Il ritratto del diavolo

By Anton Giulio Barrili

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Title: Il ritratto del diavolo

Author: Anton Giulio Barrili

Release Date: February 25, 2006 [EBook #17858]

Language: Italian


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  BIBLIOTECA AMENA

  AD UNA LIRA IL VOLUME

  15 Ottobre 1905. --N. 691-- 15 Ottobre 1905.




  ANTON GIULIO BARRILI

  Il Ritratto del Diavolo


  ROMANZO





  MILANO--FRATELLI TREVES, EDITORI--MILANO
  Via Palermo, 12, e Galleria Vittorio Emanuele, 64 e 66

  ROMA: Libreria Internazionale, Corso Umberto I, 174.
  NAPOLI: via Roma (già Toledo), 34 TRIESTE: presso G. Schubart
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  LIPSIA, BERLINO, VIENNA: presso F.A. Bruchhaus.

  QUARTO MIGLIAIO





IL RITRATTO DEL DIAVOLO




I.


Lettori gentili, siete mai stati ad Arezzo? Se non ci siete mai stati,
vi prego di andarci alla prima occasione, anche a costo di farla
nascere, o d'inventare un pretesto. Vi assicuro io che mi
ringrazierete del consiglio. La Val di Chiana è una tra le più amene e
le più pittoresche "del bel paese là dove il sì suona". Anzi, un
dilettante di bisticci potrebbe sostenere che il _sì_ è nato proprio
in Arezzo, poichè fu aretino quel monaco Guido, a cui siamo debitori
della scala armonica. Ma, a farlo apposta, Guido d'Arezzo non inventò
che sei note, dimenticando per l'appunto di inventare la settima.
Forse, ribatterà il dilettante di cui sopra, Guido non ha inventato il
_si_, perchè questo era già nella lingua madre, o il brav'uomo non
voleva farsi bello del sol di luglio. Comunque sia, andate in Val di
Chiana e smontate ad Arezzo. La città non è vasta, ma che importa? Il
Guadagnoli, che era d'Arezzo, pensava forse alla sua terra, quando
diceva ad una graziosa dama:

    Signora, se l'essere
      Piccina d'aspetto
      Vi sembra difetto,
      Difetto non è.

A buon conto, la città è piccola, ma ci ha le vie larghe, pulite e ben
selciate, il che non si trova mica da per tutto; possiede molte ed
insigni opere d'arte, un prefetto, un vescovo, due buoni alberghi e un
caffè dei Costanti, che vi dà subito l'idea di una popolazione
d'innamorati. La qual cosa non mi farebbe punto specie, poichè le
aretine son belle di molto, tanto da far dimenticare perfino i grandi
uomini che son nati in Arezzo, da Mecenate, amico d'Augusto, a
Francesco Redi, amico del vino.

Frattanto, lettori gentili, venite in Arezzo con me. Non ci si va col
vapore, ma a cavallo, perchè siamo cinque secoli addietro; si passa
una delle quattro porte della città, che è cerchiata di mura per un
giro di tre miglia, e si scende alla bottega di mastro Jacopo da
Casentino.

Dico bottega, per andare coi tempi; ma oggi si dovrebbe dire studio,
perchè mastro Jacopo da Casentino era un pittore, e meritamente
annoverato tra i migliori del suo tempo. Era nato a Prato vecchio,
nella famiglia di messer Cristoforo Landino, e il nome patronimico lo
aveva avuto da un frate di Casentino, guardiano al Sasso della Vernia,
che l'aveva preso a ben volere, e, vedendo la sua inclinazione
all'arte del dipingere, lo aveva acconciato con Taddeo Gaddi, nel
tempo che questo valoroso scolaro di Giotto era a lavorare nel suo
convento.

Sotto la scuola di mastro Taddeo, il giovinetto Jacopo aveva
profittato grandemente, sì nel disegno, sì nell'arte del colorire.
Erano quelli i bei tempi della pittura. Giotto, con nuova maniera,
sciogliendo la figura umana dalle rigidezze dell'arte bisantina, aveva
additata una strada su cui tutti i giovani si gittavano animosi,
sperando di avanzare in eccellenza il maestro. E Jacopo, andato a
Firenze con Taddeo Gaddi, non fece torto alle speranze che questi
aveva concepite di lui, dipingendo tra l'altre cose il tabernacolo
della Madonna di Mercato Vecchio e le vòlte d'Orsanmichele, che aveva
ad essere il granaio del Comune.

Rimasto alcuni anni col Gaddi, come a provar le sue forze, e persuaso
oramai di poter volare da sè, Jacopo era tornato nel suo Casentino, e
in Pratovecchio, in Poppi e in altri luoghi della valle medesima,
aveva dato mano a molte opere di cui s'era vantaggiata la sua fama,
non così la sua borsa. Dopo di che, adescato da più ragguardevoli
offerte, si era ridotto a stabile dimora in Arezzo, che allora si
governava da sè medesima, col consiglio di sessanta cittadini dei più
ricchi e più onorati, alla cura dei quali era commesso tutto il
reggimento.

Mastro Jacopo non era solamente pittore, ma pizzicava eziandio
d'architetto. E perchè in Arezzo scarseggiavano le acque, fin dal
tempo dei Goti, che avevano guasti i condotti onde l'acqua scendeva
dal poggio di Pori in città, fu commesso a mastro Jacopo di
ricondurvela. Il che egli fece a sua lode, portandola per nuovi canali
fin sotto le mura, ad una fonte detta allora dei Guinicelli, e poscia,
corrottamente, dei Veneziani.

Ma questo sono notizie che importano poco al soggetto. Passiamo,
dunque, senza fermarci troppo sull'architettura di mastro Jacopo, e
raccontiamo ai lettori che da molti anni il degno artefice aveva messo
su famiglia, e viveva felice, come può esserlo un uomo in questa valle
di lagrime, che non è tutta una Val di Chiana, pur troppo. Intanto,
seminava dei suoi affreschi tutte le chiese di Arezzo, facendo prova
di una maniera e dì una pratica maravigliosa.

Un'altra fortuna era toccata a mastro Jacopo; quella io vo' dire di
mostrare ad un altro, e con frutto, i principii di quell'arte che a
lui aveva insegnata il Gaddi. Ai giorni nostri i pittori non fanno più
scuola, o non si rodono di avere dei buoni discepoli, come una volta.
Ogni artista lavora per sè, gelosamente tappato nel suo studio, quasi
temendo che altri gli rubi il tocco, o l'impasto dei colori. Ma in
quei tempi di vita rigogliosa per l'arte, era una festa aver gente
dattorno, e un pittore non si teneva per maestro, se non aveva una
mezza dozzina di scolari, uno dei quali, uno almeno, di più facile
ingegno e di più pronta volontà, seguitasse la maniera, serbasse le
tradizioni del principale e facesse onore alla scuola.

Di questi scolari, o garzoni, o fattori (come si dicevano in quel
tempo che lo studio d'un pittore si chiamava bottega) mastro Jacopo ne
aveva parecchi; ma uno solo meritava il nome di discepolo, e si
domandava Spinello, figlio ad un certo Luca Spinelli, fiorentino, che
era andato forse vent'anni addietro ad abitare in Arezzo, quando, una
volta fra l'altre erano stati discacciati da Firenze i Ghibellini.
Arezzo, se nol sapete, era ghibellina nell'anima.

Spinello Spinelli era un bel giovinottino, nato pittore come Giotto, e
inclinato fin da fanciullo ad operare nel disegno tali miracoli, che
non si sarebbero creduti possibili senza la disciplina di ottimi
maestri. Jacopo di Casentino, veduti i suoi tocchi in penna, lo aveva
voluto a bottega. E Spinello non si era fatto pregare; che anzi,
moriva dalla voglia di andarci, specie dopo che aveva veduta e
ammirata nel Duomo vecchio la più bell'opera di mastro Jacopo.

Ora, la più bell'opera di mastro Jacopo, che Spinello potesse ammirare
nel Duomo vecchio, non era già il ritratto di papa Innocenzo VI, come
qualcuno potrebbe credere a tutta prima. La più bell'opera di mastro
Jacopo era madonna Fiordalisa, a lui nata in Firenze, quando egli
stava laggiù, ai servigi del Gaddi.

Dico Fiordalisa, per non ingenerar confusione. Ma i toscani d'allora
non sentivano nessuna ripugnanza a dire madonna Fiordaliso, in quella
stessa guisa che non ne sentivano a dire madonna Fiore, madonna
Belcolore, e via di questo passo, concordando un nome mascolino con un
nome femminile. Del resto, la grazia e l'eleganza femminile c'erano
tutte, nel viso di madonna, spiravano da ogni parte della sua bella
persona, e le desinenze non ci avevano nulla a vedere.

Fiordalisa, nata a Firenze, era in Arezzo da pochi mesi; ma fin dai
primi giorni del suo arrivo colà, era stata veduta, notata e
riconosciuta come un miracolo di bellezza. È facile che si nasconda un
grand'uomo, in mezzo alla moltitudine, e che rimanga ignoto, in una
città nuova per lui; ma non c'è caso che si nasconda egualmente una
bella ragazza. Il primo che l'ha vista, poniamo anche di sbieco, ne
passa parola ad un altro, e questi ad un terzo, anche prima di averla
intravveduta lui; donde avviene che fin dal primo giorno che è stata
annunziata la selvaggina, un centinaio di bracchi da punta sieno
sguinzagliati alla macchia.

Ora, i giovinotti d'Arezzo non s'erano mica indugiati per istrada;
avevano scoperto subito la bella fiorentina, l'avevano scovata,
levata, come i suoi concittadini avrebbero levato il grillo dal buco,
la mattina dell'Ascensione. Fiordalisa non esciva di casa che i dì di
festa, per andare nel Duomo vecchio agli uffizi divini. Ma tanto
bastava perchè la vedessero tutti, e perchè ci fossero di gran
capannelli sul sagrato del Duomo, quando ella doveva passare.

Spinello Spinelli l'aveva vista a quel modo, come tutti gli altri. Era
un giovinotto allegro, che portava il cervello sopra la berretta. Ma
da quel giorno che vide madonna Fiordalisa, incominciò a pensare con
qualche rammarico alla sua condizione, che non gli permetteva di
passare avanti a tutti i suoi giovani rivali. Vi ho già detto che era
figlio d'un fuoruscito fiorentino. Luca Spinelli esercitava un'arte, a
Firenze, e ci aveva anche quattro sassi al sole; ma l'arte era nulla,
senza clientela, e di quei quattro sassi gliene avevano fatto vento i
Guelfi, dopo averlo sbandito dalla città. Non dissimilmente avrebbero
adoperato i Ghibellini, se a loro fosse toccato di poter bandire i
Guelfi; non c'era dunque da gridare all'ingiustizia. A quei tempi si
usava così. Oggi, la Dio grazia, abbiamo un pochettino di progresso, e
certe cose non si fanno più; ci si restringe a desiderarle.

Ma se Spinello non era ricco, aveva tuttavia una gran forza per sè;
era giovine e innamorato morto. Madonna Fiordalisa era la figlia d'un
pittore. Vedete come il destino aveva disposte le fila! Anche lui era
un pittore, o almeno poteva diventarlo; poichè l'inclinazione c'era,
ed anche una certa pratica naturale. Fino allora, egli aveva disegnato
per capriccio: da quel giorno incominciò a disegnare per passione. Si
fa così bene quel che si fa, quando si pensa ad una bella donna! Sopra
tutto, poi, quando si capisce che é l'unica via per giungere a lei!

Mastro Jacopo lavorava allora nella chiesa di San Domenico, e più
propriamente in una parte della chiesa, cioè a dire nella cappella di
San Cristofano, ritraendovi al naturale il beato Masuolo, profeta
minimo, il quale, ne' suoi tempi, predisse molte disavventure agli
Aretini. L'opera gli era commessa da un mercante de' Fei, che aveva
molto a lodarsi del Santo, per esserne stato liberato dal carcere. E
mastro Jacopo aveva per l'appunto rappresentato il Santo nell'atto di
fare quel miracolo, che oggi si farebbe con uno sbruffo ai guardiani,
o con un buco nel muro.

Spinello, come potete argomentare, andò in San Domenico, incominciò a
piantarsi davanti alla cappella di San Cristofano e diventò un grande
ammiratore dei miracoli del beato Masuolo, o almeno di quel tanto che
se ne poteva scorgere attraverso le commessure del tavolato. Mastro
Jacopo non tardò ad avvedersi di quella curiosità e chiese al
giovanotto se per caso volesse vedere l'affresco prima del mercante,
che gli aveva data la commissione.

--Maisì, messere;--rispose Spinello, facendosi un coraggio pari alla
gravità del caso.--Il mercante vi pagherà l'opera vostra una volta
sola; io l'ammirerò quante volte vi piacerà di lasciarmela vedere
prima d'ogni altro.

--Ecco una ragione che mi capacita;--disse mastro Jacopo, facendo
bocca da ridere.--Ma ti piacerà poi da senno, il mio beato Masuolo?
Vieni sul ponte e sia come ti pare.--

Spinello non se lo fece dire due volte; salì sul ponte, osservò la
composizione e rimase a bocca aperta, com'era naturale che facesse, e
per la bontà intrinseca del dipinto e per il desiderio che aveva di
entrare nella grazia dell'artefice.

--Per caso,--gli disse mastro Jacopo a un tratto;--anche tu saresti
pittore.

--Mainò, messere;--rispose Spinello, chinando umilmente la fronte;--ma
sarei felice di diventarlo, sotto la vostra disciplina.

--Perchè no? Vediamo anzi tutto che cosa sai fare. Un O, come Giotto?
Una linea come Apelle?

--Ohimè, maestro, assai meno. Disegno alla meglio, o alla peggio, come
vi parrà meglio, senza ombra di studio.

--Bene! To' i pennelli e la sinopia;--gli disse mastro Jacopo.--Vai
là, al muro, dove non è ancora stata messa la calce fresca, e segna un
contorno.--

Spinello non domandava altro. Ma, per sicuro che fosse di non far
troppo male, non poteva difendersi da un certo rimescolamento, dovendo
operare così sotto gli occhi del maestro. Se gli fosse riuscito di far
bene alla prima, che fortuna! Basta, il giovinotto pensò a madonna
Fiordalisa, afferrò il pennello, lo intinse nel vaso e si mise
all'opera, tratteggiando sulla parete una mezza figura di San
Giovanni. L'aveva attaccata alla brava e la tirò via alla lesta, per
non aversi a pentire, e perchè il pennello non avesse a tremargli fra
le dita.

Mastro Jacopo stette zitto, sulle prime, a vederlo lavorare: poi, come
gli balzò davanti agli occhi la figura abbozzata, borbottò un cenno
d'approvazione.

Spinello si era dimostrato valente ed accorto. Valente, perchè il suo
disegno era buonino; accorto, perchè quella mezza figura era una copia
fatta a memoria, d'un San Giovanni che mastro Jacopo aveva dipinto
qualche mese innanzi in San Bartolomeo, nella cappella di Santa Maria
della Neve.

--Ah, ah!--disse mastro Jacopo, a cui si spianavano in fronte le
rughe, accumulate pur dianzi nella arcigna severità del suo
atteggiamento di giudice.--Tu studi l'arte nuova, giovinotto.

--Maisì, maestro. Ed è la buona, mi pare.

--Eh, sì e no. Bisognerebbe, ad esempio, saper scegliere un po' meglio
tra nuovi e nuovi. Giotto di Bondone è un gran maestro, e Taddeo Gaddi
gli si stringe ai panni. Ti consiglio d'imitare questi due. L'altro,
da cui t'è piaciuto di copiare, è un artista da dozzina, il quale non
si raccomanda che per un poco di buona volontà.

--Voi gli siete nemico, maestro;--rispose argutamente il giovine.--Lo
si vede dalle vostre parole. Ma io lo difenderò anche contro di voi.
Per esempio, quella sua storia di San Martino, nella cappella del
Vescovado....

--Ahimè, ragazzo, ahimè!--interruppe mastro Jacopo con un sorriso che
faceva contro alla mestizia della interiezione.--Bisogna essere stati
a Firenze e aver visto il _Convito di Erode_, che Giotto ha dipinto
nella cappella dei Peruzzi di Santa Croce; bisogna essere stati nella
cappella del Palagio del Podestà, e aver visto quel Dante Alighieri,
improntato di tanta dolcezza, che pare una cosa di cielo! Ma già, tu
non vuoi intender nulla, ragazzo mio. Come ti chiami?

--Spinello, di Luca Spinelli, messere.

--Ah, conosco tuo padre di nome, ed anche di veduta. È un uomo per
bene. E tu dunque, vuoi diventar pittore? Vediamo, che cos'hai fatto
finora?

--Poca cosa, maestro. Degli schizzi, dei tocchi in penna....

--Dal vero?

--Maisì, maestro, dal vero, ed anche ricordando le cose vedute.

--Già, come questo San Giovanni;--ripigliò mastro Jacopo, crollando la
lesta---Non copiar che dal vero, sai; oppure da Giotto, poichè non
vide meglio di lui chi vide il vero. Del resto, portami i tuoi occhi
in penna. Li vedrò volentieri.--

Mastro Jacopo, intanto, scendeva dal ponte per ritornarsene a casa.
Spinello Spinelli domandò in grazia di poterlo compagnare un tratto.
Tanto, era tutta strada per lui, essendo la sua abitazione da quella
medesima parte della città.

Come furono in via dell'Orto, poco lunge dal Duomo, il giovane disse a
mastro Jacopo:

--Ecco l'uscio di casa mia. Se permettete, maestro, dò un salto fin
lassù, prendo i miei disegni, che avete mostrato desiderio di vedere,
e vi raggiungo subito.

--Fa come ti piace;--rispose mastro Jacopo.

Spinello Spinelli andò via lesto come un capriolo, anzi come uno
scoiattolo; fece una manata delle sue carte, e, scendendo gli scalini
a quattro a quattro, ritornò sulla via. Mastro Jacopo quando egli lo
raggiunse, non era ancora giunto all'angolo del Duomo.

Il vecchio pittore diede una rapida occhiata a tutti quei fogli. Erano
studi dal vero, o reminiscenze, motivi buttati là, con un fare tra
l'accorto e l'ingenuo, che indicava una vera e fortunata indole
d'artista. Spesso non erano che quattro tocchi; ma in quei quattro
tocchi si vedeva la natura colta sul vivo.

Mentre egli così sfogliava i quaderni del giovine seguitando la sua
strada verso casa, gli venne veduta tra l'altre cose una figura di
donna. Era a mala pena accennata, ma il pittore non durò fatica a
riconoscere d'onde Spinello avesse tratto il suo tipo. E così, di
sbieco, mentre guardava la figura, gittò un'occhiata al suo giovine
compagno.

Spinello non vide lo sguardo del pittore, ma lo sentì, e si fece rosso
in volto. Maledetta furia! O non avrebbe potuto egli aspettare una
mezz'ora, e portare egli i disegni a casa del maestro? Per la smania
di far presto, come se temesse di perdere l'occasione, aveva preso
tutto alla rinfusa, e quei quattro segni, in cui egli aveva fissato il
ricordo di madonna Fiordalisa, cadevano contro sua voglia sotto gli
occhi del babbo.

--In verità,--diss'egli allora, tanto per isviar l'attenzione del
pittore,--son povere cose e certamente indegne di voi. Ma, che volete?
non so far altro.

--Che! che!--rispose mastro Jacopo.--La modestia è una bella cosa,
ragazzo mio; ma tu ora fai torto alla natura, che ha voluto indicarti
molto chiaramente la tua vocazione. Ho caro di averti conosciuto.
Cimabue si tenne fortunato di essersi imbattuto in un pastorello che
disegnava le pecore del suo armento sui lastroni di Vespignano. Io
avrò in quella vece posta la mano su d'un artista formato.--

E dentro di sè, mastro Jacopo, come rispondendo ad una osservazione
del suo spirito famigliare diceva:

--Dopo tutto che male c'è? Se un artista simile diventasse mio genero,
dovrei averne dicatti. Sarebbe il miglior modo per legarlo alla mia
scuola e farmene un aiuto.

Indi, ad alta voce, mastro Jacopo proseguì:

--Vieni a bottega quando ti piace, anche oggi, se tuo padre si
contenta, io mi contento e godo. Non metto che una condizione ad
averti con me.

--Quale? Io l'accetto fin d'ora;--disse Spinello, a cui brillavano gli
occhi dalla contentezza.

--Di tenere i tuoi tocchi in penna per me. Ci serviranno ad entrambi
per ricordo di ciò che eri, quando sei entrato a bottega da me.--

Spinello non capiva in sè dalla gioia. Un'ora dopo quella
conversazione, egli tornava dal pittore in compagnia dì suo padre.
Luca Spinelli e Jacopo di Casentino s'intesero facilmente, e il
giovine Spinello rimase a' servigi del maestro.

Quella sera, madonna Fiordalisa fu vista da lui nella luce modesta
delle pareti domestiche. Dio santo, com'era bella! Due cotanti più
bella delle altre volte, quando egli la vedeva in Duomo, agli uffizi
divini, con gli occhi bassi e la testa e il collo gelosamente
custoditi da un velo di seta bianca, assai largo, che le scendeva giù
per le spalle.

Vestita così semplicemente, d'una veste di ferrandina a larghe pieghe,
le quali scendevano in bei partiti dal fianco, senza fronzoli che
dissimulassero le curve gentili del busto con le maniche lisce e la
radice del collo a mala pena coperta da un baveretto bianco, madonna
Fiordalisa era un miracolo di eleganza e di grazia. La testa,
incoronata di capegli castagni, e il profilo del volto rosato,
mostravano una delicatezza di contorni e una soavità di espressione,
che a lui veramente parve di non aver vedute prima d'allora.

Fiordalisa riconobbe in quel giovine uno dei suoi cento curiosi
ammiratori del Duomo. Egli, per altro, era il più riguardoso di tutti.
Come mai aveva egli potuto essere il più ardito, tanto da penetrare
per il primo in sua casa?

Mentre questo pensiero si affacciava alla sua mente, mastro Jacopo le
disse:

--Ecco un nuovo scolaro. Sarà il primo di tutti, se continua come ha
cominciato, e sopra tutto se non mette il capo alle frascheria della
gioventù.--

A quella parole di suo padre, Fiordalisa, che si era posta da
principio in sul grave, divenne tosto più umana e salutò cortesemente
il nuovo venuto.

Egli, del resto, si contenne da uomo di garbo. Non aveva occhi che per
mastro Jacopo e pendeva dalle sue labbra. Chi vuol la figlia,
accarezzi la mamma, dice il proverbio. Ora la figlia di mastro Jacopo
da lungo tempo aveva perduta la mamma, non restava a Spinello che di
accarezzare il babbo. E i babbi s'accarezzano, stando a sentirli con
attenzione, senz'altra noia che di dover dir loro ad ogni tanto: _et
cum spiritu tuo_.

Affrettiamoci a dire che Spinello non si annoiava punto in
quell'ufficio modesto. Jacopo era un buon maestro e Spinello sentiva
una gran voglia d'imparare. Finalmente se aveva l'aria di badar poco a
madonna, questa non doveva apporglielo a negligenza. Si dicono tante
cose, tacendo! Egli a buon conto, non ne diceva che una. Quando gli
accadeva di muover la testa e di volgersi a lei, diventava del color
della fiamma.

Ora una donna, quando vede di simili cose, non ha mestieri di lunghi
discorsi, nè di lunghe contemplazioni. L'essenziale è che conosca il
valore delle tinte. Ma questo, come non conoscerlo, quando si ha per
babbo un pittore?




