttosto una casta durezza, che non manca di
attrattive. Dopo tutto, c'è l'espressione dei volti; e, in un
ritratto, che cosa volete di più? Quegli uomini son cupi; quelle dame
fanno violenza alle labbra, perchè non ne scatti il sorriso. Malgrado
le vesti sfoggiate e i colori smaglianti, la nota allegra non balza
fuori dal quadro. Ma pensate che sono re ed uomini di Stato, i quali
non hanno mai detto il loro pensiero quando erano vivi, e non debbono
dirlo adesso, quantunque la critica storica lo abbia posto in luce di
mezzodì; dame e regine che non vogliono lasciarsi sfuggire il segreto
di un caro nome, quantunque le cronache ne spiattellino all'occorrenza
due e ne lasciano caritatevolmente sospettare fin quattro.

I miei complimenti a Filippo di Champagne e passo oltre, chè il tempo
è prezioso e la «via lunga ne sospigne» attraverso queste sale
infinite, ornate con molta magnificenza, decorate di grandi nomi e
tutte provvedute d'una storia. Le tristi e liete avventure di cinque o
sei regni, intorno a cui si è esercitata la vena di tanti romanzieri,
ebbero qui la loro scena stabile. Non troverete più le porticine
segrete per cui passavano i La Mole, o i Buckingam, nè le cateratte
per cui scendevano sotterra i letti reali, ad aiutare le sostituzioni
di principe; ma vi è lecito di credere che il secolo prosaico ha
turate le fessure e ragguagliate le pareti, o che i congegni hanno
fatto la ruggine, o che i romanzieri le hanno sballate grosse, intorno
a questi pavimenti di legno levigato, a queste pareti, oggi tappezzate
di quadri d'ogni forma e misura.

Amate sperimentare la forza delle vostre gambe? Non occorre che
andiate a piedi da Parigi a Versailles; fate semplicemente il giro
degli appartamenti del Louvre, dimenticando anche le sale delle
armature, delle miniature, dei cartoni e degli arazzi, che fanno già
di per sè stesse la metà del palazzo, e contentandovi di quelle
destinate ai quadri, ora andando oltre, ora trattenendovi, all'uopo
ritornando indietro, sempre sulle ali, sempre in sospeso, per dare una
voltata a destra, ed una a sinistra, secondo i casi e i desiderii
improvvisi. Vedete qua e siete per contemplare un Leonardo, ma con la
coda dell'occhio avete intravveduto un Correggio che vi domanda la
priorità. Un Dolci vi chiama; un Sassoferrato vi attira. E poi, che
serve? Navigate nel mare delle Sirene, sempre in mezzo ai Vinci, agli
Allegri, ai Raffaelli, ai Tiziani, ai Veronesi, ai Tintoretti, ai
Domenichini, ai Guercini, ai Caravaggi, ai Tiepoli, ai Giorgioni, ai
Bordoni, ai Pordenoni, ai Caracci, ai Salvator Rosa, ai Giordani, ai
Reni, che ve le fiaccano, le reni, e vi riducono peggio di quel
_Cristo flagellato_ del Vecellio, che trova tanti copisti al Louvre,
degni la più parte di buscarle loro, quelle sonore frustate.

Che dirvi dei Perugini, dei Sebastiani del Piombo, degli Antonelli da
Messina, dei Mantegna e d'altri della pleiade minore, che qui tuttavia
ci hanno il loro meglio e fanno perciò una eccellente figura? Dio mi
perdoni, ma qui, davanti ad una pensosa figura di Leonardo da Vinci e
accanto a certe scene di ninfe e amorini dell'Albani, ho contemplato
lungamente una _Annunziata_, indovinate di chi? del Vasari. Mi sono
rappattumato qui con messer Giorgio degnissimo, il quale mi aveva
seccato un pochino a Firenze, colle sue pitture murali nella sala dei
Cinquecento.

Valorosi artisti d'Italia, come siete ammirati! E come intendo qui
facilmente il bene e il male che avete fatto al vostro paese! Il bene
con coscienza, il male senza volontà. Pervenuti con voi a tanta
eccellenza nell'arte, siamo stati pregiati solamente per questa, e noi
medesimi per lunga pezza non abbiamo avuto altra gloria. Fu male; ma
la gloria era grande, e ciò serva di scusa. In questo campo abbiamo
vinto davvero e per cinque secoli alla fila, col fare largo delle
nostre composizioni, la correttezza del nostro disegno, la sicura
audacia dei nostri scorci, la potenza dei nostri effetti di luce, il
vigore e la pienezza dei nostri colori immortali. Tutti si chiedono
anche oggi come facciano a durare certi bianchi e certi incarnati di
dugent'anni addietro, come non abbiano certe tinte a rinforzare, certe
altre a smarrirsi, mentre i quadri di cinquant'anni fa prendono il
nero come le pipe, il giallo del burro stantìo.

E l'espressione dei volti! Ho citato Leonardo da Vinci, e torno a lui
per quella stupenda _Monna Lisa del Giocondo_, il cui colore,
leggermente scaduto tra il grigio e il violetto, fece dire a Teofilo
Gautier che quella deliziosa armonia violacea, quella tonalità
astratta, è il vero colorito dell'ideale. Bisogna vedere, anche dopo
aver saputo che Leonardo spese quattro anni a dipingere il suo quadro,
bisogna vedere il sorriso di quelle labbra e di quegli occhi! Bocca
chiusa, occhi tranquilli pure, gli uni e l'altra sorridono. Quella di
Monna Lisa è una gioia composta, matronale, profonda. Mi pare che
dovrebbe sorridere così la mia patria, se fosse qui, persona viva, in
mezzo a tante sue glorie.

Badate, l'anima c'è, in tutte queste migliaia di tele; perchè dunque
non avrebbero esse la coscienza di ciò che valgono e dell'onore che
fanno? Il Cristo del Tiziano, che ho già citato una volta, dimentica
perfino di grondar sangue e di avere una corona di spine, per
lasciarvi capire che il suo autore era ben degno di farsi raccattare i
pennelli da un imperatore. Ce n'è uno di Paolo Veronese, che si lascia
rasciugare i piedi nei capegli biondi della più bella creatura di
Venezia, e trova il momento per dare un'occhiata agli spettatori
ammirati. Hanno un bel dire gli apostoli, che la cosa non va; il
Nazareno sorride, pensando che la Maddalena fa bene e Paolo Veronese
fa meglio.

A proposito di Paolo Veronese, guardate quella vastissima
composizione, che va sotto il nome delle _Nozze di Cana_. Non ignorate
che l'artista ci ha ficcato dentro tutti i personaggi più celebri del
tempo suo, Vittoria Colonna e suo marito il marchese di Pescara,
Francesco I, Eleonora d'Austria, Maria d'Inghilterra, Carlo V,
Solimano I, tutti in compagnia di Gesù Cristo al banchetto di Cana, a
cui pare s'invitassero anche i migliori artisti di Venezia, poichè ci
si vede lui, l'autore, insieme col Tiziano, il Tintoretto, il Bassano,
intenti a rallegrare il pranzo con un concertino di viole, di
violoncello e di flauto. Tutti i potenti d'Europa son là; par di
vedere un Congresso, alla fine dei suoi lavori. Si sono firmati i
protocolli; ora si mangia, si beve e si fa un brindisi alla grandezza
d'Italia. Vi prego a credere che non è il Congresso di Berlino.

Raffaello sublime, quali parole troverò adesso, che sieno degne di te?
Fui ospite reverente, in ritardo di tre secoli, nella casa della tua
donna, e sulla fede della scritta «_Raphaeli Sanctio quae claruit
dilecta hic fertur incoluisse_» ho passato colà le mie notti più liete
di sognatore ad occhi aperti. Nel Pantheon mi sono amaramente doluto
di vedere la tua sepoltura e di pensare le tue ossa esposte alle
periodiche inondazioni del fiume; imperocchè quelle ossa mi parvero
degne di star sigillate in una custodia d'oro, collocate sugli altari,
come ciò che avanza delle spoglie mortali d'un Dio. Sarà idolatria; ma
senza idolatria non c'è amore. E come non idolatrarti, o divino,
quando, correndo l'Europa, tra gente che non ci ama, vediamo da per
tutto il tuo nome e la tua mano che ci accompagnano, come lo spirito e
la mano di un altro Raffaello accompagnarono sulle sponde del Tigri il
figliuol di Tobia?

Il Louvre ha molti quadri del Sanzio; parecchi ritratti, un _Arcangelo
Michele_, una _Sacra famiglia_, che è la più reputata di tutte, e
quella _Bella Giardiniera_, che sarebbe, senza la _Trasfigurazione_,
il superlativo dell'arte. In che consiste la grandezza di Raffaello,
che traluce da tutti questi dipinti? Coloritori efficaci come lui, a
Venezia; disegnatori, corretti come lui, a Roma; compositori arditi
come lui, a Bologna. Ma egli adunò in sè tutti i pregi, che si
ammirano sparsi negli altri; ingegno veramente complesso, cavaliero
armato di tutto punto, artista così compiuto nei concepimenti e nelle
grazie del pennello, come fu uomo compiuto, negli splendori della
vita, nella nobiltà del pensiero, nella soavità dell'affetto, nella
gloriosa precocità della morte.

Ripigliamo terra, che c'è da correre. Non guardo più nulla; nè
l'Allegri, che sostiene con due quadri, l'_Antiope_ e una _Madonna_,
il suo gran nome delle gallerie di Dresda e di Parma; nè Luca
Giordano, che rammenta qui in piccolo spazio di tela i pregi singolari
del suo affresco del palazzo Riccardi a Firenze; nè il Panini, men
noto, ma elegantissimo pittore delle moltitudini in festa, le cui
ricche composizioni mi avevano già colpito nel Museo nazionale di
Napoli. Debbo andar oltre, per contemplare tra gli spagnuoli
l'_Assunta_ di Esteban Murillo, una volata nell'ideale, una volata, di
cui l'artista non ha mai più raggiunta l'altezza. Ci sono altri quadri
del Murillo, bellissimi, stupendi; ma, dopo aver vista l'_Assunta_, si
capisce che sono opere d'un grande ingegno, il quale si contenta di
volare a mezz'aria.

E dove lascio il Rubens, che, in venti e più quadri di gran mole,
racconta col pennello la vita e i miracoli di Maria de' Medici? La
vedova di Enrico IV può esser grata al capo della scuola fiamminga. In
quelle composizioni ardite e felici, tirate giù alla brava, l'ingegno
è buttato a piene mani. È un'epopea, quella _Vita di Maria de'
Medici_, epopea diplomatica, ufficiale quanto si vuole, ma sempre
epopea.

Del Rubens mi ha trattenuto lungamente un quadretto, la _Kermesse_.
Non è che una festa di villaggio; ma non ricorda punto la maniera di
Teniers. Anche qui è il magnifico Rubens, e in questa ridda di
bevitori si vede il capriccio immortale d'un grande. Si penserebbe ad
Omero, che ha fatto lo scherzo della Batracomiomachia, dopo la solenne
fatica dell'Iliade, se non si ricordasse, pur troppo, che il paragone
non regge più. Infatti, la critica moderna non ammette che l'autore
d'uno di quei poemi possa essere l'autore dell'altro, ed è giunta a
tale di erudita sfrontatezza, da negare perfino l'esistenza di Omero.

Critica scellerata!




X.

Greci e Romani.--Norme dell'arte eterna.--Policleto e
Leonardo.--Variazioni e correzioni.--_Chassez le naturel..._--Scoltura
antica.--Restauri intelligenti.--La contessa di Tripoli e la Venere di
Milo.--Ci siamo.


«_Qui nous délivrera des Grecs et des Romains?_» Un bel verso, non c'è
che dire, ed una bella scappata di malumore. Ma chi ci libererà adesso
da tutti i mediocri della critica, che da un pezzo in qua non sanno
dir altro? No, riveritissimi e colendissimi (i superlativi contano qui
come nella sopraccarta delle lettere); no, osservandissimi e
prestantissimi signori; nè greci nè romani saranno banditi da casa
nostra, per compiacere a voi altri, che non li vedete di buon occhio,
_et pour cause_. Sappiate che questi greci e questi romani sono
cerusici coi fiocchi, e che in Italia, ad ogni tanto, fanno qualche
cura maravigliosa, pigliando i poverelli sull'orlo della fossa e
rimettendoli in gambe. Se non le raddrizzano ai cani, mettete pure che
ciò non sia tra i possibili, avendo la natura voluto così, e pei cani
e pei critici.

Latini e Greci, babbi e nonni per noi, hanno dato al mondo l'esempio
di un'arte viva e gagliarda, tutta umana nella sua purezza, tutta
elegante e serena nella sua gravità. Niente di oscuro, di perplesso, o
di vago, nei contorni di quella schietta ma non servile imitazione del
vero; tutto ha un corpo e una bellezza ideale, in quel naturalismo
felice che chiamava gli dei in terra e innalzava gli uomini in cielo.

Queste cose ch'io dico, e le molte che taccio, si fanno meglio palesi
in due forme dell'arte antica, nella scoltura e nella architettura. Il
marmo non ha mollezze nè abbandoni; può concedersi alle curve,
graziose nella loro medesima sicurezza, ma si nega recisamente alle
cascaggini, alle titubanze, ai galleggiamenti nel vuoto. La colonna,
imitazione dell'albero, ha da star ritta, per esser salda; vuole la
sua misura secondo un rapporto geometrico, la sua base, il suo
capitello, il suo abaco. La statua deriva le sue proporzioni dal vero,
ma dal vero che ammirate, non da quello che vi ripugna e vi offende.
Policleto e Leonardo da Vinci, questi due grandi canonisti della forma
umana, s'accordano senza conoscersi, alla distanza di ventitrè secoli.
Proporzione, ordine, chiarezza, armonia, natura, bellezza, ecco di che
elementi è nata, si è nutrita, e vivaddio si sostiene, l'arte greca e
latina. Cercate nuove forme? Non troverete altro che le varianti, e le
corruzioni di quella. I vostri Arabi, così gentili ricamatori della
parete, così scaltri mascheratori dell'arco, derivano dai Bizantini; i
vostri Gotici, amici del sesto acuto, che fa risparmiare la fatica
delle cèntine sapientemente girate in aria, ingegnosi dissimulatori
dei contrafforti e dei puntelli che tengono ritte le loro cattedrali,
hanno l'arte di seconda mano dai Lombardi, scaduti e poveri, ma dopo
tutto familiari copisti dello stile latino.

Riveriti signori, con tutto quel che segue, sapete a memoria un bel
verso; per fare il paio, imparate quest'altro: «_Chassez le naturel,
il revient au galop._» Il che significa in lingua nostra, che avrete
un bel liberarvi dai Greci e dai Romani; li caccerete dalla porta,
rientreranno dalla finestra, o dal tetto. Non c'è natura, nè bellezza,
ove non sia traccia di loro; l'espressione del bello eterno, venendo a
noi, è passata per essi; ne fa fede la storia della civiltà; chi
sostiene il contrario ha dato il cervello a pigione.

Io li ho veduti anche al Louvre, e li ho salutati con tutta
l'effusione dell'anima, i miei Greci e i miei Romani. Parigi, anzichè
liberarsene, aveva tentato di accrescerne il numero; tanto che, dopo
le vittorie napoleoniche in Italia, la lista delle statue e dei
bassorilievi segnava cento e diciassette capi di più. Nel 1815 tutta
questa roba fu restituita ai legittimi proprietarii. Ma guardate quel
che rimane; sono ancora migliaia di statue, centinaia di capolavori,
quasi tutti levati da Roma, in trecent'anni di scorrerie, di tributi e
d'acquisti. Curioso a vedere come il Mazzarino e il suo re si
contentassero di rottami, scavati in Roma e offerti ai loro incaricati
laggiù; ma più curioso e veramente lodevole il modo in cui furono
restaurati quegli avanzi, spesso informi come l'Ajace, che si fa
chiamare Pasquino su d'una piazza dell'eterna città.

Leggete infatti, a' piedi d'una Giunone, _restaurée en Providenze_:
«moderni, il naso e la bocca, il collo e le ciocche dei capegli, le
due braccia e i due piedi.» E sotto una donna velata, restaurata in
Giunone: «la testa antica, appiccicata, non dovette appartenere alla
statua, essendo di un marmo diverso.» Sotto una Cerere: «sono moderni,
la testa col velo, il braccio destro, la mano sinistra, ecc.» Sotto un
Apollo citaredo: «testa antica, ma non appartenente alla statua, ed
evidentemente di donna. Il naso, il mento, il collo, le braccia, le
gambe, i piedi, la lira e il termine, sono moderni.» E via di questo
passo coi restauri, per molte e molte altre statue, tra le quali
l'Oratore romano, rappresentato nell'atteggiamento di Mercurio, opera
di _Cleomene, figlio di Cleomene, Ateniese_, come dice la leggenda
scolpita in caratteri greci dell'ultimo secolo avanti Cristo; la
famosa Diana di Gabio; l'altra non meno famosa di Versaglia (ritrovata
a Roma, intendiamoci); la Pallade di Velletri, colossale, e lo
stupendo Giasone, che si allaccia i sandali, somigliantissimo al
Gladiatore Borghese, e trovato a Roma, nel teatro di Marcello.
Quest'ultimo, per esempio, è di marmo pentelico; la testa è di
grechetto, ma antica.

Bisogna esser grati ai francesi di questa diligenza, mercè la quale
ogni statua fa la sua buona figura. Nè tutto è restauro, badate; ci
sono in buon dato le statue intiere e i monumenti pressochè intatti.
Per questo rispetto, Parigi non gareggia con Roma, nè con Napoli; ma
può venir terza facilmente; ed è già un bel posto il suo, quando si
pensi che quasi tutti i monumenti, statue, bassorilievi, sarcofaghi,
candelabri ed altri cimelii preziosissimi del museo del Louvre,
provengono d'oltr'Alpi. Quasi tutte le città gallo-romane della
Francia hanno voluto avere i loro musei particolari, in cui esporre i
frutti degli scavi fatti sul luogo. È questo forse l'unico caso in cui
Parigi non si mostri usurpatrice del diritto delle provincie, o, per
dir meglio, sostenitrice accanita di quella legge d'accentramento, da
cui ha derivata la maggior parte della sua stessa importanza.

Tra le rarità del museo, vuol esser notato il quadrante solare di
Gabio, su cui sono scolpite in cerchio le teste dei dodici Dei
maggiori, colla giunta di un tredicesimo, piccolino, paffutello e
sorridente, che apparisce tra Venere e Marte, e sembra collegarli in
un abbraccio filiale. Avete indovinato che quel birichino è Cupido,
che fa rima con _infido_, come sanno i vecchi e gli esperti. Degno di
molta attenzione il planisferio greco egiziano, detto del Bianchini,
dal nome del suo primo illustratore. Curiose le tavole di marmo, su
cui si leggono scolpiti i nomi di tutti i cittadini ateniesi morti
presso il nemico, nella 84.^a olimpiade; e quell'altra che reca incisa
con eleganza mirabile una legge civile di Atene, e che i discendenti
di Costantino avevano ridotta ad abaco di capitello, come si rileva
dalle croci greche, scolpite rozzamente sui lati. Non si può passare
indifferenti a' piedi di una Pudicizia, statua di donna tutta chiusa
nella sua _rica_, che somiglia grandemente alla sua omonima dello
scalone del museo Capitolino. Bisogna fermarsi davanti ad un Marte,
che va eziandio sotto il nome di Achille, e non si può negare un
tributo d'ammirazione a due o tre busti d'Antinoo, forse i migliori
che si conoscano di questo bellissimo favorito dell'imperatore
Adriano. Spero che avrete notato, passando, quel Giove colossale,
lavorato con molta finitezza, ma ridotto poco degnamente ad Erme,
perchè mancante lui delle parti inferiori, e mancanti gli artisti
moderni del coraggio bisognevole per restaurarlo sul serio. Non
badate, ve ne prego, a tutte quelle Veneri, che arieggiano il tipo
conosciutissimo della Venere di Gnido, ma sono lontane dal poter
rivaleggiare colla Medicea di Firenze e colla Capitolina di Roma. In
materia di Veneri, io non conosco ora, non vo' veder altro che quella
di Milo. M'è parso d'intravvederla, in fondo ad un androne. Sicuro è
lei, proprio lei; la riconosco all'atteggiamento imperioso e alla
mancanza delle braccia. Compatite la mia debolezza, sono innamorato
cotto di quella bella monchina. L'amavo prima di conoscerla, come
Goffredo Rudel amava la contessa di Tripoli; l'amavo sulla fede di ciò
che ne aveva scritto il visconte di Marcellus, che andò a farle visita
nella sua isola, entro la stalla del villano Jorgos; l'amavo per le
forme di gesso, che ne portavano attorno i lucchesi. Nel 1871, quando
corse la voce che i petrolieri della Comune avessero appiccato il
fuoco al Louvre, il mio primo pensiero fu per quella bella
prigioniera: non ebbi pace se non quando si riseppe che il Louvre era
illeso dalle fiamme, e che del resto la divina immagine stava in
sicuro da un pezzo, avendola i conservatori del museo calata in un
sotterraneo, al riparo dalle granate e dalle bombe prussiane. Debbo
confessarvi proprio ogni cosa? Un po' per far come gli altri ero
venuto a Parigi, ma molto (l'avevo lasciato nella penna, per non
parervi matto alle prime) molto per veder da vicino questa contessa di
Tripoli.... cioè, no, volevo dire questa duchessa, principessa,
regina, meraviglia di Milo e del mondo.