II


L'entrata di Spinello Spinelli ai servigi di mastro Jacopo da
Casentino fece chiasso nella scuola. Egli era caduto là come un sasso
in una pozzanghera, facendo schizzare acqua e fango d'ogni parte.
Sicuro, anche fango. Certe acque non appaiono pulite se non quando e
fino a tanto son chete. Provatevi a rimestarle!

Nella bottega di mastro Jacopo erano cinque garzoni. Di quei cinque,
soli due potevano passare, ed essere considerati come speranze per
l'arte. Gli altri non promettevano nulla, e mastro Jacopo li adoperava
a mesticare i colori, a macinare le terrene sulla pietra, a far le
imbasciate della bottega, a portargli la cartella dei disegni e la
scatola dei pennelli, quando andava a lavorare fuori via.

Quei cinque lasagnoni, com'egli spesso usava chiamarli, con
dimestichezza punto piacevole a loro, si domandavano, Tuccio di Credi,
Lippo del Calzaiuolo, Parri della Quercia, Cristoforo Granacci e
Angiolino Lorenzetti, soprannominato il Chiacchiera. Nessuno di
costoro salì in eccellenza nell'arte del dipingere, quantunque due,
come vi ho detto, lo avrebbero potuto, cioè Parri della Quercia e
Tuccio di Credi. Ma il povero Parri della Quercia morì giovane, non
lasciando raccomandato il suo nome che ad una tavola di Santa
Margherita, nella chiesa cattedrale di Cortona; e Tuccio di Credi....
Quanto a Tuccio di Credi, egli avrebbe fatto opera più degna, morendo
lui, in luogo di Parri della Quercia.

L'apparizione di Spinello Spinelli nella bottega di mastro Jacopo
aveva destato un vero baccano in mezzo a quei cinque fattori. In primo
luogo perchè nessuno sapeva che quel giovinottino elegante fosse un
pittore. Per esser riconosciuti pittori, a quel tempo, bisognava
essere entrati fanciulli ai servizi di un vecchio artista, aver
macinata per qualche anno la terra di Siena, aver fatto cuocere il
travertino, di cui si faceva il bianco per gli affreschi, e portata
magari la zuppa al principale, quando lavorava sui ponti, e non
ismetteva per tutta la giornata, temendo giustamente che gli avesse a
seccare l'intonaco.

Un'altra cagione di meraviglia tra i cinque scolari di mastro Jacopo
era questa, che il nuovo venuto si presentava con un quaderno di
tocchi in penna, che diceva di aver fatti lui, senza preparazione di
studi. Questo, a dir vero, non significava nulla. Ognuno, a cui
piaccia, può imbrattare un foglio di carta e credere d'aver fatto un
disegno. Ma il guaio era che mastro Jacopo aveva lodati i disegni del
nuovo venuto, proponendoli come esempio ai vecchi della scuola.

--Ecco qua,--aveva detto, mettendo il rotolo dei fogli sotto il naso
dei suoi fattori,--lasagnoni, imparate. Quando vi dico che bisogna
copiare dal vero! Voi altri, invece, perdete il vostro tempo a
grattarvi le ginocchia. Si intende, quando non giuocate a zara.--

Rimasti soli davanti ai disegni di quel famoso artista che era piovuto
dalle nuvole, i cinque scolari di mastro Jacopo avevano sfogliato il
quaderno e guardato curiosamente ciò che formava l'argomento delle sue
meraviglie. Si capisce alla bella prima che avevano trovato tutto
mediocre. Non c'era franchezza di tocco; i contorni erano duri; gli
atteggiamenti goffi; le pieghe così trite, che peggio non avrebbe
fatto Cimabue nei suoi primi tentativi. Che cosa aveva inteso il
maestro, proponendo loro ad esempio gli sgorbi di quel principiante?
Di canzonarli, forse?

In quella che stavano guardando e criticando alla libera, uno di essi
scappò fuori con un grido di stupore.

--Che cos'ha veduto, il Chiacchiera?--domandò Tuccio di Credi.--Forse
il basilisco?

--In fede mia,--ripigliò il Chiacchiera,--questo non lo ha veduto di
certo il maestro.

--Che cosa? Il basilisco?--disse ridendo il Granacci.

--Questo ritratto;--rispose il Chiacchiera, senza badare allo scherzo
dei compagni.--Perchè, infatti, è un ritratto. Vedete qua!--

E levato dal quaderno il foglio che aveva destata la sua attenzione,
lo pose sotto gli occhi della brigata.

C'erano parecchie figure disegnate su quel foglio; ma il Chiacchiera
ne indicava una tra tante, che si vedeva nel mezzo, tirata giù alla
brava, come una impressione momentanea. Avete già indovinato che era
una figura di donna. Con due tratti di penna era segnata la veste,
lunga, a larghe pieghe, accennate, anzichè delineate, da qualche
zaffardata d'inchiostro. Le braccia, che escivano di sotto ai lembi
frastagliati del manto, si raccoglievano sul taglio della vita, e la
mano destra, sovrapposta all'avambraccio sinistro, sosteneva un
piccolo uffiziuolo. Sulla testa era gittato un velo che scendeva fino
agli òmeri e si confondeva col manto. I contorni della figura e i
pochi segni con cui era accennato il viso, apparivan di persona viva,
colta da una mano maestra, sull'atto di recarsi alla chiesa.

--Eh, che vi pare?--continuò il Chiacchiera.--Non la riconoscete?

--La figlia del maestro!--gridò Lippo del Calzaiuolo.

--To', è vero;--soggiunse Cristofano Granacci.--È madonna Fiordalisa.

--Infatti,--disse a sua volta Parri della Quercia,--è proprio lei, o
una che le somiglia di molto. Ma perchè dicevi tu dianzi che il
maestro non ha veduto questo disegno! È impossibile che non abbia
riconosciuta la sua figliuola.

--Eh,--rispose il Chiacchiera, stringendosi nelle spalle,--in questo
caso bisognerà dire che si è innamorato dello scolaro in grazia del
ritratto che questi ha fatto della sua Fiordalisa. Già, l'ama tanto!

--Se non c'è bisogno d'altro, per entrar nelle grazie di mastro
Jacopo,--esclamò Cristofano Granacci,--glielo facciamo tutti, il
ritratto a madonna Fiordalisa.

--Credete che sia così facile?--entrò a dire Parri della Quercia.

--Perchè no? Che cosa c'è egli di tanto difficile?--ribattè il
Granacci.

--Tutto;--rispose Parri.---Non avete osservato come ella si muta ad
ogni momento?

--Già,--disse il Chiacchiera,--donna e luna, oggi serena e doman
bruna.

--Non parlo dell'umore, parlo del tipo;--ripigliò Parri della
Quercia.--È un tipo assai delicato, con una certa espressione, che non
è sempre la stessa a tutte le ore del giorno.

--È vero, quel che dice Parri;--notò Lippo del Calzaiuolo.--Ci son de'
momenti che non sembra più lei.--

Tuccio di Credi torse le labbra e diede un'alzata di spalle.

--Baie!--diss'egli---I contorni non si mutano mica così facilmente!
Sarà quistione delle parti mobili, le labbra e gli occhi.

--Già, le labbra e gli occhi;--rispose Parri della Quercia.--E ti par
poco! Ora, se un moto delle labbra, o un diverso grado di forza nello
sguardo, basta a cangiarti l'espressione del volto, mi pare che la
immobilità dei contorni non ci abbia nulla a vedere. Piuttosto è da
chiarire quale delle due parti mobili ha maggiore virtù nel
cangiamento del tipo.

--Dev'esser la bocca;--osservò Lippo del Calzaiuolo.

--Infatti,--disse il Chiacchiera,--quando madonna Fiordalisa sorride,
vi apparisce due tanti più bella.

--Non si tratta di sapere quando apparisca più bella, poichè lo è
sempre moltissimo;--replicò Parri della Quercia.--Io ho detto soltanto
che ella vi muta espressione, e sembra avere un'altr'aria da quella di
prima. È sempre lei, per chi la conosce, e tuttavia è un'altra
bellezza. Il pittore che la ritraesse in uno di quei punti, crederebbe
di non averla resa con verità, se la vedesse in un altro.

--Pure,--notò il Chiacchiera,--questo Spinello, che non è un pittore,
e neanche un principiante, con due tratti di penna ce l'ha fatta
ravvisare alla prima.

--Bella forza!--esclamò Tuccio di Credi.--È una somiglianza ottenuta
nel complesso; buon per lui che non è andato ai particolari. La sua
parsimonia gli ha fatto buon giuoco. Vedete qua; con due tratti di
penna vi ha data un'aria di madonna Fiordalisa. Se ne avesse aggiunti
altri due, gli sarebbe andato a male ogni cosa.

--Che diamine gli è saltato, di fare il ritratto alla figlia del
maestro?--chiese Cristofano Granacci.

--Oh bella!--esclamò il Chiacchiera.--E stenti tanto a capirla? Ne
sarà innamorato. È così naturale che un giovanotto s'innamori d'una
bella ragazza! Domandane a Tuccio di Credi: egli ti risponderà....

--Che sei uno scimunito;--interruppe Tuccio di Credi, dando al
Chiacchiera una guardataccia, che pareva volesse mangiarselo.

Ma il Chiacchiera non si spaventava per così poco.

--Oh, ecco,--gridò egli, ghignando,--ecco una riprova di ciò che ha
detto Parri poc'anzi, sulla varietà delle espressioni. Guardate Tuccio
di Credi, se non sembra tutt'altri. O Tuccio, chi ti facesse il
ritratto in questo momento, in fede mia, non ti renderebbe un
servizio.--

Tuccio di Credi, veduto così sottosopra, cioè computando l'una cosa
per l'altra, poteva anche passare per un bel giovinotto. La
carnagione, è vero, traeva all'olivastro; ma non è detto che
l'olivastro sia un brutto colore, e ci son molti a cui simili impasti
di giallo e di verde non dispiacciono punto. E poi, s'accordavano bene
con quella tinta scura i capegli e le sopracciglia nerissime; di guisa
che sotto quella vigoria di toni fuligginosi, l'olivastro delle carni
poteva acquistare l'apparenza di un amabile pallore. Ma anche Tuccio
di Credi aveva un tipo mobilissimo, che giustificava pienamente
l'osservazione beffarda del Chiacchiera. Incominciamo a dire che nel
suo volto si notavano due parti distinte, la superiore virilmente
modellata, a contorni risentiti e gagliardi, l'inferiore timidamente
condotta, quasi appena accennata. Si sarebbe detto che la natura,
facendo quella testa, si fosse annoiata a metà dell'opera sua. Il
naso, ad esempio, non era in proporzione con l'ampiezza della fronte;
le labbra sottili e smorte mancavano di fermezza; il mento sfuggiva
senz'altro. In quella faccia, fluita di mala voglia, c'era alcun che
di stonato, che i pochi peli vani delle labbra e del mento non
bastavano a dissimulare, e che la barba più folta non avrebbe potuto
correggere. Anche gli occhi, neri, ma senza luce, dipinti di nerofumo,
lasciavano qualche cosa a desiderare. Per solito, li vedevate poco;
sfuggivano ad ogni esame. Quando Tuccio di Credi parlava con voi,
quegli occhi guardavano sempre in basso e da un lato; poi, tutto ad un
tratto, vi passavano dall'altro, senza che li aveste veduti fermarsi
sui legacci del vostro giustacore. Osservando il rapido trapasso di
quei due lumi spenti, pensavate involontariamente alla lucciola, che
nel fosco della notte vi brilla trasvolando da destra, indi vi
apparisce a sinistra, dopo esservi passata davanti alla chetichella,
rattenendo il palpito della sua luce fosforica.

Mastro Jacopo, una volta aveva detto di lui:

--Tuccio di Credi non sarà mai un valente disegnatore. Un uomo che non
guarda mai davanti a sè, può egli vedere quel che si faccia?

Alle beffe dal Chiacchiera. Tuccio di Credi aveva aggrottate le ciglia
e si era morso le labbra. Indi, facendo spallucce, aveva risposto:

--Che grullerie! Basta che il primo venuto dica una cosa per chiasso,
perchè tu ci fabbrichi subito un ragionamento. Già, non l'hanno
battezzato il Chiacchiera per nulla. Oggi tu hai visto l'innamorato in
una figurina di donna, e questo è anche peggio della trovata di Parri
della Quercia. O che? Non si può egli vedere una bella ragazza per
via, e sentire il desiderio di segnarne il profilo sulla carta, come
si segna il profilo d'un frate che va alla cerca, o d'un cane che
s'accosta al muro? L'uomo che vuole avanzare nell'eccellenza
dell'arte, studia tutto quello che vede. E se gli capita di vedere
qualche bella figura di donna, vuoi tu che chiuda gli occhi e dica:
_Domine salvum fac_, come un santo eremita, esposto alle tentazioni
del diavolo?

--Se almeno ce ne fossero due, qua dentro, di donne!--ribattè il
Chiacchiera, che non voleva darsi per vinto.--Ma, a farlo a posta, non
c'è che questa, non c'è.

--Non prova nulla.

--Prova moltissimo. Che non ci sian più belle donne, in Arezzo? O che
abbiano presa l'abitudine di tapparsi in casa, quando passa il Giotto
redivivo?

--Ah sì, Giotto ridivivo! Ben detto!--esclamò Lippo del
Calzaiuolo.--Se ti sente mastro Jacopo, ti abbraccia e ti bacia sulle
gote.

--Chi parla di mastro Jacopo?--gridò una voce, che mise lo scompiglio
nella brigata.--E chi ho da baciar sulle gote, se è lecito?

--Maestro!--dissero i garzoni, tirandosi indietro mogi e confusi.

Il maestro si avanzò in mezzo al crocchio e vide il quaderno dei
disegni di Spinello Spinelli.

--Ah!--riprese egli, con accento mutato.--Studiavate? Ammiravate anche
voi quel che sa fare questo bravo giovinetto? Avanti, su, si faccia
avanti quello che ho da baciar sulle gote, e mi dica cosa pensa di
Spinello Spinelli.

--Maestro,--scappò fuori il Chiacchiera,--io non so se mi bacerete
sulle gote, o se piuttosto non mi allungherete una pedata; ma dico,
con vostra licenza, che questo Spinello ha voluto fare un ritratto, in
questo piccolo schizzo.

--Orbene,--disse mastro Jacopo, rabbruscandosi;--e se avesse proprio
voluto fare un ritratto, che ci vedreste di male voi altri?

--Niente, Dio guardi; niente nell'intenzione. Ma quanto all'esito del
tentativo.... Vedete qua Tuccio di Credi, il quale sostiene che la
somiglianza è tutta dovuta alla parsimonia dei tratti. Il vostro
protetto ha trovata l'aria della figura, e nient'altro. Se dovesse
fare un ritratto, si troverebbe molto impicciato.--

Mastro Jacopo crollò sdegnosamente le spalle.

--Eh via, lasagnoni! Quello è un giovane che, se vorrà fare un
ritratto, anche da pittore novellino qual è, lo farà, in barba a tutti
voi, quando avrete messo su barba.

--Parri della Quercia non è di questa opinione.

--Ah, Parri?... sentiamo qual è l'opinione di messer Parri della
Quercia.--

Parri, così tirato in ballo dalla imprudenza del Chiacchiera, si fece
modestamente a rispondere:

--Io, veramente, maestro, non intendevo di togliere i meriti al vostro
nuovo scolaro. Non lo conosco ancora di persona, ma lo stimo già assai
per questi tocchi di penna, che voi ci avete proposti ad esempio.
Dicevo solamente che madonna Fiordalisa....--

Jacopo di Casentino diede un balzo e guardò il migliore de' suoi
discepoli con aria tra maravigliata e scontrosa.

--Che c'entra madonna Fiordalisa?--diss'egli interrompendolo.

--Eh, c'entra in questo modo,--rispose Parri della Quercia,--che nei
quattro tocchi di cui parlavamo dianzi, quando voi siete capitato....
Eccoli qua, del resto; non ci vedete il ritratto di madonna
Fiordalisa? Almeno almeno, si può dire che arieggiano la sua figura.

---Sia pure;--disse mastro Jacopo, col piglio di chi non vuol negare
nè ammettere una cosa.--E che cosa dicevi tu dunque?

--Dicevo che madonna può riconoscersi in questi contorni, ma che
questo non può dirsi un vero ritratto. Un ritratto della vostra
figliuola io l'ho per la cosa più difficile del mondo, se non per
avventura impossibile. Madonna Fiordalisa ha un'aria così mutevole!

--Aria mutevole! aria mutevole!--borbottò mastro Jacopo.--Non so che
cosa intendiate di dire, con quest'aria mutevole. I vecchi pittori non
le conoscevano, queste novità del vostro gergo.

--Maestro,--entrò a dire il Chiacchiera, vedendo che Parri della
Quercia era rimasto mutolo,--sono le parti mobili del viso, che fanno
di questi scherzi. Il viso ha le sue parti mobili; è l'opinione di
Tuccio di Credi.--

Mastro Jacopo andava di meraviglia in meraviglia.

--Ah sì! Anche Tuccio di Credi ha un'opinione?--chiese egli, con
accento sarcastico.

Tuccio di Credi fu toccato sul vivo da quelle parole, ma più dal tono
canzonatorio con cui erano profferite.

--Che male ci sarebbe, maestro?--disse egli.--E che ci vedreste di
strano?

--Niente, in verità; niente strano in voi altri. E non ci sarebbe
neanche ombra di male, se almeno voleste prendervi il fastidio di
lavorare. Siete lasagnoni, buoni a nulla.... Cioè, mi correggo; siete
buoni a far chiacchiere; tanto che uno di voi ci ha buscato il
soprannome. Ragionare di principii, far trattati, inventar dottrine,
ecco il fatto vostro. Lavoro, vuol essere, lavoro, e poi sempre
lavoro. Le ragioni dell'arte son qui, nel braccio e nella schiena; il
resto non vale più che tanto. Fatemi la grazia di lasciare le ragioni
dell'arte, i principii, i trattati, a coloro che sono invecchiati
nell'operare. Anche voi, un giorno, quando sarete giunti a compieta,
potrete dire ai giovani: così va fatto e così non va fatto. In nome di
che? In nome della vostra esperienza. Senza di questa non ci son
dottrine che tengano.

--Maestro,--osò dire il Chiacchiera,--voi restringete il campo
dell'arte.

--Che campo m'andate voi sfringuellando? Il campo dell'arte! Ecco
un'altra invenzione dei pittori parolai. Dovevate vederlo che cos'era
il campo dell'arte, quando vivevano i grandi maestri. Non le si
conoscevano mica, queste cianciafruscole ai bei tempi di Taddeo Gaddi
e di Giotto!

--Giotto fu un rinnovatore dell'arte;--ribattè il Chiacchiera.--E noi
dobbiam mirar tutti a fare del nuovo.

--Ah sì? E credete che sia possibile, far sempre del nuovo? Badate,
lasagnoni, che le vostre novità non siano ritorni alle mosse. L'unica
novità, che io possa raccomandarvi è questa: fate, fate, non vi
stancate di fare. E per intanto smettete le ciance, che il fistolo vi
colga!--

Ciò detto, maestro Jacopo si allontanò dal crocchio dando una poderosa
alzata di spalle. Al quale atto il Chiacchiera rispose per tutti,
facendo le boccacce. Poco stante si affacciava un giovinotto
sull'uscio della bottega.

--È qui mastro Jacopo di Casentino?--chiese egli con aria peritosa.

--È qui;--rispose il Chiacchiera.--Che cosa volete da lui?--

Mastro Jacopo aveva udito la voce del nuovo visitatore, ed era subito
escito sul limitare della sua camera.

--Oh, bravo, ragazzo mio, fatti avanti!--gridò egli.--Ti aspettavo.
Eccoti in casa tua. Questi sono i tuoi compagni di lavoro; Tuccio di
Credi, Parri della Quercia, Cristofano Granacci, Lippo del Calzaiolo,
il Chiacchiera... cioè, diciamo prima il nome che ha avuto a
battesimo, Angiolino Lorenzetti, e poi diremo quello che gli hanno
appioppato le persone intendenti.--

Il giovane a cui erano presentati in quella forma gli scolari di
mastro Jacopo, li salutò con un cenno grazioso del capo, indi
soggiunse:

--Saremo amici, io spero.

--A voi, lasagnoni,--ripigliò maestro Jacopo,--salutate Spinello
Spinelli, l'autore dei tocchi in penna che avete veduti poco fa. È un
ragazzo che, se non si svia per cammino, farà parlare di sè.--

Gli scolari di mastro Jacopo s'inchinarono davanti a Spinello. Parri
della Quercia gli stese la mano, dicendogli:

--Amico e fratello, se vi piace.--

Ma gli altri non si fecero così avanti, non si buttarono via come
Parri della Quercia.

--Saremo amici, io spero!--ripeteva sommesso il Chiacchiera, rifacendo
il verso del nuovo venuto.--Vedete che degnazione! O che si
crederebbe, per caso, d'essere il duca Namo di Baviera?

--O il Saladino;--soggiunse Lippo del Calzaiolo.

--Sarà poi Calandrino, e nulla più;--conchiuse Cristofano Granacci.

Tuccio di Credi non disse nulla; ma dentro di sè pensava:

--Amico tuo! Sei sciocco, affè mia, se lo speri!--




III.


Abbiano la mala pasqua i pessimisti, gli scettici, ed altri filosofi
di tal fatta, i quali sostengono che l'uomo sia un animale invidioso
per natura, e che le nostre buone qualità sieno solamente effetto di
paziente educazione, come a dire di strofinamento e di verniciatura.

Grazie al cielo, e con licenza dei filosofi sullodatì, ci sono ancora
delle anime intimamente buone, la cui virtù è frutto di generazione
spontanea, non già conseguenza d'innesto sapiente, o d'arte
giudiziosamente educatrice. E ci sono altresì degli uomini che non
soffrono il male dell'invidia, neanche (e questo è meritorio da parte
loro) quando vedono che Tizio o Caio ha ingegno o attitudine da
superarli di gran lunga, in questa o in quella disciplina.

Vedete, ad esempio, il nostro bravo messer Jacopo di Casentino. Il
vecchio scolaro di Taddeo Gaddi, il degno continuatore della
tradizione di Giotto, indovinava facilmente che quel giovinottino da
lui preso a bottega, quando avesse fatto un tantino di pratica nel
maneggio dei pennelli, sarebbe diventato di schianto un artista
insigne, un maestro, da lasciarsi addietro i migliori del suo tempo. E
per lui, per quell'aquilotto che metteva appena i bordoni, mastro
Jacopo aveva smosso il suo piglio burbero; per lui trovava le parole
amorevoli, la placida assiduità degli insegnamenti, la ineffabile
tenerezza dei conforti paterni.

Due sentimenti diversi lo persuadevano a ciò. Il primo era quello
dell'ambizione. Esser maestro ad un discepolo che non aveva punto
mestieri di rimproveri e così poco di incitamenti a far meglio, poter
raccomandare il suo nome ad un nuovo argomento di gloria, eccovi
l'ambizione di mastro Jacopo; ambizione legittima, e, quel che più
monta, di effetto sicuro, si sarebbe detto un giorno: Spinello
Spinelli, il famoso pittore d'Arezzo, era scolaro di Jacopo da
Casentino. Degno del maestro il discepolo! E se pure si fosse dovuto
dire: migliore del maestro la gran pezza, sarebbe stato poi un gran
male? Avere indovinato un ingegno potente, averlo tratto
dall'oscurità, avergli per così dire adattate le ali agli omeri, non è
forse una gloria, un titolo di merito al cospetto dei posteri, specie
quando un simil titolo si può metter di costa ad altri parecchi?

Ora, che mastro Jacopo di Casentino non s'ingannasse in questi suoi
sogni ambiziosi, la storia dell'arte italiana lo ha dimostrato. La
fama di Spinello Aretino ha confermata, se non per avventura
accresciuta, la fama del suo vecchio maestro.

L'altro sentimento era d'indole affatto domestica. Gli dò mia
figlia;--diceva tra sè mastro Jacopo.--Bello lui, come essa è bella:
ha ingegno, salirà presto in eccellenza d'arte; avrò in lui un aiuto
maraviglioso; prospererà la mia scuola; Arezzo contenderà la palma a
Firenze....--

E qui mastro Spinello....Ma via, non precipitiamo nulla, raccontiamo
le cose per filo e per segno, non mettiamo il carro avanti ai buoi.

Madonna Fiordalisa, ve l'ho già detto, si dimostrava umana col nuovo
discepolo dì suo padre. Più volte nel corso della settimana, o con un
pretesto o con l'altro, Spinello Spinelli era invitato a desinare dal
maestro; onore che toccava di rado agli altri compagni suoi di
bottega. Qualche volta anche lei discendeva al pian terreno; e
certamente più spesso che non le accadesse da prima; ora per avvertire
il babbo che si dava in tavola, ora per chiedergli il suo parere su
questo o su quel particolare d'economia domestica, ed anche, perchè
bisogna dir tutto, anche senza una ragione sufficiente per scendere.
Ma già deve trovarla sempre, e per ogni cosa, la ragione sufficiente?
I filosofi, che hanno voluto metterla come fondamento dei loro
sistemi, si sono trovati anch'essi il più delle volte impacciati.

E Spinello ardeva; e l'interno ardore gli traluceva dagli occhi. Voi
lo sapete, lettori, perchè di lì ci sarete passati un giorno anche
voi; l'amore e la tosse si nascondono male. Anche madonna Fiordalisa
nascondeva male il senso che faceva su lei l'amore di Spinello
Spinelli; anzi, non lo nascondeva affatto. Perchè avrebbe dovuto
nasconderlo? Non era nato, quell'affetto, e non cresceva forse
liberamente sotto lo sguardo benevolo di suo padre? Era da principio
un po' timida; poi, nel ravvisare la stato del proprio cuore, si era
fatta contegnosa. Ma queste deboli difese, pari alle fortificazioni
improvvisate lì per lì da un esercito in aperta campagna, durano
appena quel tanto che basti ad una semplice ricognizione. E madonna
Fiordalisa non aveva durato fatica a riconoscere che quel gentile e
modesto innamorato non era altrimenti un ingannatore. Si sentì
raffidata e gli diede senza contrasto il suo cuore. Dolce abbandono,
che non è turbato da nessun sospetto, da nessuna paura!

Mentre faceva quei progressi nel cuore di lei, e forse per la stessa
ragione che li faceva, il nostro Spinello avanzava rapidamente nella
disciplina che aveva con tanto ardore abbracciata. Imparava facilmente
quel che oggi si chiama il meccanismo dell'arte. Sapeva come si
dovessero unire i colori, a fresco e a tempera, o come si avessero a
dipingere le carni e i panni, per modo che ne venisse rilievo e forza
alle figure, mostrando l'opera chiara ed aperta; conosceva quali
colori si dovessero usare nel dipingere a fresco, cioè tutti di terra
e non di miniere; con che risolutezza di mano si avesse a condurre il
lavoro, prima che l'intonaco del muro potesse disseccarsi, e qual
forza dovesse dare al colore, perchè le tinte, mentre che il muro è
molle, mostrano una cosa in un modo, che poi, secco il muro, non è più
quella di prima. Ed altre cose aveva prontamente imparate, con potenza
di desiderio, anzichè per pratica; del dipingere a tempera, cioè col
rosso dell'uovo e col latte del fico mescolati nei colori; del
dipingere a chiaroscuro, contraffacendo le cose di bronzo: e
finalmente del fare gli sgraffiti sulle mura, per modo che reggessero
all'acqua piovana.

E tutto ciò senza rifarsi pure una volta ai principii. Tirato dalla
sua inclinazione a schizzare dal vivo, od altrimenti dal naturale,
Spinello Spinelli era già andato molto innanzi nel disegno, esprimendo
col lapis rosso di Lamagna, o col nero di Francia, figure,
atteggiamenti, partiti di pieghe, od altro che gli toccasse l'animo.
Così lavorando, aveva acquistato una maravigliosa destrezza a fare con
la penna i dintorni delle cose vedute, dando le velature e le ombre
con una tinta dolce, che otteneva dall'inchiostro stemperato
nell'acqua. E da ultimo, come abbiamo veduto dai disegni suoi, che
erano andati sotto gli occhi di mastro Jacopo, faceva ogni cosa a
tratti di penna, lasciando che i lumi delle figure fossero resi dal
bianco della carta.

Del resto, in quei cominciamenti della pittura mancavano i grandi
esemplari da proporre ai discepoli, e ognuno ritraeva dal vero,
portando nell'opera quei medesimi difetti e qualità, che erano
nell'occhio di ciascheduno, e nel suo modo particolare di veder la
natura. Che se a voi, lettori discreti, paresse strano il caso di
tanti pittori i quali vedevano la figura umana più smilza del
naturale, di guisa che nei dipinti di quel secolo non si scorge ombra
di quella pienezza di forme che è tanto comune in natura, io vi
pregherò di ricordare che quei bravi rinnovatori dell'arte escivano
allora dagli stecchi della pittura bisantina, e, per vedere tutto il
vero nel vero, dovette mancar loro il coraggio. _Natura non facit
saltum_, si è detto; anche l'arte ha dovuto andare per gradi.

Per contro, se i pittori della scuola di Giotto davano ancora troppo
nello smilzo, avevano già la cura lodevole del finito; laonde se i
corpi delle loro figure, asciutti come sono, accusano la povertà degli
studi anatomici, la espressione dei volti e diligenza nel disegnare le
estremità, ci appalesano quel sentimento profondo della verità, che
doveva rifare di sana pianta le arti figurative e non far rimpiangere
al mondo la perdita dei capolavori di Apelle e di Zeusi.

Ho detto, e ritorno a Spinello Spinelli. Il quale, vedendo operare
mastro Jacopo di Casentino, si accese del desiderio di dipingere a
fresco, che era in quei tempi il sommo dell'arte. Ma tacque il suo
pensiero, che gli pareva troppo audace, anzi temerario senz'altro, e
si restrinse ad osservare il modo con cui mastro Jacopo preparava i
cartoni, ringrandendo a vaste proporzioni i suoi disegni, e qualche
volta, ad ottenere i giusti effetti di luce e d'ombra, facendo modelli
di creta, i quali disposti in una data azione tra loro, lasciavano
vedere gli sbattimenti, i rilievi, e tutte l'altre particolarità di
cui si vantaggia la prospettiva d'un quadro.

Tre mesi erano scorsi dacchè Spinello viveva al fianco di mastro
Jacopo, e il giovinotto, a mala pena ventenne, aiutava già il
principale negli affreschi del Duomo Vecchio, di quel Duomo in cui per
la prima volta aveva veduto madonna Fiordalisa. S'intende che Spinello
tratteggiava sull'intonaco i disegni del maestro, e sotto gli occhi di
lui ci metteva il colore.

Immaginate voi come si struggessero di rabbia i compagni di Spinello.
Escludiamo, per altro, il povero Parri della Quercia, modesto e buon
giovane, il quale non si sentiva nato per la grand'arte dell'affresco
e si contentava di lavorare a tempera certi trittici, e pale d'altare,
che erano commesse a mastro Jacopo da qualche pieve, o da qualche
oratorio del contado. L'affresco voleva ardimento d'ingegno,
franchezza di mano, sicurezza di giudizio. e tante altre belle
qualità, che non erano nell'indole di Parri. Ma gli altri discepoli di
mastro Jacopo, assai meno valenti di Parri della Quercia, erano anche
assai meno modesti di lui, e si rodevano di vedere quel nuovo venuto,
che si spingeva in brev'ora tanto innanzi nel magistero dell'arte, e,
quel ch'era peggio, nelle grazie del maestro.

Un giorno, essendo Spinello a lavorare sulle impalcature del Duomo, in
compagnia di mastro Jacopo, questi gli disse di punto in bianco:

--Ragazzo mio, è tempo che tu voli da te.

--Volare da me!--esclamò il giovine levando gli occhi dal muro, per
guardare il maestro.--Che intendete di dire?

--Mi sembra di parlar chiaro;--ripigliò mastro Jacopo.--Il tuo ingegno
ha messe le penne maestre; puoi volare senza aiuto di chicchessia.

Spinello si fece rosso, chinò la fronte e rispose:

--Maestro, al fianco vostro ho un cuor da leone. Ma da solo! Ci
pensate voi! Non mi avverrà egli dì fare come quell'Icaro di Creta,
che perse le penne e andò a sommergersi in mare?

--Vedete la modestia, che è andata a stare ad uscio e bottega coi
giovani!--gridò mastro Jacopo, ridendo.--Ma sia pur giusto il paragone
che tu fai delle tue ali con quelle d'Icaro. Nessuno ti dice che tu
abbia a discostarti dal tuo maestro, dal tuo secondo padre. Lavorerai
sotto i miei occhi, se Dio vuole, e baderai sempre ai miei consigli.
Hai risolutezza di mano e buon giudizio per fare da te. Vuoi? C'è da
dipingere, nella cappella qui presso, un Miracolo di san Donato.
L'opera è di grande rilievo, perchè il santo è qui in casa sua; ma ho
fede che te la caverai con onore.

--Maestro, e se mi fallisse la prova? Vorranno poi i massari della
chiesa commettere a me un'opera di tanta importanza?

--Non lo sapranno che poi;--rispose mastro Jacopo, dando un'alzata di
spalle.--E noi cancelleremo il dipinto, se non riescirà secondo le
speranze che io ho concepite di te.--

Spinello tuttavia esitava.

--Bell'ardire!--esclamò mastro Jacopo,--Così ami tu Fiordalisa?--

All'udire quelle parole, Spinello si scosse e il cuore gli diede un
balzo nel petto. Figuratevi! Era la prima volta che mastro Jacopo gli
parlava di sua figlia. E per la prima volta ne diceva abbastanza, non
vi pare?

--Ah maestro! maestro, che dite voi mai?--gridò il giovine,
turbato.--Ho io bene inteso?--

Mastro Jacopo sorrise, come sanno sorridere i babbi, quando non hanno
nulla da rifiutarvi, o giovinotti innamorati.

--Se ho bene inteso io, fin dal primo giorno che sei entrato a
bottega,--rispose allora il vecchio pittore,--sì certamente, tu mi hai
bene inteso quest'oggi.--

Spinello Spinelli rimase lì, pallido dalla commozione, ansante, con
gli occhi imbambolati. Non poteva credere alla propria felicità.
Guardava il maestro, come se volesse leggere nel volto di lui la
conferma delle parole udite; poi guardava in aria, come se cercasse
un'immagine cara, che doveva trovarsi là, pronta alle sue invocazioni
amorose.

--Orbene, che hai?--disse mastro Jacopo.--Non sei contento?--

Spinello si abbandonò sui gradini del trespolo che serviva a mastro
Jacopo per accostarsi alla vòlta, e diede in uno scoppio di pianto.

--Animo, via! Che cos'è questa ragazzata!--borbottò mastro Jacopo.--Se
ti sentono di laggiù!...

--Ah, lasciatemi piangere, maestro, padre mio, lasciatemi piangere.
Avere amato tanto tempo senza speranza!... Essere entrato da voi,
temendo che non mi accettaste come vostro scolaro!... Poi, essere
vissuto così, accanto a voi, disperando di potervi dire un giorno....
di potervi confessare.... E sempre con la paura di sentirmi annunziare
da voi, o da altri di bottega, che madonna Fiordalisa era sposa....
Oh, maestro, maestro, vorrei che ci foste stato voi, nel mio caso!

--Eh, non dubitare, ci sono stato anch'io, _in diebus illis;_--rispose
mastro Jacopo.--Ci si passa tutti, o presto o tardi, per queste
benedette ansietà. Ma, come vedi, non era il caso di tremare. Si
pensava a te, mentre tu ti guastavi il sangue coi sospetti e con le
paure. E c'è voluto che la fortuna venisse a cercarti lei; che il
babbo fosse il primo a parlare....

--Oh, padre mio, non dite ciò, ve ne prego! Sapete pure che non
ardivo!

--Già, tu non ardisci mai. Ma bada, ragazzo mio, la tua fortuna è a
questo patto. Tu farai il Miracolo di san Donato, e sarà davvero....

--Un miracolo;--interruppe Spinello.--Ve lo prometto.

--Ci fo assegnamento. Ed ora, andiamo a casa, che qui s'è fatto
abbastanza, per oggi.

--No, maestro, lasciatemi qui. Voglio pensare al mio soggetto.

--Qui? a cinquanta palmi da terra?

--Che importa? La mia testa è più alta di mille miglia. Non sono io al
settimo cielo? Poi vedete, maestro, qui siamo nel Duomo vecchio.
Laggiù--continuò Spinello, accennando in basso, attraverso le
commessure del ponte,--laggiù, presso la quarta colonna di destra, ho
veduto per la prima volta madonna Fiordaliso. Non sapevo chi fosse; ma
ne rimasi colpito. Andai quel giorno a nascondermi là, dietro quel
pilastro della navata di destra, per poterla vedere di profilo, senza
che ella si accorgesse di nulla. Che allegrezza fu quella, per i miei
occhi! E ogni festa, sapete, ogni festa, io la vedevo così. Eravamo
nel giugno dell'anno scorso. Benedetto mese, che ne ha tante di feste!
Gli altri ne hanno meno, o non lo valgono. L'aspettavo all'ingresso,
avendo l'aria di guardare tutt'altro; poi me ne venivo laggiù; anzi,
ricordo che fu quello un gran dolore per me.

--Sentiamo quest'altra!--esclamò mastro Jacopo, ridendo.

--Sì,--riprese Spinello,--perchè tutti i giovani d'Arezzo la
conoscevano come la bellissima tra le belle. Ahimè, pensai, quanti non
si augureranno di piacerle al pari di me! E quanti non avranno ragione
a sperare di essere più fortunati! Temevo, e il soverchio della paura
fa quello che mi diede le forze per muovere incontro a voi. Tremavo
come una foglia, ve ne ricordate? E quando poi, nella furia, commisi
l'errore di portarvi tutti i miei disegni, senza pensare li per li che
ce n'era uno....

--Già, il ritratto della mia figliuola;--disse mastro Jacopo.--Oh,
l'ho veduto e riconosciuto alla bella prima, non dubitare. Come avrei
capito il resto, se non avessi indovinato il principio? Per altro,
bada, ragazzo mio; lasciando passare la faccenda del ritratto, io mi
ero proposto una certa cosa.

--Quale?

--Se questo ragazzo mi si svia,--continuò mastro Jacopo,--se non mi
diventa un gran pittore, lo mando diritto a quel paese. Fortuna, per
te, che ti sei conservato un buon figliuolo ed hai risposto alla mia
fede. Dunque, siamo intesi, il miracolo sarà fatto!

--Non temete, sarà fatto. Lasciatemi qui, nel Duomo, a prendere
inspirazioni dal luogo. Mi sento una forza da leone. Ma ditemi,
maestro, il Miracolo di san Donato non è di aver fatto morire un
serpente che infestava il paese?

--Già, è una semplice benedizione.

--Andate dunque, maestro; io penso al soggetto, e spero che, prima di
escire dal Duomo, mi sarà venuta un'idea.--

Mastro Jacopo sorrise una seconda volta, fece a Spinello un cenno
amorevole con la mano e se ne andò giù per la scala a piuoli.

Rimasto solo sull'impalcatura, Spinello Spinelli prese il lapis rosso
di Lamagna e incominciò a segnare alcuni tratti sul cartone. Ma subito
dopo si fermò. Aveva il cervello in volta; pensava a madonna
Fiordalisa e alla possibilità, che per la prima volta gli arrideva, di
far sua quella divina creatura.

--Sarebbe stato meglio andar subito a casa,--pensò egli,--e poi
mettermi a lavorare; mi sarei ispirato.--

Ma fatto appena quel ragionamento, trovò che era sbagliato di pianta.

--No,--soggiunse egli,--bisogna anzitutto aver meritato di vederla. Se
mi vien fatto un bel partito, sarà segno che l'avrò meritato.--

Così dicendo, si avanzò verso l'orlo dell'impalcatura e volse
un'occhiata a quel punto della navata in cui per la prima volta aveva
veduto madonna Fiordalisa, gittò un bacio laggiù, sulla punta delle
dita, e col bacio una ardente preghiera, una giaculatoria mentale. Era
la prima, di sicuro, che facesse nella casa di Dio il giuoco di
scendere, anzi che di salire.

Quindi, invasato dall'estro, si pose a lavoro con ansia quasi
febbrile. L'idea e la forma gli escivano insieme, nello stesso tocco
dal disegnatoio, che scorreva veloce sulla carta.

Spinello immaginò il Santo nell'atto in cui muovendo incontro al
serpente, lo fulmina col gesto della mano destra, levata in alto,
mentre con l'altra sembra infonder coraggio ad una turba di cittadini
spaventati, quali già volti in fuga, quali inginocchiati per invocare
il soccorso del cielo. Il Santo si vedeva ritto, in aria di persona
commossa, ma non vinta da timore, e la fralezza delle membra e la
soavità dell'aspetto in quella che facevano contrapposto all'orrida
fierezza del mostro, sembravano raffigurare l'alto concetto della
retta coscienza che sta salda innanzi ai maggiori pericoli, o della
fede in Dio che vince animosa ogni ostacolo. Il serpente, nella forma
delle zampe, delle fauci e dello scaglie ond'era protetto il suo
dorso, arieggiava i coccodrilli egiziani, nelle ali i favolosi
dragoni, che erano tanto in voga a quei tempi, per la leggenda
popolare di San Giorgio di Cappadocia. La mala bestia guardava
tuttavia il suo poco temibile avversario, e con le fauci aperte pareva
volesse ingoiarlo; ma già il corpo si piegava, gli anelli del ventre
si contorcevano, le zampe spaventosamente unghiate si stendevano nello
spasimo e graffiavano l'aria. Era alcun che di terribile, a contrasto
col tranquillo atteggiamento dell'uomo miracoloso, dalla cui mano
levata intendevate essersi allora allora sprigionata la virtù
fulminatrice.

--Ah, finalmente!--gridò Spinello, appena gittati sulla carta i
contorni della sua composizione.--Non lo cancelleremo, questo quadro,
non lo cancelleremo!--

Poco stante, data l'ultima mano al disegno, ne fece un rotolo e
discese dal ponte.

--Così tardi escite da lavoro?--gli chiese il sagrestano del Duomo,
vedendolo attraversare la navata di mezzo.--Ma che c'è? Avete l'aria
di un uomo che ha ricevuta una lieta novella.

--Lieta, sicuramente;--rispose il giovane pittore.--Quantunque, a voi
forse non parrebbe tale.

--Se potrò rallegrarmene per voi, perchè non mi parrà lieta? Ditela
su!--

Spinello si avvicinò al prete, accostò le labbra alla guancia di lui e
gli bisbigliò all'orecchio:

--Prendo moglie.--

Il sagrestano si trasse indietro per guardare in volto Spinello; indi
battè le labbra, come un uomo che s'aspettasse tutt'altro, e che ad
ogni modo non vedesse una grande felicità nel settimo sacramento.

--Prendete moglie, Spinello?--esclamò.--Siate felice. Per altro, avrei
creduto che, per voi, la moglie dell'artista dovesse esser qui.--

E col dito accennava la testa, dove abita madonna fantasia.

--No, v'ingannate;--rispose prontamente Spinello.--La moglie
dell'artista è qui.--

Ed accennò il cuore, dove sta di casa la passione.

--Avrete ragione;--disse il sagrestano, inchinandosi.--Purchè non si
soffra, lì dentro. Nel qual caso, addio arte!

Spinello pensò che il povero prete non era fatto per intendere certe
cose, e, datagli una di quelle occhiate patetiche, le quali sembrano
dire tante cose, forse perchè non ne dicono alcuna, infilò la porta
del Duomo. Affrettava il passo, perchè quel giorno era invitato a
desinare dal maestro, e l'ora, come si è detto, era tarda.

Fra pochi istanti avrebbe veduta madonna Fiordalisa. Ma come avrebbe
osato posar gli occhi su lei, dopo quel doloroso discorso di mastro
Jacopo? Fortunatamente, dalla tranquilla accoglienza che Fiordalisa
fece al futuro Apelle, gli fu agevole intendere che mastro Jacopo non
aveva creduto opportuno di dir nulla alla sua bella figliuola. E
Spinello gliene fu grato, perchè, libero da ogni soggezione, avrebbe
potuto guardare in volto Fiordalisa, contemplarla a sua posta, e
pensare tra sè con gioia infantile:--tu non sai, bambina, tu non sai
quel che so io; sarai mia, bella creatura, sarai mia; il pegno della
vittoria è là, in quel rotolo di carta, che io ho riposto su quel
canterano di noce.--

Mastro Jacopo, prima di mettersi e tavola, tirò in disparte il
prediletto discepolo e gli disse:

--Orbene, t'è venuta l'idea?

--Sì, maestro, è venuta.

--E ne sei contento?--

Spinello fece un cenno del capo, che voleva dire: così così; ma le sue
labbra si atteggiavano ad un malizioso sorriso.

--Ah, briccone!--esclamò il vecchio pittore. Tu sei contento e non
--vuoi confessarlo. Fammi vedere il disegno.

--No, maestro, non ora. Se permettete, sarà per domani. Non sono
ancora ben sicuro del mio concetto. Nell'ebbrezza del comporre, mi è
parso bello; ma ora, pensando alla grandezza del premio,--e così
dicendo Spinello volgeva gli occhi a Fiordalisa, il cui elegante
profilo si disegnava sul fondo luminoso della mensa apparecchiata,--ho
una gran paura di aver fatto un pasticcio. Aspettate domani. Intanto,
ci dormirò su e poi vedrò di ritoccarlo.

--Sia come tu vuoi;--disse mastro Jacopo.--Andiamo a tavola. Io non mi
nutro con gli occhi, come te, ed ho una fame assaettata.--

La mattina seguente Spinello ritornò sull'opera sua. Gli pareva
manchevole, e certamente era, come tutte le cose tirate giù in fretta.
Ma delle cose fatte in fretta aveva anche i pregi, cioè a dire,
insieme con qualche ridondanza facilmente correggibile, unità di
concetto e franchezza di esecuzione. Rimutò qualche parte, rifece il
disegno, accrebbe con alcuni tocchi l'espressione dei volti, e
finalmente come gli parve di aver migliorato il suo lavoro, si
arrischiò a metterlo sotto gli occhi del maestro.

Tremava, il povero Spinello; tremava, vedendo il vecchio pittore
atteggiato a giudice davanti al suo disegno, e raccolto in un silenzio
che non gli prometteva niente di buono.

Mastro Jacopo guardava sempre così. La sua attenzione era concentrata
nel soggetto, non si perdeva mai in esclamazioni, o inarcamenti di
ciglia. Quando aveva considerato per ogni verso ciò che doveva
giudicare, meditato, vagliato, pesato tutto sulle bilance dell'orafo,
allora soltanto si lasciava sfuggire un bene, o un male, secondo che
gli pareva, ma niente di più.

Quella volta, per altro, si mostrò più corrivo.