Studiamo il passo, se non vi rincresce, ed entriamo nel sacrario. La
dea è là, nel mezzo della sala, su d'un piedistallo di granito;
intorno al piedistallo è un cancellino di ferro, e intorno a questo si
affollano, si stringono, si pigiano centinaia di Mozambicchi.
Mozambicchi! che vuol dir ciò? Non vi scandolezzate; è il nome che
Parigi ha superbamente appioppato ai suoi provinciali, venuti coi
treni di piacere a vedere l'Esposizione, ed anche un pochettino ai
forastieri che invadono i suoi caffè, i suoi marciapiedi, i suoi
teatri, le sue trattorie, non lasciando aver pace ai Sibariti della
Senna. Cari, quei Mozambicchi! Ci stiano pure, facciano siepe intorno
al cancello; amano quello che io amo, e non mi posso dolere. Se
madonna fosse viva, sarei geloso, non ho vergogna a confessarlo; ma è
di marmo, e di marmo corallitico, che va annoverato tra i più duri
della creazione, e, come son certo che non me la possono rubare, così
mi sostiene il pensiero che essa non farà l'occhiolino a nessuno. Del
resto, ad un per uno se ne andranno di lì, e, appena mi riuscirà di
ficcarmi là dentro, di aggrapparmi alla ringhiera, vedremo.

Lavoro di gomiti e giungo alle spalle di una giovine coppia. Sono di
sicuro due sposi novelli; lo dice quel tenersi a braccetto con tanta
mollezza confidente; lo dice la loro gioventù; la loro snellezza, e
quel pallore di giglio che tinge la guancia della signora, da me
veduta in isbieco. Stanno un tratto silenziosi a guardare; poi la
signora arriccia il naso, dà una stretta al braccio dello sposo, e con
accento strascicato dalla noia gli dice:

--Non è che questo? (_n'est-ce que ça?_)

Sposina delle mie viscere, come capisco ora i parigini! Sì, è vero, ci
sono dei Mozambicchi a Parigi, ce ne son troppi, e voi siete la regina
della tribù.

Che cosa abbia risposto il _cacico_ alla sua giovine metà, non
rammento; forse non ci ho badato. So che la giovine coppia se ne andò
e che io mi ficcai dentro, guadagnando venti centimetri di ringhiera.
Intorno a me si era fatto un gran vuoto ed un grande silenzio; non
c'erano più Mozambicchi, nè Mozambicche. Non potevo muovermi, è vero;
ma di questo non occorreva dar cagione alla folla. Anch'io ero di
sasso, o, se vi piace meglio, di stucco.




XI.

Inno a Venere.--Un po' di storia.--L'editto di Teodosio.--Senza
braccia--Il nome dell'autore.--Induzioni ragionevoli.--Ho detto la
mia.--Una massima di Lisippo.--Imperatori romani.--Messalina.... col
bambino.


Come una statua monca, e rotta per di più in cinque o sei pezzi, abbia
potuto infiammare la fantasia, non solamente a me, che son l'ultimo
degli ultimi, ma a parecchie generazioni di poeti e di dotti, di
orecchianti e di orecchiuti, è cosa veramente degna di nota, ed anche
un pochino di studio.

È giovata a questa Venere la storia del suo ritrovamento; poi la
controversia lunghissima, e non ancora finita, intorno al vero suo
essere; da ultimo, e più di tutto, il carattere singolare della sua
bellezza. Come vedete, c'è qui l'embrione d'un panegirico, diviso in
tre punti, secondo le buone regole della sacra eloquenza. Adottiamo
quest'ordine prestabilito, che si conviene alla divinità del soggetto,
e aiuterà in pari tempo a chetare i bollori della nostra ammirazione.
Ecco la storia.

L'isoletta di Melos, oggi di Milo, è una delle Cicladi, ossia
dell'Arcipelago greco. Aveva, _in illo tempore_, su d'una collina
davanti all'ingresso della rada, un colmo di case, che parve un
villaggio a Tucidide, ma che divenne una città bella e buona, con
tanto di teatro, come attesta Diodoro Siculo e come le sue rovine
dimostrano. Oggi la città è tornata un villaggio, e dicesi Castro.

Lassù, nel febbraio del 1820, presso alcune grotte sepolcrali sotto la
cinta delle vecchie mura di Melos, un povero contadino, a nome Jorgos,
stava lavorando di zappa intorno ad un vecchio ceppo d'albero, che
voleva sradicare da un ciglione di terra. Ai colpi del contadino, il
ceppo, scambio di balzar fuori, si affonda in una buca. Jorgos, senza
volerlo, ha scoperto un ipogèo, una specie di grotta quadrata, larga
da quattro a cinque metri e profonda altrettanto, rivestita
d'intonaco, non senza indizii di quadrature policrome. Da buon greco
moderno, che conosce il pregio di simili incontri, Jorgos discende nel
sotterraneo, e trova, mezzo affondate nel terriccio, parecchie erme di
Dei, come un Mercurio, un Bacco indiano, e finalmente il torso d'una
Venere, mancante delle braccia e di tutta la parte inferiore,
dall'anca in giù. Lavora indefessamente e trova il resto della statua,
fino al plinto, insieme con rottami di braccia e di mani, di zoccoli,
d'iscrizioni e via discorrendo. Da quegli avanzi non c'è modo di
ricomporre le braccia della Dea. Ci sono, per esempio, tre mani; ma
quali sono veramente le due che le convengono? Jorgos non sta a
beccarsi il cervello; ha il grosso della statua, e questo gli basta
per capire che egli tiene in poter suo un capolavoro dell'arte antica
e che potrà cavarne un bel gruzzolo di piastre.

Quella Venere, evidentemente, era stata calata entro la buca da
qualche divoto, ai tempi in cui prevaleva la religione ufficiale di
Costantino, e forse qualche anno dopo il famoso editto di Teodosio,
quando i vescovi andavano attorno, armati del braccio secolare, ad
abbattere i simulacri, a diroccare i templi della vecchia religione
pagana. È noto che la più parte delle antiche statue furono conservate
alla posterità con questi inganni pietosi; tra l'altre la Venere
Capitolina e l'Ercole Mastai.

Fatta la scoperta di Milo, il signor Brest, agente consolare della
Francia in quell'isola, ne avvisò prontamente il suo ambasciatore a
Costantinopoli, che spedì a Milo un suo segretario, il visconte di
Marcellus. Nel frattempo, aveva toccato a Milo la _Chevrette_, su cui
era imbarcato un giovine uffiziale, il Dumont d'Urville, che vide la
Venere, e l'avrebbe comperata per milledugento lire, se il comandante
della corvetta non gli avesse dimostrata l'impossibilità di prendere
quel sopraccarico a bordo. Giunto il Marcellus colla nave dello Stato
l'_Estafette_, trovò che appunto allora la Venere era stata venduta
per quattromila lire ad un frate. Come, ad un frate? Sicuro, al P.
Economos, che, accusato di malversazioni a' suoi superiori, e chiamato
a Costantinopoli per render conti, voleva con quel donativo ottenere
la protezione di un Nicolaki Morusi, dragomanno dell'Arsenale. Si
oppose a quel contratto il Marcellus presso i primati dell'isola, e,
quantunque la statua fosse già stata imbarcata su d'un brigantino
greco sotto carica per Costantinopoli, ottenne di farla trasbordare
sull'_Estafette_, pagandola seimila lire al contadino, in nome del suo
ambasciatore, il marchese di Rivière. Dispiacque la cosa al Morusi,
cui il frate era andato a lagnarsi; i primati di Milo furono presi,
bastonati senza misericordia e condannati a pagare una multa di
settemila piastre. Li rimborsò il generoso signor di Rivière; ottenne
che il governo turco facesse delle scuse; ma le bastonate nessuno potè
più levarle ai poveri anziani dell'isola.

La Venere di Milo giunse a Costantinopoli il 24 di ottobre. Vederla e
desiderare di trovare le braccia mancanti, fu un punto solo pel
marchese di Rivière. Ma le ricerche riuscirono infruttuose, quantunque
andasse egli in persona. Certe estremità, rinvenute nell'ipogèo, o
poco lunge di là, non offrivano la medesima bontà di lavoro; altre,
come ho già detto, ridotte a pochi frammenti, non si prestavano ad un
restauro neanche approssimativo. C'era quel pezzo di mano col pomo,
che poteva far credere ad una Venere vincitrice del giudizio di
Paride; ma, senza contare la nessuna certezza che fra tre mani
rinvenute nell'ipogèo, quella del pomo fosse proprio da attribuirsi
alla statua, parve che con questa faccenda del pomo non si accordasse
troppo il ritrovamento contemporaneo d'un pezzo di zoccolo, o plinto
che si voglia dire, la cui frattura combaciava col plinto della
Venere, e la prolungava in modo da far supporre la presenza di una
seconda statua, più piccola, e non certamente di proporzioni
corrispondenti alla prima. Sul piano di quel frammento vedevasi
appunto una incavatura, adatta a ricevere il piede della statua
minore; sull'orlo, poi, si leggeva una iscrizione, che, supplita di
tre lettere in ognuno de' due capiversi, diceva così:--_Agesandro,
figlio di Menide,--d'Antiochia sul Meandro,--fece_.

Il ritrovamento di questo zoccolo, a cui non si pose troppa attenzione
da principio, guasta le uova nel paniere a coloro che pretendono la
Venere di Milo essere stata accompagnata ad un Marte, come si vede in
parecchi gruppi dell'antichità. Quello zoccolo non presenta la
larghezza necessaria a sostenere un Marte. Inoltre, esso è alquanto
più alto del plinto su cui poggia la Venere; il qual plinto,
precisamente sotto il piè sinistro della Dea, s'innalza un pochettino
anch'esso, come per accompagnarsi a quell'altro. C'era proprio bisogno
di alzare la base, per collocarvi il dio della guerra, già
naturalmente più alto della sua pretesa compagna?

Ma allora? che cosa ci poteva stare su quello zoccolo di giunta? O un
cippo, un'erme, come si ha in un esemplare d'Afrodite, conservato nel
Museo britannico; oppure.... oppure quell'unico tra gli Dei che, oltre
l'avere una stretta relazione con Venere, ha la statura più piccola e
fa intendere e rende naturalissimo quel rialzamento di base. È un'idea
mia, nata da un pezzo, fortificata da una visita al Museo nazionale di
Napoli, diventata certezza davanti a quel frammento di base, o, per
dire più esattamente, al disegno che ne ha fatto nel 1821 il signor
Debay.

Andate nel Museo Nazionale di Napoli e vedrete laggiù la Venere
Vincitrice, così detta di Capua. È nel medesimo atteggiamento della
Venere di Milo; gli occhi a mezz'aria, il piede sinistro su d'un
elmetto posato a terra; il braccio sinistro levato, per sostenere una
lancia; il destro abbassato, coll'indice teso in atto di comando.
Davanti a lei, e molto accosto è Cupido, coll'ali dimesse; nella mano
sinistra tien l'arco, e nella destra una freccia, che offre riverente
alla madre. Guardate al Louvre la Venere di Milo. L'elmo sotto i piedi
non c'è; ma di queste varianti d'esecuzione son molti gli esempi.
Abbiamo per contro l'assoluta somiglianza nei rispettivi atteggiamenti
degli omeri, indizio certo di una identica azione delle braccia. Se a
questo aggiungete il resto di base, la cui frattura perfettamente
combacia col plinto, mentre il piccolo spazio del suo piano e
l'incavatura nel mezzo paiono fatti a posta per dar luogo ad una
figura d'adolescente, in grande dimestichezza colla Dea, non avrete
più modo di dubitare. La Venere di Capua ha una sorella; sorella
maggiore, mi affretto a confessarlo. Quanto alla storiella della
Vittoria, sul fare di quella in bronzo del Museo di Brescia, non è più
il caso di parlarne. La Venere di Milo non può essere una Vittoria,
più di quello che lo sia la Vittoria di Brescia, che è una Venere
anche lei, alla quale un bel giorno, probabilmente sotto Vespasiano,
fondatore del tempio in cui essa è stata rinvenuta, furono aggiunte le
ali e lo scudo. La posteriorità della raffazzonatura è evidente. Del
resto, sia Vittoria, o Venere, quella di Brescia ha il peplo, e quella
di Milo è sempre più Venere di lei, perchè ha il torso nudo. E che
torso, e che nudo!

La statua, per dirvi tutto, è di marmo corallitico; un marmo d'Asia,
assai lodato da Plinio, che lo dice nella bianchezza e nell'apparenza
molto vicino all'avorio. L'ipogèo, nel quale fu rinvenuta, è a
cinquecento passi dal recinto del teatro di Milo, che forse era
dedicato a Venere, come quello di Pompeo in Roma, e come in generi
tutti i teatri antichi. La famosa Venere d'Arles fu appunto scoperta
nelle rovine del teatro romano di quella città provenzale. Salviano,
nel suo libro _De gubernatione Dei_, lasciò scritto: «_colitur Venus
in theatris._»

Quanta erudizione, buon Dio! Ma essa non è che la millesima parte di
ciò che si è stampato intorno alla meraviglia di Milo. E anch'io, dopo
tutto, ci avevo da dire la mia.

Resterebbe da aggiungere qualche cosa intorno alla bellezza scultoria
dell'opera, che è veramente singolare, e corrisponde per l'appunto a
quel ritorno allo studio del vero, che tenne dietro alla scuola di
Policleto. Una certa sprezzatura artistica nel trattare i capegli
denota l'epoca avanzata dell'arte. Quell'impercettibile mancanza di
simmetria tra i due lati del viso, quella lieve irregolarità nelle
proporzioni del collo, ed altre piccole licenze, che non isfuggono
all'occhio esercitato dell'artista, accennano alla copia d'un modello
vivente, anzi che alla stretta osservanza dei cànoni. Il pensiero
corre involontariamente a Lisippo, che teneva in molta stima i
trattati di Policleto, da cui confessava di aver cavato tutto il suo
sapere, ma che, additando i viandanti a' suoi giovani allievi, diceva
loro: «siano questi i vostri esemplari.» Massima eccellente in bocca a
Lisippo, il quale non perdeva di vista i principii, e ricordava con
reverenza i maestri.

Qualunque sia, Agesandro o Lisippo, l'autore, questa Venere è un
felice impasto di grazia soave e di grandezza eroica. È monca e piena
di rappezzi; ma la divinità di quel torso e di quella faccia,
l'eleganza snella e giovanilmente materna delle sue proporzioni, sono
tutto quello che si può immaginare di più bello in arte e in natura.
Veduta lei, manca la voglia di veder altro, e ci si scalda poco per
quella raccolta d'imperatori romani, che è veramente tra le più ricche
d'Europa. Figuratevi che d'ogni imperatore, busto o statua, ci sono
due, tre, quattro, fino a sei esemplari. Tra i più rari ho notato un
Pertinace, nudo e colossale, e un Nerone, alquanto più grande del
vero; per contro, essendo in marmo, dee ritenersi meno briccone del
vero.

Finirò con una statua di Messalina Augusta, che mi ha grandemente
colpito; grassotta, genialotta, cogli occhi un po' grossi, alla guisa
di certi miopi, i ricciolini sulla fronte, ravvolta in una sontuosa
rica, e con un bambino nelle braccia: il suo generoso Britannico, di
cui parla Giovenale, in un verso orridamente famoso.

È strano l'effetto di quella statua. Se in cambio di trovarla a Roma
dugent'anni addietro, vale a dire in terra di pagani e in un tempo
assai più pagano del nostro, l'avessero scoperta dieci anni fa, sul
territorio di Lourdes, si sarebbe gridato al miracolo, e la portentosa
immagine di Nostra Signora, innalzata sugli altari, farebbe prodigi a
bizeffe, coi ciechi, con gli storpi, e magari anche con le donne
sterili.

Debbo confessare tuttavia che un miracolo essa lo ha fatto per me,
quantunque non trasformata da nessuna apoteòsi. Dopo averla
considerata un bel pezzo, mi sono appressato a lei e le ho bisbigliato
un nome; non già quello di Claudio, non già quello di Silio; il nome
di Pietro Gossa. E quella briccona mi ha fatto il bocchino.

Lo credo, io!




XII.

Le grandi cose e le piccole.--Teatri e concerti.--_Incipit
lamentatio._--Il più costoso tra tutti i rumori.--Caffè
cantaiuoli.--_Il faut que jeunesse se passe._--I sette castelli del
diavolo.--Cavalli e pantomimi.--L'amore al lavoro.


Abbiamo veduto il palazzo del campo di Marte con tutte le sue
_dépendances_, e abbiamo veduto il palazzo del Louvre; l'esposizione
del presente e l'esposizione del passato, la transitoria e la
permanente; a farla breve, le due grandi cose di Parigi.

Ma Parigi non vive solamente di grandi cose; vive molto e sopratutto
di piccole. Chi non ha lette _Les petites industries_ di Edmondo
Texier, uno studio pubblicato sulla famosa Guida di Parigi del 1867,
dove l'arguto scrittore del _Siècle_ racconta come, vadano a finire i
trecentomila mozziconi di sigaro buttati quotidianamente per via, come
si faccia il pan grattato per le trattorie di quart'ordine, come si
fabbrichino le creste di pollo e le ossa di prosciutto, e via
discorrendo, non sa quanto ingegno ci voglia per cavare il nuovo dal
vecchio, nè quanta fortuna arrida a questi sforzi di una civiltà
sopraffina. Qui niente d'inutile, niente di perduto o di buttato via;
dei rilievi d'un pranzo della _Maison dorée_ si fa un _arlequin_ dei
Mercati; cogli avanzi dell'_Acadèmie nationale de musique_ (che così
pomposamente si chiama il teatro dell'Opera) si possono fare le
musichette dei _cafés chantants_. Qualcheduno pretende che ci sia uno
scambio, come un movimento di flusso e riflusso; ma io non ardisco
andare tant'oltre.

All'Opera si spende troppo e non è dato a tutti di entrarci. Il
_bureau de location_ si apre un'ora prima dello spettacolo; bisogna
far coda all'ingresso, per sentirsi a dire, un'ora dopo, che primi,
secondi e terzi posti, tutto è andato a ruba da cinque giorni, e
magari da quindici. Volete un biglietto d'anfiteatro, d'orchestra, o
di loggia, per la medesima sera? Lo troverete sicuramente, ma ad uno
di quegli uffici di rivendita, che sono frequentissimi nelle vicinanze
dei teatri, e specialmente sui _boulevards_, pagando, secondo le
circostanze, quaranta o sessanta lire quello che è segnato per
quindici sui prezzi correnti del _bureau de location_, il quale non ha
mai nulla per voi.

Tra parentesi, che cosa ne avviene? Quello che è avvenuto due
settimane fa, appunto alla grande _Académie nationale de musique_. Un
tenore si ammala, poche ore prima dello spettacolo. Come supplirlo, da
un momento all'altro, e senza la possibilità di una prova d'orchestra?
Cambiar lo spartito! Magari; ma, per far ciò, mancano le decorazioni,
il vestiario, le scene. In quella gran mole, così bella, quantunque
farragginosa, dell'architetto Garnier, non c'è posto per un magazzino,
per una attrezzeria proporzionata al bisogno. Ci vuole almeno un
giorno per introdurre e mettere a posto tutto ciò che occorre allo
scenico allestimento del _Profeta_ o del _Faust_. Dunque? Bisogna
rimandare la gente che sta per entrare in teatro e restituirle i
danari: cioè, intendiamoci, promettere di restituirli la mattina
vegnente, con comodo, e mediante il sistema della coda al _bureau de
location_.

L'impresario non sa darsene pace. È una brutta cosa dover restituire
22,000 lire, chè tante ne erano entrate in cassa quel giorno. Ma il
caso dello spettatore è anche più brutto. Il biglietto d'ingresso,
secondo la tarifia del teatro, val quindici lire? Gli restituiscono
puntualmente le sue quindici lire. Ma quel biglietto egli lo aveva
pagato sessanta in un _bureau_ di fuori via, che naturalmente non
restituisce nulla, perchè non era lui il mallevadore della
rappresentazione. E così avviene che il sullodato spettatore abbia
pagato quarantacinque lire per non veder nulla, e per sentire
altrettanto. In verità, è troppo caro.

Del resto non vi lagnate; se siete buongustai, non avete perduto altro
che l'occasione d'un disinganno. L'esecuzione musicale è meschina; le
decorazioni son tutto. Questi famosi spettacoli (e qui non parlo
solamente per l'_Académie nationale de musique_) si reggono per la
moltitudine degli spettatori, che si dànno la muta ogni sera; il buon
esito è assicurato da una _claque_ intelligente: la riputazione è
formata da una critica, anche più intelligente della _claque_.