--Bene!--diss'egli, dopo una lunga disamina. Sono contento di te. La
--composizione è saviamente immaginata. L'atteggiamento del Santo è
--sobrio e dice molto. Se ti riesce sul muro quell'aria di testa, come
--t'è riescita sulla carta, hai vinto per mia fede un gran punto.--

Spinello, fuori di sè dalla gioia, buttò le braccia al collo del
maestro.

--Via, via,--ripigliò il vecchio pittore, schermendosi male da quella
dimostrazione d'affetto.--Non son mica Fiordalisa!

--Padre mio, perdonate;--gridò Spinello.--Sono tanto felice! La vostra
lode è per me il più grande, il più ambito dei premi.

--Sì, dopo la mano di Fiordalisa;--borbottò mastro Jacopo.--Ma già si
capisce, ed io non mi lagno. Del resto, la lode del babbo e la mano
della figlia non son tutta roba di casa mia?

Spinello chiese licenza al maestro di poter cominciare quel medesimo
giorno a far la macchia, per ottenere una giusta intonazione di tinte.
La mattina seguente mise mano al cartone. Aveva misurato lo spazio su
cui doveva essere dipinta la storia del Santo e fatto il conto dei
fogli di carta che gli bisognavano per quel tratto di muro. Non gli
restava che di congiungerli ad uno ad uno per gli orli, con la colla
di farina cotta al fuoco. Ciò fatto, e come il cartone fu rasciugato
sulle giunture, lo stese al muro, incollandolo sui lembi; indi, tirate
sul suo primo disegno tante righe orizzontali e perpendicolari che lo
riducessero ad una fitta rete, segnò lo stesso numero di linee sul
cartone, a distanze proporzionatamente eguali, affinchè gli fosse
facile di condurre il suo primo disegno alla misura dell'affresco che
aveva immaginato di fare.

Spinello lavorava per quattro, e al paragone suo anche Luca Giordano,
soprannominato Luca Fa presto, avrebbe potuto andarsi a riporre.
Finito il suo graticolato, mise un pezzo di carbone in capo ad una
canna, e là, ritto davanti al muro, con un occhio al disegno primitivo
e l'altro al cartone, incominciò a riportare su questo i contorni
dell'altro. Due giorni dopo, il cartone del Miracolo di san Donato era
fatto, con grande soddisfazione di mastro Jacopo, il quale per tutto
quel tempo non aveva voluto nessuno dei suoi giovani in chiesa. Già, a
che cosa gli sarebbero serviti quei lasagnoni? A mesticargli i colori?
Mastro Jacopo, per quei due giorni, mesticò i suoi colori da sè, come
avrebbe fatto ogni artista novellino. Tanto è vero che ognuno, purchè
voglia, più passarsi dell'opera d'un altro, sia egli servitore od
aiuto!

Per contro, il vecchio pittore aveva anche dato una mano al suo
prediletto scolaro, facendogli costrurre il ponte nella cappella in
cui doveva dipingere. E come il cartone fu condotto a termine chiamò i
muratori perchè dessero un'arricciatura grossa sul muro, debitamente
scrostato; indi fece incrostare di nuovo tanta superficie di muro,
quanta Spinello credeva di poterne colorire in un giorno.

Spianato per benino l'intonaco, il giovine artista vi stese il cartone
e calcò su quello il disegno della sua composizione, per avere i
contorni precisamente tracciati. Indi prese a mettere il colore, come
gli era dato dal bozzetto, che aveva preparato in anticipazione.

Il giorno in cui Spinello aveva incominciato a dipingere, mastro
Jacopo, sceso dal suo ponte verso l'ora di vespro, andò sul ponte
dello scolaro, a vedere come se la fosse cavata.

--Bene, perdiana!--gli disse, vedendo già dipinta tutta la figura del
Santo, e con un'aria di festa che meglio non si sarebbe potuto
desiderare.--Per questa volta son io che abbraccio te.--

Immaginate l'allegrezza di Spinello; io rinunzio a descriverla.

Mastro Jacopo ripigliò:

--Per far bene, è dunque mestieri d'essere innamorati? Ahimè, ragazzo
mio, a questo patto io non farò più nulla di buono, poichè la stagione
degli amori è passata.--

Quel medesimo giorno, escito di chiesa un'ora prima del solito, mastro
Jacopo passò da Luca Spinelli, per fargli un certo discorso che
ricolmò di contentezza il paterno cuore del vecchio fiorentino. Indi,
arrivato a casa, prese la sua Fiordalisa in disparte e senza tanti
preamboli le disse:

--Sai? Ho deliberato di maritarti.--

Fiordalisa si fece rossa, ma non tremò. Aveva indovinato, e accolse
l'annunzio del padre con un eloquente silenzio. Eloquente per noi, che
sappiamo tutto; non per Jacopo di Casentino, che non sapeva nulla
dell'animo di sua figlia.

--Orbene,--disse egli, dopo un istante di pausa,--così ricevi la mia
notizia?

--Padre mio.--balbettò Fiordalisa, chinando la fronte,--quello che voi
farete... sarà ben fatto.

--Sì, questo va bene;--ripigliò mastro Jacopo, che aveva voglia di
ridere;--ma se per avventura si trattasse di uno che non ti andasse ai
versi?--

Fiordalisa chinò la fronte un po' più che non avesse fatto prima, e si
pose a tormentare con le dita i lembi del suo grembiule.

--Veniamo alle corte, poichè tu stai zitta e non rispondi;--continuò
mastro Jacopo.--Che penseresti tu di Spinello Spinelli?--

Fiordalisa ebbe una scossa al cuore, ma una scossa piacevole oltre
ogni dire. Arrossì da capo, e, con un fil di voce, così rispose a suo
padre;

--Quello che voi farete....

--Sarà bene fatto; conosco già il ritornello;--rispose mastro Jacopo,
dando un buffetto sulla guancia di sua figlia.--E sia dunque ben
fatto, poichè questa è la tua opinione, com'era da un pezzo la mia. Su
il viso, bambina, e preparati a ricevere il tuo fidanzato. Mi par di
sentire il suo passo per le scale.--

Fiordalisa, che non aveva ancor avuto tempo a riprendere il suo color
naturale, aggiunse vermiglio a vermiglio, quando si vide dinanzi
Spinello. Questi non sapeva ancor nulla dei discorsi fatti tra mastro
Jacopo e suo padre, né dell'annunzio che il vecchio pittore aveva dato
alla figlia. Ma quella scena muta e il rossore di madonna gliene
dissero abbastanza per farlo rimanere sconcertato davanti a lei,
com'ella era turbata davanti a lui.

--E così? Non vi dite nulla!--gridò mastro Jacopo.--Perchè mi state lì
grulli e confusi?--Vedi un po', Fiordalisa; eccolo lì, l'uomo che non
ardisce mai. Ci scommetto che, con la sua paura di non venire a capo
di nulla, non ha neanche creduto di ricordarsi che ci voleva un
anello.

--Oh, questo poi!--esclamò Spinello toccato sul vivo.

E posta la mano al borsellino che gli pendeva dalla cintola, ne trasse
un cerchietto d'oro; indi si accostò alla fanciulla, e prese la sua
mano tremante, e le disse:

--Madonna, non so se sarà abbastanza piccolo per il vostro ditino
d'angiola. Ma, se voi non lo sgradite...--

Madonna non rispose nè sì, nè no. Si era lasciata prender la mano; si
lasciò mettere in dito l'anello.

Il giovine innamorato cadde in ginocchio e baciò la mano della sua
fidanzata. Indi, rialzatosi, le si accostò peritoso o guardandola con
occhi ardenti d'amore le bisbigliò all'orecchio:

--Son più felice di un re.--

Mastro Jacopo si era allontanato, per non farci la figura del terzo
incomodo. Le confidenti espansioni di due cuori innamorati non voglion
testimoni, neanche quando essi siano gli autori della vostra felicità.

Era già l'ora di cena, ma Jacopo di Casentino non parlava ancora di
mettersi a tavola, il vecchio pittore aspettava qualcheduno.--

Poco stante si udì un rumore di passi nella camera attigua, e Tuccio
di Credi apparve sulla soglia. Il povero Tuccio aveva per solito una
faccia rabbuiata, ma quel giorno aveva senz'altro una cera da
funerale.

--Maestro,--diss'egli,--è qui messer Luca Spinelli.

--Ah, bene, fallo entrare;--gridò mastro Jacopo.--Ragazzi miei, prima
di tornare a casa ero passato da Luca Spinelli, mio ottimo amico, e lo
avevo pregato di volere essere dei nostri. In questo giorno così
lieto, per voi, i due babbi debbono essere uniti, non vi pare?
Peccato,--soggiunse mentalmente, reprimendo un sospiro,--che non ci
siano le mamme!--

Tuccio di Credi, che precedeva di pochi passi il nuovo venuto, si tirò
da un lato per lasciarlo passare. Il vecchio fiorentino entrò, strinse
la mano che gli offriva il pittore, e andò a baciare in fronte la sua
futura nuora. Se aveste veduto in quel punto il povero Tuccio di
Credi!

--Messer Luca,--disse Jacopo di Casentino,--quello d'oggi non è un
invito in pompa magna. Si faranno quattro chiacchiere tra noi, mentre
i nostri ragazzi ne faranno mille tra loro, senza dar retta alle
nostre. Ma questi sponsali vogliono essere celebrati con una festa di
famiglia, che faremo domenica, se vi piace. Tuccio di Credi avvertirà
intanto i suoi compagni di bottega, i quali saranno padroni di
spargere la notizia ai quattro punti cardinali.--

Tuccio di Credi rispose con un cenno d'assentimento a quell'ultima
parte del discorso di mastro Jacopo.

--Mi congratulo con voi, maestro,--disse egli,--e mi congratulo con
gli sposi. Quando si faranno le nozze?

--Tra due mesi,--rispose mastro Jacopo,--quando il vostro compagno
avrà condotto a termine un'opera testè incominciata nel Duomo vecchio.
Desidero che impariate da ciò, ragazzi; desidero che impariate a
lavorare di buona voglia. Spinello Spinelli è l'ultimo venuto, ed
eccolo già molto innanzi a tutti voi. Non ve l'abbiate per male.

--Perchè dovremmo avercelo a male?--chiese Tuccio di Credi,
stringendosi nelle spalle con aria di profonda noncuranza.--Chi è da
più degli altri ha ragione di stimarsi fortunato. A noi basterà che
voi non ci togliate la vostra benevolenza.

--L'avete, andate là;--rispose mastro Jacopo, col suo piglio tra il
burbero e il faceto;--sebbene qualche volta mi facciate disperare, da
quei ragazzacci che siete. A domenica, dunque, e preparate le vostre
più belle canzoni. Si starà allegri.--

Tuccio di Credi salutò gli astanti e se ne andò verso l'uscio.

Quel giorno Tuccio di Credi era rimasto l'ultimo in bottega. E a lui
era toccato di ricevere Luca Spinelli, venuto a quell'ora insolita e
con aria misteriosa a cercare mastro Jacopo. A lui, proprio a lui, era
toccato di aver le primizie di quell'annunzio matrimoniale,
altrettanto doloroso quanto inaspettato.

Tuccio di Credi non sapeva che pensare; non sapeva che dire; aveva
perduta la testa. Poco mancò che dimenticasse perfino di chiudere la
bottega. Escito di là, andò macchinalmente per le vie d'Arezzo, fino
all'osteria del Greco, dove c'era la combibbia serale dei garzoni di
mastro Jacopo. Aveva una faccia così scura, che i suoi compagni
lasciarono tosto di ridere, per domandargli se si sentisse male.

--Vuoi un confortino? Un cordiale? Un lattovaro?--gli disse il
Chiacchera.--Prendi questo; è Montepulciano, e il Greco giura di non
averlo annacquato.--

Tuccio di Credi ricusò brevemente, col gesto, il bicchiere che gli
offriva il Chiacchiera.

--Sapete la novella?--disse egli.

--Quale novella?--chiese Cristofano Granacci.

--Se non la spifferi, come possiamo saperla?--soggiunse il
Chiacchiera.

Tuccio di Credi rimase un momento sopra di sè, come se volesse
raccogliere le proprie forze; indi, con voce sepolcrale, diede il
triste annunzio ai compagni:

--Spinello Spinelli, l'ultimo venuto a bottega, sposa la figlia di
mastro Jacopo.--

Un grido di meraviglia accolse le parole di Tuccio.

--Come lo sai?--domandò il Chiacchiera.

--Lo so da mastro Jacopo, che c'invita per domenica alla festa degli
sponsali e ci raccomanda di preparare le nostre più belle canzoni.

--Oh, le avrà!--disse il Chiacchiera.--Ti assicuro io che le avrà. Un
così bel matrimonio! Ci vorranno anche i giullari!

--Già,--osservò tranquillamente Parri della Quercia,--dovevamo
immaginarcelo.

--Immaginarcelo! E perchè?--disse Tuccio di Credi.

--Perchè era facile di scorgere che mastro Jacopo vedeva assai di buon
occhio Spinello Spinelli.

--Come scolaro, non nego;--ribattè Tuccio di Credi.--Mastro Jacopo ha
le sue debolezze, come le ha avute sant'Antonio. Ma neanche
sant'Antonio ha portato il suo protetto in paradiso. E non era da
immaginare che mastro Jacopo dovesse dare sua figlia a Spinello
Spinelli. Sapete che già gliel'avevano domandata parecchi: tra gli
altri il Buontalenti, che è un ricco sfondato.

--È vero;--disse Parri della Quercia;--ma tu ricorderai per qual
ragione mastro Jacopo non gliel'ha voluta dare. Egli ha sempre detto
che la sua Fiordalisa avrebbe sposato uno dell'arte sua. Spinello
Spinelli è un pittore; dunque....

--Adagio, Biagio!--entrò a dire il Chiacchiera.--Spinello Spinelli è
un mastro Imbratta, finora, un fattore come noi altri, e non può
neanche misurarsi con te, Parri della Quercia, che hai già fatto un
trittico a tempera, e n'hai avuto lode dagli intendenti.--

Parri della Quercia sorrise e ringraziò con un cenno del capo.

--Ma infine,--diss'egli di rimando,--se non ha anche dipinto a
tempera, non si può tuttavia bollarlo col titolo di mastro Imbratta.
Rammentate i suoi tocchi in penna.

--Ah sì, bella forza!--gridò il Chiacchiera.--Come se quella fosse
arte! Il pittore s'ha a vederlo sulla tavola.

--O sul muro;--soggiunse Parri.--Spinello Spinelli può dirsi oramai un
frescante. Mastro Jacopo gli ha dato a fare qualche cosa sulle sue
ultime composizioni.

--Sì, gli ha dato da calcare i suoi cartoni sul muro e da mettere il
colore sui fondi.

--Ahimè, dell'altro ancora, dell'altro;--entrò a dire Tuccio di Credi.

--Dell'altro? Che cosa?

--Gli ha dato da dipingere un'intera medaglia nel Duomo vecchio. Mi
capite? un'intera medaglia. E Spinello ha ideata lui la composizione,
ha fatto lui il cartone, tutto lui! Ma non potrebbe anche darsi che il
maestro avesse ritoccato il disegno, data l'intonazione del bozzetto e
via via?

--Non c'è dubbio;--esclamò il Chiacchiera.--E fors'anche avrà ideata
la composizione.

--È possibile,--ripigliò Tuccio di Credi.--Tutto si può
credere,-perchè il lavoro si fa in Duomo, sulle impalcature, dove il
maestro non ha più voluto vedere nessuno di noi.

--Gatta ci cova!--sentenziò Cristofano Granacci.--Intanto eccolo
pittore. E che lavoro è, quello che fa, il sornione?

--Un San Donato che ammazza il serpente con una benedizione;--rispose
Tuccio di Credi.

--Tu l'hai veduto?

--Io no, l'ho risaputo dallo scaccino della chiesa. Ma su questo non
ho a dirvi di più;--soggiunse Tuccio, già quasi pentito di aver
toccato quel tasto.

Ma gli altri non avevano bisogno di più estesi particolari, e non ci
badarono neanco. Erano su tutte le furie, e non ci vedevano lume.

--Ah! è troppo!--gridò Lippo del Calzaiolo.--Mastro Jacopo ci ha i
suoi beniamini. Se avesse adoperato egualmente con noi! Se ci avesse
consigliati, aiutati, messi avanti, saremmo pittori anche noi. Bella
forza! fare il lavoro d'uno scolaro e poi gabellarlo per pittore! E
non si fa celia; pittore frescante! Purchè i massari del Duomo gli
lascino passar la burletta!

--Che cosa ha da importarne ai massari?--disse Tuccio di Credi.--Se
l'opera piacerà, non andranno a cercare cinque piedi al montone.

--E noi lasagnoni! Noi buoni a nulla!--gridò Cristofano Granacci.--Ah,
caro e riverito mio mastro Jacopo di Casentino, dite che non son più
io, se non vi pianto lì su' due piedi.

--O su quanti vorresti piantarlo?--domandò il Chiacchiera, che non
rinunciava mai all'occasione di metter fuori una celia.

--Dico che me ne vado,--urlò il Granacci,--posso allogarmi a Firenze
dal Giottino, o a Siena dal Berna, che tutt'e due mi vogliono.

--Per che fare?

--Quello che tu non farai, Tuccio, se pure tu campassi
mill'anni:--ribattè il Granacci.

--Via, non ci guastiamo il sangue;--entrò a dire Lippo del
Calzaiolo.--Cristofano ha ragione, ed io seguirò il suo esempio; me ne
andrò a bottega da Agnolo Caddi, in Firenze. Tanto qui non s'impara
nulla.

--È vero, questo;--notò il Chiacchiera.--Mastro Jacopo ha l'aria di
tenerci per misericordia, come si tengono gl'infermi all'ospedale. Non
c'è che Spinello, in Arezzo! E a lui concede anche la mano di sua
figlia. Questa, poi, è grossa. Di che diamine s'è innamorato?

--Forse del ritratto che Spinello ha inteso di fare a madonna
Fiordalisa:--osservò Lippo del Calzaiolo.

--Almeno sapesse farli i ritratti!--esclamò il Granacci.--I quattro
segni d'un tocco in penna a me mi servono poco. In un'opera grande,
voglio vederlo.

--Lo vedrete nel San Donato;--disse Parri della Quercia.

--Ma se non è suo!--rispose il Granacci.--Lo vogliamo giudicare da
un'opera fatta da lui sotto i nostri occhi, non già in un affresco di
mastro Jacopo, gabellato per suo.

--Chi dice che non sia suo?--chiese timidamente Parri della Quercia.

--Non hai inteso? Lo dice Tuccio di Credi.

--Adagio, Cristofano; io non ho detto nulla,--si affrettò a rispondere
Tuccio di Credi.--Almeno non ho fatto che accennare un sospetto; anzi,
la possibilità d'un sospetto. Ma se mi domandate che cosa ne penso, vi
dirò che io non sospetto nulla, e credo che Spinelli darà tutta farina
del suo sacco. È un gran pittore che nasce di schianto; nasca a sua
posta, e facciamola finita. Parliamo d'altro; anzi, non parliamo di
nulla. Poc'anzi volevate darmi un confortino, un lattovaro, un
cordiale? Ho più fame che sete, e prenderei qualche cosa di sodo.--




IV.


Le avete mai viste, le pecore matte, che Dante Allighieri, esule
vagabondo, ha osservate tante volte e descritte nel poema sacro?
Escono dal chiuso, ad una, a due, a tre, si seguono alla cieca e ciò
che fa la prima fanno tutte le altre, anco se si tratti di andar sullo
scrimolo d'un precipizio, a risico di fiaccarsi il collo tutte quante.

I garzoni di mastro Jacopo non potevano mandar giù la fortuna del
nuovo venuto e meditavano una grande risoluzione. Escludo dal numero
Parri della Quercia, che non partecipava alle loro malinconie per
dolcezza di carattere, e Tuccio di Credi che aveva scagliato il sasso
e nascondeva la mano.

Parri della Quercia, come vi ho già detto, era onesto e riconosceva
l'ingegno di Spinello Spinelli. Ma egli era d'animo mite, e per
conseguenza un po' timido. Il suo giudizio lo portava a vedere di
primo acchito il bene ed il male; la sua indole lo faceva alieno da
ogni resistenza e desideroso di tirarsi sempre in disparte. Egli era
uno di quegli uomini che conoscono il mondo, o l'indovinano, e non
vogliono prender gatte a pelare. Amava l'arte sua e l'esercitava con
diligenza, che è come a dire senza ardore soverchio. Di certo, anche
se fosse vissuto cent'anni prima, non sarebbe stato lui che avrebbe
liberata la pittura dalle pastoie bisantine; ma si può ammettere che,
vivendo a lungo, sarebbe giunto a dipingere le più aggraziate Madonne
e i Cristi meno arcigni dello stampo antico. Nato nel secolo
decimoquarto e fatto discepolo dei novatori, andava sulla falsariga
dei Giotteschi, senza vedere più in là. E quale era l'artista, tale
era l'uomo. Buono e cauto, giudizioso e misurato in ogni cosa sua,
dissimulava con la dolcezza dei modi il vizio organico che doveva
condurlo pochi anni dopo alla tomba. E voi potete intendere da questo
come avvenisse che Parri della Quercia lasciasse correre le bizze dei
compagni, senza riscaldarsi il sangue a metterli in pace.

Quanto a Tuccio di Credi, avete veduto come egli, dopo aver data la
notizia e lasciato cadere il sospetto, si fosse affrettato a dire che
la cosa non poteva esser vera, e che Spinello Spinelli era un ingegno
nato di schianto, una nuova speranza dell'arte. Si era egli ricreduto,
parlando? O seguiva in ciò il filo d'un riposto disegno?

Comunque fosse, Lippo del Calzaiolo, Cristofano Granacci e Angiolino
Lorenzetti, detto il Chiacchiera, non avevano mestieri del suo aiuto
per dar di fuori; erano giunti a tal segno, che le sue esortazioni
pacifiche, se pure egli avesse creduto di farne, avrebbero sortito un
effetto contrario.

--La vedete così?--aveva detto in fine Tuccio di Credi.--Accomodatevi.
Io, poveretto, non ho come voi la fortuna di essere cercato altrove, e
debbo contentarmi di questo pane. Quando si ha bisogno, conviene
baciar basso.--

I tre arrabbiati avevano fatto consiglio. Non volevano saperne di
restare a bottega di mastro Jacopo; sentivano la voglia matta di
abbandonare una scuola in cui non s'imparava nulla, e si era costretti
a vedere la fortuna degli altri. Il Chiacchiera ebbe il mandato di
parlare per tutti.

La mattina vegnente, mastro Jacopo di Casentino, nell'escir di bottega
per recarsi al Duomo vecchio, disse ai giovani, che stavano lavorando:

--Avete sentito? Ci ho allegrezze in famiglia, e voi siete invitati
per domenica a mangiare il pan forte.--

Mastro Jacopo, a dirvela schietta, non ripeteva di buona voglia
l'invito. Gli sapeva male che non ne avessero parlato essi per i
primi, poichè Tuccio di Credi li aveva avvertiti d'ogni cosa;
parendogli giustamente che un maestro, un principale, avesse diritto a
quella piccola attenzione da parte loro.

I giovani stettero a sentirlo e si guardarono alla muta tra loro. Era
venuto per Angiolino Lorenzetti il momento di far onore al suo
soprannome di Chiacchiera. Egli, perciò, smise di macinar colori, la
sola occupazione in cui valesse qualche cosa, e così rispose al
maestro:

--Vedete che caso! Dobbiamo rinunziare a questo piacere.