Per queste ragioni, ed anche un pochino per questi pericoli,
rinunzieremo a certe musiche grandiose e andremo a sentire la
musichetta dei caffè cantaiuoli. Sono veri teatri, questi caffè,
somiglianti a certe arene d'Italia; platea all'aperto, qualche volta
protetta da un velario; quattro alberi intorno, ma non sempre; il
palcoscenico in fondo, elegantissimo, con grandi specchiere,
lampadari, fiammelle di gasse; queste poi a centinaia, a migliaia,
sotto tutte le forme conosciute dal cavaliere Ottino, ed altre ancora,
dentro e fuori del recinto, imprigionate in bellissimi globi di
cristallo. Bisogna trovarsi sull'imbrunire ai Campi Elisi, in questa
amenissima passeggiata che dalla piazza della Concordia mette all'Arco
della Stella e al Bosco di Boulogne; le fiammelle di tutti quei caffè,
vedute attraverso le piante, riescono d'un effetto magico, fantastico,
e.... trovate voi gli altri epiteti, perchè io ci perdo la scrima. Di
tanto in tanto un concertino di corni da caccia vien fuori ad
avvertirvi che quelle fiammelle dei Campi Elisi non sono le anime dei
giusti, e che potete entrare liberamente anche voi. Entrate di fatti,
o all'_Alcazar_, o agli _Ambassadeurs_, o all'_Horloge_; ai primi
posti sborserete tre lire, ai secondi la metà, sotto forma di
pagamento per un gotto di birra, o per un _mazagran_ (caffè in
bicchiere) che avrete domandato al tavoleggiante e che egli vi avrà
posto su d'un listello orizzontale di latta, appiccicato alla
spalliera d'una sedia, che sarà in linea perpendicolare davanti alla
vostra. Inutile il dirvi che per una seconda portata si paga da capo,
ma non più così caro.

Frattanto, sul palcoscenico le cantilene si succedono e si
rassomigliano. La più parte sono sciocchezze, senz'altro sugo che
quello di un doppio senso fatto abilmente capire, o dalla bellezza, o
dalla grazia, di chi canta e gesticola; bene inteso, se chi canta e
gesticola appartiene al «devoto femmineo sesso.» Le voci, per solito,
si fanno desiderare; gli abbigliamenti sono elegantissimi e spesso
anche limitatissimi. Intorno alla cantante, o al cantante, sedute su
certi canapè, come in un salotto e durante un concerto di società, si
vedono spesso dieci dodici tra baronesse e contesse di princisbecco,
le quali non hanno altro ufficio che di muovere il ventaglio, di
guardare a destra e a sinistra _sicut leo rugiens_, e di mostrare i
denti, _quaerens quem devoret_. Di queste dame non è piccol numero
neanche in platea. Guai a voi, se siete Mozambicco, cioè a dire non
avvezzo a queste magnificenze; la testa vi gira, e, nell'uscire dal
tempio, non vedete più i meandri della sacra selva, donde vi bisogna
uscire, per tornarvene a casa. Fortunatamente, non è lontana la piazza
della Concordia, coi suoi mille lampioni accesi, colle sue statue
colossali in giro e col suo obelisco nel mezzo. Arrivate là, guidato
da quella gran luce; vi parrà d'essere in Alessandria d'Egitto.
L'obelisco di Cleopatra vi guarda; se non siete Marc'Antonio, ci
scatta poco.

Ho citato tre caffè cantaiuoli, ai Campi Elisi. Poco distante è il
Mabille, un giardino dove si balla, cioè, correggo la frase, dove si
vede ballare. Il luogo ha più fama che non meriti; i forastieri ci
vanno in folla e ne ritornano disillusi, qualche volta stomacati.
Bullier, una variante, o riscontro di Mabille, è sull'altra riva della
Senna; gli studenti ci abbondano. _Il faut que jeunesse se passe._ Non
dico di no; purchè passi all'esame!

Un teatro, o caffè, o giardino, più curioso di tutti è parso a me
quello delle _Folies Bergères_, poco discosto dal _boulevard_
Montmartre. C'è un teatro chiuso, con gallerie, platea ed orchestra;
c'è un giardino, colla sua brava fontana zampillante nel mezzo, ma
tutto coperto da cristalli e anch'esso con gallerie che corrono torno
torno; un medesimo vestibolo vi conduce al bivio, anzi al trivio del
giardino, della platea, delle scale, che mettono su, alle gallerie
dell'uno e alle logge dell'altra. Da per tutto i deschetti di zinco;
da per tutto i tavoleggianti, pronti a servirvi; in alcuni punti di
passaggio i banchi, a cui siedono le rappresentanti dell'autorità
padronale; tra queste una giovine donna, con veste scollata, i baffi e
le fedine lunghe un palmo, che sta a sentire, col suo sigaro ai denti,
le giaculatorie dei _gommeux_, in adorazione davanti a lei. Lungo gli
anditi e le gallerie è una processione continua di viscontesse e di
duchesse Christophle, sfarzosamente vestite, che vi passano daccanto,
distribuendo occhiate imperatorie. Potete offrir loro un rinfresco; la
galanteria francese non lo impedisce, e Baiardo nei panni vostri
farebbe lo stesso. Se non lo fate, niente di male; son tanto alla
mano, quelle gran dame, che quel rinfresco, alla vostra tavola, sono
capaci di offrirselo da sè.

Qui, lo confesso, fui Mozambicco, rimasi a bocca aperta, cogli occhi
sbarrati, davanti a tanto spreco di luce, di eleganze, ed anche di
povera carne umana. Triste spettacolo, per un moralista dell'antica
maniera! Uno della nuova vi asserirà che il chiudere questi ritrovi
non muterà le condizioni fisiologiche, o patologiche, del «cervello
del mondo.» Io credo che sarebbe già un tanto di guadagnato a togliere
la mostra, e che tante disgraziate coscienze perderebbero l'incentivo.
Un tempo si diceva: _le roi s'amuse_: ora Parigi ha preso il posto e
fa le veci del re; per divertire Parigi e i suoi centomila ospiti di
tutto l'anno, occorre molta gente in scena, qualunque sia lo
spettacolo. L'operaia del giorno è _figurante_ di sera; il figlio di
Parigi, chiusa la bottega, va a fare il _romain_, il _claqueur,
n'importe quoi_, in un teatro qualunque; magari il ballerino a
Mabille. Egli pure si diverte, e si diverte _gratis_, aiutando a
quest'opera di corruzione intensiva, che rende così piacevole agli
uni, così molesto agli altri, il soggiorno di Parigi. Il garzone del
mio parrucchiere, un bravo ragazzo, dopo tutto, che legge due volte
alla settimana il _Journal des abrutis_, e lo capisce, mi ha
confessato di fare ogni sera il _claqueur_ al teatro dello Châtelet,
contribuendo largamente al trionfo dei _Sept Châteaux du Diable_,
rappresentazione fantastica, mimica, coreografica, lirica e
melodrammatica, che abbraccia tutti i generi, e ne rasenta degli
altri.

Questa _féerie_ dello Châtelet meriterebbe una lettera da sola. Siamo
nel prologo all'inferno, dove Belzebù si cruccia di non aver più carne
per la sua pentola. Un diavolo agli sgoccioli, come vedete, e a
Parigi! Che cosa fa lui, per rimediare a questa carestia? Corre in
Bretagna, a perseguitare due contadinotte, le quali hanno fatto voto
di andare in pellegrinaggio ad un santuario dei più reputati; le fa
passare per sette tentazioni, corrispondenti ai sette peccati
capitali, in sette castelli incantati, l'uno più meraviglioso
dell'altro. Ma ohimè, povero diavolo! Le contadine arrivano al
santuario, in barba sua; un po' sbattute, se vogliamo, un po' lacere,
ma finalmente ci arrivano, in compagnia dei loro innamorati, cantando,
ballando, curiosando, attraverso il serraglio di Stambul, le piazze di
Ninive, il regno di Gargantua, ed altri luoghi consimili, che dànno
occasione allo scenografo, al macchinista, al corpo di ballo, di farsi
un onore immortale.

Non meno portentosi di quelli dello Châtelet, sono gli spettacoli
dell'Hippodrôme. Il teatro, tutta in ferro, capace di diecimila e più
spettatori, ha un'arena, che è vasta, a giudicarne così ad occhio e
croce, come quella del Colosseo. Figuratevi che tutti gli artisti,
perfino i _clowns_, quando vengono a fare i loro giuochi, entrano
nell'arena in carrozza a quattro cavalli, cogli staffieri dietro,
tutti incipriati, pronti a saltar giù, per aprir lo sportello ai
gloriosi mattaccini. I giuochi sono stupendi, qualche volta paurosi,
come quello dell'Atlante che si porta su, colla punta dei piedi, il
suo globo di cartone per una spirale alta cinquanta metri, e se lo
riporta giù, collo stesso metodo, su quella lista di legno, larga
cinquanta centimetri, senza ringhiera, e con una inclinazione del
quaranta per cento. Bella sicurezza d'occhio e bella forza di punte!
Ad ogni intermezzo, poi, compariscono i nani e il gigante cinese; i
nani sono alti sessanta centimetri; il gigante due metri e
trentacinque; dico trentacinque. Quando gira attorno, avvicinandosi
alle gradinate, e sorride, si ha paura d'essere attratti, mandati giù
per quella bocca, come un rosso d'uovo. Ultima è sempre una pantomima,
in cui c'entrano tornei medievali, mostre di cento cavalli, di
splendide armature d'acciaio, colla solita moltitudine di figuranti;
parigini e parigine, che ingrossano la compagnia equestre, e mostrano
(chi vorrebbe negarlo?) di prendere amore al lavoro.




XIII.

_Sequitur lamentatio._--Usanze barocche.--Il tempio dell'arte
drammatica.--_La entième de Hernani._--Onorate l'altissimo poeta.--Il
bello e il deforme.--I miei classici.


Rimango nei teatri, se non vi spiace, perchè ci ho dell'altro da
dirne.

Quella forzata intromissione del rivenditore di biglietti d'ingresso
deve sicuramente far comodo a qualcheduno; poniamo agli stessi
impresarii teatrali, i quali s'ostinano a tener chiusi fino
all'ultim'ora i _bureaux de location_; ma essa non fa comodo
certamente al forastiero, che se ne lagna, nè al parigino, che la
tollera. E questa non è la sola tra le noie a cui va incontro chi si
reca a teatro. Ugualmente molesta, se non forse di più, è
l'istituzione sociale delle _ouvreuses de loges_; veri sciami d'arpie
che infestano tutti i teatri di Parigi. Se non si trattasse che della
mancia per un ombrello, una spolverina e uno scialle, di cui
l'_ouvreuse_ ha voluto ad ogni costo liberar voi e la vostra signora,
meno male; e tanto meno male in una loggia che non somiglia punto alle
nostre d'Italia, in una loggia dove siete in sei, ed anche più, non
avendo di vostro che la sedia occupata da voi. Ma il guaio grosso è
nel modo in cui dovete entrare e rimanere, acciuga infelicissima,
nell'anfiteatro.... del teatro.

Si chiama impropriamente anfiteatro una certa escrescenza che fanno i
teatri di qui, all'altezza della prima fila dei palchi; specie di
mezza luna che si avanza, come una platea sulla platea, ma senza
coprirla tutta; che è larga e piena nel mezzo, e si assottiglia a mano
a mano sui lati, fino a non dar luogo che per un posto solo. È fatta a
scaglioni co' suoi sedili e i suoi cunei, fra mezzo ai quali salgono
le gradinate di passaggio, come nei teatri e negli anfiteatri romani;
donde il nome che ho detto. Ora, badate a me. I sedili, in questa
mezza luna, come nelle altre spartizioni del teatro, son tutti
numerati; ma i posti numerati non si sono venduti al _bureau de
location_, bensì negli uffici di rivendita, e a prezzi naturalmente
esagerati. Il posto che avete preso, con molto sforzo, al _bureau de_
_location_, vi dà diritto anch'esso di entrare nell'anfiteatro, ma
dipende dalla bontà dell'_ouvreuse_ e dall'argomento _ad hominem_,
cioè, no, _ad foeminam_, che le avrete fatto luccicare sott'occhio, di
ottenere il meno peggio dei posti, inventati lì per lì, la mercè di
certe assicelle di legno, collocate di gradino in gradino, tra cuneo e
cuneo, o, per parlare il linguaggio del tempo, tra settore e settore.
L'_ouvreuse_, angelo di misericordia, può darvi anche un cuscino, da
mettere sull'assicella di legno; ma quel cuscino vi bisogna pagarlo,
come avete pagato il servizio di non essere spinto su, coi meno
fortunati, nel punto più alto e più lontano della gradinata di
passaggio.

Quanto alla gente dei posti numerati, entrata che sia a fare il suo
mestiere di acciuga, ha più poca speranza di muoversi. Perchè uno
possa uscire, a prendere una boccata d'aria, bisogna che dieci o venti
persone, sedute nella gradinata di passaggio più vicina, si alzino
l'una dopo l'altra, tolgano il cuscino, sollevino la ribalta, e ad una
ad una gli concedano il passo. Immaginate la noia che date, e i
moccoli che ognuno attacca, nel santuario della propria coscienza,
tutti per voi, e non già per pregarvi del bene. Conchiudo dicendo che
questa dell'anfiteatro è un'usanza barocca; quella dell'_ouvreuse_,
che vi presiede e ne approfitta, una invenzione diabolica; e l'una e
l'altra non hanno poco contribuito a guastarmi coi teatri francesi.

Ho detto teatri francesi, al plurale, in forma collettiva. Parlando al
singolare, abbiamo il Teatro Francese, così detto per antonomasia, che
vuol essere eccettuato. La verità avanti ogni cosa, e il Teatro
Francese avanti ogni teatro di commedia, di dramma, o di tragedia, che
sia di presente in Europa, anzi nel mondo civile. Anch'esso ha la
mezza luna e le _ouvreuses_, forse per dimostrarvi che non c'è niente
di perfetto nel mondo sullodato; ma questa imperfezione è largamente
compensata dalla abolizione della musica, o, per dire più esattamente,
di quel concertino di trombe, violini, violoncelli _et similia_, che
tien luogo d'orchestra in tanti teatri moderni. «_Le plus cher de tous
les bruits_», come lo ha definito in un momento di cattivo umore il
Gautier, non vi lacera gli orecchi, sotto pretesto di riempir
l'intermezzo; il manico del contrabbasso non si rizza indiscretamente
fra voi e gli attori, non si curva curiosamente ad origliare, come un
servitore della commedia antica, le conversazioni amorose de' suoi
giovani padroni.

Tacerò dello scelto uditorio che assiste alla rappresentazione del
Teatro Francese. È un po' cosmopolita, il pubblico di questi ultimi
mesi; ed io per conseguenza ho dovuto vederlo tale, alcune sere fa
alla centesima rappresentazione dell'_Hernani_. Per altro, anche
questo pubblico cosmopolita, più curioso che intelligente, più
stupefatto che buongustaio, sentiva anche lui la maestà dell'ambiente.
Questo è il maggior tempio dell'arte drammatica; messe piane non se ne
dicono; tutte messe cantate. Molière, Racine, Corneille, sono i
canonici più autorevoli del capitolo; seguono pochi altri, ultimi
venuti, tra i quali l'Augier; Victor Hugo c'è entrato giovane, di
straforo; ma oggi, grazie all'ingegno suo e al consenso del popolo, ha
dignità di arcivescovo.

Descrivervi questa _centième_ del dramma di Vittor Hugo, non si può;
nè io son uomo da tentar l'impossibile. Vi schicchero alla buona le
mie sensazioni, e non tutte, perchè in verità non mi ci raccapezzo;
tante furono, e così vive. Anch'io ho dovuto applaudire _à tout
rompre_, incominciando dai guanti; applaudire ripetutamente,
furiosamente, come se fossi un _romain_, uno _chevalier du lustre_, un
_clacqueur_ (tre sinonimi, per dire un applauditore salariato), oppure
un romantico della vecchia scuola, un discepolo del Maestro, un
Ugolatra, insomma. Sapete che cosa sia, o meglio, che cosa fosse,
trent'anni fa, un Ugolatra, e che cosa l'Ugolatria. Vittor Hugo,
autore a ventisette anni della famosa prefazione del _Cromwell_, era
detto per eccellenza il Maestro, i fedeli alle sue dottrine, si
chiamavano i discepoli, gli apostoli; perfino il modesto luogo in cui
si riunivano a spezzare il pane della nuova vita e a sbocconcellare la
costoletta dell'amicizia, si chiamava, con nome evangelico, il
Cenacolo. Luigi Reybaud, in que' tempi, canzonò gentilmente la nuova
religione letteraria nei primi capitoli del suo _Jerôme Paturot à la
recherche d'une position sociale_. E certo l'esagerazione ci fu, non
indegna di riso; ma non tutta per colpa dei discepoli di Vittor Hugo;
molta invece nel pubblico di certi pretesi classici, ai quali
dispiacevano maledettamente gli _enjambements_ del verso nuovo, e che
andavano su tutte le furie perchè Donna Sol gridava, in un momento di
febbre amorosa, ad Ernani:

    Vous êtes mon lion superbe et généreux,

o perchè Don Cesare di Bazan, nel quarto atto del _Ruy Blas_, diceva
d'una vecchia governante:

                   affreuse compagnonne
    Dont la barbe fleurit et dont le nez trognonne.

Ma quale distanza da quei tempi al nostro! Ora quegli sdegni
pudicamente accademici non si capiscono più; le celie non hanno più
eco; i dardi della critica si sono spuntati; una cosa sola rimane,
l'ammirazione del pubblico pel teatro di Vittor Hugo. Stupendo teatro!
E come lo si rivedrebbe tutto volentieri, rappresentato da questi
valenti artisti della Commedia francese! _Cromwel_, _Marion Delorme_,
_Hernani_, _Angelo_, _Marie Tudor_, _Lucrèce Borgia_, _Le roi
s'amuse_, _Ruy Blas_, _Les Burgraves_, creazioni immortali! E dire che
qualche critico, oggi ancora, fa colpa a Vittor Hugo di aver voluto
essere uno Shakespeare! L'ambizione, dopo tutto, era nobile. Ma uno
Shakespeare riveduto e corretto; che orrore! Fermiamoci qui e mettiamo
in chiaro la faccenda. Non consta da nessun documento che Vittor Hugo
abbia mai detto o pensato una cosa simile. È da credersi solamente che
chiunque, oggi, foss'anche un altro Shakespeare, si mettesse a
scrivere pel teatro, non potrebbe più, nè vorrebbe, dar libero corso a
quei getti d'eufimismo che guastano la semplicità del discorso, a
quelle trivialità che frammezzano i luoghi sublimi, a quelle
sregolatezze d'immaginazione e a quelle licenze di storia e di
geografia, che sono come a dire la scoria del prezioso metallo, in cui
Shakespeare ha gittate le sue creazioni. E neanche si lascerebbe
ingannare da una certa lode che si vuol dare oggi al tragico inglese,
di aver badato sopratutto a concentrare la luce del suo genio e
l'attenzione dello spettatore su d'un solo personaggio, curandosi meno
degli altri e niente affatto degli accessorii; perchè nessuna
affermazione, a proposito dello Shakespeare, è più arbitraria di
questa, che lo vorrebbe far passare per un esageratore degli antichi,
anzi che pel caposcuola dei moderni. Quel concentrarsi dell'azione in
un solo carattere non è punto provato, non ha quasi esempio nel teatro
dello Shakespeare; il riscontro di due caratteri, o l'antitesi di due
passioni, ecco invece la sua novità. La gelosia d'Otello ha il suo
contrapposto e il suo risalto nell'amore di Desdemona; l'ambizione di
Macbeth deriva i suoi terribili ardimenti da quella di sua moglie;
l'amore e la fatalità si contrastano epicamente il campo nel dramma di
Romeo e Giulietta; l'amore e il dovere, nella fosca leggenda di
Amleto, e così via. O contrasto, o dualità; non si esce di qui, nel
teatro dell'inglese. Che cosa ha fatto il francese? Ha allargato il
quadro; ha fatto girare più aria, ha dato contorni più ricisi a tutti
i suoi personaggi. Figure in luce e figure in ombra, di tutto si è
curato con uguale amore, e non meno degli accessorii. Concorrono tutte
le parti all'azione? Contribuiscono all'effetto? Aiutano a svolgere la
filosofia del dramma? Sì, come è dimostrato ampiamente e luminosamente
dall'esito. L'accusa di avere stemperata la forte unità dell'azione
shakesperiana, non regge. Il francese, come l'inglese, ha veduto e
sentito il dramma nel contrasto. Se egli non esce dal paragone così
grande come lo Shakespeare (che ha il merito di essere venuto il
primo) ne esce come Vittor Hugo; ed è già qualche cosa. Diamo tempo al
tempo; e vedremo il resto, o per dir meglio, vedrà chi sarà vivo.

Parrà strana in me questa abbondanza di lode per uno dei cosidetti
novatori. Ma io, se Dio vuole, non sono un fossile. D'altra parte, la
tanto decantata insurrezione di Vittor Hugo contro l'estetica antica,
è vera come l'altra accusa che dicevo poc'anzi. Il suo teatro è
proporzione, misura, euritmia; l'apoteosi del deforme, che altri vuol
vedere in alcune accidentalità dei suoi drammi, io non l'ho trovata
che nelle prefazioni, in cui qualche volta si compiace ad ingrossare
la voce, per metter paura ai Filistei: ad ogni modo, Rigoletto e
Quasimodo non sono niente più sciancati e contraffatti di Vulcano e di
Tersite, due dissonanze armoniche del gran poema di Omero. E poi, dato
e non concesso che il brutto, artisticamente reso, sia il brutto della
natura, e che il contrapposto non sia esso medesimo, in giusta misura,
una necessità dell'arte, chi vorrà lagnarsi di certi ritorni alla
verità, anche quando è volgare? Amico dell'arte antica, io trovo che
sono perfettamente compatibili con essa e che anzi le hanno dato
qualche volta un risalto maggiore. I grandi d'ogni tempo si son presi
le loro libertà; solo gl'imitatori non le intendono, e direi quasi che
fanno bene a lasciarle da banda, perchè certe cose non devono essere
permesse ai mediocri. I sommi poeti non hanno paura di attingere alle
vecchie sorgenti. Dante può esser lui, cioè l'uomo del mondo moderno,
chiedendo alle Muse antiche una nuova forma di poesia; classico
nell'ordinatezza della sua mente, può scendere al Tartaro con
Virgilio, salire in cielo con Esiodo ed Omero. Molte volte le
differenze di scuola non sono che alla superfìcie. E perciò io,
lasciando stare la quistione se Vittor Hugo abbia violato o no le
regole di Laharpe e di tutti i mediocri legislatori del Parnaso, mi
consolo di vedere in lui un classico della grande maniera, che è
l'unica buona. Quella cura dell'accessorio, che indica l'amante della
finitezza, quel parallelismo di caratteri, che denota il cultore
dell'euritmia, quella elevatezza di sentimento, che mostra il fautore
della bellezza morale, quell'onda di poesia che si svolge, varia e
sonora, da tutte quelle scene ammirabili, ed accenna il poeta sublime,
mi dànno l'opera compiuta in ogni sua parte, come sapevano pensarla,
condurla e finirla, i maestri della mia scuola, i santi del mio
calendario.

Con buona pace delle coscienze timorate (perchè ce ne sono ancora, tra
i classici di seconda mano) e non importa se con grave scandalo di
certa gente chiassona, a cui sembra di aver inventato la polvere,
perchè ha trovato una nuova insegna di bottega, io dò a Vittor Hugo il
posto suo; lo metto tra i classici.




XIV.

Una scivolata nell'estetica.--L'apparato scenico.--In Aquisgrana.--Un
pensiero a Gustavo Modena.--Istituzione che va copiata.--Sara
Bernhardt.--Ricordi fotografici.--La trinità poetica del secolo XIX.


Lodare o criticare l'_Hernani_ come opera d'arte, dopo quarantott'anni
di vita e di fama universale, mi parrebbe opera vana, salvo nel caso
di uno studio particolare espressamente fatto, o di un corso
d'estetica drammatica. Io non me la sento di dettare il corso, nè di
fare lo studio; inoltre, comincia ad entrarmi addosso la paura di
tornar molesto ai lettori, con certe fermate troppo frequenti ai
santuari dell'arte. E di queste non vorrei aver biasimo, poichè esse,
nell'animo mio, rappresentano tutta l'utilità, poca o molta che sia,
dell'epistolario parigino a cui vi ho condannati.

Alle corte, perchè si viaggia, se non per vedere e studiare? E perchè
si scrive di viaggi, se non per dar conto alle genti di ciò che s'è
veduto e studiato? Qui sono troppe cose, non che da studiare
intimamente, da vedere correndo. Ma poichè di talune ho avuto a dir
corna, e forse mi rimarrà dell'altro da criticare, mi si lasci il
gusto di osservare più lungamente ciò che merita lode. Parigi è un
mondo (le Guide lo fanno dire, se non erro, a Carlo Quinto); e appunto
come il mondo, ci ha il suo bello e il suo brutto, le sue paludi e i
suoi poggi. Questa volta mi trovo sulla vetta d'un colle; lasciatemi
star sulla vetta; se no, ricasco, sapete dove? nelle _Folies
Bergères_.

Dunque, torniamo a bomba, poichè bomba va. Sono stato al Teatro
Francese, ho assistito alla _centième de Hernani_ e ne parlo come di
uno spettacolo che mi ha fatto un gran senso. Non ho da difendere
l'orditura del dramma, nè da palliare certe imperfezioni, nè da
attenuare i bei difetti della gioventù dell'autore. Sento nello
_Hernani_ il caldo della passione, ci vedo la grandezza del fare
cavalleresco, proprio del paese e del tempo in cui è collocata
l'azione, insieme con quella varietà di carattere che è tutta propria
del Cinquecento, un secolo che ebbe i più ardenti innamorati, i più
sottili politici, i più feroci odiatori del mondo. Le linee della
composizione saranno forse un po' caricate; ma non bisogna dimenticare
che una certa esagerazione di forme è anche necessaria alle statue, e
in genere a tutti i monumenti che non vanno considerati da vicino. È
onesta licenza in arte di ingrandire quelle parti che debbono colpire
di più, dar carattere al tutto. Anche qui, è quistione di misura; ma,
se applichiamo queste norme allo _Hernani_, troveremo che l'autore non
ha abusato della licenza. Il suo dramma è tutto umano, anche con le
proporzioni del colosso; i suoi personaggi hanno in sè tutta la
varietà e l'impasto di virtù e di debolezza, che sono proprii
dell'anima umana. Non domandate loro una troppo stretta osservanza del
«_sibi constet_» di Orazio. Ecco tre uomini, in diverse condizioni,
mossi da un medesimo sentimento, intorno a Donna Sol. Perchè non
ammetterete tra loro la differenza, e dentro di loro la
disuguaglianza, che è portata necessariamente dalle loro condizioni
rispettive? Sono tutti uomini innamorati, ma internamente combattuti,
Ernani dalle sue collere di bandito, Ruy Gomez de Silva dalla sua
alterezza di castellano, Carlo V dai suoi sopraccapi di re e dalle sue
ambizioni di imperatore _in fieri_.

Mi accorgo di scivolare nell'estetica, e fo punto. Il dramma di Vittor
Hugo è posto in scena, al Teatro Francese, con uno sfarzo, che da noi
s'usa a mala pena nei balli. Conosco degli umori malinconici, a cui
questo apparato scenico dispiace nei drammi, come quello che svia
l'attenzione dell'uditorio e nuoce alla piena comprensione dell'opera.
Costoro, senza avvedersene, vanno dietro a qualche critico, che fu da
principio autore drammatico e non ebbe pur troppo i cosidetti
lenocinii del palcoscenico a salvarlo da una brutta figura. Per me,
tengo un'opinione diversa; non intendo perchè un autore si debba
stillare il cervello a rappresentare il vero meglio che può, se non ha
poi da farlo ammirare sulla scena, come lo ha veduto lui nella mente.
Si aggiunga che, dove il poeta abbia immaginato un gran quadro, le
magnificenze del suo pensiero sembreranno ampollosità e muoveranno
alle risa, quando non siano degnamente accompagnate dai loro
accessorii. Immaginate Carlo V nel sotterraneo della cattedrale di
Aquisgrana, presso la tomba di Carlo Magno; fate che il cannone abbia
tratti i due colpi che annunziano al re di Spagna il suo innalzamento
alla dignità imperiale; e poi fate entrare, se vi dà l'animo, due re
meschinamente vestiti, con mezza dozzina di straccioni alle costole,
che vengano ad ossequiare il nuovo monarca. Si riderà, a quella vista;
quanto più saranno elevati i discorsi, più omeriche saranno le risate
del pubblico.

Al Teatro Francese, nella famosa scena del sotterraneo d'Aquisgrana,
entrano due re, vestiti da re ed accompagnati da re, coi loro
trombettieri, araldi, vessilliferi, paggi, cavalieri e soldati; una
comitiva degna dell'annunzio che porta e dell'uomo che lo riceve. Del
vestiario dei principali artisti si potrebbe parlare a lungo, senza
lodarlo abbastanza. C'è Carlo V, tra gli altri, che par lui, proprio
lui, spiccato da un quadro del Tiziano; meglio ancora, uscito pur
dianzi dalle mani del sarto di S. M. Cattolica.

Perchè ho citato Carlo V, incomincerò dall'artista che ne sostiene la
parte. Il Worms è un attore intelligente e coscienzioso, pieno di
severa eleganza nel portamento e nel gesto. Notevole la impertinenza
altezzosa del giovine re nell'appartamento di Donna Sol, la sua
freddezza orgogliosa nell'incontro notturno con Ernani, la sua
fierezza prepotente nella sala di ricevimento del castello dei Silva,
il passaggio del suo carattere ad una gravità solenne, quasi ad una
grandezza imperatoria, presso la tomba di Carlo Magno. Ho detto quasi,
e pensatamente. Perchè Worms non ha esagerata la figura di Carlo V;
gli ha fatta compiere una grande azione, ma come doveva compierla lui,
con una buona dose di calcolo; e la sua esecuzione è stata il migliore
commento di quel carattere, come l'aveva pensato, ma non potuto
confessare, il poeta.

Così intendo l'artista; e il Worms, che lo è in modo così pieno, mi è
piaciuto da capo a fondo, perfino in quelle sue inflessioni di voce,
così aristocraticamente beffarde, con cui egli certo ha inteso di
compiere il suo personaggio. C'è un punto (del terz'atto, mi pare) in
cui egli deve dire a Ruy Gomez: _adieu, duc!_ Bisogna sentire come
glielo dice; quanto lievito di malumore in quel suo accento
strascicato, che lo porta a pronunziare la frase come se fosse scritta
in quest'altra forma: _adieue.... deuc!_

Del Mounet-Sully, che fa la parte d'Ernani, mi dicono che sia questo
il suo caval di battaglia; e lo credo facilmente. È giovane, di membra
vigorose, che non escludono l'eleganza; ha larghi e bei lineamenti,
neri gli occhi ed aperti, la chioma folta come una giubba leonina.
Tutto impeti nel gesto e nella voce, ora gorgoglia, come un torrente
tra i sassi (e allora non ne capite più una sillaba) ora si allarga,
ma per poco, in un fiume sonoro. Capisco che questa di Ernani, parte
concitata e quasi febbrile, da attaccarsi alla brava, come si
attaccherebbe un ridotto nemico, sia fatta, meglio di qualunque altra,
per lui, e che i suoi medesimi difetti possano dargli impronta di
maggior verità, in quella giovanile scompostezza di nobile
insalvatichito, che è il carattere di Don Giovanni d'Aragona.

I confronti tra questo primo attore e parecchi dei nostri italiani,
tornerebbero forse a suo danno. Lascio Gustavo Modena, quel divino
artista, che fece tutto bene, entrando, per dir così, nella pelle de'
suoi personaggi; contenuto a forza nel _Cittadino di Gand_, arcigno
nel _Filippo_, crudele e bigotto nel _Luigi XI_, terribile nel
_Sampiero_, epico nel _Saul_, e sempre e da per tutto quel che voleva
essere, non una linea di meno, o di più. All'altezza del Modena non
era mai giunto, e forse non giungerà più nessuno. Ma il paragone non
sarà possibile neanche coi due grandi scolari del Modena, voglio dire
col Rossi e col Salvini, troppo nutriti dal midollo del leone, troppo
pieni degli esempi e dei precetti di un tanto maestro. Per altro, si
contenti la Francia del suo primo attore, di colui che dovrà succedere
nella fama al Lemaître e al Bocage; nel Mounet-Sully c'è stoffa di
grande artista; ho notato in lui certi slanci e certe violenze, che
nessuno ha più (almeno, così naturali) in Italia. Verrà giorno che la
Francia otterrà il primato anche nell'arte di Roscio, se nessun
giovane da noi si mostrerà degno di prendere il posto dei pochi
valenti che abbiamo, segnatamente pel dramma. Anche per questo
rispetto, un periodo di decadenza incomincia in Italia. I nostri
giovani artisti, il dramma lo recitano bene ancora, ma non lo sentono
più.

Quello che piace in modo singolare al Teatro Francese è l'ottimo
complesso di tanti attori, avvezzi a recitare insieme, quali il gran
dramma e la tragedia, quali la commedia antica e moderna. Si nota in
essi un accordo, un impasto, una fusione, un'arte di chiaro-scuri, che
fa pensare alle orchestre meglio affiatate d'Italia. Peccato non avere
anche noi, a Roma, qualche cosa che somigli alla istituzione del
Teatro Francese! Eppure, sarà necessario pensarci, chi non voglia
credere e far credere che la coltura d'un paese stia tutta nel freddo
e dimenticabile insegnamento scolastico.

Ho lasciato ultimi due artisti, ma non mi rimarranno tuttavia nella
penna. Uno è il Maubant, che si fa ammirare per recitazione corretta
nella parte di Ruy Gomez de Silva, ma forse non è intieramente a
posto. Ha del padre nobile, anzi che del tiranno; è grasso, per
giunta, e, quantunque improntato di nobiltà negli atti e nell'accento,
riesce leggermente stonato, sotto le spoglie di quel bilioso
castellano, a cui l'amore, come un vino generoso in una cattiva botte
(passatemi il paragone volgare), si è inacetito nel cuore. Per contro,
Sarah Bernhardt... Ma qui ci vorrebbe un inno, un peana, un carme
secolare; ed io, quando pure mi sentissi da tanto, temerei sempre di
parervi esagerato. Attrici più attrici di lei, cioè a dire più esperte
nei grandi effetti della scena, nelle smorzature e nei rinforzamenti
della voce, o del gesto ne hanno su per giù tutte le nazioni d'Europa;
ma un'artista più intimamente vera, più schiettamente donna di lei,
non credo che esista. Perfino i suoi silenzi sono meravigliosi. Ce n'è
uno, assai lungo e pericolosissimo, nel primo atto dello _Hernani_;
quando la povera Donna Sol è colta nel suo appartamento, da Ruy Gomez
e da un nugolo di servitori, in compagnia di due sconosciuti. Tutti
gli occhi sono rivolti su lei; frattanto Ruy Gomez sfodera tutta la
sua alterigia castigliana, per fare un'intemerata coi fiocchi. E lei,
frattanto? Molte attrici qui sarebbero cadute sotto il mediocre; altre
avrebbero affrontato il pericolo e fatto di Donna Sol un'audacissima
donna, come ce ne son tante nelle antiche tragedie, che non si trovano
impacciate in nessun luogo e non hanno paura di nulla. Sara Bernhardt
ha trovato il modo di vergognarsi con nobiltà; di stare alla berlina
senza audacia, senza smarrimento di spirito, di saper quel che deve
alla presenza di suo zio e del re, senza dimenticare Ernani e il
pericolo che egli corre là dentro per lei: tutto ciò con una misura,
con una naturalezza stupenda.

Sarah Bernhardt è fatta per la scena; smilza della persona e tutta
nervi; gli occhi d'una mobilità e d'una profondità non comune;
armonica la voce, sebbene non robustissima; gli atteggiamenti, i
gesti, i moti tutti della persona, improntati di naturale eleganza. È
donna, lo ripeto, in tutta l'estensione artistica della parola. Dove
le altre facilmente strafanno, e per poco non appariscono uomini per
esuberanza di vita e d'ardore, ella conserva i suoi mirabili istinti
femminei. Sono dolente di andarmene da Parigi, senza vederla ed udirla
in qualche altra parte del suo repertorio; ma ho la certezza che ella
riesca benissimo in tutte. Un nostro italiano, che la Francia ha
adottato, il Parodi, è ancora tutto compreso d'ammirazione pel modo in
cui l'impareggiabile attrice gli ha interpretato una parte di vecchia
cieca (cieca lei Sarah Bernhardt, con quegli occhi!) nella sua _Rome
Vaincue_, dramma potente, che presto avrà dei fratelli, e degni di
lui.

_Bernheim Jeune, marchand de tableaux et curiositès_ sul _boulevard_
di Montmartre, vende ritratti fotografici di Sara Bernhardt in tutti
gli atteggiamenti e in tutte le foggie. Sono i ritratti più costosi
della bottega, e tuttavia gli vanno come il pepe. Non c'è forastiero a
Parigi, che, dopo essere stato al Teatro Francese, non voglia portarsi
via Sarah Bernhardt, almeno in fotografia. E un ritratto non basta.
Del Thiers, del Gambetta, di Emilio Zola, di Ottavio Feuillet e via
discorrendo, una copia, e non più; di Sarah Bernhardt quattro, cinque,
sei, magari dieci, spendendo una ventina di lire.

Su questi pezzi di cartone la gentile attrice è ritratta in veste di
pittore, che dà l'ultima pennellata ad un quadro; o di scultore, che
medita, appoggiato col gomito al trespolo che sostiene un busto di
donna, a cui manca forse l'ultima mano. Sarah Bernhardt è pittrice e
scultrice; non so di qual pregio nell'arte, perchè non ho visto nulla
di suo. Con buona licenza della scultrice e della pittrice, preferisco
Donna Sol, con la sua veste di broccato, che le sale fino alla radice
del collo, disegnando le sue forme snelle, con le braccia abbandonate,
le mani intrecciate sulle ginocchia, la testa appoggiata alla
spalliera d'un seggiolone gotico, gli occhi mezzo velati dalle ciglia
lunghe. Davanti a quella elegante persona si rinnovano in una tutte le
sensazioni che la valorosa artista mi ha fatto provare, due settimane
fa, alla _centième de Hernani_.

E penso poi a quel vecchio glorioso, il cui genio ispira artisti così
potenti; a quell'altissimo poeta che tutti debbono invidiare alla
Francia, perchè, volere o no, è il primo poeta vivente d'Europa, e
sarà, col Byron e col Goethe, uno dei tre primi poeti del secolo.




XV.

A Versaglia.--Splendori e miserie.--_Cherchez la femme._--Camillo
Desmoulins e madama di Pompadour.--Gian Giacomo e Diana di
Poitiers.--I ritratti e gli originali--Politica d'andata e
ritorno.--Il teatro.--Ricordi storici.


Il paziente lettore, che mi ha seguito fin qua, non può certamente
nutrire il sospetto che io voglia condurlo attorno per tutti i luoghi
memorabili di Parigi. Faccio per la città quel che ho fatto per
l'Esposizione universale; tra le cose che ho vedute, noto solamente
quelle che possono darmi appiglio a qualche considerazione, non
affatto inutile per un lettore italiano. S'intende per un lettore
paziente, come il mio, di cui sopra.

Ciò posto, venga il sullodato lettore con me. Dal _boulevard des
Italiens_ si svolta nella _chaussée d'Antin_, dove abita il Gambetta,
con la sua _République_ _française_. In capo alla strada è la piazza,
la prateria a forma di scavo e la pagoda della Trinità; ma noi non
entreremo in chiesa; svolteremo a sinistra, per andare alla stazione
di San Lazzaro, scalo famoso della ferrovia _de ceinture_, donde ogni
giorno, quando c'è aperta l'Assemblea nazionale, partono i treni
parlamentari per alla volta di Versaglia. Chi lo avesse mai detto a
Luigi XIV!

Andiamo, già lo indovinate, a Versaglia. Si può infatti, dimenticare
un visibilio di cose, tra belle e strane, che adornano Parigi e i suoi
pressi; ma Versaglia non può lasciarsi da banda. È stata la sede della
monarchia, dopo il Louvre e prima delle Tuileries, per un periodo di
tre regni, interrotto soltanto da una reggenza, che abitò in Parigi,
al _palais Royal_, e fece le sue miserabili prove nella famosa via
Quincampoix. Da Luigi XIV, che ha edificata la reggia di Versaglia a
Luigi XVI, che ne è uscito, per andare, di debolezza in debolezza,
fino alla piazza della Rivoluzione, Versaglia è stata il teatro di
tutti i grandi ricevimenti, di tutte le feste, ed anche di parecchie
brutture de' suoi regali padroni. Laggiù la stolta revoca dell'editto
di Nantes, per compiacere alla signora di Maintenon e ai gesuiti;
laggiù l'infame _Parc aux cerfs_, una specie di Capri, nascosta tra i
faggi e gli ontani, che non ebbe poca parte nella rovina dei
Capetingi. Luigi XVI doveva espiare i falli de' suoi antecessori e
lasciare la testa su quella medesima piazza, dove si era festeggiato
ventitrè anni prima il suo matrimonio con l'_Austriaca_. Era finita
pel fasto di Versaglia, quando le donne del popolo di Parigi andarono
in processione tumultuaria fino alla cancellata della Corte di Marmo.
Ma, anche prima, i reali di Francia incominciavano a non trovarsi bene
in mezzo a quel fasto. Maria Antonietta amava sopra tutto un villino,
ascoso nel bosco, il piccolo Trianon, graziosa fabbrica italiana, ad
un piano e mezzo, con cinque finestre di facciata, e le cucine mezzo
affondate nel suolo. La regina e le sue dame, semplicemente vestite di
percallo bianco, passavano le loro giornate in quel luogo, ricamando,
giuocando, o fingendosi contadine e adempiendo allegramente gli uffici
di quello stato, così bello nei quadri di Boucher e di Watteau.
Immaginate che idillio, in riva a quel laghetto, in cui si specchia
ancora la celebre casetta svizzera! Vedendo il piccolo Trianon, e
pensando alla vita tranquilla di quella regia lattaia, il cui marito
fabbricava toppe o scriveva trattati di fabbroferraio, ricorre alla
mente il frusto paragone della calma che precede.... quel che sapete.

Versaglia non è più una reggia; è da quarant'anni un museo. «_A toutes
les gloires de la France_» ci scrisse su quel povero Luigi Filippo,
che le rispettò tutte, le ospitò tutte, anche richiamandole
dall'esilio, ma ebbe, a quanto pare, il torto gravissimo di non
aggiungerne abbastanza di sue. La guerra d'Africa non doveva servire
ad altro che a formare i generali per un'altra dinastia.