--Come?--gridò mastro Jacopo.--Che cos'è questa novità?--

E guardava gli altri, frattanto, come se aspettasse da loro la
spiegazione di quelle parole del Chiacchiera. Ma gli altri stavano
zitti. Il Chiacchiera riprese il discorso per tutti.

--Ecco qua, maestro;--diss'egli;--si tratta d'un disegno che abbiamo
fatto in tre, cioè io, persona prima, Cristofano Granacci e Lippo del
Calzaiolo. Ce ne andiamo.

--Ve ne andate?--esclamò mastro Jacopo sgranando gli occhi.--E perchè,
se è lecito saperlo?

--Anzi, è obbligo nostro il dirvelo;--rispose il Chiacchiera con aria
di umiltà meravigliosa.--Quantunque, a dir le cose come stanno, tre
lasagnoni, come siamo noi, tra fannulloni....

--È vero, perdiana!--interruppe mastro Jacopo.--Per la prima volta in
tua vita, hai detto una verità.

--Eh, che volete, maestro? A furia di sentirle dire,
s'imparano;--replicò il Chiacchiera, con ironico accento.--Ma vedete
un po' che combinazione! C'è al mondo qualcheduno che non la pensa
come voi, Agnolo Gaddi, per esempio, che sta a Firenze, e sarebbe
disposto a prendere con sè Lippo del Calzaiolo; il Giottino, di
Firenze, e il Berna, di Siena, che farebbero a spartirsi il nostro
Cristofano Granacci.

--Ah!--esclamò il vecchio pittore inarcando le ciglia.--Quei tre
valentuomini hanno posto gli occhi su voi?--

Cristofano Granacci e Lippo del Calzaiuolo risposero asciuttamente con
un cenno del capo.

--Non me ne congratulo con loro;--ripigliò mastro Jacopo, poi ch'ebbe
veduta la mimica.--Sentiamo ora, poichè non mi hai detto
tutto,--soggiunse, volgendosi al Chiacchiera,--sentiamo ora chi sia
disposto a prender te, succiaminestre!

--Oh, non vi date pensiero per me! Io vado dove mi pare. Il primo che
capita, mi servirà. Che cosa si fa qui, alla fine? Si macina, si
mestica, s'incollano i cartoni, si fanno le imbasciate, si apre e si
chiude la bottega; insomma, un servizio da fanti, non una scuola da
pittori. Scusate, mastro Jacopo; io sarò un succiaminestre, un
mangiapane, tutto quel che vorrete, ma ho l'uso di chiamare ogni cosa
per il suo nome. Che cosa ci stiamo a far qui? In che modo ci avete
voi insegnati i principii dell'arte?--

Mastro Jacopo cascava dalle nuvole, a tanta audacia di discorso. Già
era sul punto di mandarli tutti e tre al diavolo, per la più spiccia;
ma le ultime parole, che racchiudevano un'accusa formale, lo toccarono
sul vivo.

--Per l'anima di...--gridò egli, dando di fuori senz'altro.--Che cos'è
quest'accusa che voi mi fate? Credete voi che l'arte s'insegni come il
leggere, scrivere e far di conto? Bietoloni! Anch'io sono stato a
scuola, e ricordo come insegnava Taddeo Gaddi, che a sua volta
ricordava come insegnasse Giotto di Bondone. Macinavo, mesticavo,
aprivo la bottega e la chiudevo, come voi; facevo le imbasciate del
maestro, maneggiavo la granata, secondo il bisogno, e molto più che
non maneggiassi i pennelli; insomma facevo ogni più umile ufficio come
voi. Con questa differenza, per altro; che voi vi lagnate, ed io non
mi lagnavo; che voi non intendete nulla di nulla, ed io cercavo di
profittare degli esempi che avevo sott'occhio. Guardando ciò che il
maestro faceva, io, bene o male, e mettete pure che fosse male, ho
imparato a fare anch'io qualche cosa. Indovinavo, dov'era facile
indovinare, e quello che non intendevo alle prime, chiedevo al
maestro. È dei maestri il rispondere, non già il sapere da bel
principio quel che si debba insegnare ai giovani. Avete capito,
lasagnoni? Si può egli instillare per via di precetti quello che la
natura dà all'uomo di cogliere dall'esempio quotidiano? Per precetti
s'insegna la grammatica, non l'arte del dipingere. Ora, quale è stato
il vostro costume, in bottega? Mi avete voi mai domandato come si
facesse la tal cosa, o perchè si facesse la tal altra? Avete voi posto
mai attenzione a ciò che facevo io? Non lo so; ma se bado all'esito,
mi pare di poter dire che non avete guardato mai, come non avete mai
chiesto. E allora, di che vi lagnate?--

Il Chiacchiera lasciò passare quella folata di parole, indi rispose:

--Oh, non a tutti i vostri scolari avete lasciato la cura d'imparare
da sè.

--Non a tutti! Lo credo, io,--replicò mastro Jacopo.--Tuccio di Credi,
per esempio, e Parri della Quercia, hanno saputo cavar profitto dei
loro occhi. Perciò mettete pure che io, vedendoli più attenti di voi,
li abbia consigliati qualche volta. Perchè non avete fatto come loro?
Vi avrei consigliati ugualmente.--

Il Chiacchiera rispose all'argomento con una crollatina di testa.

--Non si parla di Tuccio, nè di Parri;--diss'egli poscia.--Si parla di
Spinello Spinelli, del nuovo venuto, del vostro futuro genero. Quello
è il vostro beniamino, mastro Jacopo, o ch'io non so più che cosa sia
un beniamino. Vi capita in bottega con quattro scarabocchi, e voi
v'innamorate subito di lui, come Cimabue s'è innamorato di Giotto.

--Benissimo detto; come Cimabue!--ripigliò mastro Jacopo.--Infatti,
Spinello Spinelli meritava tutto quello che ho fatto per lui. Che ci
trovate a ridire, voi altri?

--Nel vostro capriccio, nulla. Della sua pasta può far gnocchi
ciascuno. Ma il modo!... Vedete? È il modo, che ci offende. Spinello
Spinelli viene da voi con un fascio di tocchi in penna. Bellissime
cose, degne di Giotto; lo ammetteremo anche noi, se può farvi piacere.
Ma come va che tre mesi dopo la sua venuta a bottega egli passa avanti
a Tuccio e a Parri, che sono con voi da tre anni? Come va che egli è
già così addentro nel maneggio dei colori, da mettere il pennello nei
fondi delle vostre composizioni?

--Nei fondi, l'hai detto tu, nei fondi!--gridò mastro Jacopo, con
accento di trionfo.

--Eh!--ripigliò il Chiacchiera, che oramai era in ballo e voleva
spendere il suo ultimo grosso; se non si trattasse che dei fondi!...
Ma voi avete fatto assai più, mastro Jacopo. A questo pittor
novellino, gli avete commesso un'opera di molta importanza, che era
stata allogata a voi dai massari del Duomo.

--Ah, tu sai anche questo?--borbottò il vecchio pittore, un tal po'
sconcertato.

--Sicuro, che lo so. Lo sa tutta Arezzo, lo sa.--

Mastro Jacopo si strinse nelle spalle.

--Ci ho gusto;--diss'egli,--Così non avrò più mestieri di dar la
notizia a nessuno. Spinello si farà onore; questo è l'essenziale.

--Col vostro aiuto, maestro, non si dubita punto dell'esito;--ribattè
gravemente il Chiacchiera.

--Che intenderesti di dire, manigoldo?

--Quello che voi avete già indovinato;--replicò l'impertinente
scolaro.--Alle corte, qui c'è un salto troppo grande, per gli stinchi
del vostro beniamino. Dai tocchi di penna all'affresco! E senza aver
fatto nel frattempo nulla che meriti di essere osservato! Neanche una
testa! Perchè noi--proseguì il Chiacchiera, riscaldandosi,--noi non
gliel'abbiamo mica veduto fare, uno studio dal naturale, dal vivo! Se
pure non vi piaccia di contare come uno studio dal vivo il profilo di
madonna Fiordalisa!...

--Ah, ho capito!--esclamò mastro Jacopo.--Perchè non dirlo prima, che
eravate gelosi? Ma io, vedete, mia figlia la dò a chi mi pare. E se
anche avessi voluto romperle il collo con uno di voi, non mi sarebbe
mica riescito di contentarvi tutti!

--No, maestro, disingannatevi, non siamo gelosi niente
affatto;--rispose il Chiacchiera.--Siamo pieni di rispetto per
madonna Fiordalisa, e fermi lì. Del profilo fatto dal vostro Spinello
se ne parla ora, per dirvi, anzi per tornarvi a dire, che non era un
ritratto. Spinello ha indovinata l'aria della figura e nient'altro. Se
dovesse fare un ritratto, si troverebbe molto impacciato.

--Sì, sì, vecchia storia;--borbottò mastro Jacopo;--ed io v'ho
risposto fin da principio che se Spinello vorrà fare un ritratto, lo
farà, in barba a tutti voi, scimuniti!

--Non quello di madonna Fiordalisa, per altro:--ribattè il
Chiacchiera, che trovava un gusto matto a contraddire il
maestro.--Parri della Quercia e Tuccio di Credi, che stanno cheti come
l'olio, vi hanno pur detto come e perchè un ritratto di madonna
Fiordalisa non sia dei più facili.

--Ho capito, ho capito; ritornate in campo coi vecchi dirizzoni. Ma
appunto per dar noia a voi altri, Spinello farà il ritratto della sua
fidanzata, e voi resterete con un palmo di naso.

--No, maestro, non resteremo:--rispose beffardo il Chiacchiera.--Vi ho
già detto che non si conta di rimanere in Arezzo. Quanto a me, se
avete comandi per Firenze....

--Vai dove ti pare, che il fistolo ti colga;--interruppe mastro
Jacopo.--E quando fai conto di levarci l'incomodo?

--Oggi stesso. Il tempo di prendere le mie bazzicature, e vi servo
sull'atto.

--Ottimamente;--brontolò il vecchio pittore.--E voi altri?--

La domanda era rivolta a Cristoforo Granacci e a Lippo del Calzaiolo.
Ambedue furono pronti a rispondere:

--Con lui, maestro; alla medesima ora.

--E andate,--tuonò il maestro, dando un'alzata di spalle,--andate con
lui, e col malanno che il ciel vi dia.--

Fu questo il commiato di mastro Jacopo di Casentino ai suoi degni
scolari, Angiolino Lorenzetti, detto il Chiacchiera, Lippo del
Calzaiolo e Cristofano Granacci.

Mastro Jacopo era in collera per la mancanza di rispetto di cui gli
avevano dato prova quei tre sciagurati; non già per la loro andata,
che lo liberava da tre fannulloni, veri impicci, non aiuti in bottega.
Perciò, vi sarà lecito di argomentare che egli dovesse consolarsi ben
presto. Era già più tranquillo nell'entrare in Duomo, dove lo
aspettava il suo pezzo d'intonaco, preparato di fresco. Ma egli non
volle andare al suo trespolo, senza aver veduto Spinello, che lavorava
già da due ore, intorno al suo Miracolo di san Donato. Bell'opera, in
verità; ci si vedeva un'aggiustatezza di parti, una vigoria di colore,
una sicurezza di fare, che teneva del maraviglioso.

--Che bricconi!--pensò mastro Jacopo, giunto sulla impalcatura del
ponte.--Ecco qua un bravo giovane, che è nato pittore com'io son nato
maschio. Si può egli far meglio di così? E gl'invidiosi a
perfidiare!... Andranno a raccontare a Siena e a Firenze, al diavolo
che li porti, che io gli ho dato il disegno; anzi peggio, che io gli
ho fatto da capo a fondo il lavoro! E ci sarà della gente che lo
crederà! Che cosa non crede, la gente? C'è anzi da maravigliare che i
bugiardi non siano più ricchi d'invenzioni, con tanta facilità che c'è
nel mondo di credere ogni cosa peggiore.--

Spinello udì il brontolio e si volse a guardare.

--Oh, maestro, siete voi? Che cosa dicevate?

--Nulla, nulla; borbottavo da me;--rispose mastro Jacopo.--Sai pure, è
il vizio dei vecchi!

--Credevo che trovaste a ridire nel mio pasticcio, e ne ero già tutto
contento.

--Contento! O perchè, se è lecito!

--Perchè voi non mi riprendete mai, mentre io sarei tanto felice di
avere i vostri consigli, le vostre ammonizioni.

--Consigli! Ammonizioni! Tu non hai mestieri nè di quelli, nè di
queste.

--Voi siete troppo buono, con me. Ma io, vedete, non son mica molto
contento de' fatti miei;--disse modestamente Spinello.--Ho una gran
paura che mi riesca un imbratto. Quando ho incominciato a mettere i
colori, mi pareva d'aver fatto una bella cosa; ma ora... ora mi sembra
una miseria. Quest'azione così povera!...

--O che volevi fare? La battaglia di Montaperti?--esclamò mastro
Jacopo, ridendo.--È un miracolo della fede, quello che tu dipingi. San
Donato ha un atteggiamento mosso, ma non da spiritato, che non ce ne
sarebbe bisogno. Egli non ha fede in sè stesso, ma nell'aiuto di Dio,
e questo lo rassicura, lo fa stare tranquillo. Il popolo, nel fondo
del quadro, cede al sentimento della paura, ed è naturale, poichè esso
non ha la fede così profonda come il Santo. Ma qui appunto è la
bellezza del contrasto. Non è forse il contrasto che tu hai voluto,
nell'ideare il tuo quadro?

--Sì, questo ho voluto, proprio questo;--rispose candidamente
Spinello.--Ma forse...il contrasto m'è venuto troppo forte, e ne
deriverà un po' di confusione nelle linee.

--Di che ti tormenti? Va bene così. La figura del Santo è nel primo
piano; la moltitudine è nel terzo, con una intonazione di colore meno
gagliarda. Ciò che cresce in movimento di linee si scema in effetto di
tinte. Non pensavi a questo, mettendoti a dipingere?

--Sì, ci ho pensato; pareva anche a me che dovesse farsi così, per
ottener la fusione delle parti.

--O allora?--gridò mastro Jacopo, appoggiando la frase con una delle
sue solite spallate. --Va pur là, ragazzo mio! Hai fatto bene, ti
dico, e crepino gli invidiosi.

--Invidiosi! perchè mi dite voi ciò? Posso io avere degli invidiosi!

--Se ne hai! Oh, se ne hai! Tre, per esempio, che schiattano di
rabbia, e se ne vanno dalla nostra bottega oggi stesso.--

Spinello, turbato dall'annunzio inatteso, lasciò di lavorare, per
volgersi tutto sul trèspolo, e chiedere con la muta eloquenza del
gesto i particolari di quella novità.

--Sicuro,--proseguì mastro Jacopo.--Ai tre manigoldi gli dava noia che
tu dipingessi a fresco nel Duomo. In che modo l'abbiano risaputo, lo
ignoro. Ma già, a tenerle nascoste, certe notizie! Insomma, ti
accusano di non esser buono a nulla, di esserti fatto fare il
bozzetto, i cartoni e tutto l'altro da me....Da me, capisci? da me,
che non ho avuto neanche da darti un consiglio. Bricconi! Ma gliel'ho
detto, io, il fatto loro. E se ne sono andati col malanno, e mi hanno
levato un gran peso dallo stomaco.

--Io spero che tra costoro non ci sarà Parri della Quercia;--balbettò
Spinello.--Egli, almeno, che ha un'aria così buona!...

--No, non c'è lui. E neanche Tuccio di Credi. Quello là non ha un
aspetto molto piacevole; ma gli è come le pere spine, brutte di fuori
e buone di dentro. I tre fannulloni insolenti, che mi levano
l'incomodo, sono il Chiacchiera, il Granacci e Lippo del Calzaiolo.
Vadano pure; io sarò lieto di non sentirne più nuova, nè canzone.--

Spinello Spinelli ripigliò il lavoro interrotto, ma più per necessità
di colorire il suo pezzo d'intonaco finchè gli era fresco, che per
voglia che n'avesse. Era mortificato, il povero giovane, vedendo che
per cagion sua il vecchio maestro perdeva tre scolari in un colpo.
Veramente, come discepoli, contavano poco; ma Jacopo dì Casentino li
adoperava utilmente come fattori, e la mancanza loro doveva farsi
sentire in bottega. Il beniamino di mastro Jacopo non si consolò di
quel danno che a mezzo, dopo aver fatto un esame di coscienza e
riconosciuto che egli non ci aveva ombra di colpa. Infatti, egli si
era sempre studiato di piacere a quei tre, come agli altri compagni di
lavoro; li aveva sempre trattati con urbanità, e più volte era giunto
perfino ad implorare la loro amicizia, con quella spontaneità di
gentilezza che è così naturale tra i giovani, ma che essi avevano
ricambiata con assai poca sollecitudine.

La bottega di mastro Jacopo era triste, quando Spinello rimise il
piede là dentro, ritornando dal Duomo. Ci mancavano le lingue meglio
snodate, le lingue dei tre fannulloni, che qualche volta facevano
perdere la pazienza al principale.

Spinello andò incontro a Parri della Quercia, che stava seduto davanti
al cavalletto, copiando una Madonnina del maestro.

--Se sapeste come sono dolente di ciò che è accaduto!--gli disse.--Ma
voi, almeno, penserete che io non ci ho colpa, non è vero?--

Parri lasciò un tratto il pennello e stese la mano al nuovo venuto;
indi brevemente rispose:

--Ci vuol pazienza!--

Non era molto, come vedete, e si poteva pensare che Parri della
Quercia mirasse a non guastarsi con nessuno. Ma quella stretta di mano
rimediava alla brevità del discorso.

Lasciato Parri al suo lavoro, Spinello andò oltre, per avvicinarsi a
Tuccio di Credi, che macinava colori in un angolo.

Tuccio non gli diede neanche il tempo di aprir bocca.

--Di che vi dato pensiero?--gli disse.--Son tre fattori che se ne
vanno; ma restiamo ancora in tre, per fare il lavoro di tutti. Non ci
sarà mica bisogno di chiudere bottega. Io, come vedete, ho già
incominciato a far la parte del Chiacchiera; anzi, fo meglio di lui,
perchè macino di più e chiacchiero meno. Credete a me, Spinello; in
questo mondo, non c'è nessuno di necessario.

--Avete ragione,--rispose Spinello;--anch'io, se permettete, vi
aiuterò. Anch'io adopero troppi colori, e non è giusto che voi
lavoriate per me. Ma in fondo in fondo,--soggiunse, tornando al primo
argomento,--mi sa male che quei poveri giovani abbiano lasciata la
bottega.

--Che! Non li compiangete troppo. Son certi arnesacci, capaci di stare
più allegri, senza di noi, che con noi. Del resto, troveranno da
allogarsi a senno loro. Una cosa dovete far voi; ridere, come essi
fanno di sicuro, in questo momento, all'osteria del Greco, bevendo il
bicchiere della staffa.

Spinello pensò che Tuccio di Credi era un buon diavolo, ad onta della
sua faccia scura. E ricordò il discorso di mastro Jacopo, che lo aveva
paragonato alle pere spine, brutte di fuori e buone di dentro.

--Quando si dice l'apparenza!--conchiuse egli tra sè.--Ecco un
giovanotto che a prima vista vi dà sui nervi: e poi egli è buono come
il pane.--




V.


"Tutta Arezzo lo sa" aveva detto il Chiacchiera. Ma tutta Arezzo non
lo sapeva ancora; bensì lo seppe, quando i tre fannulloni furono
usciti dalla bottega di mastro Jacopo ed ebbero divulgata la nuova ai
quattro punti cardinali. Spinello, il figlio di Luca Spinelli, quel
giovinotto senz'arte, era un gran pittore.... Cioè, intendiamoci, le
tre lingue tabane andavano dicendo tutt'altro: Spinello Spinelli, a
sentirle, era un pittoruccio da pochi soldi che scroccava la nomèa di
grande artista, facendosi fare il suo quadro da mastro Jacopo di
Casentino. Il vanitoso si vestiva delle penne del pavone; laonde era
giusto che fosse solennemente scorbacchiato. Ma accade di certi
vituperi, che facciano effetto contrario alle intenzioni dei
calunniatori. Rammentate che Spinello Spinelli era vissuto ignoto fino
a quel dì. Se fosse stato davvero un gran pittore, o gabellato per
tale, e qualcheduno fosse saltato fuori a dire che un altro dipingeva
ed egli ci metteva il suo nome, sicuramente la cosa sarebbe stata
creduta per intiero da molti, e per metà da tutti i restanti. Ma
nessuno sapeva ancora che Spinello Spinelli avesse mai posto il
pennello su d'un muro, e il richiamare così di schianto su lui
l'attenzione dell'universale non poteva fargli che bene.

--Già, si capisce, invidiosi!--diceva la gente, crollando il capo in
aria di compassione.--Il figliuolo di messer Luca è giovane, e ai suoi
compagni gli sa male che il pulcino rompa il guscio prima di loro. Ma
se Jacopo di Casentino gli ha dato a dipingere una delle medaglie che
erano stale allogate a lui, bisogna dire che ha stima del suo
discepolo, e come! Quanto al dipinger lui per lo scolaro, o come si
potrebbe intendere? Per danari, no certo, che gli Spinelli fanno già
molto ad accozzare il pranzo con la cena. Per un suo capriccio? La
grazia di quel capriccio, che vi fa rinunziare alla fama e ai
quattrini! E poi, che capriccio d'Egitto? Mastro Jacopo dà a Spinello
Spinelli la sua bella figliuola, un bottoncino di rosa, un occhio di
sole che non ha voluto dare neanche al Buontalenti, ad un ricco
sfondato. Sapete che lui s'era messo in capo di darla ad un pittore.
La darebbe ad un suo fattore, se questi non avesse ingegno e pratica
da stargli a paro? No, no, le son chiacchiere d'invidiosi; tenete per
fermo che questo Spinelluccio è uno sparviero nidiace, il quale ha già
messe le penne maestre e può far caccia da sè.--

Così, contro l'intenzione dei tre sparlatori, il giovinetto andò in
breve ora per le bocche di tutti, come un speranza dell'arte. Era
inoltre aretino di nascita, e questo argomento della patria, per una
volta tanto, faceva servizio. In quel risorgimento dell'arte italiana,
Arezzo non aveva ancora un pittore di vaglia che fosse nato fra le sue
mura. Quind'innanzi si avrebbe avuto lui, e si sarebbe detto: Spinello
Aretino. Che vi par poco?

Nacque in tutti una gran voglia, una voglia spasimata, una voglia
matta, di vedere il dipinto. Aspettando che fosse levata l'impalcatura
e scoperto l'affresco, s'incominciava a salutare Spinello per via,
anche senza essere in dimestichezza con lui.

--Buon dì, maestrino!--gli dicevano.--Come va l'opera vostra?

--Bene, grazie al cielo;--rispondeva il giovane facendosi tutto
rosso;--ancora otto o dieci giorni di lavoro, e si leverà il ponte. Ma
ho una gran paura di non rispondere alla vostra aspettazione. Se per
avventura mi fosse riescita una ciambella senza buco?--

E si rideva, alle scherzose parole, e gli si augurava che anche quella
riescisse, come tutte le ciambelle per bene.

Ma ciò che egli diceva per celia, temevano di buono i massari del
Duomo vecchio. Che diamine era saltato in mente a mastro Jacopo, di
commettere ad un suo fattore, novellino nell'arte, un'opera di quella
importanza, che era stata allogata a lui? Per caso, mastro Jacopo si
faceva beffe di loro? O si doveva argomentare da quel fatto che egli
per ingordigia di mestierante usasse accettar commissioni a furia, che
poi, non riuscendo a sbrigarle, doveva spartire tra i suoi pittorelli
di bottega? A buon conto non intendevano di passargli la gherminella,
e gliene muovevano rimprovero.