Quelle glorie ci son tutte davvero, nel palazzo di Versaglia,
rappresentate nel marmo, o sulla tela, da tutti i grandi uomini e da
tutte le vittorie della Francia. I monarchi ci hanno i loro ritratti,
in una sequela non interrotta, da Clodoveo a Napoleone III; i
contestabili, gli ammiragli, i marescialli, i guerrieri famosi, gli
uomini di Stato, si mescolano coi poeti, cogli artisti e con le
donnine belle. _Cherchez la femme_. E a Versaglia non occorre nemmeno
cercarla; si trova su tutte le pareti. Curiosa, che, frammezzo a tanti
ricordi monarchici, facciano capolino anche i repubblicani! Camillo
Desmoulins mostra la sua faccia arguta davanti al ritratto della
Pompadour; Gian Giacomo Rousseau, fresco ancora di tutta la sua
gioventù, dimentica le Charmettes, e madama di Warens e il collega
Anet, davanti ad una Diana di Poitiers, che si è fatta ritrarre in
abito da bagno antico, quello della sua divina omonima, quando Atteone
portò in fronte la pena di aver troppo curiosato tra i rami.

Come sapete, anche la repubblica odierna è rappresentata a Versaglia;
ma non da ritratti, poichè ogni giorno ci vanno gli originali. La
rivolta della Comune aveva fatto andare laggiù l'Assemblea
costituente, al suo ritorno da Bordeaux; un meschino puntiglio ce l'ha
fatta rimanere, con grande rammarico di Parigi e con noia anche più
grande dei signori deputati. Salvo uno o due ministeri, non c'è ombra
di autorità costituita; il governo parlamentare ci arriva in convoglio
a mezzodì e ne riparte alle sei. La politica francese si fa con due
ore di perdita al giorno, andata e ritorno compresi. Se è vero che il
tempo è moneta, questa forma di governo è troppo cara e bisognerà
cambiarla. I giornalisti di Parigi, costretti a fare ogni giorno come
i rappresentanti della Francia, sperano, o temono, secondo i casi e
gli umori, che possa aver fine col Settennato. Ma quando finirà il
Settennato? C'è chi ne prevede la morte volontaria dopo le elezioni
senatorie, il cui esito dovrà assicurare la repubblica conservatrice e
rimandare gli ultimi rurali con Dio. Se ciò si avvera, non passerà
molto che il Senato e l'Assemblea voteranno il ritorno puro e
semplice; quello al Lussemburgo, questa al Corpo Legislativo.

_Pour le quart d'heure_, si tira avanti col provvisorio. La Camera dei
deputati è allogata in un cortile, raffazzonato alla meglio. La sala è
fredda, ma per contro non bella. Belli, ma freddi, i corridoi che
mettono all'aula, in mezzo a due file di statue, che sole non hanno
bisogno di caloriferi. Neanche i quadri avrebbero bisogno di fumo,
specie di quello del sigaro; eppure, la _buvette_ e il fumatolo sono
stati impiantati in alcune sale elegantissime, le cui pareti si vedono
ancora tappezzate di quadri, alcuni dei quali di gran pregio
artistico, e tutti di molta importanza storica.

Meglio alloggiati i senatori, nel grazioso teatro edificato da Luigi
XV per la signora di Pompadour, che morì cionondimeno senza vederlo
finito. In questo teatro, che s'inaugurò per le nozze di Luigi XVI col
_Perseo_ di Lulli, con l'_Atalia_ di Racine, col _Tancredi_ e con la
_Semiramide_ di Voltaire, si diede nel 1789 il malaugurato banchetto
delle guardie del corpo al reggimento di Fiandra, donde vennero tutti
i guai della famiglia reale.

Quella festa, a cui erano stati invitati gli ufficiali della guardia
nazionale di Versaglia, aveva un intento riposto, di rinfiammare la
devozione degli ufficiali del reggimento di Fiandra, da pochi giorni
arrivato colà. Una mensa di trecento posti, in forma di ferro di
cavallo, era collocata sul palcoscenico; nell'orchestra erano le
musiche dei due corpi; i soldati, che avevano fatto lega, stavano in
platea; molti spettatori, senza mestieri di biglietto d'ingresso,
erano stati ammessi nei palchi. Alle frutte, il re e la regina,
accompagnati dal Delfino e da sua sorella, apparvero dal palco reale,
nel punto che l'orchestra suonava l'aria: «_O Richard, o mon roi,
l'univers t'abandonne_». Le accoglienze furono entusiastiche.
L'orchestra allora mutò registro, suonò un'aria del _Disertore_,
notissima allora: «_Peut-on affliger ce qu'on aime?_» Palco scenico e
platea andarono in visibilio; parecchi militi della guardia nazionale,
spregiando la loro assisa, rivoltarono le coccarde tricolori. La
moltitudine, briaca della sua propria allegrezza, ricondusse la
famiglia reale ne' suoi appartamenti. L'esaltazione era al colmo; si
ballò sotto le finestre del re, gridando tutti gli _abbasso_ analoghi
alla circostanza e tutti i _morte_ più furibondi ai nemici del trono.

Ma pur troppo quella scenata (chiamiamola così) doveva avere il suo
contraccolpo a Parigi. Si esagerò forse lo scopo del banchetto e la
parte attiva che ci aveva presa la regina; le minacce contro
l'Assemblea furono raccolte e commentate; la carestia, che in
quell'inverno aveva ridotto troppa gente alla fame, non era certamente
consigliera di prudenza nè di magnanimità. Il banchetto si era tenuto
il 1.° ottobre; la mattina del 6 il popolo, aizzato da' suoi
sobillatori, accompagnato dal Lafayette, che voleva moderarlo, prese
la via di Versailles, si condusse a furia sotto le mura del castello e
penetrò nella Corte di marmo.

Maria Antonietta, a cui, ne' gravi momenti, non venne mai meno
l'ardire, si presentò alla folla, da un verone del primo piano,
accompagnata dal Delfino e da madama Reale.--_Non vogliamo
bambini!_--gridarono mille voci sdegnate; e la regina, sfidando il
pericolo che le era chiaramente presagito da quel grido feroce,
rimandò i suoi due figli, inoltrandosi da sola verso il popolo, come
una vittima consacrata alla morte. Ed era tale davvero. Lafayette,
avvicinandosi a lei, poteva proteggerla per allora col lustro della
sua fama. Il re, chiamato a sua volta, e accolto col grido: «venga a
Parigi» potè rispondere che si sarebbe volentieri commesso, con la
moglie e coi figli, alla guardia de' suoi fedelissimi sudditi. Ma
quella pace piena di rancore, quella partenza immediata per Parigi,
che dava alla moltitudine la misura del poter suo e della obbedienza
paurosa del suo re, segnavano la condanna di morte per Luigi Capeto,
per l'Austriaca e pel lupicino reale. Perchè _lupicino?_ Forse per
dire con una sola parola e per via di contrapposto che i _delfini_,
animali d'acqua salsa, non si ammettevano più.

La carovana partì da Versaglia quel giorno medesimo, 6 ottobre 1789,
al tocco dopo il meriggio. Si racconta che, passando per una galleria
del palazzo, davanti ad un ritratto di Carlo I d'Inghilterra, Luigi
dicesse, quasi divinando il futuro: «Il mio destino sarà come il suo».
Da quel giorno il castello di Versaglia rimase disabitato. Ci andarono
tratto tratto, in occasione di qualche festa, i sovrani che ebbe
ancora la Francia, dopo la sua grande rivoluzione. Luigi Filippo, per
esempio, quando ebbe fondato il museo nazionale di Versaglia, lo
inaugurò col _Misantropo_ di Molière, due atti di _Roberto il Diavolo_
di Meyerbeer e una commedia di Scribe, rappresentati nel teatro di
Luigi XV. Ma il figlio di Filippo Eguaglianza non si trovò bene colà.
Troppi ricordi lo molestavano; e tra i ricordi, qualche rimorso.... di
famiglia. Nel 1848, scacciato anche Luigi Filippo, i membri del
Governo provvisorio, ordinarono in quel teatro un concerto; la guardia
nazionale, forse per purificarlo dalle memorie di poco civismo della
sua antenata del 1789, ci ballò anche lei, ma senza regine di sangue,
e per iscopo di beneficenza. Napoleone III ci convitò il 25 luglio del
1855 la regina Vittoria, il principe Alberto e i loro figli, ad una
cena sontuosa. Si cenò nel palco reale, diventato, per quella
occasione, imperiale. Dopo di che, buio pesto, fino alla prima seduta
del Senato, che ci stona abbastanza, forse per amor di contrasto colle
armonie di Lulli e di Meyerbeer.

Mi avvedo di essere già dentro a Versaglia, mentre il mio posto era
accanto a voi, nella stazione di San Lazzaro. Abbiate pazienza; la
fantasia correva innanzi con la rapidità dell'elettrico. Fate conto
che sia andata a prepararvi gli alloggi; io torno indietro per
ripigliare la strada.




XVI.

Dintorni di Parigi.--_Super flumina Babylonis_.--Una città di
villeggiatura.--Il capolavoro del Mansart.--Sinfonie del
Rossini.--Arte e natura.--Si dice male di Luigi XIV.--Le vecchie
cronache--Adulazione bizzarra.


Si può andare a Versaglia, anche passando dalla riva sinistra della
Senna. Parigi ha due scali di partenza per Versaglia, e, perchè le due
linee ferrate non si congiungano strada facendo, ne viene che
Versaglia abbia due scali d'arrivo; _tout comme à Paris_, dicono i
Versagliesi, non senza un miccino d'orgoglio.

La strada, sia che andiate per la riva destra, sia che andiate per la
riva sinistra, è incantevole; tutta in mezzo a villini bianchi e
rossi, coi tetti a capanna, castelli in miniatura, ascosi come nidi di
scriccioli tra le siepi, colmi di case che si direbbero aggruppate a
forma di città da un fabbricante di balocchi di Norimberga; e sempre
in vista della Senna, che si divalla lì presso, in un ristretto
orizzonte, con le sue rive incoronate di salici. _Super flumina
Babylonis_; è proprio il caso. Colori dominanti del paese, il bianco
latteo delle casine, il rosso mattone dei tetti, il verde tenero della
frappa; aggiungerete l'azzurro pallido del cielo, quando è sereno, e
avrete una campagna, che può benissimo non apparir bella nei quadri,
una campagna a cui mancano le tinte vigorose e i riflessi dorati
dell'italiana, ma che riposa l'occhio e contenta lo spirito. Per
viverci, per dimenticarcisi ed essere dimenticati, che cosa si domanda
di più?

Le stazioni sono graziosine; casette da due piani, attorniate,
accarezzate, prese d'assalto da famiglie di piante rampicanti, aperte
nel mezzo da una gran sala d'aspetto, che durante l'inverno si chiude
tutta con una grande invetriata. Gente, in queste oasi ferroviarie,
pochina; se non fosse lo _chocolat Mènier_, o un _Pas de concurrence
possible_, che vi perseguita anche là, coi suoi cartelloni luccicanti,
vi credereste d'essere in capo al mondo, non alle porte di Parigi.
Ecco Saint Cloud; nessuna magnificenza vi annunzia la vicina residenza
imperiale; il castello vi è nascosto all'occhio da un poggio, o da una
piccola macchia. Sèvres, là in fondo alla valle, non vi lascia
intendere dove siano le sue fabbriche di porcellane, celebrate nel
mondo. Passando per Asnières, vorreste riconoscere il villino di
Margherita Gauthier; ma non c'è caso, i villini si seguono e si
rassomigliano tutti, nella piccolezza, nella grazia, direi quasi nella
discrezione con cui vi mostrano, o vi nascondono, la felicità dei loro
penetrali. Perfino Versaglia, la fastosa Versaglia, dove arrivate
finalmente, scendendo da una stazione che vorrebbe parere grandiosa,
non vi lascia indovinar nulla de' suoi regali tesori. È una città di
provincia, o, per dir meglio, malgrado la contraddizione apparente,
una città di campagna, di villeggiatura. È nata sotto Luigi XIV, non
lo dimentichiamo; e quando il re Sole abitava il palazzo edificato a
lui dal Mansart, non si poteva mica alloggiare tutta la corte entro i
cancelli della reggia. La città è debitrice della sua esistenza ad un
rigurgito, ad uno stravaso, di quella reggia pletorica. Strade larghe
e vuote, viali alberati in cui non si vedono quattro persone a
diporto, palazzi grigi che paiono caserme e che hanno l'aria di non
conoscersi l'un l'altro, agglomerazione di solitarii, ecco la città,
come si presenta oggi all'occhio del forastiero. Ci sono parecchie
trattorie, il che a tutta prima vi farebbe credere che almeno la
popolazione avventizia dei senatori, dei deputati o dei curiosi, può
in certe ore del giorno simulare lo spettacolo d'una città viva. Ma
non è vero niente; senatori, deputati e curiosi vengono qua dopo aver
fatto colazione, aguzzano il loro appetito e lo riportano a Parigi.
Solamente a Parigi si trovano il _pied à la Saint-Menéhould_ e la
_sôle au gratin_, che levano tant'alto la cucina francese al cospetto
delle nazioni. E i trattori di Versaglia aspettano invano la folla; i
ragni della città cenobitica ci rimettono la spesa e la fatica della
tela.

Con me ha fatto meglio le cose sue un fiaccheraio, che, allungandomi
di non so quanti chilometri la via dalla stazione al castello, mi
persuase a salire nel suo trespolo, e poi, in quattro minuti di corsa,
mi depose sulla piazza grande, davanti al famoso cancello. Diedi un
mesto pensiero a due lire sprecate e mi guardai d'intorno. La piazza è
fatta a pendìo; due caserme da un lato, e in mezzo ad esse il gran
viale che mette a Parigi, chi voglia andarci in carrozza; dall'altro
il cancello lunghissimo, che custodisce la Corte di marmo. Questa
Corte, fiancheggiata da palazzi di vario stile, che si vanno
restringendo a mano a mano, toglie maestà all'edifizio principale, che
si scorge nel fondo. E questa, domandate tra voi, è questa la gran
reggia di Luigi XIV? No,--vi potrebbe rispondere un cicerone di
piazza, se udisse la vostra domanda interiore;--quello è il palazzo
edificato da Luigi XIII e conservato, incastonato dall'architetto
Mansart nel palazzo dieci volte più vasto, che sorse per volontà del
figliuolo.

Del resto, bisogna entrare in quel palazzo più antico, per vedere che
la residenza campestre del marito d'Anna d'Austria è bella anch'essa
di molto e meritava di sopravvivere. Bisogna poi uscir fuori,
dall'altra banda del palazzo vecchio e del nuovo, vedere così in di
grosso i piazzali, le terrazze, i giardini sterminati, voltarsi
indietro a contemplare quella lunga e nobilissima facciata, tutta
portici e colonne, per rimanere stupefatti, o, a dirla volgarmente,
rintontiti. Questa gran fabbrica, questo capolavoro del Mansart, non
ha rivali nel mondo. Lo spazio aiuta a dargli rilievo, e forse una
cosa simile si poteva fare soltanto qui, dove c'era la libertà dello
spazio. Doveva esser così la _Domus aurea_, fabbricata da un Luigi XIV
dell'antichità (Nerone, se permettete), quella Domus aurea che dal
Palatino giungeva all'Esquilino, attraversando la Velia. Ma la casa di
Nerone bisogna raffigurarsela con la fantasia; qui abbiamo la realtà.
Quelle linee eleganti e maestose ad un tempo, quella prospettiva di
viali e di statue, di vasche e di laghi, vi comprendono di meraviglia
e di piacere, come è naturale che avvenga, quando il concetto della
grandiosità non si scompagna da quello dell'armonia. Ho pensato qui,
senza il menomo desiderio di trovare un paragone, ho pensato alle
sinfonie del Rossini, a quelle musiche così fitte e così chiare, così
severamente architettate, eppure così piene di fioriture, così strette
alla misura, così ricche di varietà.

In questa fusione (non confusione) di generi, consiste per l'appunto
il sommo dell'arte. A Versaglia l'eleganza e la magnificenza si
sposano; cioè, si sono sposate e vivono da dugent'anni in fortunata
armonia. Oltrepassate quel terrazzo e quella spianata; quindi,
voltatevi indietro. Il palazzo non è più un palazzo; ha l'aspetto d'un
tempio greco, ingrandito una ventina di volte, che biancheggia tra due
timide masse di verde e sotto un padiglione d'azzurro. Per una volta
tanto, l'architettura francese ha abbandonato que' suoi tetti rilevati
a cono; abbiamo dei tetti all'italiana, mascherati per giunta da un
attico che corre per tutta la lunghezza della cornice. Voltatevi
ancora e guardate quel viale, anzi meglio, quei viali interminabili,
accompagnati da quelle statue e da que' vasi monumentali di marmo,
interrotti da quei laghi, da quelle fontane, orlati da quelle siepi
gigantesche; che cosa immaginare di più grandioso e tuttavia di meno
fastoso, di meno opprimente! L'arte ha soggiogato la natura, ma con
garbo e quasi per fargli piacere; la verdura, stagliata in larghe
messe simmetriche, ma senz'ombra di tirannia, si armonizza coi
monumenti disseminati a profusione da per tutto; lo stesso orizzonte,
imprigionato tra quelle digradazioni sapienti, o sia perchè non offre
linee spezzate alla vista, o sia perchè la grandezza dell'opera
artistica è stata condotta a non parer da meno di quella della natura,
si acconcia volentieri alla servitù, obbedisce senza sforzo, par
libero.

Era questo che voleva Luigi XIV? Non so, credo anzi che egli in tutti
questi accorgimenti non ci abbia nulla a vedere. Se un architetto gli
avesse detto che l'orizzonte, in materia di prospettiva, ha i suoi
diritti, avrebbe forse risposto a quell'architetto: «_l'horizon c'est
moi._» Diciamo dunque: fu un uomo potente, che seppe volere una bella
cosa per appagare il suo fasto, la sua boria di nuovo Sesostri, e
ottenne, grazie all'ingegno del Mansart, un'ottava meraviglia, su cui
era giusto che stampasse il suo nome, perchè era lui che snocciolava i
quattrini. Mi domanderete da che casse li pigliava, se non forse da
quelle dello Stato. Ma il gran Luigi vi risponde per me, come ha
risposto al Parlamento: «_l'Etat c'est moi._» Vedetelo dipinto almeno
un centinaio di volte, in tutti i quadri che illustrano i grandi fatti
del suo regno. In quelle fredde e vuote composizioni, non è in luce,
non è in vista che lui. Volete l'assedio d'una città nemica? Eccolo;
il re Sole a cavallo, che visita una trincea. Il famoso passaggio del
Reno, per cui s'innalzarono archi di trionfo a Parigi? C'è anche
quello, rappresentato da una campagna grigia, nel cui fondo non si
vede più nulla, ma sul cui primo piano spicca un cavaliere, circondato
da due o tre generali che paion valletti. È il re Sole, che vi guarda
colla coda dell'occhio grifagno e sembra che voglia dirvi: «_le
passage du Rhin... c'est moi._» È lui, sempre, è lui ogni cosa;
fulmine di guerra, redivivo Pelide, tutti i guerrieri dell'antichità
possono andarsi a riporre;

    Non illi quisquam bello se conferet heros.

Ma di Luigi XIV e della sua boria mi occorrerà di parlare più oltre.
Sbrighiamoci da quattro cenni di storia. C'è anzi tutto il nome di
Versaglia, che domanda uno schiarimento. Or dunque, dovete sapere che
nelle vecchie cronache si parla di un Ugo de Versaliis, contemporaneo
dei primi re Capetingi, il quale possedeva in questo luogo la sua
bicocca feudale, non avendo altro vicinato che la prioria di San
Giuliano, la cui campanella era la sola che rompesse di tanto in tanto
i silenzi della vallata e probabilmente anche i timpani del sullodato
cavaliere. Nel secolo XVI, l'ultimo feudatario di Versaglia, un
Marziale di Léomenie, per cansare la strage di San Bartolomeo, si
raccomandò al signor di Gondy, maresciallo di Retz, facendogli dono di
tutti i suoi beni; il che non tolse che il bravo maresciallo lo
facesse scannare, e un 28 d'agosto, ricorrendo la festa di San
Giuliano, si facesse riconoscere _seigneur de Versailles_, prendendo
sotto il baldacchino della prioria il posto dello sventurato Marziale.

Ignoro come fruttasse al Gondy quella roba di mal acquisto. So invece
che Luigi XIII, il quale andava spesso a caccia da quelle parti, e
trovava riparo in un mulino, diventato il suo quartier generale,
commise all'architetto Lemercier di fabbricargli colà un palazzo di
campagna. Fu quel medesimo palazzo che il Mansart incastonò più tardi
nella sua costruzione, quando a Luigi XIV piacque di avere un alloggio
suo, proprio suo, sbalorditoio, come la fama, la grandezza, la
magnificenza, che egli si figurava di avere.

Ingannato, dopo tutto, guastato dalle lodi d'un secolo cortigiano,
come dalla fortuna che un italiano, il Mazzarino, aveva preparata al
suo regno! Non era forse per lui che un uomo come il Boileau scriveva
il verso curioso:

    Grand roi, cesse de vaincre, ou je cesse d'écrire?




XVII.

Scorribanda capricciosa.--La chiesetta.--Una celia di soldato.--_Les
dames de beauté._--Dinastie a olio.--Marescialli di Francia.--Filosofi
e belle donne.--Ricordi storici.--Grandi uomini a migliaia.