Ma Jacopo di Casentino aveva risposto da par suo alle osservazioni dei
massari.

--Vi ho promesso,--diceva,--di fare il meglio che sapessi. Ora, che
cosa direste, miei degni messeri, se io vi dessi per il vostro danaro
anche meglio di quello che so far io?

--Meglio!--esclamavano i massari!--Eh via.

--Sì meglio, vi ripeto. Non fo per chiasso. Spinello Spinelli è
giovane, come sapete. Ma un uomo ha forse mestieri d'invecchiare, per
farvi il suo capo d'opera? Quello è un ragazzo che vale assai, e
passerà non solo avanti a me, ma anche a molti altri.

--Si vede che ci avete fitto ii capo;--notarono facetamente i massari.

--Sì, messeri, ci ho fitto il capo. Ma credo anche di poter dire che
non fo ad ingannare nessuno. A quel giovinetto io gli concedo la mia
figliuola, con duemila fiorini del sole e tutto il resto che ella
potrà avere, quando io passerò a miglior vita, che sarà il più tardi
possibile. Volete voi, messeri onorandissimi, reputarvi in ciò più
avveduti di me?

--Mastro Jacopo, voi sapete il proverbio: ognun può far della sua
pasta gnocchi. Ma noi non ispendiamo del nostro; noi amministriamo il
denaro della comunità.

--È giusto. Ed io non vi chiederò nulla per l'opera di Spinello, se
essa non sarà tale da piacervi. S'intende,--aggiunse prontamente
mastro Jacopo, da quell'uomo prudente che egli era,--s'intende che in
tal caso faremo rastiare il muro, e voi pagherete a me il prezzo
pattuito, quando ci avrò dipinto io un'altra medaglia. Vi avverto, per
altro, che la mia non sarà punto migliore della sua.--

I massari non avevano trovato nulla a ridire in una proposta così
ragionevole. E la loro curiosità fu maggiormente stuzzicata dal tono
di sicurezza con cui egli parlava.

Dieci giorni dopo l'affresco era condotto a termine e lo si poteva
scoprire. Immaginate voi come si spargesse prontamente la notizia in
città e quanta gente accorresse a contemplare il dipinto. In Arezzo
non si parlava più d'altro.

Tolto nella notte il tavolato, nella mattina si erano levati i ponti;
indi la chiesa era stata aperta ai visitatori. Primi avevano potuto
vedere il dipinto i massari del Duomo vecchio, i canonici, il clero e
gli anziani del Comune. Dopo questi maggiorenti era entrato il popolo,
e tutti via via si erano inoltrati fin sotto l'arco della cappella,
per guardare la vòlta, dove quel valentuomo di san Donato faceva il
suo bravo miracolo con un crocione trinciato per aria.

Spinello non era presente, che non aveva ardito restar là, fatto segno
alle occhiaie curiose dei suoi cittadini, e fors'anche ai loro appunti
poco benevoli. Sapete già che egli non aveva più fede nella bontà
dell'opera sua, quando gli era toccato di spolverizzarla dai cartoni
sul muro. Figuratevi poi come dovesse parergli, quando la vide
compiuta. Ma in suo luogo era mastro Jacopo, fiero in arme come un
paladino al passaggio d'un ponte.

L'impressione fu buona, anzi ottima. Si maravigliavano che un giovane
avesse saputo far tanto. E più cresceva lo stupore, quando si veniva
ad osservare in ogni sua parte il dipinto. La composizione era
saviamente ideata e distribuita con raro giudizio. Nobilissimo
l'atteggiamento del Santo, e bene inteso. Naturalmente collegata, la
doppia azione della figura, con quella destra levata a benedire e
quella sinistra distesa indietro per accennare al suo popolo che
volesse star cheto e tranquillo. Il terrore, l'ansietà, la speranza,
erano efficacemente espressi in quei volti e in quelle mosse d'uomini
e donne che si accalcavano nel fondo del quadro. Solo alle prese col
serpente san Donato mostrava una serenità maravigliosa, giustificata
dai primi effetti della sua benedizione. La belva, così minacciosa
nell'orridezza delle forme e nel lampo degli occhi, da far rizzare i
bordoni ai riguardanti, si contorceva nello spasimo dell'agonia;
voleva ancora uccidere e si sentiva morire. Tutto ciò era reso
stupendamente, e composizione e disegno facevano onore all'artista.
Nessuno, degli intendenti, poteva dire che fosse opera di mastro
Jacopo. Si notava un fare che non era il suo, per solito più leccato e
più languido. E il colore? Bisognava vedere il colore, com'era pieno
di vaghezza e di sugo.

--Pieno, fin troppo;--aveva notato uno di quei critici che cercano il
pel nell'uovo e non disperano di trovarcelo.

--Il dipinto è ancora un po' fresco;--rispondeva un
vicino;--aspettate.

--Vuol dire che non abbiamo ancora la tinta vera;--ripigliava
quell'altro.--Come giudicarne allora? Seccando l'intonaco, non
potrebbe sbiadire il dipinto? Già nell'affresco, l'essenziale è di
conoscere il valore delle tinte. Come volete che lo conosca lui, a
vent'anni, o giù di lì?--

Ad onta di questa critica, che già voleva tirare in ballo il futuro,
l'opera di Spinello Spinelli fece un chiasso da non dirsi a parole. E
per tutto quel giorno e per altri alla fila ci fu grande concorso di
popolo nel Duomo vecchio d'Arezzo. Per giudizio universale, la città
poteva rallegrarsi; il suo pittore era nato.

Mastro Jacopo accoglieva con la sua aria burbera le congratulazioni
dei cittadini.

--Non parlate di me, che non c'entro;--rispondeva egli a coloro che
volevano riferire agli insegnamenti suoi il merito di un così valente
discepolo.--Io non gli ho insegnato quasi nulla. È venuto da me come
poteva andare da un altro, e da un altro sarebbe riescito lo stesso
che è riescito da me. L'unica differenza che io posso ammettere è
questa, che un altro si sarebbe ingelosito di lui, lo avrebbe tenuto
giù, molto giù, e non gli avrebbe certamente dato da dipingere una tra
le medaglie a lui allogate. Io, invece, ho fatto per Spinello Spinelli
quel che si fa, o che si dovrebbe fare, per un amico. Ma, per carità,
non mi parlate d'insegnamenti. Quel benedetto ragazzo aveva già la
scintilla in testa, l'ha portata nel mio focolare e s'è acceso il suo
fuoco da sè. Un'occhiata a ciò ch'io facevo, ecco tutto. Perchè,
infine, la parte manuale, la praticaccia dell'arte, bisogna
apprenderla da qualcheduno. Ma qui si ferma il merito mio. La verità è
una e va detta senza risparmio.

--Per altro,--gli rispondevano,--Spinello Spinelli si loda molto di
voi e ripete a tutti che vi è debitore d'ogni cosa.

--Spinello ha buon cuore e parla come il cuore gli detta. Ma scusate,
come sarebbe possibile che io nel giro di pochi mesi gli avessi
insegnato tanto? Volete che vi dica io com'è andata? Spinello aveva la
testa fatta in quel modo che l'hanno i grandi pittori, piena di verità
e di magnificenza. Aveva il sentimento del colore negli occhi;
l'argento vivo sulle dita; la febbre dell'arte nel sangue. Tale era
Giotto di Bondone, e tale sarebbe stato, anche se, scambio di Cimabue,
lo avesse veduto e preso con sè un pittoruccio da dozzina. Per
intender Giotto non occorreva, in fede mia, esser neanche una cima;
bastava non essere a dirittura un bue.--

Con questa celia mastro Jacopo si liberava dai piaggiatori ostinati.
Forse caricava un po' troppo la dose; ma era necessario far così, per
levar di mezzo la diceria del Chiacchiera e de' suoi degni colleghi,
secondo i quali mastro Jacopo doveva aver messo mano nel dipinto di
Spinello.

--Non lo diranno più, per bacco baccone,--borbottava egli tra i
denti,--non lo diranno più che il San Donato è farina del mio sacco.--

Ai massari del Duomo vecchio, poichè ebbero veduto il dipinto e udita
quella gara di lodi, mastro Jacopo parlò in questa guisa:

--Orbene, messeri onorandissimi, che vi pare? Dobbiamo noi rastiare
l'intonaco e dipingere un altro Miracolo di san Donato?

--Ah, mastro Jacopo, avevate ragione voi;--risposero quei
valentuomini.--Ecco uno scolaro che vi farà onore.

--Dite un genero, messeri, un genero che mi farà contento.

--Ah, sì, quello è il premio che gli date. Se è buono d'indole come è
valente di mano, fortunata la vostra figliuola, e fortunato voi,
mastro Jacopo.--

Il vecchio pittore tornava a casa con un cuore tanto fatto. Egli era
il più felice tra tutti i babbi d'Arezzo.

Spinello, dal canto suo, era oppresso dalla gioia. Quel vincitore
aveva l'aria d'un corbello. Scusate il paragone, ma io mi son sempre
figurato così i trionfatori romani, e più particolarmente il Petrarca,
quando lo portarono a prendere la corona d'alloro sulla vetta del
Campidoglio. Doveva essere abbattuto il povero messer Francesco;
doveva essere come sbalordito col pensiero della grandezza di Roma
nell'anima e l'immagine di madonna Laura negli occhi. L'amore e la
gloria, il fuoco vivo e la luce rutilante; ma altresì i due pesi più
grandi che possa portare un uomo, nel sentiero della vita, che è così
pieno di ciottoli insidiosi e di buche traditore.

Il maestro lo aveva abbracciato, con le lagrime agli occhi. Parri
della Quercia gli aveva stretta la mano dicendogli: "bene!" con tutte
le forze dell'anima. Tuccio di Credi, venuta la sua volta, gli aveva
soggiunto:

--Godete gli applausi; essi vi aiuteranno a sopportare le fischiate.
Perchè, badate, la vita è tutta così; oggi in alto, sul candeliere,
domani giù, e costretti a correre come cani bastonati.--

Tuccio di Credi era un filosofo pessimista. Ma il suo ragionamento non
dispiacque a Spinello. Si ascoltano bene anche i pessimisti, quando si
è nella pienezza della felicità. Il richiamo alle ingiustizie che
v'aspettano, fa l'effetto d'una dissonanza armonica, che produce una
bella varietà nel pezzo e vi fa solletico non ingrato all'orecchio.

Del resto, le noie erano un retaggio del futuro, e Spinello viveva
affondato nel presente, si beava negli occhi di Fiordalisa, anche lei
oppressa dalla gioia, piena d'un senso nuovo, che non aveva tempo a
studiare. Perchè, poi, ci avrebbe studiato su? Il mondo le pareva una
gran bella cosa, e questo era l'essenziale. L'aria aveva tesori
ineffabili, fragranze arcane, che le assopivano il sangue nelle vene.
Presentiva una beatitudine, un'estasi, come il corpo mollemente
adagiato in un morbido letto attende e pregusta un bel sogno. In
quella soave dormiveglia dei sensi, la bella fidanzata porgeva
orecchio al susurro dell'aura e al bisbiglio d'una voce sommessa. Quel
susurro le diceva: la vita è bella così; quel bisbiglio le diceva: io
t'amo.

Nell'amore ogni più piccola cosa è un mondo; e un mondo nuovo per
giunta. Ci si ferma piacevolmente intorno a certi nonnulla, che in
ogni altro momento della vita a mala pena si avvertono. Guardando un
viso amato, poi, quante meraviglie si scoprono! Che tesori, che
rapimenti, che ebbrezze! Quand'anche un occhio esercitato, e memore
delle sue esercitazioni, scoprisse un lieve difetto, verrebbe subito a
piacere il difetto, quasi bellezza nuova, quintessenza di perfezione,
suggello di verità, come il marchio nell'oro! Perchè, infatti, che
cosa si cerca più avidamente nel bello, se non la sua incarnazione? E
la nota del vero non è essa che distingue la donna dalla statua, la
realtà dal sogno?

Mettendo qualche necessario intervallo nelle sue contemplazioni,
Spinello andava ogni mattino al Duomo vecchio, dove erano ancora da
finire nuove opere di mastro Jacopo. Ma il vecchio pittore si
vergognava di occupare in troppo umili uffici il suo famoso scolaro.

--Senti,--gli disse una volta,--non è da te raccattarmi i pennelli e
mesticarmi i colori. Hai fatto testè un'opera bella e giustamente
lodata; ma non devi riposarti sugli allori. Ti consiglio di provarti
subito in un'altra, e di maniera diversa dalla prima. Il buon
arcadore, quando va alla battaglia, porta sempre con sè due corde di
rispetto. Non ti basti di essere un frescante. Il fresco è un bel modo
di dipingere, e forse il migliore tra tutti, poichè esso sfida i
secoli e si raccomanda alla memoria delle più tarde generazioni. Ma
anche una bella tavola dipinta a tempera può avere i suoi pregi agli
occhi dei posteri. Ed ora che mi rammento, i tuoi nemici ti accusavano
di non aver mai copiato dal vero. Fa un ritratto, e sia quello della
tua fidanzata. Sicuro; tra due mesi me la rubi; lasciami almeno il suo
ritratto in casa. Ti va?

--Padre mio!--gridò Spinello, confuso.--Se osassi!...

--Già, dovevo rammentarmelo, che tu non osi mai. Strano ragazzo! Ma se
son io che ti permetto! se son io che ti prego!

--Oh, non dicevo per questo;--rispose il giovane.--Non oso, perchè
temo di non venirne a capo. L'idea di ritrarre il volto di madonna
Fiordalisa m'è già passata più volte per la testa. Anzi, ve l'ho a
dire? Quando sono a casa mia, quando mi trovo solo nella mia
cameretta, cerco di consolarmi dell'assenza, segnando sulla carta il
profilo di madonna. E mi vien sempre male, sempre male, che è una
morte a pensarci.

--T'è pur venuto la prima volta; te ne ricordi?

--Sì, ma erano appena quattro segni. Davano l'aria di madonna
Fiordalisa, ma non erano il suo ritratto. A fare una cosa che meriti
questo nome, si vogliono giusti contorni; non basta accennare, bisogna
dipingere, e tutte le parti più minute debbono essere fedelmente rese.
Ora, vedete, padre mio, quando io mi metto all'opera, risoluto di non
contentarmi ad una vaga somiglianza, mi trovo subito impacciato, e mi
accade che.... con tutte le migliori intenzioni del mondo... con tutti
i più saldi propositi.

---Vuoi dire che ti casca l'asino? Ho capito;--disse mastro
Jacopo.--Ma questo è naturale. È di pochi il ricordare appuntino tutte
le fattezze d'una persona assente, per modo da poterle rendere con
precisione sulla carta. Questa è una bella memoria; ma non gli è da
questa qualità che si conosce il pittore. Val meglio, assai meglio,
saper copiare con diligenza quel che si vede, anzi che rammentare a un
dipresso quello che si è veduto una volta. Abbi l'originale
sott'occhio, e se non ti verrà fatto di esprimerlo con verità, allora
soltanto dovrai disperarti. Dunque, siamo intesi; comincierai da
domani.--

Spinello accettò l'invito del maestro con un misto di timore e di
desiderio. In fondo in fondo, non avrebbe fatto niente più di quel che
faceva ogni dì. Non era egli sempre con gli occhi addosso a madonna
Fiordalisa? Ma il guaio era questo, che egli ci sarebbe stato
quind'innanzi, non più per far tesoro di sensazioni dolcissime, bensì
per esprimere su d'una tavola ingrata ciò che i suoi occhi vedevano
così bene, e che le dita avrebbero reso così male.

--Madonna,--diss'egli a Fiordalisa quella medesima sera,--vostro padre
desidera che io mi provi a ritrarre le vostre sembianze. Lo consentite
voi?--

La fanciulla arrossì e chinò gli occhi a terra.

--Che idea!--diss'ella poscia, con aria di confusione, ma non senza un
po' di malizietta femminile.--Dovendo guardarmi tanto, finirete col
trovarmi brutta.

--Volete dire che non mi riescirà di farvi bellissima come
siete?--disse di rimando Spinello.--Pur troppo sarà così. La natura,
gelosa dell'opera sua, non vorrà mica lasciarsi agguagliare da me!--

La fanciulla sorrise; e Spinello vedendo schiudersi quelle umide
labbra coralline, perdette la testa senz'altro.

--Angiola!--le bisbigliò, avvicinandosi in atteggiamento
d'umiltà.--Perdonatemi in anticipazione. Si fa per contentare il
babbo.--

Così dicendo, osò (egli che non osava mai) prendere una bella mano,
che gli fu amorevolmente concessa, e l'accostò alle sue labbra.
Baciava la mano, non potendo baciare quello spiraglio del paradiso,
che v'ho accennato poc'anzi. Ma che cosa sarebbe stato di lui, se lo
avesse potuto? Solo a baciar quella mano, parve che una scintilla
elettrica lo avesse subitamente investito, perchè tremò tutto, dal
capo alle piante.

Il giorno dopo, per obbedire al comando di mastro Jacopo, egli era
seduto davanti al cavalletto, con la sua tavola preparata a ricevere i
contorni di quella stupenda figura. Confuso, trepidante, incominciò a
descrivere i primi segni col lapis rosso di Lamagna. Ma la prova non
parve contentarlo, poichè subito cancellò quello che aveva fatto, e
tornò a segnare, per cancellare da capo. Nove o dieci volte rifece la
stessa fatica, sudando freddo, come un povero principiante, a cui si
domandi alcun che di superiore alle sue forze. Quante volte fu
assalito dalla disperazione! Quante volte s'augurò di aver da fare,
non uno, ma dieci Miracoli di San Donato, e con l'obbligo per giunta
di farsi dir bravo da tutti gl'invidiosi dell'arte! Anzi, per dirvi
tutto, il povero Spinello si sarebbe adattato perfino ad essere nei
panni del santo, e a doverlo uccidere lui, il serpente, con una
benedizione, anche a risico di esser divorato dal mostro, se la
benedizione non gli fosse riescita efficace.

Immaginate le difficoltà che gli si paravano davanti agli occhi,
pensando che la bellezza, nella figura umana, non è un composto di
linee geometriche. Con la geometria fate una donna brutta, o mediocre;
ma una bella figura è un tal complesso di curve, di prominenze, di
sottosquadri, di delicatezze, che non si possono copiare con
esattezza, ma si debbono indovinare, esprimere di primo achito, nella
stessa fusione e con quella medesima felicità di trapassi in cui si è
incarnato il disegno della natura. E prima di tutto, il contorno della
testa di madonna Fiordalisa offriva allo sguardo una linea così soave,
un molleggiamento così indistinto tra il fondo e l'ovale, che era già
un'impresa sommamente difficile a coglierlo con sicurezza. Inoltre,
bisognava pensare che la tavola era una superficie piana, e il
contorno della figura desumeva le sue apparenze dal digradare delle
estremità, dallo sfuggir delle curve, dal lumeggiarsi delle parti in
rilievo. Spinello pensò che l'ottenere un contorno perfetto fosse
quistione di luci e d'ombre, che s'avessero a mettere col pennello più
tardi, e si rassegnò ad accettare una linea, che pure non finiva di
contentarlo.

Mentre egli cerca di cogliere una somiglianza che gli sfugge, vediamo
di dipingere anche noi il volto di madonna Fiordalisa. Ne verrà un
pasticcio, suppergiù, come quello del povero pittore innamorato; ma
non importa. Nelle cose difficili, l'aver tentato è già molto.

Il contorno della figura lo avete veduto. Immaginate ora la fronte,
breve, ma pura ne' suoi timidi rilievi, ombreggiata dai riccioli dei
capegli castagni, traenti al bruno, e fatti parer quasi neri dal
contrasto della carnagione bianca di latte, d'onde trasparivano
gentili velature di rosa e di azzurro. Gli occhi non erano grandi ma
conferiva loro un aspetto di nobile ampiezza sotto l'arco sottile e
spiccato delle sopracciglia, sotto cui si disegnavano leggermente
infossate le palpebre. Dalle ciglia lunghe e fitte aveva spicco il
bianco delle pupille, un bianco perlato e vivido, che faceva parer
nero un occhio castagno dai riflessi dorati. Le guancie tondeggiavano,
senza troppo rigoglio; il naso era fine e diritto; breve lo spazio tra
le nari elegantemente modellate e le labbra sottili, che non erano già
fatte a festoncini come le ha dipinte o scolpite un'arte altrettanto
falsa quanto leziosa, ma semplicemente rigirate in una delicatissima
curva; labbra di corallo tenero, facili al sorriso, che increspandole
un tratto, lasciava scorgere due file di perle rilucenti. Divina
bocca, nido d'amore, e veramente spiraglio di paradiso, come sembrava
a Spinello!

Tralascio molti altri particolari e vi dico alla svelta che madonna
Fiordalisa era una piccola perfezione. Un non so che di virgineo,
d'infantile, di fresco, traluceva, traspariva da quei soavissimi
contorni. Si pensava, vedendo lei, ad Eva appena nata, a Venere
uscente dalle spume del mare, e insieme a quei frutti saporiti, giunti
a maturità sul ramo natio, sui quali ama fermarsi la rugiada in
impercettibili gocce, e che (Dio mi perdoni, se ardisco dir tutto)
invitano il riguardante ai morsi, mentre gli fanno correre l'acquolina
alla bocca.

E Spinello doveva dipingere! Povero Spinello! Incomincio anch'io a
capire come andasse che non indovinava i contorni, e che al terzo
giorno di lavoro fosse ancora lì, impacciato con le tinte, che non gli
rendevano mai il tono giusto.

Il degno mastro Jacopo, togliendosi un'ora prima dell'usato dai suoi
lavori in Duomo, andava a vedere come procedesse il ritratto, e stava
là, dietro a Spinello, guardando la sua bella figliuola e le
pennellate che il suo prediletto discepolo veniva gettando nel quadro.

--Ah, padre mio!--diceva Spinello, sospirando.--Non va, pur troppo,
non va.

--Tira via, ragazzo incontentabile,--brontolava allora il maestro.--Lo
so anch'io che non va, se tu vuoi ad ogni costo la perfezione, che non
è di questo mondo. Vedi? Ti riesce tormentato, per la smania di notare
ogni nonnulla.

--O non bisogna render ragione di tutto?--chiedeva Spinello.--Non
debbo io far risaltare quell'impasto di rosa e di azzurro che si vede
nella carnagione, attraverso il bianco ed il giallo?

--Sicuro, ed anche l'arancione e il violetto, il gridellino e il
pavonazzo;--rispondeva mastro Jacopo, ghignando,--Ti consiglio di
metterceli tutti. Se non sarà il ritratto di Fiordalisa, sarà il
ritratto dell'arcobaleno.--

Persuaso dalla celia del maestro assai più che da ogni ragionato
parere, Spinello si faceva a cambiare, ma sempre in peggio. Il guaio
era questo, che i contorni della figura, quantunque rifatti una
dozzina di volte, non lo contentavano affatto; ed egli, mettendo giù i
colori, pensava sempre a quel difetto originale dell'opera. Ma dove
era, dove si nascondeva, il difetto? Impossibile rintracciarlo. Le
proporzioni delle parti c'erano tutte; ma la linea mancava, la linea
misteriosa che le collega e le fonde nel complesso armonico della
verità. Indovinate la linea, ecco il gran punto. Vedete quanti pittori
ci si son beccati il cervello, e non ci sono riesciti! Checchè ne
dicano i moderni, è a gran pezza più facile diventar coloristi, che
afferrare la linea. So bene che si mette in campo la fotografia, la
camera lucida e la camera oscura, aiuti potentissimi a trovare ciò che
l'occhio non può dar sempre all'artista. Ma forse che il sole non
inganna anche lui? La differenza di piano tra due parti, anco
vicinissime, della cosa veduta, produce un errore da nulla, il quale
s'ingrandisce a mano a mano nel giungere fino a voi, e vi guasta
l'euritmia del modello; di guisa che la linea, la misteriosa linea del
vero, non vi è data neanche dai fedeli riflessi delle camere oscure,
lucide, ottiche, nere, e via discorrendo.