Ci vorrebbe un volume, non che una o due lettere, a prender nota di
tutte le cose memorabili di Versaglia, e dei ricordi che destano. Se
avessi il tempo e la voglia di fare il volume, mi riuscirebbe un
catalogo, che nessuno di voi si sentirebbe la voglia, o avrebbe il
tempo di leggere. Un'occhiata al complesso, dunque! Ma come si fa? Son
centinaia e centinaia di sale, migliaia e migliaia di quadri; memorie
di tutti i regni, di tutte le dinastie, di tutte le grandezze e di
tutte le miserie. Altro che occhiate al complesso! L'unica cosa che si
possa fare è una scorribanda capricciosa, con tre quattro fermate, per
ricogliere il fiato.

Incomincio da una fermata. La merita davvero, quantunque il fumo delle
candele mi dia al naso, la merita davvero quella graziosa chiesetta
del Mansart, costrutta sotto il regno della Maintenon, sulle rovine di
una elegantissima grotta di Teti, che era stata decorata dal Girardon
e cantata dal Lafontaine. Non vi parlo dei matrimonii principeschi e
regali che vi furono celebrati; penso alla burletta del Brissac e non
resisto alla tentazione di raccontarvela.

Luigi XIV, diventando vecchio, s'era fatto eremita; ogni giovedì ed
ogni domenica andava in cappella, anche di sera, e voleva che tutti ci
andassero. Le dame della Corte non se lo fecero dire due volte;
dov'era il re si trovavano loro, e, per farsi meglio scorgere dal re,
tenevano tanti torchietti accesi sui davanzali delle tribune, col
pretesto di vederci chiaro nella stampa dei loro uffiziuoli. Il re,
indisposto, faceva sapere che non andava in cappella? La divozione
delle dame sbolliva issoffatto; non c'era caso di vederne più una al
suo posto. Ora sentite che cosa facesse il Brissac, maggiore delle
guardie del corpo, uno schietto soldato, a cui tutte quelle beghinerie
urtavano i nervi. Una sera, sull'ora della benedizione, tutti i
torchietti erano accesi nelle tribune; le dame, inginocchiate,
aspettavano il re. Brissac si affaccia alla tribuna reale, alza il suo
bastone di comando e grida: «Guardie del re, ritiratevi; il re questa
sera non viene.» Indovinate il resto; le guardie se ne vanno, i
torchietti si spengono, le dame spulezzano.

Partite loro, il Brissac fa ritornare le guardie al posto.
Sopraggiunge il re, si guarda intorno, e non tace la sua meraviglia,
non vedendo nessuna delle dame di corte. Ma, finita la benedizione, il
maggiore Brissac racconta arditamente al re la prova diabolica a cui
aveva sottoposta la devozione delle signore. Luigi XIV, che ama il
Brissac, finisce col ridere; ridono i signori del seguito, e ride, a
farla breve, tutta la corte. Non le dame, intendiamoci. Il Brissac,
con tutta la sua prodezza, non ardì più, dopo quella burletta, passar
troppo vicino alle dame di corte. Sfidava le palle, il bravo maggiore;
ma non si fidava delle unghie.

Andiamo avanti per una galleria di scoltura. Ci sono cento e più, tra
statue, busti e monumenti funebri, con figure marmoree, in mezzo alle
quali si vedono quasi tutte le più celebri _dames de beauté_ della
Francia. Nelle sale delle crociate, che vengono dopo, si hanno i
Goffredi Buglioni, i Filippi Augusti e i San Luigi a tutte le salse.
Notevoli in queste camere alcune reliquie storiche dei cavalieri di
Rodi, mandate in regalo a Luigi Filippo dal sultano Mahmud; tra esse
il mortaio di bronzo, che serviva di campana ai valorosi ospedalieri.
Avanti ancora, e troveremo la sala dei sovrani di Francia, tutti
effigiati sulla tela, dal solito Clodoveo fino a Napoleone III. C'è
poco da ammirare, come arte; non c'è che l'interesse storico, e non
per tutti, trattandosi di figure dipinte la più parte secoli e secoli
dopo la sparizione degli originali dalla faccia della terra. Io ho
cercato tra gli altri Filippo il Bello, e l'ho trovato.... brutto.

Vi ho già detto delle sale degli ammiragli, dei contestabili e dei
marescialli di Francia, tutte piene zeppe di ritratti. Di marescialli
antichi mi ha colpito il conte Rantzau, bel giovinotto, a cavallo, con
un occhio di meno e una gamba di legno. È quel Rantzau, sulla cui
tomba fu scolpito questo grazioso epitaffio:

    Du corps du grand Rantzau tu n'as qu'une des parts,
    L'autre moitié resta dans les plaines de Mars;
    Il dispersa partout ses membres et sa gloire,
    Tout abattu qu'il fut, il demeura vainqueur;
    Son sang fut en tous lieux le prix de sa victoire,
    Et Mars ne lui laissa rien d'entier que le coeur.

L'ultimo dei marescialli effigiati è il Niel, una nostra simpatica
conoscenza di Solferino. Cito lui che chiude la serie, per ora; ma non
mi fermo a nominarvi i più notevoli, perchè sarebbero troppi. In
quattordici sale, che hanno tutte una storia, poichè servirono
d'abitazione a principi e principesse della _maison de France_, ci
sono tutti i generali che giunsero ad afferrare quel tal bastone,
portato nel proprio zaino (secondo la notissima frase) da ogni
semplice soldato. In altre sale attigue ci sono i guerrieri celebri,
che morirono senza avere il bastone: Jean Bart, Duguay Trouin, il balì
di Suffren, Hoche, Kléber, Desaix, Lafayette. Quanti nomi, quante
glorie purissime! Che cosa ne avrebbe pensato, di questi ospiti nuovi,
la signora di Pompadour, che proprio in questo sale ebbe il suo
appartamento?

Salite al primo piano; si passa in mezzo a due file di busti, tra i
quali noto un Rabelais e un Descartes, due grandi filosofi, ma di
scuola diversa. Avanti ancora, e c'è un visibilio di ritratti, dei
quali uno mi ruba un quarto d'ora. Confesso la mia debolezza, ma ho
dedicato un quarto d'ora a Madama Récamier, l'Egeria della
Restaurazione, la più bella donna di Francia e Navarra, l'amica di
Chateaubriand e del filosofo Ballanche. Questa perdita di tempo mi ha
fatto stringere il passo nella grande, immensa galleria delle
battaglie, dove di battaglie ne avete a bizzeffe, da quella di
Tolbiac, vinta da Clodoveo, a quella di Wagram, vinta da Napoleone.
Più lunge, ho veduto la camera da letto della signora di Maintenon, ma
non ho più trovata la nicchia di damasco rosso e la poltrona di Luigi
XIV, il quale assisteva ogni sera alla cena della marchesa, e alla sua
andata a letto, per andarsene poi a cena e a letto anche lui, cinque o
sei camere più in là.

Uscite dall'anticamera della Maintenon, ed eccovi la sala _du Sacre_,
così detta pel celeberrimo quadro di David, vastissima composizione
che rappresenta l'incoronazione di Napoleone I e di Giuseppina. C'è
anche la battaglia d'Abukir e il Giuramento dell'esercito nel Campo di
Marte, quel giuramento, con distribuzione d'aquile imperiali, che
seguì di tre giorni l'incoronazione suddetta. Nel mezzo della sala è
il _Napoleone morente_ del Vela; un marmo che parla, e non occorre dir
altro. Ancora due sale e i ricordi cangiano.... di dinastia. Siamo
nella sala del biliardo di Luigi XVI; ma non c'è più il biliardo su
cui Luigi metteva la sua posta di cinque lire, rispondendo ad un certo
duca che si meravigliava della parsimonia del re:

--Signor duca, scusatemi; voi giuocate il vostro denaro, io quello di
tutti.--

Andiamo avanti, e si torna indietro... due regni. Ecco gli
appartamenti della signora di Montespan. Nessun ricordo piacevole; la
signora di Montespan fu una bella antipatica. Amerei meglio trovare
l'appartamento della povera madamigella De la Vallière; ma il cicerone
non sa dirmi dove sia. Forse non c'è mai stato; forse la gelosa
Montespan ne ha cancellate le tracce. Passo di corsa nella camera da
letto dove morì Luigi XV, il Tiberio della Francia, che compendiò il
suo regno nella cinica frase: «_après moi le déluge_» e giungo nel
gabinetto del Consiglio, celebre per uno dei pochi tratti di nobiltà
vera del re Sole. Qui infatti egli invitò il Molière, suo _valet de
chambre_, a sedersi a tavola con lui, e gli servì di sua mano un'ala
di pollo, per dare una lezione a tanti gentiluomini, che erano
valletti di camera come il Molière, e tuttavia sdegnavano di sedere a
mensa con lui, presso il _contrôleur de la bouche_.

--Voi mi vedete occupato--disse Luigi XIV ai gentiluomini che erano
venuti ad assistere alla sua colazione,--voi mi vedete occupato a far
mangiare il nostro Molière, che ai miei valletti di camera non sembra
una compagnia abbastanza buona per loro.--

Segue la camera da letto del re, conservata tal quale, come era nel
tempo suo, col letto parato di velluto cremisi trapunto d'oro, e tutto
il rimanente degli arredi, costati dodici anni di fatica al
tappezziere Simone Delobel, anche lui, come l'autore del _Tartuffo_,
decorato del nome di valletto di camera. Accanto alla camera da letto
è la sala dall'_Oeil de boeuf_, così detta da una finestra ovale nella
parete, aperta per ottenerle più luce da una camera attigua. Ivi
aspettavano i principi e i gran signori, ammessi alla felicità della
levata e dell'andata a letto del re Sole. Si parlava a bassa voce, non
si bussava agli usci, ma si grattavano gentilmente col sommo del dito;
solamente agli uscieri era permesso di aprirli.

Non lungi dall'_Oeil de boeuf_, da questa scuola di maldicenza
raffinata della corte di Francia, sono gli appartamenti della regina.
L'ultima che ci abitò fu Maria Antonietta. Il cicerone vi mostra la
sala delle guardie, ove, nella giornata del 6 ottobre 1789, morirono
tre soldati, tre eroi, Varicour, Durepaire, Miomandre de Sainte Marie,
ottenendo, col sacrifizio delle loro vite, il tempo necessario alla
fuga della regina negli appartamenti del marito e alle valide difese
della guardia nazionale, che cacciò poi la moltitudine furibonda fuori
del palazzo. Valore inutile, del resto, poichè i due scampati cadevano
di Scilla in Cariddi!

Andiamo via, non ci lasciamo impietosire. Dicono che bisogna punire le
colpe degli uni fino alla quarta generazione, e trovar commendevoli i
furori, sublime la libidine di sangue degli altri. Io dico invece con
madama Roland: «_Liberté, que de crimes en ton nom!_» E passo oltre;
anzi, salgo a respirare un'aria più pura nell'attico. L'attico, se nol
sapete, è il piano sotto i tetti. È grande quanto gli appartamenti
inferiori, contiene un centinaio di quadri rappresentanti battaglie
navali, i ritratti di quasi tutti i regnanti europei del secolo XIX e
di quasi tutti gli uomini politici più notevoli di Francia e
d'Inghilterra; inoltre, più di duemila ritratti di personaggi
meritamente illustri, e immeritamente noti, dal 1400 fino al tempo
presente.

Quanta storia, Dio buono! E dire che non c'impariamo mai nulla!




XVIII.

Una selva di spruzzoli.--Recessi ombrosi.--La casa di un
egoista.--Irritazione di nervi.--Correzioni storiche a un cattivo
dipinto.--Anna d'Austria.--Un bel madrigale.--Ricordo d'amore, raggio
di sole.


Me ne andrò da Versaglia senza aver visti i celebri zampilli e getti
d'acqua, a cui si dà moto soltanto in certe occasioni solenni, e che
vi trasformano i laghi di questa villa in una selva di spruzzoli. Ma
anche senza questi giuochetti, i laghi di Versaglia sono belli a
vedersi, coi loro cavalli marini e le loro divinità mitologiche
folleggianti a fior d'acqua. Abbondano i recessi solitarii dottamente
architettati e rivestiti di borracina, che invitano a sedere, anzi
meglio, a sdraiarsi. Raccomando il bosco d'Apollo, una specie di
Elicona, col suo fonte Castalio, presso una grotta, ove Febo sta a
chiacchiera con le Muse, all'ombra di cento famiglie di erbe e
d'arbusti, i cui rami spenzolanti vi dànno un senso di grata frescura.
Io ho sentito una voglia matta di avere una palazzina in quel bosco e
davanti a quella grotta; la qual cosa dimostrerà una volta per tutte
ai malevoli che io non sono un uomo di pessimo gusto. Soggiungo per
altro che, se non mi permettessero di fabbricare la palazzina nel
bosco d'Apollo, mi contenterei di abitare mille passi più in là, nel
piccolo Trianon, e alla più trista nel grande. Perchè son due, i
Trianon, non troppo distanti l'uno dall'altro; e sono due, perchè non
sono tre. Infatti, il loro nome ve lo dice: _tria non_.

Quanto al palazzo, vedete la mia modestia, non mi sentirei di
abitarci. Eppure, se c'è palazzo fatto a posta, direi quasi tagliato
alla misura d'un uomo solo, è proprio questo. Nella sua sterminata
grandezza si sente e si vede il carattere personale, la boria
egoistica del suo fondatore, e questo sentimento, questa apparenza,
non sono punto cancellati dalla trasformazione superficiale del
palazzo in Museo e dalla ospitalità accordata «a tutte le glorie della
Francia.»

Vi ho parlato di quelle grandi tele che decorano, deturpano, secondo i
gusti, le pareti di troppe sale, ripetendo a sazietà, anzi fino alla
nausea, le dure fattezze e gli atteggiamenti da ballerino del gran re
Luigi XIV. Ce n'è uno, tra questi, che m'ha urtato maledettamente i
nervi. Immaginate per fondo del quadro una sala, che riconoscete
subito, per averla veduta lì presso e averla sentita chiamare _la
grande galerie_; da un lato è Luigi sul trono, seduto, col cappello in
testa, la mazzetta tra le dita e le braccia comodamente appoggiate.
Principi e grandi signori stanno in piedi ai due lati del trono. Nel
mezzo del quadro è un vecchio, vestito d'un'ampia toga, che, già
saliti i tre gradini del palco, s'inchina profondamente, col berretto
nella mano sinistra e accostandosi la destra al petto, quasi in atto
di picchiare e di dire _mea culpa_. Dietro a lui, ma ancora sul
pavimento della sala, quattro personaggi in toga, e nello stesso
atteggiamento del primo, su cui sembrano modellarsi intieramente.
Dietro a loro un mastro di cerimonie; nel fondo cinque o sei figure di
cortigiani, che ci sono probabilmente come saggio d'un numero
maggiore, affollato nella gran sala dei ricevimenti reali.

A tutta prima non mi ero commosso. Ne avevo veduti già tanti, di quei
quadri, neppure commendevoli come opere d'arte, che, guardatolo appena
alla sfuggita, muovevo già il passo per seguitar la mia strada. Ma il
cicerone proprio allora mi disse:--_Le doge de Gênes venant faire ses
excuses...._--

Rizzai la testa, trattenni nelle dita la voglia d'uno scappellotto,
che avrebbe messo a soqquadro il palazzo e forse m'avrebbe fatto
accoppare da tutte le glorie della Francia, mi volsi di nuovo al
quadro e guardai la scena che vi ho brevemente descritta. Molte cose
mi dispiacevano nel dipinto; ma erano storiche e ci voleva pazienza.
Per altro, una non era storica, e mi parve sconveniente che il gran re
l'avesse lasciata dipingere da' suoi impiastratori di tela. Che cosa
significava quel re seduto e col cappello in testa, davanti al doge di
Genova, che aveva salito in quel punto i tre gradini del trono? Apro
le memorie del tempo, scritte in Francia, da francesi, e trovo che,
alla vista del doge, il re si coperse e invitò il doge a coprirsi;
solo i quattro senatori stettero a capo scoperto. Le memorie
aggiungono che il doge fece un discorso giusta i termini del trattato;
che il discorso fu umile, ma colui che lo pronunziava fu costantemente
dignitoso e fiero; che solo quando ebbe finito di parlare si scoperse
il capo, salutando, e gli fu risposto con pari cortesia.

Apro le storie genovesi e trovo quest'altro racconto, che ben
s'accorda col primo. Passati il doge e i senatori da Parigi a
Versaglia, furono sul principio introdotti nell'appartamento degli
ambasciatori; quindi, vestiti delle toghe che solevano portare nelle
occasioni solenni, salirono, con cento cavalieri del loro seguito, per
la gran sala, ove facevano spalliera i cento svizzeri della guardia
del corpo, armati d'alabarde. In cima della scala, quattro gradini a
basso (notate esattezza minuziosa del cronista!), si trovò il
maresciallo duca di Duras, capitano della guardia del corpo, vestito
«in abito nero di complimento, all'italiana,» il quale, avendo
inchinato il doge, si avanzò a facilitargli il passo in mezzo alla
moltitudine dei cortigiani, che ingombrava le scale, gli atrii e
l'appartamento regio. Entrato il doge nella sala, ov'erano sotto le
armi i moschettieri, proseguì per diverse stanze fino alla grande
galleria, a capo della quale stava il re, con monsignore il Delfino a
destra e il duca d'Orléans a sinistra.

«Era la galleria, per quanto capace e vasta, così piena di personaggi
e di nobiltà dell'uno e dell'altro sesso, che non fu possibile al doge
e ai senatori di arrivare così presto alla presenza del re; onde più
volte il re stesso, levatosi in piedi, con la mano e con la voce fece
segno che s'aprisse la strada, nè bastando questo, calò i due gradini
del trono e fece mostra di battere con la picciola canna che aveva in
mano. Ma essendo finalmente il doge arrivato _in vicinanza_ del trono,
dopo di aver salutato il re, _che lo attendeva in piedi_, si coprì.
Indi il medesimo doge, voltatosi dall'una e dall'altra banda per
vedere se i quattro senatori erano a' suoi fianchi, si levò di nuovo
la berretta, _come fece il re il cappello_; ed essendosi _l'uno e
l'altro_ ricoperti, il doge con pari energia e franchezza proferì il
seguente discorso.»

Ommetto il discorso e la risposta del re, ommetto i complimenti fatti
separatamente da questo ai quattro senatori; ommetto le nobili
accoglienze avute dai poveri, ma non umili, inviati di Genova, presso
i principi e le principesse _del sangue_. Riferirò soltanto che Luigi
XIV «rimase così preso dalle maniere del doge (Francesco Maria
Imperiale Lercaro) e insieme così soddisfatto dell'abbondante miniera
di scienze varie, speculative e pratiche, che trovò in lui, che fu
udito più volte commendarlo tra' suoi; e dire, in riguardo della
straordinaria franchezza mostrata nella prima udienza dal medesimo
dogo nel profferire l'orazione, che «egli aveva parlato con riverenti
espressioni, ma con aria e portamento da principe.»

Così Filippo Casoni, che attinse alle fonti vive. Un altro manoscritto
di quel tempo narra che il trono era «alzato solamente di due gradini»
e aggiunge che essendo ito il doge a deporre l'abito cerimoniale, e
avendo indossato un abito color violetto, sedette a mensa «su d'un
_fonteglio_.» Altri, nello stile d'allora, avrebbe voltato il francese
_fauteuil_ in «sedia d'appoggio.» Ma non badiamo a queste minuzie e
seguitiamo col manoscritto. «Molte dame, delle principali della Corte
e delle più qualificate, erano accorse a veder pranzare il Duce e gli
facevano corona all'intorno, quando, essendogli presentato il
_dessert_, le regalò dei più bei frutti della tavola. Fece in appresso
il Duce una visita privata al re; stette coperto con esso in discorso,
con dimostrazione di particolar gradimento.»

In Parigi e in Versaglia il doge Lercaro e i senatori, che furono
Giannettino Garibaldo, Agostino Lomellino, Paride Salvago e Marcello
Durazzo, godettero di quei divertimenti «che sogliono dare ai
forestieri sì gran città e sì gran corte» e con speciale invito del re
furono spettatori «dei giuochi meravigliosi delle acque ne' giardini
reali.»

Il re Luigi (sono gli storici di Francia che lo dicono) trattò il doge
Lercaro con la squisita cortesia di cui si faceva una legge. I
ministri Louvois, Croissy e Seignelay gli si mostrarono più arcigni;
la qual cosa fece uscire il Lercaro in questa bella sentenza:

--Il re, con le sue oneste accoglienze, ruba ai nostri cuori la
libertà; i suoi ministri ce la rendono.--

E qui viene a taglio di ricordare che il marchese dei Seignelay,
avendo chiesto a Francesco Maria Imperiale Lercaro che cosa trovasse
di più curioso a Versaglia, ne ebbe la memoranda risposta:

--_C'est de m'y voir!_

Raccontano a Genova che la frase fosse detta dal Lercaro ad un
senatore della sua comitiva; e ciò forse per potersi servire del
vernacolo genovese, che la rende in due monosillabi: _mi chi_. Ma gli
scrittori francesi, a cui pare abbia fatto senso, la vogliono detta
nella loro lingua, e il citare che fanno il Seignelay ad interlocutore
del doge, m'induce a credere che abbiano ragione loro. Il marchese di
Seignelay era stato col Duchesne al bombardamento di Genova, ed era il
figlio di quel Colbert, che l'aveva a morte coi genovesi, per ragioni
di rivalità commerciale. Con lui, nemico garbato, ma nemico
riconosciuto, la malinconica ed altera risposta del genovese era
proprio a suo luogo.

È piuttosto fuori di luogo la lunga narrazione del fatto. Ma il
lettore mi renderà giustizia in questo: che io, per amore di brevità,
mi sono astenuto dal raccontare le cause, o per dire più esattamente i
pretesti della guerra. Mi premeva soltanto di mettere in chiaro che
quel dipinto orgoglioso è in qualche sua parte bugiardo. Ciò non muta
il fatto delle scuse, non tempera il dolore del sopruso patito, lo so;
ma infine, se è permesso ai popoli di essere gli artefici delle
proprie disgrazie (e Genova, come tante altre città italiane, non è
stata per questo riguardo con le mani alla cintola), è bello di
conservare una certa maestà nella sventura e di meritare l'ammirazione
degli stessi nemici. Specchiamoci in questo esempio, ma sopratutto
adoperiamoci in guisa da non dover neanche lasciare di queste mezze
consolazioni ai nepoti.

Muto registro; se no, la politica invade. Prima di uscire da
Versaglia, sono andato a salutare un'immagine cara alla mia
adolescenza, e probabilmente anche alla vostra. Anche voi, da
giovinetti, avrete letti (io li ho divorati senz'altro) i _Tre
Moschettieri_, i _Vent'anni dopo_, il _Visconte di Bragelonne_; anche
voi avrete fatto raccolta (io ne ho fatto a dirittura una razzìa) di
tutti i libri che si riferivano ad Anna d'Austria. Intorno a quella
figura di regina, senz'anima, forse, ma non già senza cuore, c'è tutto
un ciclo di romanzi, come intorno al buon re Arturo della Tavola
Rotonda. Li ho letti tutti quanti e riletti; tornerei forse a leggerne
ancora, e a cercarne di nuovi, se non fossi stato a Versaglia e non
avessi veduta l'eroina. Dio buono, che amaro disinganno! Dov'era
andata l'Anna d'Austria delle cronache contemporanee, bella per donna
e per regina, fatta per ispirare amore e rispetto, alta della persona,
elegante di forme, cogli occhi verdi e trasparenti, la bocca piccina e
vermiglia come un bottoncino di rosa, e i capegli lunghi, morbidi, di
quel biondo muto, che dà tanto risalto alla bianchezza delle carni?
Ahimè, sarà forse stato perchè avevo veduto poco prima la signora
Récamier; ma il fatto sta che Anna d'Austria m'è scaduta un pochino. È
bianca, sì; ha bianche e ben tornite le braccia e le mani, di cui era
tanto orgogliosa; ma fermi lì, non c'è altro da ammirare. Povera la
capigliatura; cortino il collo e le spalle ineleganti d'una bofficiona
come se ne vedono tante; le labbra tumide senza grazia, gli occhi
verdognoli senza trasparenza, il naso tirato e depresso alla radice,
la fronte stretta e allungata, traente alla forma cucurbitacea, che
era il carattere distintivo della famiglia; eccovi Anna d'Austria,
quella donna che fu argomento di tanti fervidi amori e di tante
gelosie feroci. Vedendola, ho sentito il desiderio di dirle: signora,
perdonate, ma io non capisco più il duca di Buckingam.

Eppure, no, non può essere che sia lei. Anna d'Austria, abbastanza
disgraziata in quella sua vita, che ha da un capo Luigi XIII, il
cardinal Mazzarino dall'altro, e l'ombra del cardinale di Richelieu
nel mezzo, doveva aver poca fortuna anche col pittore, destinato a
tramandarne le sembianze ai posteri. Dev'essere così; è certamente
così. Arrotondo quella fronte con uno sforzo di fantasia, metto un po'
di fosforo in quegli occhi, dò una toccatina a quel naso, alleggerisco
quel collo; ed ecco l'Anna d'Austria della mia adolescenza, l'Anna
d'Austria amata da Giorgio Villiers, duca di Buckingam, che fece tante
sublimi sciocchezze per lei e a cui la vita fu interrotta da un colpo
di pugnale, forse perchè non avesse a farne delle altre.

Anna d'Austria amò Giorgio Villiers? Quanto e fin dove? L'hanno voluto
sapere un po' tutti; ma Chamfort chiude la bocca a tutti, con una
sentenza che vale tant'oro: «Intorno a questo negozio (egli scrive) la
metà di ciò che si dice non è vero, e la metà di ciò che è vero non si
sa.» Certo, la passioncella ci fu; non se ne fece mistero; divenne
quasi uno scherzo familiare il rammentarla. Quando il cardinale di
Richelieu presentò il suo segretario, Giulio Mazzarino, alla bella e
vigilata regina, le disse sorridendo: «Voi lo amerete, signora; egli
somiglia un pochino a Buckingam.»

Sedici anni dopo la morte di Giorgio, e spariti anche dalla faccia
della terra i due uomini che più fieramente l'avessero odiato, Anna
d'Austria, allora ritirata a Rueil, incontrò in un viale il Voiture,
suo poeta favorito. Costui veniva innanzi cogitabondo, o fingeva.--A
che pensate?--gli domandò la regina.--Pensavo,--rispose il Voiture,
rizzando la testa come un uomo che si sveglia,--pensavo....

      Je pensais que la destinée
    Après tant d'injustes malheurs
    Vous a justement couronnée
    De gloire, d'éclat et d'honneurs,
    Mais que vous étiez plus heureuse
    Lorsque vous étiez autrefois
    Je ne veux pas dire amoureuse....
    La rime le veut toutefois.
      Je pensais (car nous autres poètes
    Nous pensons extravagamment)
    Ce que, dans l'humeur ou vous êtes,
    Vous feriez, si, dans ce moment,
    Vous avizies en cette place
    Venir le due de Buckingam,
    Et lequel serait en disgrace,
    De lui, ou du père Vincent.

Il P. Vincenzo era il confessore della regina. Anna d'Austria
(racconta la signora di Motteville) non si offese dei versi; anzi, li
trovò così belli, da volerne una copia, che custodì lungamente nel suo
pensatoio.

Ricordo d'amore in una triste esistenza; raggio di sole in un cielo
tempestoso!




XIX.

Rassegna alla corsa.--Passeggiate e giardini.--Armi ed armature.--La
casa degl'Invalidi.--Il soldato con la testa di legno.--Un rogo di
trofei.--Napoleone I e la storia.--Dove andiamo?--Al _Père Lachaise_.


L'Istituto, l'Accademia, l'Osservatorio, l'Università, la Sorbona, gli
Archivii, la Scuola paleografica; ecco un bel numero di cose che
vorrebbero essere attentamente studiate. Queste ed altre, che per
amore di brevità non accenno neanche, son glorie vere e durevoli della
Francia; parecchie di queste non hanno riscontro presso le altre
nazioni: tutte concorrono a darlo il primato in quella che si potrebbe
chiamare la distribuzione del pensiero moderno, agevolata dall'uso di
una lingua che tutte le persone un po' colte, o parlano, o
cincischiano, o almeno intendono, nelle cinque parti del mondo. Ed è
naturale che sia così, poichè la lingua dei gallo-franchi, impastata
di tanta romanità, favorita da tanti secoli di fortuna politica, è
come l'anello di congiunzione tra le lingue nordiche e le meridionali
d'Europa. Ma, tornando alle cose di cui sopra, io sono pur costretto a
passarmene, perchè queste lettere non eccedano la misura della
discrezione. Immaginando che siate stanchi di palazzi e di musei,
lascio da banda il Lussemburgo, un Pitti parigino, col suo giardino
maraviglioso, che fu tracciato pensando a quello di Boboli. Non vi
trattengo neppure coi pochi avanzi romani di Parigi, nè coi molti
medievali, tra cui l'elegantissima torre di San Giacomo e la severa
cattedrale di Nostra Donna, che mi condurrebbero Dio sa dove,
fors'anco a parlarvi dell'arte gotica; un'arte che io, mezzo pagano,
ammiro grandemente, ma senza capirla poi troppo.

Ci sarebbe da descrivere i giardini, i parchi, le passeggiate
campestri, per cui Parigi è famosa. Infatti, le delizie di questo
genere non si restringono tutte nel bosco di Boulogne e nei Campi
Elisi. Per esempio, una lettera la vorrebbero per sè quelle amenissime
_Buttes Chaumont_, gruppetto di colline, tra cui, da un avvallamento
di verdura, si rizza una balza acuta, sormontata da una specie di
Tempio della Sibilla, come nelle vicinanze di Tivoli. Ma la lettera
non sarebbe che un esercizio di stile, da farsi ammirare, o accoppare,
secondo i casi, e nell'uno o nell'altro, da non farsi capire. Io, già
lo indovinate, non riuscirei che a farmi accoppare; _ergo_, acqua in
bocca. E taccio, per la stessa ragione, del _Jardin d'acclimatation_,
vastissimo ritrovo, di piante esotiche e d'animali domestici delle
varietà più rare; taccio del _Jardin des Plantes_, ancora assai ricco
per la sua flora, ma non più tanto per la fauna, ond'era in altri
tempi così celebre. I leoni, le tigri, le pantere, i leopardi, ed
altri nobili rappresentanti della famiglia felina, debbono aver
lasciate le polpe nell'assedio del 1870. Per contro, è rimasta
incolume la bellissima collezione di rettili, tra cui molti
coccodrilli, boa, serpenti a sonagli, pitoni, naje, aspidi di
Cleopatra, vipere, ceraste, e via discorrendo; nè occorre il dirne la
ragione ai lettori.

Sarebbe piuttosto il caso di una lunga fermata all'_Hôtel des
Invalides_, monumento ed istituzione ugualmente ammirabili, e per sè
stessi, e pel museo d'armi e d'armature, che v'è annesso, dalle
accette di selce fino alla mitragliatrice, dagli arnesi del guerriero
gallo fino ai calzoni corti del soldato di Sambre-et-Meuse, con una
giunta ricchissima di tutte le foggie antiche e moderne dei
combattenti d'ogni parte del mondo. Ma anche questa sarebbe
archeologia, e voi vorrete ormai tornare allo studio del vivo, magari
anche uscir fuori da questo commercio epistolare. Prendiamo una via di
mezzo; vi parlerò degli Invalidi, che abitano ancora là dentro,
aspettando l'appello dell'ultima sera e i tre rulli del silenzio
finale. Son gente malinconica e poco socievole, quantunque vivano
insieme. Già, a quell'età, e venendo da corpi diversi, non è più il
caso di stringer vincoli di famiglia posticcia. Mangiano e dormono
sotto il medesimo tetto, ma si sparpagliano volentieri per le vie
circostanti; quali a piedi, e sorreggendosi sulle grucce, quali in una
carrozzella, di cui muovono i congegni da sè. I pochi che restano a
soleggiarsi nel cortile, presso la batteria trionfale, composta di
cannoni d'ogni forma e d'ogni provenienza, parlano poco e mal
volentieri tra loro.

Io ne ho trovato uno molto cortese; ma la stessa sua cortesia mi è
stata cagione d'un disinganno. Vedendogli qualche medaglia sul petto,
gli avevo domandato quali campagne avesse fatto.--_Des campagnes? Je
n'en ai pas;_--mi rispose--_J'étais aux cuirassiers; je n'ai donné que
dans les émeutes._--

Un soldato decrepito scaldava al sole il suo magro corpicciuolo e
parecchie medaglie, tra le quali spiccava la stella della Legion
d'onore. Chiesi al mio cicerone se quello fosse un soldato del primo
Napoleone.--Sì,--mi rispose,--delle ultime campagne del grande
Impero.--E quella decorazione?--Sì, è decorato; gli hanno reso
giustizia.--Per qual fatto d'armi?--Per nessuno; l'ha avuta tre mesi
fa;--mi rispose il cicerone corazziere. Capii così in digrosso, che,
dopo un certo numero d'anni d'invalidato, si acquista il diritto alla
stella. È una decorazione d'anzianità; quando uno l'ottiene, si può
dire benissimo che gli hanno reso giustizia.

Gl'invalidi furono raccolti per la prima volta in questo ospizio da
Luigi XIV. Anticamente, anzi fino dai tempi di Carlomagno, e in forza
d'un suo decreto, erano posti a carico dei monasteri e delle abbazie,
sotto il nome di _oblati_; cosa che non doveva piacer molto ai priori
d'allora, nè dovrebbe piacere agli abati d'oggidì, comunque
_laudatores temporis acti_. Luigi XIII fu il primo ad istituire una
comunità _ad hoc_, sotto il nome di _Commanderie de Saint Louis_, ove
gli storpi e i mutilati dell'esercito fossero alloggiati e nutriti. Il
figlio compì l'opera del padre, allargandola alle proporzioni d'un
grande ospizio, capace di duemila ricoverati.

Un po' di buona vita aveva fatto dei primi Invalidi la gente più
allegra e burlona del mondo. Nacque allora la leggenda dell'invalido
con la testa di legno, che i visitatori più semplici dell'ospizio
andavano cercando di piano in piano, di camera in camera, senza
trovarlo mai, quantunque ognuno degli invalidi, a cui si rivolgevano
per informazioni, giurasse di averlo lasciato poc'anzi, in questo
luogo, o in quell'altro, aggiungendo qualche volta che doveva essere
andato dal barbiere, ma che non poteva star molto a ritornare. Per
fortuna dei Calandrini, uscì fuori una _Guide de l'Étranger_ _à
Paris_, che, accennando a questo invalido con la testa di legno,
soggiunse pietosamente: «_qui jamais n'a existé_.»

Ora, ve l'ho detto, gl'Invalidi sono diventati malinconici. Inoltre,
vanno diminuendo; le pensioni, fatte più grasse, danno agio ad
ufficiali e sott'ufficiali di andarsene a vivere in provincia, presso
gli avanzi delle loro famiglie; meno bene, forse, ma con la loro bella
indipendenza. Tuttavia, l'ospizio rimane una bella istituzione e un
monumento degno di essere visitato. La chiesa è piena di bandiere
prese al nemico, ma tutte posteriori al 1815. I vecchi trofei di
quattro secoli, in numero di millecinquecento, furono coraggiosamente,
ma non lietamente, bruciati in mezzo al cortile, quando Napoleone I fu
domato dalla fortuna e gli eserciti alleati stavano per entrare in
Parigi. Tra que' trofei erano le insegne e la spada di Federico II.

Alle spalle della chiesa degli Invalidi, e congiunta con essa, è
quell'altra in cui sono sepolte le ceneri di Napoleone. Egli è là, il
grand'uomo, nel suo masso di granito rosso finlandese, sorretto da un
basamento di marmo verde; egli è là, chiuso nelle sue cinque casse, di
latta, di magògano, di piombo, d'ebano e di quercia, l'eroe che ha
sbalordita l'Europa con le sue vittorie e con la sua immane caduta;
amato e venerato ancora, con tutto il male, odiato e maledetto ancora,
con tutto il bene che ha fatto, e, dopo tutto, non giudicato più
severamente da nessuno, che non lo fosse da sè medesimo in un momento
di epico malumore.

La cosa è narrata da Lord Holland, nelle sue preziose memorie.
Napoleone non amava il Rousseau, e al conte di Girardin, che gli
lodava il filosofo ginevrino come un uomo di rette intenzioni,
rispose:--«no, egli era un uomo cattivo; se non fosse stato per lui,
la Francia non avrebbe avuta la rivoluzione». E siccome il Girardin
non potè trattenere un sorriso,--«volete dire, soggiunse Napoleone,
che, senza la rivoluzione, la Francia non avrebbe avuto neanche me? È
possibile; ma essa, dopo tutto, non ne sarebbe stata che meglio.»--

Siamo giusti, anche con quest'uomo che si condanna da sè; la Francia
non ne sarebbe stata peggio, di certo. Ma la rivoluzione, anche a non
volerci vedere tutte le fiere bellezze che innamorarono un mondo
d'inconsapevoli copisti, era un fatto necessario nell'ordine delle
cose. Si può disputare del più e del meno, abbominare le esorbitanze,
credere perfino che i «diritti dell'uomo» fossero già vivi ed operanti
nelle coscienze, prima d'essere incisi nelle tavole della legge; ma
bisogna riconoscere che quello scoppio d'ira fu un effetto logico di
cause non dimenticabili, come tanti altri fatti grandi e piccini,
utili e dannosi, sovrabbondanti nel bene e soverchianti nel male. I
fatti hanno le loro ragioni efficienti, che li concatenano, e le
tradizioni d'un popolo, che li sviano qualche volta, ne signoreggiano
il corso; questa doppia azione, diretta e riflessa, costituisce la
storia. E Napoleone, figlio e ministro della fortuna, sorto dalle
rovine di una grande vendetta che aveva oltrepassato l'intento,
artefice d'una nuova tirannide per naturale ambizione, ma altresì d'un
nuovo ordine di cose, che altri, in condizioni normali, non avrebbe
potuto instaurare, doveva essere un flagello e una benedizione pel
mondo. Incantesimi rotti, ostacoli vinti, abissi colmati, ecco l'opera
di un uomo. E quando si pensa che fu un uomo per davvero, non un
fantoccio in balìa dei partiti o del caso, si può guardare con
rispetto quel masso di granito e pensare che esso è ancora meno saldo,
ancora meno durevole, della gloria immensa a cui si accompagna.

Giovenale ha chiesto una volta: «_quot libras in duce summo?_» Ma
questo signor Giovenale non è tutto oro di coppella. Le grandi larve
siedono ancora sui pugni d'ossa e di polvere, che furono le loro
spoglie mortali. Si pensa, davanti a quelle reliquie, e lo spirito si
eleva. Tutto ciò che eleva lo spirito aiuta il progresso dell'umanità
e ne ingentilisce il costume, rendendo a mano a mano più agevole il
gran punto, che pure è tanto difficile ancora, della convivenza
sociale. Convivenza! esclama il pessimista; per che fare? In verità,
io non ne so nulla, e non credo che gli altri ne sappiano di più. La
stessa domanda si potrebbe fare pel nostro sistema planetario, che è
pure così ben conosciuto in tutta la sua distribuzione meccanica.
Dicono gli astronomi che andiamo di questo passo verso il _lambda_
della costellazione d'Ercole; ma non è anche accertato, pur troppo,
che ci fermeremo laggiù.

Per intanto, questi frettolosi viventi di Parigi vanno al _Père
Lachaise_, e non tutti hanno la fortuna di allogarsi in un masso di
granito. Ci sono stato anch'io, ma non già per restarci, come vedete.
Il luogo mi piace poco. È una collina, c'è alberi e sole; ma i cippi
sono troppo ammucchiati, serrati in fila, sui margini di certe strade
selciate, come quelle che danno già tanta molestia ai viventi. I
monumenti solitarii son pochi; abbondano i tabernacoli, e vi ricordano
quelli dei crocicchi campestri.

Trovai molta gente che si affollava ad una di quelle nicchie, per
scrivere il nome in un libro, come si fa nelle anticamere dei
grand'uomini ammalati. Curiosa maniera di rendere omaggio al Thiers,
che è sepolto là dentro; ma, dopo tutto, è una maniera che vale quanto
un'altra. Lì presso è il monumento di Raspail, coperto affatto, come
sepolto, sotto un monte di corone. Per contro, il povero Gall,
l'inventore della frenologia, è lì, a due passi dal Raspail, senza il
tributo d'un fiore; non avrebbe neanche l'occhiata del viandante, se
non fosse pel suo sistema delle protuberanze del cranio, rappresentato
a contorni, che si vedono incisi su tre facce del cippo.

Un bel monumento, sormontato da una statua di bronzo, ricorda Casimiro
Périer; una tribuna oratoria, in marmo, onora la memoria di Garnier
Pagés. Béranger ha voluto onorare l'amicizia, facendosi seppellire
nella tomba del suo diletto Manuel, il grande oratore, morto tanti e
tanti anni prima di lui. Grandi ricordi non cercati s'incontrano ad
ogni piè sospinto. Io ho cercato Rossini e Bellini, di cui resta il
cenotafio, poichè le ceneri sono tornate alla patria, e Alfredo de
Musset, il cui salice disseccato non dà più ombra alla terra ove dorme
il poeta.

Salendo per una viottola a destra, mi sono imbattuto in un monumento
gotico, che non avevo cercato, ma che sarei oggi dolentissimo di non
aver visto. Colà, sotto un padiglione sorretto da svelte colonne, come
in un letto antico, stanno composti nel sonno eterno, l'uno a fianco
dell'altro, due celebri amanti, Abelardo ed Eloisa. Chi rammenta la
badia del Paracleto? Chi rammenta il _concettualismo_ e le dispute con
Bernardo di Chiaravalle? Una mezza dozzina di eruditi. Ma i due amanti
sono rimasti nella memoria di tutti; un grande amore, sopravvissuto
alla tomba,

    Vince di mille secoli il silenzio.




XX.

Confessioni dell'autore.--La rete di Vulcano.--Amicizia
francese.--Parigi adulata.--Giustizia resa alla Francia.--Zii da
commedia.--I mali dell'accentramento.--Parigi e Roma.--Una scena
pastorale.--L'uscio di casa.