Spinello, povero lui, si struggeva di rabbia e faceva ridere madonna
Fiordalisa. La bella fanciulla aveva capito istintivamente che quello
era l'unico modo di consolarlo. Sembra a tutta prima che debba essere
l'opposto. Ma voi sapete, lettori umanissimi, che c'è riso e riso.
Quello di una bella bocca, per esempio, fa l'effetto di un raggio di
sole agli occhi, combinato con un effluvio odoroso alle nari e con un
suono piacevole all'orecchio. Pensateci, e vedrete che ho ragione io,
cioè, no, che aveva ragione madonna Fiordalisa a sorridere.

La fanciulla, del resto, non si annoiava punto di stare in quel modo,
per cinque o sei ore al giorno, seduta davanti a Spinello. Da
principio arrossiva, vedendosi guardare con tanta attenzione, e via,
diciamo le cose come stanno, anche con tanto desiderio. Ma la
consuetudine aveva portati i suoi frutti. Non era necessario che
Spinello la guardasse a quel modo? Si sa, un ritratto non è un'impresa
da nulla; complesso di linee, impasto di colori, luci ed ombre
collocate al loro posto, non sono cose che si possano improvvisare; è
necessario tener conto di tutto, e perciò bisogna vedere, notare
diligentemente ogni cosa, spesso anche tornarci su cinque o sei volte.
E quando le sei non bastano, Dio buono, ci vuol pazienza, arrivare
anche alle dodici.

Inoltre, ci sono di certe minuzie, che vogliono esse sole un tempo
assai lungo, e perfino un'intiera seduta; specie se il pittore è
diligente e se ha la consuetudine di rimanere incantato davanti alla
bellezza.

Pure, con tanta diligenza, con tanto desiderio di far bene, non
riescire che ad un'opera mediocre, era doloroso, e il povero Spinello
ne aveva un profondo rammarico.

--Ci dev'essere una malìa!--diceva egli a mastro Jacopo, che si
sforzava di consolarlo.--O sulla tavola, o nei pennelli, o nella mia
mano, o in qualche altra parte di me, ci dev'esser una malia. Vedete,
maestro? Non mi vien fatto di cogliere certi piccoli rapporti tra
l'ovale del mento e il tondo della guancia. Infatti, qui è sbagliato
il contorno; non c'è che dire, è sbagliato. L'ho già rifatto una
ventina di volte. Quell'altra piegolina impercettibile tra il naso e
la guancia! Non l'ho mica saputa indovinare. E l'espressione
dell'occhio, Dio buono! E la bocca! Vedete come mi riesce stentata.

--Già, vorresti che parlasse;--notò mastro Jacopo.

--Almeno che ci avesse un po' di moto;--rispose Spinello.--Qui m'è
venuta dura, che è una pena a vederla.

--Ragazzo mio, te l'ho già detto, ti tormenti per trovar l'ottimo, e
il buono ti sfugge. Daresti tu ragione a Parri della Quercia?

--A Parri! Che c'entra Parri, nel mio ritratto?

--Sì,--ripigliò mastro Jacopo,--rammento una disputa curiosa che è
avvenuta tra i miei riveriti scolari. Parri della Quercia sosteneva
che il ritratto della mia figliuola era un'impresa difficile, anzi
addirittura impossibile, perchè Fiordalisa ci ha un'aria mutevole.
Intendeva dire che il suo viso muta aspetto ed espressione ad ogni
tratto. E Tuccio di Credi, quell'altro sapientone, soggiungeva che il
guaio era tutto nelle parti mobili del viso. Secondo lui, le parti
mobili del viso sono gli occhi e le labbra.

--Eh,--disse Spinello,--potrebbe aver ragione Tuccio di Credi.

--Un altro che perde la testa!--esclamò mastro Jacopo.--Forse non li
abbiamo tutti, quanti siamo, gli occhi e le labbra? E in che dovrebbe
esser difficile di indovinare le parti mobili di un volto, e facile di
indovinar quelle di un altro?

--Scusate, maestro, ma mi pare d'intenderlo;--replicò Spinello.--Per
cogliere la somiglianza d'un volto, ho il più delle volte un aiuto
nelle fattezze risentite, nelle prominenze più forti, nella barba,
secondo che è piantata, nelle basette che nascondono il labbro, e via
discorrendo. Un volto di donna è più difficile a ritrarre, e tanto più
difficile quanto più s'ingentiliscono i lineamenti, quanto più son
delicati i trapassi da una parte ad un'altra. E allora, se voi
aggiungete che gli occhi e le labbra, che sono tanta parte del viso,
mutano spesso di espressione....

--Vedete che sciocco son io!--gridò mastro Jacopo, interrompendo la
cicalata del suo discepolo.--Non credo alle alchimie di Tuccio e di
Parri, e le tiro in ballo, io, per appiccicare a Spinello la malattia
de' suoi compagni. I quali, in fede mia, non sanno nulla di nulla e
parlano a vanvera da quei gaglioffi che sono. Perchè, vedi, ragazzo
mio, l'arte si guasterà, quando verranno fuori i chiappanuvoli con le
loro dottrine. Ti dico che la è quistione di lavorare e non d'altro,
di lavorar sempre e di lasciare che i fannulloni cantino. Copiare e
immaginare, immaginare e copiare, ecco il punto. Una cosa non ti vien
fatta alla bella prima? Si prova da capo; verrà alla seconda volta, o
alla terza. Non verrà neanche alla dodicesima? Pazienza; sarà per la
ventiquattresima. Ritieni in mente questo, che manda a rotoli tutte le
dottrine dei fuggifatica; è sempre un errore di veduta, quello che
guasta il lavoro e ti fa perdere il tempo nelle rabberciature. Che ti
serve ritornare col pennello su questa parte e su quella, se il
disegno è squilibrato da bel principio? Rifai di sana pianta, e sarà
molto meglio.--

Quel giorno, Spinello deliberò di piantar lì il suo ritratto, per
cominciarne un altro.

V'ho a dire che gli riescì meglio del primo? Sarebbe una bugia. V'ho a
raccontare come non gli riescisse? Sarebbe una ripetizione. Di certo
quella non era ancora la volta buona. E Spinello, o sbagliando le
proporzioni, o non sapendo cogliere certi rapporti insensibili della
figura, seguitava a credere che ci fosse una malìa. Ad un certo punto,
riconoscendo che il secondo ritratto era peggiore del primo, gittò la
tavolozza e i pennelli, cedendo ad un impeto di sdegno improvviso.

--O Fiordalisa!--gridò.--La natura si ride di noi, poveri sciocchi, i
quali ci siamo fitti in capo di agguagliarla, o almeno almeno di
seguirla da presso, coi nostri miseri spedienti. O forse son io che
getto sull'arte la colpa della mia ignoranza! Forse ho presunto troppo
delle mie forze, ed ho commesso una profanazione, una vera
profanazione. Ma io non lo volevo, ve lo assicuro, è stato vostro
padre che mi ha stimolato; è stato lui che mi ha acceso questa febbre
nell'ossa.--

E piegatosi a mezzo sulla seggiola, appoggiò i gomiti alla spalliera,
nascondendo il volto tra le palme, piangeva di rabbia, il povero
Spinello Spinelli.

Madonna Fiordalisa si era alzata, e si appressava a lui con aria di
compassione. Spinello non la vide giungere, ma sentì una mano gentile
posarsi sulla sua testa e un morbido braccio sfiorargli le tempie.

--Chetatevi, messere;--diceva frattanto la divina creatura.--Abbiate
un po' di pazienza. Non è poi un male così grave, non poter fare un
ritratto.

--Non è grave!--esclamò egli, restando fermo nel suo atteggiamento,
per non avere a perdere il contatto di quella mano adorata.--Non è
grave, voi dite? Ma è il vostro ritratto, che non mi riesce di fare, è
il vostro ritratto, capite, Fiordalisa? Ora, se io non vedessi.... se
io non sentissi la vostra bellezza, intenderei il mal esito; ma in
questo caso soltanto. E poichè questo non è....

--Poichè questo non è,--riprese madonna Fiordalisa con accento
scherzevole,--bisogna studiarne un altro. Se fosse vero che la
sentiste troppo?--

Spinello si voltò tutto d'un pezzo.

--Ah, questo sì, potete giurarlo!--esclamò con accento di convinzione
profonda.

E la vide così bella, così splendida nel suo divino sorriso, che non
seppe resistere al desiderio di afferrar la sua mano, indi, fatto
ardito dalla sua stessa condiscendenza, di rigirarle un braccio
intorno alla cintura e di stringere al seno l'adorata fanciulla.

Istanti di dolcezza inenarrabile, di beatitudine celeste, voi rimanete
impressi nell'anima e vi si ricorda per tutta la vita. Quella che
avete stretta al seno in un impeto d'amore, che avete sentita
palpitare ed ardere sul vostro cuore, era la più bella tra le creature
di Dio; e per un momento, anche rapido come la folgore, ella è stata
vostra, così pienamente vostra, che nessun potere geloso, neppur
l'ombra d'un pensiero profano, ha potuto mettersi tra il vostro cuore
ed il suo. Che altro si può desiderare o sperare, che non sia da meno
di quel momento sublime? E come tutto il resto della vita, vanità
appagate, ambizioni soddisfatte, altezze superate, è nulla al paragone
di queste ineffabili possessioni dello spirito! Lo si sente quando la
vita sta per fuggire, o quando incomincia a prendervi l'enorme
fastidio di tutto ciò che vi parve desiderabile in essa.

Fiordalisa si era lentamente disciolta dai lacci dell'innamorato
Spinello.

--Lavorate, lo voglio;--diss'ella, non tanto per desiderio di
comandare a lui, quanto per rimettersi in contegno e riavere la
padronanza di sè medesima.

Spinello, obbediente, ripigliò tavolozza e pennelli.

--Oh, quando sarete mia!--mormorò, rimettendosi al cavalletto.

--Non lo sono io già, per la fede che v'ho data?--chiese ella con un
placido riso.

Le dolci promesse di un'estasi invocata passarono davanti agli occhi
di Spinello, che ne fu come abbagliato. E gli fu necessario un grande
sforzo di volontà per rimettersi in pace, poichè il brivido di quella
stretta gli correva ancora per le vene.

Ad aiutare la sua volontà giunse un rumore di passi che veniva dalle
scale. Poco stante, mastro Jacopo appariva sulla soglia.

Spinello non poteva vederlo, poichè volgeva le spalle all'uscio; ma lo
vide Fiordalisa e notò che aveva la cera stravolta.

--Che c'è?--chiese la fanciulla, turbata.

--Che c'è?--ripetè Spinello, turbato dal turbamento di lei.

--C'è... c'è... che siamo nati sotto una cattiva stella,--brontolò
mastro Jacopo abbandonandosi su d'una scranna, e gettando la berretta
in un angolo.

--In nome di Dio, parlate;--gridò Spinello, lasciando di
lavorare.--Che v'è egli intervenuto di grave?

--Di grave, sì, proprio di grave!--esclamò il vecchio pittore,
guardando la sua berretta, che era andata ruzzoloni per terra.--E quei
massari! Con che aria me l'hanno detto! Quasi che la colpa fosse mia,
e che io li avessi traditi! Se ne farà un altro, col malanno che il
ciel vi dia; se ne farà un altro, e tutti pari. Ma intanto... che
figuraccia! Che cosa non si dirà dei fatti nostri in Arezzo?

--Che?--disse allora Spinello, credendo di aver capito da quelle rotte
parole l'argomento delle ire di mastro Jacopo;--avrebbero per
avventura biasimato un vostro dipinto? Entrerebbero a disputar d'arte
con voi?

--Che biasimato? Che disputare con me? c'è ben altro;--gridò il
vecchio pittore.--Si tratta del Miracolo di san Donato, mi capisci?
Del Miracolo di san Donato.

--Ah, meno male!--esclamò Spinello.--E che cosa gli ha fatto, ai
massari del Duomo, il mio povero dipinto?

--Nulla; è andato a male.

--Che? come?--balbettò Spinello.--Andato a male?

--Sì, ragazzo mio; bisogna vederlo, che cos'è diventato. Un vero
guazzabuglio. Ma procediamo con ordine; altrimenti non capirai nulla.
Ero sul ponte, a lavorare, e si trovava con me Parri della Quercia,
per mesticarmi i colori. Ad un tratto, i massari mi vogliono giù. Che
bisogno hanno di me, da chiamarmi così in fretta? Per fortuna, non mi
ero ancor messo a dipingere. Scendo dal ponte, vo in sagrestia: e là,
con aria di mistero, mi mettono in mezzo, per dirmi: Messer Jacopo,
mala nuova abbiamo a darvi quest'oggi. Restai di sasso---A me? Non si
tratterà mica di persone che mi appartengano.--No, rassicuratevi,
nessuna disgrazia di persone; si tratta dell'affresco di Spinello, del
vostro scolaro prediletto.--Orbene? Che ci avete ancora con
quell'affresco? Non lo avete accettato? Non v'è egli piaciuto, come,
oso dire, è piaciuto a tutti, in Arezzo?--Sì, moltissimo, in verità;
ma che volete, messer Jacopo? Egli pare che il vostro discepolo, come
è forte in disegno, non sia altrettanto pratico dei colori.--Oh,
diamine! Che cos'è questa novità? Nell'uso dei colori l'ho istruito
io, come in tutto il rimanente. Che cosa ci avete coi colori di
Spinello Spinelli?--Eh, veniteci voi, a vederli, il maraviglioso
affresco non si riconosce più da quello di prima.--Andiamo, gridai,
turbato da quella notizia.

--E siete andato?--interruppe Spinello, tremante.--E avete veduto?

--Ragazzo mio, sono andato ed ho veduto, sicuramente. Per la croce di
Dio, non so come ciò sia avvenuto. Che colori hai tu adoperati, per
dipingere il Miracolo di san Donato?

--I vostri, padre mio. Non ne avevo altri. Siete voi, che me li avete
forniti. Erano quelli che si macinavano in bottega dal Chiacchiera.

--Ah! dovevo ricordarmene!--gridò mastro Jacopo, battendosi la
fronte.--Il Chiacchiera, che se n'è andato così d'improvviso!... Che
diavolo ci avrà messo dentro? Colori di miniere, certamente; e per
mandarti a male ogni cosa.

--Ma dite, parlate;--ripigliò Spinello.--Finora non mi avete spiegato
che cosa sia avvenuto dell'affresco.

--Immagina il peggio che potesse accadere. La figura del Santo non si
riconosce più. C'è il verde, l'azzurro, il nero, tutto quello che
vuoi, meno il color naturale delle carni. Il tuo povero Santo è più
lebbroso di Giobbe. E quei massari degnissimi! A sentirli, come ti
conciavano! E come, senza parere, davano la baia anche a me! Già, non
ero io il colpevole, per averti allogato il lavoro? Ecco un gran
danno, mi dicevano, con le beffe per giunta; e queste non solamente
per voi. Maledetti! Non ho voluto saperne più altro e li ho piantati
là, con tutto il loro veleno.--

Spinello era rimasto avvilito, quasi istupidito, come il povero
villano che veda il suo campo devastato dal turbine e perdute in
un'ora tutte le speranze d'un anno. La similitudine, se non m'inganno,
è classica; ma a questo che ci posso far io? È la sola che mi si
affacci alla mente. Vedete, del resto, che io non la tiro in lungo e
non ne cavo il costrutto che si potrebbe.

--Orbene, che c'è?--disse Fiordalisa, vedendo il suo fidanzato così
sbalordito.--Già vi perdete d'animo?

--Oh, madonna!--esclamò allora Spinello.--Come resistere ad un colpo
simile? Credevo poc'anzi ad una malìa. Ma ora mi avvedo che l'arte non
è fatta per me. Vedete? Qui, con la vostra immagine, non vengo a capo
di nulla. E laggiù mi va male d'un tratto ciò che da principio era
bene e poteva assicurar la mia fama. Che debbo io pensare? D'aver
fatto un bel sogno, e d'essermi svegliato nella più grande miseria.--

La bella figliuola di mastro Jacopo scosse la testa, in atto
d'incredulità.

--Alla fin fine,--diss'ella,--non è un sogno esser qui.--

Spinello alzò gli occhi a guardarla. Non era un sogno, davvero. La
bella creatura stava davanti a lui, lo consolava con le sue dolci
parole e col suo divino sorriso. Era, infine, la sua fidanzata; e di
questo non poteva egli dubitare, come della sua vocazione per l'arte.

--Animo, via!--soggiunse mastro Jacopo.--Vieni in Duomo, a vedere come
te l'hanno conciato, il tuo povero affresco. Sarà un altro dolore, lo
capisco: ma ti farà andare in collera. In certi casi la collera val
meglio dell'abbattimento. E se ti sentirai andare il sangue alla
testa, tanto meglio; ti verrà la voglia di cancellare il dipinto, per
rifarlo di pianta.

--Dite bene, maestro. Oh, voi non dubitate ancora di me, come ne
dubito io! Ma lo consentiranno i massari?

--Che vuoi che facciano di diverso?

--Ma... potrebbero volere che l'opera fosse fatta da voi. E forse,
anzi senza il forse, sarà meglio così.

--Tira via, sciocco! I massari non mi faranno il torto di credere che
io possa accettare una sostituzione di questa fatta. Poi, metteremo i
ponti e si vedrà. Basti a loro che io m'assuma la malleveria d'ogni
cosa. Se l'opera non riesce bella e salda come è nostro desiderio che
sia, lo giuro a san Luca, che è il patrono dei pittori, saremo in due
a smetter l'arte. Per altro,--soggiunse mastro Jacopo, ridendo,--non
ci sarà questo pericolo. Ricordati che non c'è più il Chiacchiera a
macinare i colori.

--Oh, non dubitate, padre mio;--rispose prontamente Spinello,--Nessuno
metterà mano nelle tinte. Macinerò io, mesticherò io, farò ogni cosa
da per me.--

Così dicendo, Spinello si alzò, per seguire il maestro. Era un triste
viaggio, quello che stava per fare; ma lo avevano confortato le soavi
parole di Fiordalisa. E l'arte, per gli occhi di madonna, tornava
ancora a sorridergli.




VI.


Il guasto intervenuto nell'affresco di Spinello Spinelli aveva fatto
chiasso in città; ne aveva fatto forse più della notizia, corsa un
mese addietro, che ad Arezzo fossa toccata la fortuna di possedere
tra' suoi cittadini un pittore.

Molta gente accorreva nel Duomo vecchio, per vedere il povero San
Donato, il patrono della città, diventato di tutti i colori. E gli
amici di Spinello si dolevano a quella vista, e i nemici si
rallegravano. Aveva già dei nemici, Spinello, oltre i suoi compagni di
bottega? Sicuro; e perchè no? Tra i nemici di un uomo che lavora, ci
potete mettere tutti i fannulloni d'ogni risma, il maggior numero,
insomma; gente leggiera, che vi loda quando non può farne di meno, ma
che, venuto il momento buono, è sempre felice di potervi assestare uno
scappellotto.

Con tanta folla, e di un umore così benevolo come potete immaginarvi,
le chiacchiere erano molte, davanti all'affresco del pittor novellino.
Quando giunse in Duomo il vecchio Jacopo, seguito da Spinello Spinelli
e da Tuccio di Credi, che aveva voluto andarvi anche lui, per
confortare l'amico, si faceva capannello intorno ad un pezzo grosso,
che era (fategli di berretta!) messer Lapo Buontalenti. I quattrini
non gli mancavano, a quel giudice di cose d'arte; n'aveva tanti, che
potevano tenergli luogo di giudizio.

--Buon dì, mastro Jacopo!--disse il cavaliere, accompagnando la frase
con un risolino sarcastico.--Che siete forse venuto per vedere il
lebbroso?

--Maisì, messere;--rispose il vecchio pittore;--un lebbroso che sarà
risanato.

--Ah, bene!--ripigliò il Buontalenti.--Sarete dunque voi, che farete
il miracolo?

--Non lo farò io, messere; lo farà il mio discepolo Spinello, a cui è
toccato questo tiro mancino.

--E riderà bene chi riderà l'ultimo;--soggiunse Spinello, passando
attraverso il crocchio, e dando un'occhiata severa al beffardo suo
giudice.

--Il Buontalenti non poteva lasciar passar nè l'occhiata nè la
risposta. Egli rideva, appunto, e scherzava sulla disgrazia del
pittore. La bottata era dunque per lui.

--Dite per me, giovinotto?--chiese egli con piglio
altezzoso.--Sappiate che io non rido di voi. Solamente compiango chi
si crede da più degli altri e non sa far buon viso ad una giusta
osservazione.

--Compiangete dunque voi stesso, messere,--gli rispose Spinello,--che
venite ad impancarvi tra i giudici, senza sapere da che parte si tenga
un pennello.--

E passò oltre, appoggiando la risposta con una alzata di spalle.

--Sentite questo ragazzaccio?--gridò il Buontalenti.--Se non fossimo
nella casa di Dio, mi verrebbe voglia di allungargli una pedata.

--Lasciate correre, messere;--gli disse un savio.--Questi pittorelli
sono otri pieni di vento, e s'hanno a sgonfiare da sè.

--Sapessero almeno il valor delle tinte!--soggiunse un altro.--E
invece mettono negli affreschi i colori di miniere, scambio dei
vegetali.

--Chi l'ha detto?

--Eh, l'han detto parecchi; tra gli altri messer Bindo del Rosso, che
è dei massari. Anch'io, del resto, che ho avuto pratica con pittori,
posso assicurarvi che la cosa non è andata altrimenti. Lavorare in
fresco, che si canzona? Non è mica come sorbire un uovo;--continuò
l'oratore, vedendo di avere tirato a sè l'uditorio.--Certo, è il modo
più maestrevole e bello di dipingere, perchè consiste nel fare in un
giorno solo ciò che con gli altri modi si può in molti giorni
ritoccare sopra il lavorato. Ma, per fare un'opera che valga, bisogna
lavorare sulla calce che sia fresca, nè lasciata mai sino a che sia
finito quel tanto che per quel giorno si vuole lavorare. Mi spiego?
Infatti, quando il pittore indugia a dipingere quel tratto di muro che
è stato preparato per ricevere i colori, la calce fa subito una certa
crosterella, pel caldo o pel freddo, pel vento o pel ghiaccio, e vi
ammuffa e macchia tutto il lavoro. E per questo vuol essere
continuamente bagnato il muro che si dipinge; i colori che vi si
adoperano, tutti di terre, non di miniere; e il bianco, poi, di
travertino cotto. Da ultimo, quando si è dipinto, bisogna guardarsi di
non avere a ritoccare il quadro con colori che abbiano colla di
carnicci, o rosso d'uovo, o gomma, o draganti, come fanno certi
guastamestieri; perchè, oltre che il muro non fa il suo corso di
mostrar la chiarezza, vengono i colori appannati da quel ritoccar di
sopra, e in poco spazio di tempo anneriscono. Ora, io dico, questo
giovinotto che s'è buttato a dipingere in fresco, non le sapeva,
queste cose? E se non le sapeva, come pare da quest'opera sua andata a
male, perchè allogare a lui una medaglia di tanta importanza?