Non ho la sciocca pretensione d'aver fatto conoscere Parigi a
qualcheduno, con queste lettere sconnesse, tirate giù alla buona,
secondo l'umore della bestia e la varietà delle sensazioni quotidiane.
Nutro cionondimeno la speranza di avere invogliato qualche fannullone
emerito a muoversi, per vedere anche lui, e meglio di me, quella
immane fioritura della Francia, che si chiama Parigi, e che non fa
sempre dimenticare il suo vecchio nome di Lutezia. Andarci, potendo,
non è solamente un piacere; è anche, e sopra tutto, un dovere.

I viaggi fanno un gran bene, oltre quello non lieve di un legittimo
svago. La mente si rimpiccolisce, nel far la vita dell'ostrica; e non
si merita neanco la riputazione dell'ostrica, la quale, poverina, se
non adopera per sè quelle parti di fosforo, ond'è ricca per bontà di
natura, le cede liberalmente all'uomo, quando è servita nel piatto. Se
è giusto che noi dobbiamo arricchire lo spirito di utili cognizioni,
per onorare, qualche volta, e sempre per servire la patria, è naturale
che andiamo attorno quando possiamo, per riconoscere ciò che è buono e
ciò che è cattivo in casa di vicini e lontani, per notare i segni di
progresso e quelli di decadenza, per discernere quali siano le cose
imitabili e quali le detestabili. Oramai le strade ferrate cingono il
mondo in una rete, che è in gran parte più fitta di quella del Dio
Vulcano, e non debbono, al pari di quella, servire soltanto per
trastullo di Dei, di Semidei, abitatori felici delle altissime sedi.
Vedere, sapere, giudicare con rettitudine, è un obbligo per tutti.
Accanto all'amore esagerato di quella che Dante chiamò «l'aiuola che
ci fa tanto feroci» vi è qualche cosa di peggio, l'ammirazione
esclusiva dell'ortino domestico. Adoperando in tal guisa, anche con le
migliori intenzioni del mondo, si guasta il senso della vista, che è
tutto di paragone, e si finisce a vivere contenti delle piccole cose,
a coccolarsi nelle quistioncelle domestiche, ad amar poco e male la
patria, che vuole un amore intelligente e ragionevole e il concorso di
sane ambizioni, continuamente stimolate dal pensiero di ciò che altri
fa, trovandosi in condizioni, qualche volta migliori, e qualche volta
peggiori di noi.

Un viaggio a ritroso nei campi della storia c'insegna ad aver misura e
ad usare prudenza, per conservare alla terra nostra i frutti di una
fortuna che non possiamo vantarci di aver sempre meritata. Un viaggio,
dirò così, laterale tra i vivi, ci reca il medesimo insegnamento, e
può riuscire una doccia salutare a molte follie, un correttivo a molti
storti giudizi, a molte fallaci speranze. Tra le lustre di cui oggi si
pasce il mondo, o che la moda gli fa parer belle, c'è anche la famosa
e non mai abbastanza esaltata «fratellanza dei popoli». Gli ideologi
della politica si trovano da per tutto, e non è meraviglia che voci
amiche ci chiamino al «banchetto delle nazioni» anche di là, dove i
padroni di casa avrebbero in mente di assegnarci l'ultimo posto, e di
farci all'occorrenza star su, per dare una mano alla gente di
servizio. Per me, non nego la fratellanza; vedo anzi i fratelli, che
piatiscono spesso davanti ai tribunali per la successione paterna, e
penso che se noi, almeno noi, potessimo esser giusti e imparziali con
tutti i figli di nostro padre, e dare avviamento a transazioni
onorevoli, avremmo già fatto molto per l'ideologia, e quello, per
l'appunto, che gli altri, anche ideologi, non hanno incominciato a
fare con noi.

Vi ho già detto (più d'una volta, mi sembra), che a Parigi, in questo
cuore della Francia, ci amano poco e ci conoscono meno. Non so se,
conoscendoci di più, ci amerebbero anche di più; ma certamente ci
renderebbero giustizia, e l'amore verrebbe dopo. Comunque sia, vediamo
di non essere ingiusti noi altri e sappiamo distinguere. Parigi è una
città che ha del buono e del cattivo, ma l'uno e l'altro in misura
straordinaria. Non vorrei meritarmi le folgori che Vittor Hugo ha
minacciate ai calunniatori di Lutezia; mi affretto a dire che l'ho
trovata bella, stupenda.... abitabile. È la città del forastiero;
anzi, aggiungo che è una città di forastieri, e in questo dee forse
vedersi la causa di tanta corruzione elegante, di tanta frivolezza
ordinata. Tutti gli scettici gaudenti delle cinque parti del mondo
calano a questa insegna; corrotti e corruttori inconsapevoli, non
domandano altro che un giorno senza dimani, un passatempo senza noie,
un pensiero senza fatica di spirito. Parigi vi dà ogni cosa in punto,
senza farvi aspettare, quasi senza lasciarvi il tempo di desiderare;
nessuno tra i felici della terra, neanche Luigi XIV redivivo, potrebbe
dir qui: «_j'ai failli attendre_». Perciò è lodata, accarezzata,
adulata; perciò si fa in quattro, lieta di poter corrispondere a tante
adulazioni; lavora, ma per abbellirsi; studia, ma per riuscirvi più
cara; e, in questa cura assidua di sè, la bella lusinghiera spende il
danaro della Francia. Si contentasse di quello dei forastieri! Ma no,
ci ha da correre anche quello della famiglia. È bella, e tutto le è
dovuto; è nervosa, bizzarra, fantastica, e non si può contraddirla.
Non la confondete con la Francia, sana, potente e magnanima donna; è
sua figlia, sangue suo, un po' mescolato se vogliamo, e comanda alla
mamma. Ora, questo è un male, non bisogna tacerlo. Voi mi direte che
la Francia ha qui tutti i suoi rappresentanti, i quali potrebbero
vigilare, metter rimedio, impedire.... Ma che? il potere di questi
valentuomini non è che apparente; la signorina comanda a bacchetta e
lo ha dimostrato in molte occasioni. Mettete questi rappresentanti nel
novero degli zii da commedia, che vengono con le intenzioni più ferme,
si lasciano ammaliare dai vezzi della nepote e finiscono col fare essi
medesimi più sciocchezze degli altri.

Benedetta figliuola! Chi potesse sapere tutto quello che hanno
inghiottito queste raccolte preziose, queste istituzioni magnifiche,
queste novità sfolgoranti, perfino queste inutilità che la fanno così
bella, e dire quante esistenze ha distrutte, quante intelligenze ha
sfibrate costei, per cavarne quello stillato di eleganze, quella
quintessenza di delizie della forma e del pensiero, con cui essa
inebria il mondo e lo governa, troverebbe forse che la Francia, la
madre generosa e condiscendente, ci ha rimesso un tanto di forza vera
e veramente preziosa. Troppo logoro di carboni, per una luce che
abbarbaglia, ma che non si può derivare in tubi, per uso comune di un
popolo! Veduta Parigi, chi si occupa di vedere più altro? La Francia
non si visita più, o poco e alla sfuggita; tutto l'opposto di ciò che
avviene in Italia, ove ogni città possiede la sua fisonomia
particolare, la sua ricchezza, la sua importanza, e la possederà
ancora, se Dio vuole, quando avremo cinquecento anni di accentramento
politico.

L'accentramento soverchio, ecco il male della Francia; e in questo le
nocquero ad un modo i suoi re, i suoi ministri, i suoi imperatori, le
sue stesse fortune militari. Speriamo che il reggimento repubblicano
le porti un rimedio efficace. Per questa speranza, si può perdonare
alla repubblica odierna il suo primo errore, come certuni chiamano
l'esposizione mondiale, che costò sessanta milioni e non ne diede che
trenta, a rifare la spesa. I forastieri, ed anche per una gran parte i
provinciali, hanno portato per cinque o sei mesi il loro danaro a
Parigi, che ne ha avuto per sè tutto il vantaggio, lasciando alla
Francia trenta milioni di debito. Parigi si è arricchita di cento
milioni; la Francia si è impoverita di trenta. È poco, si dirà; ma è
di quel poco che dura da secoli, e voi potete metterlo insieme con
tutto quello che costano alla Francia i gentili capricci di Parigi, di
questo ragazzo viziato, che tutti esaltano pel suo sennino precoce,
per le sue scappate graziose, per le sue moinerie adorabili, ma che
finisce con essere la disperazione della casa.

Che cosa impareremo noi da questo raffronto? A non desiderare, come
qualche volta ho inteso, che Roma diventi Parigi. Badate, io non credo
che la cosa sia neanche possibile per via approssimativa. Fa ostacolo
il carattere diverso delle due popolazioni, l'una socievole, amena,
volubile, l'altra severa, contegnosa, e diciamo pure quasi rustica,
chè tanto non gliene importa nulla di parer tale, e sarebbe perfino
capace di gloriarsene. Sacra Roma, è così che ti amo. Cionondimeno,
poichè forastieri ne vanno dappertutto, e a Roma per millanta ragioni
ci abbondano, è da vedersi se Roma potrà mai sacrificar loro qualche
poco di sè stessa, come ha fatto Parigi. Anche qui, sostengo e dico
che la cosa non è possibile. Centro ed emporio, cervello, cuore e
tutto quel che vorrete del mondo, lo è stata due volte anche lei, ma
conservando le sue usanze casalinghe, la sua fierezza laziale. Non ci
stilliamo il cervello a foggiarla diversa. Rovina, o museo, conservi
il suo carattere; non le si tocchi nulla, nè una pietra, nè un'anima.
Lavoriamo invece a romanizzare noi stessi; la cosa non dev'esser
difficile, poichè Roma aveva già fatto il miracolo venti secoli
addietro. Scaviamo il Tevere e facciamogli la via più spedita, poichè
gli straripamenti davano noia ai Quiriti fin dai tempi di Mecenate e
d'Orazio; ma scorra il fiume attraverso la città, nell'alveo sacro
delle tradizioni italiane. Un _boulevard_, foss'anche _des Italiens_,
credete a me, guasterebbe là in mezzo. Il Corso si può a mano a mano
slargare; ma non c'è fretta; le bellezze della _avenue du Nouvel
Opéra_ non debbono farci dimenticare che la via Flaminia era stretta
come ora, al tempo in cui ci passeggiavano i padroni del mondo. Non vi
parlo della via Sacra, che era un vicolo a dirittura, e giungeva al
Campidoglio ugualmente. Restauriamo, insomma; non invidiamo gli allori
altrui, non ci lagniamo se la natura e la storia ci hanno fatti
diversi dagli altri. In questa diversità di aspetti e di indole è la
nostra forza; a buon conto, c'è stata la nostra custodia fin qui.

Capisco, ci sono certe delicatezze che non guastano, in nessuna parte
del mondo. Ma facciamo un pochino come i nostri gioiellieri, che
svecchiano con tanto amore le antiche forme paesane. C'era buon gusto
anche in Etruria; non ne pativano difetto Ercolano e Pompei. E quando,
a fianco delle nostre grandezze, vediamo i segni di un modesto costume
che ha trionfato dei secoli, non ci lagniamo di quel modesto costume;
è grandezza anche quella, e si chiama costanza.

Una notte dell'anno scorso, avevo fatto tardi per le strade di Roma.
Tornavo a passi lenti verso casa, in compagnia d'un amico, che doveva
fare il medesimo tratto di strada, ma per andare più oltre. Poche ore
prima, si era applaudito al teatro Valle un suo lavoro, ricco di
bellezze romane e di eleganze niliache; quindi si era offerto
all'amico il litro d'onore, più caro a lui d'una corona d'alloro; ed
egli, ancora un po' scombussolato dalle commozioni della sua serata
campale, se ne tornava al suo Trastevere, dove lo aspettava una madre
giustamente orgogliosa, una madre che certamente quella notte doveva
dormire assai meno di lui.

Roma taceva, già immersa nel primo sonno. Ad un tratto si udì un
rumore confuso, che divenne a mano a mano un gridìo di voci
lamentevoli e finalmente un fragore di marosi in tempesta.

--Che diavol è?--domandai.

--Fàtti in qua;--mi disse l'amico, coll'aria d'un personaggio da
tragedia, che faccia una variante al famoso: «ritiriamci in disparte
ed osserviamo».

Poco stante, due o tre cavalli, montati da contadini, apparivano allo
sbocco della via, scalpitando sul selciato, che dispiace tanto ai
buzzurri, e non è niente più noioso di quello di mille cinquecento vie
di Parigi. Dietro a quei cavalli, uno sciame, un esercito, un nembo di
pecore, che correvano belando e s'incalzavano a migliaia, le une sulle
altre, incalzate a lor volta, stimolate ai fianchi e alle spalle, da
una mezza dozzina di cani, tutti compresi della importanza
dell'ufficio. La processione durò forse mezz'ora, in una via che non
era sicuramente delle più strette di Roma.

--Si può sapere il perchè di questo esodo?--chiesi all'amico, mentre
la turba belante ci passava davanti.

--Son pecore che mutano di pascolo;--mi rispose.

--E proprio hanno a passare di qua?

--To', sono anche passate pel Corso. Entrate da porta Pia, escono da
porta Cavalleggeri. I pascoli del monte Sacro sono finiti; ora vanno
ad attaccare quelli del Gianicolo.

--Usanza strana!--mormorai.

--Strana, ma antica; non dovrebbe dispiacerti.

--Hai ragione, e resti pure così, come al tempo di Catone il Censore,
quando le greche eleganze trionfavano della prisca severità. Povera o
ricca, virile o effeminata nel suo patriziato, crudele o generosa
nella sua plebe, Roma ha serbate le sue costumanze. Solo nel culto
delle tradizioni, solo nella costanza dell'indole patria.--

Il discorso, avviato su quella china; poteva andar molto in là; ma
l'angolo di San Tommaso in Parione era il punto e basta fra i due
interlocutori. L'amico doveva proseguire per Campo di Fiori, e forse
m'avrebbe lasciato sfogare; ma io, lettori pazienti, e degni di
miglior sorte, io ero fortunatamente davanti all'uscio di casa.

                                Parigi, 15 ottobre 1878.


                           FINE.




  INDICE

  I.--La ragione del viaggio.--Un'occhiata a Torino.--Savoia
  e Borgogna.--Il deserto.--Idea luminosa.--Parigi di  sera.--Sul
  marciapiede.--Arabi apocrifi e francesi autentici.--La storia
  del nastro.--Scaccini e accattoni.--Tolleranza parigina           Pag.  1

  II.--Il cervello del mondo.--Caso e necessità politica.--Una
  fioritura colossale.--L'_article de Paris_.--La virtù
  del cartellone.--La caccia al compratore.--Gli occhi
  della padrona.--La scala dei prezzi.--L'arte di pelare
  un pollo senza farlo stridere.                                      »  13

  III.--Poliglottismo commerciale.--Eccezioni alla regola.--Orgoglio
  legittimo.--La fratellanza dei popoli e la razza
  latina.--_Non te ne 'ncaricà._--Retorica onesta.--La
  parabola del buon levatore.--_Laboremus_.                           »  23

  IV.--All'Esposizione mondiale.--Il Trocadero.--Le branche
  dell'astaco.--Babilonia veduta di giorno.--L'insalata
  dei popoli.--Tentazioni e ritegni.--La Via delle
  nazioni.--Le sezioni industriali.--Il caos.                         »  31

  V.--Industrie italiane.--Lombardi e Genovesi.--I canditi
  del Giappone.--Libri e pianoforti.--Scoltura piccina.--Un
  primato in pericolo.--_Exemplaria graeca_.--Un pronostico al
  condizionale.                                                       »  42

  VI.--Dolenti note.--La pittura italiana.--Pittura di genere,
  pittura-degenere.--La quarta figura.--I veristi
  del Cinquecento.--_Vox audita est in Rama_.--Finanzieri
  e ciabattini.--Il fazzoletto di cotone.                             »  53

  VII.--Arte francese.--Cabanel, Durand, Meissonier.--Dumas
  figlio in libreria.--Povero nudo!--Effetti di colore.--Pei
  miopi e pei presbiti.--Giusto giudizio sugli
  Italiani.--Ai pittori dell'avvenire.                                »  62

  VIII.--Il Louvre e le Tuileries.--Soluzione di continuità.--Storia
  eroicomica.--Una etimologia da lupi.--L'architettura
  del Risorgimento.--L'arte nostra al Louvre.--Regine,
  ministri, imperatori italiani.--compre e rapine.                    »  71

  IX.--Cortesia da padroni di casa.--La scuola francese.--Un
  viaggio a ritroso.--Le glorie italiane.--Monna Lisa.--Cristo
  e la Maddalena.--Le nozze di Cana.--Un saluto
  a Raffaello.--Il Correggio, Luca Giordano e il Panini.--Un
  capriccio del Rubens.                                               »  79

  X.--Greci e Romani.--Norme dell'arte eterna.--Policleto
  e Leonardo.--Variazioni e correzioni.--_Chassez le
  naturel_...--Scoltura antica.--Restauri intelligenti.--La contessa
  di Tripoli e la Venere di Milo.--Ci siamo.                          »  90

  XI.--Inno a Venere.--Un po' di storia.--L'editto di Teodosio.--Senza
  braccia.--Il nome dell'autore.--Induzioni ragionevoli.--Ho
  detto la mia.--Una massima di Lisippo.--Imperatori
  romani.--Messalina.... col bambino.                                 » 100

  XII.--Le grandi cose e le piccole.--Teatri e concerti.--_Incipit
  lamentatio_.--Il più costoso tra tutti i rumori.--Caffè
  cantaiuoli.--_Il faut que jeunesse se passe_.--I sette castelli
  del diavolo.--Cavalli e pantomimi.--L'amore al lavoro.              » 111

  XIII.--_Sequitur lamentatio_.--Usanze barocche.--Il tempio
  dell'arte drammatica.--_La centième de Hernani_.--Onorate
  l'altissimo poeta.--Il bello e il deforme.--I  miei classici.       » 121

  XIV.--Una scivolata nell'estetica.--L'apparato scenico.--In
  Aquisgrana.--Un pensiero a Gustavo Modena.--Istituzione
  che va copiata.--Sara Bernhardt.--Ricordi fotografici.--La
  trinità poetica del secolo XIX.                                     » 132

  XV.--A Versaglia.--Splendori e miserie.--_Cherchez la
  femme_.--Camillo Desmoulins e madama di Pompadour.--Gian
  Giacomo e Diana di Poitiers.--I ritratti e gli originali.--Politica
  d'andata e ritorno.--Il teatro.--Ricordi  storici.                  » 144

  XVI.--Dintorni di Parigi.--_Super flumina Babylonis_.--Una
  città di villeggiatura.--Il capolavoro del Mansart.--Sinfonie
  del Rossini.--Arte e natura.--Si dice male di Luigi XIV.--Le
  vecchie cronache.--Adulazione bizzarra.                             » 154

  XVII.--Scorribanda capricciosa.--La chiesetta.--Una cella
  di soldato.--_Les dames de beauté_.--Dinastie a olio.--Marescialli
  di Francia.--Filosofi e belle donne.--Ricordi
  storici.--Grandi uomini a migliaia.                                 » 163

  XVIII.--Una selva di spruzzoli.--Recessi ombrosi.--La
  casa di un egoista.--Irritazione di nervi.--Correzioni
  storiche a un cattivo dipinto.--Anna d'Austria.--Un bel
  madrigale.--Ricordo d'amore, raggio di sole.                        » 172

  XIX.--Rassegna alla corsa.--Passeggiate e giardini.--Armi
  ed armature.--La casa degl'Invalidi.--Il soldato con la
  testa di legno.--Un rogo di trofei.--Napoleone I e la
  storia.--Dove andiamo?--Al _Père Lachaise_.                         » 184

  XX.--Confessioni dell'autore.--La rete di Vulcano.--Amicizia
  francese.--Parigi adulata.--Giustizia resa alla
  Francia.--Zii da commedia.--I mali dell'accentramento.--Parigi
  e Roma.--Una scena pastorale.--L'uscio di casa.                     » 195






End of the Project Gutenberg EBook of Lutezia, by Anton Giulio Barrili

*** END OF THIS PROJECT GUTENBERG EBOOK LUTEZIA ***

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including obsolete, old, middle-aged and new computers.  It exists
because of the efforts of hundreds of volunteers and donations from
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Volunteers and financial support to provide volunteers with the
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Gutenberg Literary Archive Foundation was created to provide a secure
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To learn more about the Project Gutenberg Literary Archive Foundation
and how your efforts and donations can help, see Sections 3 and 4
and the Foundation web page at http://www.pglaf.org.


Section 3.  Information about the Project Gutenberg Literary Archive
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The Project Gutenberg Literary Archive Foundation is a non profit
501(c)(3) educational corporation organized under the laws of the
state of Mississippi and granted tax exempt status by the Internal
Revenue Service.  The Foundation's EIN or federal tax identification
number is 64-6221541.  Its 501(c)(3) letter is posted at
http://pglaf.org/fundraising.  Contributions to the Project Gutenberg
Literary Archive Foundation are tax deductible to the full extent
permitted by U.S. federal laws and your state's laws.

The Foundation's principal office is located at 4557 Melan Dr. S.
Fairbanks, AK, 99712., but its volunteers and employees are scattered
throughout numerous locations.  Its business office is located at
809 North 1500 West, Salt Lake City, UT 84116, (801) 596-1887, email
[email protected].  Email contact links and up to date contact
information can be found at the Foundation's web site and official
page at http://pglaf.org

For additional contact information:
     Dr. Gregory B. Newby
     Chief Executive and Director
     [email protected]


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