--Già,--disse il Buontalenti,--perchè allogare a lui la medaglia? Che
ne pensate voi, Tuccio?--

La domanda era rivolta a Tuccio di Credi, che poco prima si era
avvicinato al crocchio.

--Io, messere,--rispose Tuccio con aria discreta,--penso che il povero
Spinello sia stato tradito da qualche compagno d'arte, invidioso della
sua fama. Perchè, in verità, supporlo ignaro dell'effetto dei colori,
non si può. Tanto varrebbe il dire che egli non conosce i primi
elementi della pittura.

Indi, accostatosi con bel garbo a messer Lapo Buontalenti, come se
domandasse licenza di passar oltre, gli fece un inchino e gli gittò
un'occhiata d'intelligenza.

--Fermo qua,--disse il Buontalenti, prendendolo famigliarmente per un
braccio, ma accompagnandolo un tratto più oltre, anzi che
trattenerlo.--Voi dunque pensate?... Voi sospettate che....--

Indi, a bassa voce, mutato argomento, proseguì:

--Che ci avete di nuovo?

--Ho da parlarvi, messere;--rispose Tuccio di Credi.--Il padre è più
incocciato che mai a volergli dare la ragazza. Bisognerà pensarne
un'altra.

--Bene, venite stasera da me; saremo soli;--disse il Buontalenti.

Tuccio di Credi si allontanò, per andare a raggiungere Spinello e
messer Jacopo, che stavano in sagrestia a leticare coi massari del
Duomo. Dico che stavano, ma potrei restringermi al singolare, poichè
Spinello taceva, e mastro Jacopo sosteneva tutto il carico della
conversazione con quei bisbetici messeri.

Mastro Jacopo, quando lasciava di brontolare e si disponeva a
chiacchierare, avrebbe potuto dar dieci punti dei sedici a Marco
Tullio Cicerone. S'intende a Marco Tullio, quando parlava _pro domo
sua_. Infatti, il vecchio pittore, trattando la causa di Spinello,
parlava anche un pochettino per sè. Non era lui che aveva allogato il
lavoro al discepolo? E quel discepolo non doveva sposare la sua bella
figliuola? Immaginate dunque gli sforzi d'eloquenza che fece coi
massari del Duomo. Spinello aveva fatto un'opera maravigliosa, e su
questo non ci cascava dubbio, lo avevano riconosciuto tutti, massari e
non massari. Quanto alle tinte e alla buona preparazione della calce,
non c'era stato niente di diverso, pel Miracolo di san Donato, da ciò
che aveva fatto lui, mastro Jacopo, per gli altri affreschi del Duomo.
Il tradimento era certo, e veniva da qualcheduno dell'arte. Anzi,
mastro Jacopo e Spinello Spinelli sapevano già dove metter le mani.
Del resto, non temessero i massari; a quel guaio si sarebbe rimediato
prontamente. Se a loro premeva il decoro della chiesa, a Spinello
Spinelli premeva altrettanto, se non più, la sua fama. Ai tristi non
sarebbe rimasto altro guadagno che di far lavorare doppiamente quel
povero e valoroso giovinotto. Ma questo non importava, e nello spazio
d'un mese si sarebbe veduto un Miracolo di san Donato bello come il
primo e condotto secondo ogni regola d'arte. Non era solamente
impegnato in quell'opera l'amor proprio di Spinello, ma altresì
l'onore del maestro e di tutta la sua scuola, a cui non era mai
accaduta una cosa simile.

--Del resto,--soggiungeva mastro Jacopo,--questa volta ci sarò io a
vegliare, e non entreranno in Duomo altri colori che quelli macinati e
mesticati da noi.--

I massari chinarono la testa, in atto di assentimento, e diedero
licenza a mastro Jacopo di fare in tutto come gli piacesse meglio, ma
a sue spese e sotto la sua malleveria.

--Non temete, messeri onorandissimi;--rispose il vecchio pittore,
abbastanza contento di averla aggiustata in quel modo.--Ho giurato di
smettere i pennelli, se la cosa non va come è giusto che vada.--

La mattina seguente, chiuso il Duomo ai curiosi importuni, i manovali
si fecero tosto a rizzare una nuova impalcatura, nella cappella di San
Donato. Frattanto, Spinello Spinelli, andando dalla bottega al Duomo,
ci aveva da rispondere a tutti coloro che lo fermavano per via, e da
mandar giù le condoglianze più o meno sincere, che tornano così
moleste ad un galantuomo, quando ci ha l'anima oppressa.

Io non riesco a capire come mai non ci pensino, le persone
cerimoniose, all'effetto di certi loro discorsi. Basterebbe il dire:
"v'e andata male, abbiate pazienza, rifate e prendete la vostra
rivincita". Ma no, bisogna proprio che vi s'accostino con aria
malinconica, che vi stringano la mano con tutt'e due le loro, che
levino gli occhi al cielo in atto di fare a Dio l'offerta dei vostri
dolori, e che vi facciano una stampita da non finirla più. E voi
escite dalle loro consolazioni più disanimati che mai. Peggio, poi,
quando le condoglianze vi sanno di bugiardo, perchè allora ci avete
anche la nausea, dovendo dar fuori il dolce e tenervi in corpo
l'amaro.

Spinello Spinelli, come potete argomentare da questo discorso che io
vi ho fatto secondo la sua intenzione, cansava molto volentieri ogni
incontro. Nello stato d'animo in cui egli si trovava, ogni conoscente
era un seccatore. Da bottega al Duomo; dal Duomo a bottega; era questo
il suo itinerario quotidiano, compiuto con una rapidità da meritargli
il soprannome di Saetta.

La nuova impalcatura era stata rizzata dai manovali; e Spinello, come
potè avvicinarsi al suo povero affresco, non durò fatica a riconoscere
che, scambio di terre, gli avevano macinato colori minerali, con
qualche altra diavoleria per giunta alla derrata. Ma che cosa fosse
veramente questa diavoleria, nè egli, nè mastro Jacopo riuscivano ad
intendere, mancando a quei tempi il benefico trovato delle analisi
chimiche. Ambedue maledissero un'altra volta il Chiacchiera e lo
votarono agli spiriti maligni, come usavano fare gli antichi Ebrei col
capro emissario della tribù; indi Spinello si diede a rifare i suoi
cartoni, in quella che i manovali scalcinavano la vòlta.

Disgraziato affresco! Egli sparì dopo aver brillato una settimana agli
occhi della moltitudine stupefatta; sparì, come sparisce una donna
leggiadra, dopo avere innamorato mezzo mondo della sua fiorente
bellezza. Ma quantunque la fine dell'affresco di Spinello Spinelli
fosse stata precoce, non gli era toccata la sorte delle belle donne
che muoiono giovani, poichè s'era da un giorno all'altro imbruttito e
ne avevano detto corna quegli stessi che più lo avevano lodato.
Instabilità degli umani giudizi!

Animato da un po' di rabbia, ma più dai conforti della bella
Fiordalisa, Spinello si pose all'opera e lavorò per quattro. Già si
capisce che il ritratto di madonna fu per allora rimesso a dormire.
Infelice ritratto! Non era venuto bene da principio, e meritava la sua
sorte.

Mastro Jacopo non si dolse di ciò. Egli, che pure aveva spese tante
parole a consigliare quell'opera, fu il primo a dire che era meglio
lasciarla da banda. Un po' di intervallo ci voleva, perchè l'animo si
mettesse in pace e l'occhio del pittore si liberasse da certi
dirizzoni; più tardi si sarebbe veduto. Ma Spinello non contava di
ripigliare il lavoro, nè più tardi, nè mai. Sapete già che nella
impossibilità di ritrarre i lineamenti di Fiordalisa egli ci vedeva
l'effetto di una malia. Perchè avrebbe richiamato lo spirito maligno,
che si beffava così crudelmente di lui? Meglio era non pensarci
affatto.

Del resto, il Miracolo di san Donato richiedeva tutto il suo tempo.
Spinello era pieno d'ardore e passava sul trespolo le intiere
giornate, lavorando alla brava. I pennelli, nelle sue mani, andavano e
venivano come la spola in mano alla tessitrice. Un mese dopo la scena
coi massari del Duomo, che v'ho raccontata più su, il nuovo affresco
era condotto a termine. Tutto era stato osservato con diligenza, e
direi quasi passato allo staccio, la calce, la rena, i colori. Mastro
Jacopo vegliava come uno degli Otto; nessuno, oltre lui e Spinello,
aveva potuto metter piede sul ponte. Anzi, il vecchio pittore aveva
spinto il rigore a tal segno, che lo scaccino del Duomo dovesse
vietare a lui stesso a lui, mastro Jacopo, di salire sull'impalcatura,
se non fosse stato presente Spinello.

--Non si sa mai!--diceva egli ridendo.--Potrei essere sonnambulo,
venire in Duomo senza avvedermene e tentare di salire quassù; per fare
qualche tiro mancino, sotto la guida del diavolo.--

I massari degnissimi videro il nuovo dipinto e si congratularono col
giovine artista per la sua diligenza, come per la sua valentia. Il
popolo fu chiamato e ammirò. Spinello, rifacendo, aveva mutato alcune
cose, pensando che potesse vantaggiarsene il quadro. E certamente la
composizione, restando suppergiù quella di prima, ci aveva guadagnato
di scioltezza; il disegno appariva più corretto, e tutte le parti
assai meglio dipinte. Chi ha dovuto rifare un lavoro, anche lodato
nella sua prima forma, intenderà queste cose. Ma non mancarono neanche
i sofistici, per sentenziare che il primo affresco era meglio. E
forse, anche senza saperlo, dicevano il vero, poichè la freschezza di
una prima impressione non si ripete più, anche facendo un più corretto
lavoro.

Lodato, levato a cielo, messo a confronto con sè medesimo, Spinello
non era tuttavia con l'animo all'altezza della sua riputazione. Il
poveretto sfioriva, avvizziva, intristiva ad occhi veggenti.

--Ragazzo mio,--gli disse un giorno Mastro Jacopo,--tu non sei
contento dei fatti tuoi; tu aspetti qualche cosa, come a dire la manna
del cielo.

--Che dite, maestro!--esclamò il giovinetto, confuso.

--Negalo, se ti basta l'animo. Non sarà la manna, lo capisco, ma
qualche cosa di simile. Per esempio,--soggiunse maliziosamente il
vecchio pittore,--una parolina di quel certo babbo. Ed io, scimunito,
m'ero messo in testa che ti bastasse la gloria!

--Oh, padre mio,--rispose Spinello, indovinando finalmente dove
volesse andare a battere mastro Jacopo,--la gloria è una bella cosa,
soltanto perchè è donna. Ma una donna vera, sia detto con vostra
licenza, vale assai più della gloria, che è donna solamente per
grammatica.

--Eh! non dirai mica sempre così;--ripigliò mastro Jacopo.--Come tu mi
vedi, io amo adesso la gloria, che è donna per burla. È vero che
anch'io non sono più l'uomo di prima. Tuttavia, quando aveva i tuoi
anni, amavo una cosa e l'altra, anzi una cosa per l'altra. Ma infine,
siamo giusti, non è questo ciò che tu fai? Desideri di risplendere,
d'innalzarti, per raggiungere un fiore.

--Ed un fiore che voi tenete tropp'alto con la mano;--disse Spinello,
ridendo.

--Sì, eh, manigoldo! Troppo alto? Stiamo a vedere che dovrei
buttartelo tra' piedi! Ma basti di ciò;--soggiunse mastro Jacopo,
vedendo che il povero innamorato si faceva serio da capo;--che diresti
tu del giorno di San Luca? Sai pure. San Luca è il patrono dei
pittori.

--Dico,--rispose il giovane, chinando la testa,--che san Luca verrà
fra trentadue giorni.

--Ti paion troppi? Contentati! Anche Fiordalisa ci ha i suoi
apparecchi da fare.--

Spinello Spinelli si buttò nelle braccia di mastro Jacopo.

--Animo, via!--brontolò il vecchio pittore.--Non piangere, io credo di
aver disimparata quest'arte, e potrei esser geloso di te.

Così dicendo, mastro Jacopo asciugava due luccioloni, che erano venuti
proprio allora a farlo bugiardo.

Quel giorno, Spinello Spinelli entrò raggiante in bottega. E Parri
della Quercia e Tuccio di Credi, opachi e taciturni lavoratori,
levarono gli occhi stupiti a contemplare quel giovine cherubino, che
non capiva più nella pelle.

--Che c'è?--disse Parri della Quercia.--Vi fiammeggiano gli occhi.

--Lo credo io!--rispose Spinello.--C'è... c'è, amici miei, una grande
novità. Ve la dò a indovinare alle cento.

--Dio buono!--esclamò Parri della Quercia,--si tratta di una cosa che
vi fa molto piacere.

--Benissimo! Avete indovinato alla prima.

--Eh, che sia una cosa allegra lo si vede dalla vostra cera. Che cosa
sia, poi, aspettiamo di udirlo dalle vostre labbra, poichè non
basterebbero a noi, nè le cento, nè le mille.

--San Luca! San Luca!--gridò Spinello, saltando, e abbracciando
l'amico Parri.--Mi capite? Il giorno di San Luca.

--Cade se non m'inganno ai 18 di ottobre;--rispose Parri della
Quercia.

--Che importa a me quando casca? Volevo dirvi che quel giorno io
sposerò madonna Fiordalisa.

--Ah!--disse Parri.--Abbiate le mie congratulazioni. Quantunque,
potete anche farne di meno.

--V'ingannate, Parri; le congratulazioni degli amici ci esprimono il
loro animo e portano fortuna come gli augurii. E il vostro e quello di
Tuccio mi saranno carissimi.--

Tuccio di Credi, così chiamato a parte della gioia di Spinello
Spinelli, lasciò di macinar colori, per rispondere col suo accento
grave, che pareva scaturire dagli abissi:

--Siate felice!

--E voi mi sarete compagni alla cerimonia, non è vero?--ripigliò
Spinello, che era avvezzo al tono di voce dell'amico Tuccio e non
doveva farne più caso.

--Sicuramente,--rispose Parri della Quercia.--La vostra allegrezza è
la nostra.

--Ed è grande, sapete? Così grande che io non la posso contenere; così
grande, che ho sempre paura di.... Ma non diciamo sciocchezze. Volevo
soltanto farvi intendere che gioia profonda sia quella di possedere
chi s'ama, quando si ama....

--Come voi amate, ho capito;--disse Parri della Quercia, col suo
placido viso.

Era contento quel buon diavolaccio di Parri. Non si sentiva nato per
nessuna altezza, e dalla sua mediocrità consapevole, ma non gelosa,
godeva di ammirare i fortunati che andavano su, fin dove un uomo può
andare, per cogliere ciò che è più desiderato nel mondo, una corona di
alloro o un amplesso, il bacio della gloria o un bacio di donna.

Tuccio di Credi, per contro, era diventato livido come un cadavere. Ma
già, voi lo sapete, Tuccio di Credi aveva la faccia di colore
olivastro, e queste tinte illividiscono facilmente ad ogni commozione
dell'animo. Ora, il lividore di Tuccio poteva essere un segno di
allegrezza profonda, come era di profondo rancore.

Anch'egli aveva amato Fiordalisa, ma senza speranza, prima che
Spinello Spinelli entrasse in bottega di mastro Jacopo e innamorasse
la bella figliuola del pittore. Per altro, avrebbe voluto che gliela
rubasse un altro; il Buontalenti, per esempio, o il primo venuto tra i
cavalieri d'Arezzo. Egli certamente avrebbe odiato il rivale, ma non
così fieramente come un compagno d'arte, la cui felicità dovesse
stargli sempre davanti agli occhi, quasi un rimprovero alla sua
dappocaggine.--Ecco qua (parea dirgli un matrimonio di quella fatta);
madonna Fiordalisa, quest'angelo di bellezza doveva toccare in premio
ad uno che avesse in petto il sacro fuoco dell'arte; e tu non eri
quell'uno.--

Ma che importa, quando si ama (dirà il lettore), che importa che la
persona amata vi sia rapita da Caio, anzi che da Sempronio? Importa
moltissimo, se all'amore aggiungete l'invidia.




VII.


Siamo già presso al gran giorno, e ancora non si è fatta un'intima
conoscenza con madonna Fiordalisa, che dovrebb'essere l'eroina della
festa. Abbiamo ammirata la sua bellezza esteriore, ma l'anima sua non
ci è nota. Abbiamo veduto il fiore, non abbiamo sentito il profumo.

Fiordalisa era vissuta molti anni da sola in casa di mastro Jacopo,
padre amoroso, ma burbero e tutto sprofondato nell'arte sua. Esciva
appena d'infanzia quando le era morta la madre, e ciò le aveva portato
l'obbligo di molte cure domestiche non intese subito, ma vedute ed
accettate a mano a mano che in lei cresceva con gli anni il giudizio.
Era una bambina grave prima di essere una donnina forte.

Inoltre, ella aveva veduto assai presto la necessità di custodirsi da
sè. Il fiorire della bellezza era stato precoce, e il ronzio dei
calabroni del pari. Lodata, ammirata, corteggiata alla larga ma con
visibile assiduità, bersagliata da sguardi languidi, salutata da
esclamazioni subitanee, da voltate e da fermate che dicevano esse sole
un mondo di cose, madonna Fiordalisa ci aveva tutte le tentazioni per
diventare una vanerella. E forse sarebbe finita così, se la presenza
di una mamma, tenendo lontani gli adoratori importuni, avesse lasciato
libera quella bella creatura di scegliere nella turba i più modesti, e
ad ogni modo di inebbriarsi in tutte le generazioni d'incenso che
vaporavano intorno a lei. Ma io ve l'ho detto, Fiordalisa era sola;
non aveva tempo nè modo di raccapezzarsi; doveva guardarsi da tutti,
non osservando nessuno. E si era concentrata in sè chiudendo nel
profondo dell'anima tutte le sue belle fantasie giovanili. Ora, voi
sapete che cosa avviene dei liquori generosi, quando sono chiusi
appuntino; fermentano da sè, si rinforzano in una specie di
meditazione solitaria. E nell'anima di Fiordalisa, la fantasia aveva
tanto più lavorato, quanto più era stata rinchiusa. La vita reale
l'opprimeva con tutte le sue convenienze, i suoi riguardi, le sue
necessità, ma lo spirito si ricattava di quella tortura, affinando,
abbellendo, innalzando il proprio ideale.

Mastro Jacopo credeva di comandar lui alla sua bella figliuola,
perchè, quando le diceva: "facciamo la tal cosa" ella si affrettava ad
obbedirgli. E non sapeva, il babbo, che egli non comandava mai e che
non consigliava mai nulla che non fosse ispirato da lei, e preparato
da lunga mano con sapienti rigiri. Per esempio, la fanciulla aveva
inteso assai presto che un giorno le sarebbe toccato di andare a
marito, e che forse avrebbe dovuto escire di casa. E allora, chi
avrebbe avuto cura del babbo? Un uomo solo ha bisogno di tante cose,
nel governo della casa, che una donna gli è più che utile, necessaria.
Nè basta a lui di essere in tal condizione d'agiatezza, che gli
consenta il lusso di due o tre donne di governo. Fossero anche dieci,
esse non valgono l'occhio ed il cenno di una buona massaia. Perciò,
immaginate con quanti graziosi artifizi madonna Fiordalisa
s'industriasse a insinuare bel bello nella mente di suo padre che la
figliuola di un artista non doveva sposare che un artista. La cosa
tornava bene all'umore bizzarro di mastro Jacopo; ed egli aveva fatta
sua l'ideina germogliata nel cervello della sua Fiordalisa.

Perchè s'era messa in testa di consigliarlo a quel modo? Son certo che
voi, lettor sottile, non mi menate buona la ragione domestica,
rammentando la massima, confermata da una osservazione costante, che
noi accogliamo le idee savie solamente quando esse s'accordano con una
realtà che ci piace. Ma, a farlo apposta per isbugiardare la massima,
Fiordalisa non ci aveva nessuna realtà di quelle che potreste
figurarvi. Ella non aveva davanti agli occhi la più piccola immagine
di genio nascente. Gli scolari di suo padre erano rozzi, o gaglioffi,
veri fattori, garzoni di bottega, non artisti da innamorare le
fanciulle. Madonna Fiordalisa non aveva condotto l'animo di suo padre
su quella via, che per un senso d'orgoglio. Ecco in che modo.

L'arte della pittura incominciava allora ad essere tenuta in qualche
pregio, più per la fama di Giotto e de' suoi valenti discepoli, che
non per sè medesima, come arte liberale. Solo da pochi anni i pittori
avevano istituita in Firenze la loro confraternita speciale, e mastro
Jacopo di Casentino, che v'era ascritto dei primi, aveva dipinto per
l'oratorio di quella un _San Luca che ritrae la Nostra Donna in un
quadro_. Ma ciò non bastava ancora a nobilitare i pittori, poichè, lo
sapete, tutte le distinzioni hanno mestieri di pigliar lustro dal
tempo. Inoltre la compagnia di san Luca non era nata con intendimenti
molto orgogliosi, ma solo perchè i maestri che allora vivevano, così
della vecchia maniera greca, come della nuova di Giotto, ritrovandosi
in gran numero e considerando che l'arti del disegno avevano in
Toscana, anzi proprio in Firenze, avuto il loro rinascimento, s'erano
consigliati di creare la detta compagnia, sotto il nome e la
protezione di san Luca evangelista, sì per render lode e grazie a Dio
nell'oratorio di quella, sì anco per trovarsi alcuna volta insieme e
sovvenire nelle cose dell'anima e del corpo a chi, secondo i tempi,
n'avesse bisogno. Il periodo è lungo; ma non è che l'abbreviatura d'un
altro, anche più lungo, di messer Giorgio Vasari. Del resto i pittori
non erano che una frazione degli scudai, rotellai, palvesai, ed altri
artefici di quella fatta; nè si credevano diversi da questi, poichè
tutti dipingevano le pezze onorevoli e le imprese negli scudi degli
uomini di guerra. La famosa risposta di Giotto a quel villan rifatto
che voleva farsi dipinger l'arme da lui, è la riprova di questa
comunanza di lavoro. Il rinnovatore dell'arte italiana non si doleva
tanto di dover dipingere uno stemma, quanto di dover accettare la
commissione d'un uomo di picciolo affare, che ragionava d'armi come se
fosse il duca Namo di Baviera.

Accadeva dunque all'arte della pittura ciò che è dei piccoli aquilotti
nel nido, che sentono nascer le penne e già batton l'ali, quantunque
abbiano ancora i bordoni. Madonna Fiordalisa sentiva il gentile
orgoglio dell'arte paterna, e in ciò spero che nessuno le vorrà dar
torto. Quegli angioli e quelle Vergini che dipingeva suo padre e che
facevano rimanere a bocca aperta tanti gentiluomi di Firenze e di
Arezzo, erano quarti di nobiltà per la sua casa, che valevano pure le
armi di concessione degli imperatori di Lamagna e dei reali di
Francia. Madonna Fiordalisa aveva dunque la sua piccola superbia in
testa. E poichè al matrimonio bisognava pensare, per la ragione
naturalissima che una bella ragazza come lei non avrebbe potuto
sottrarvisi, ella incominciò a fare il suo ragionamento dentro di sè.
Un artefice di umili lavori non lo voleva, e ad ogni modo non lo
avrebbe voluto mastro Jacopo; ma un gentiluomo, ancorchè fosse
piaciuto a suo padre, non lo avrebbe voluto lei sentendo
istintivamente che i grandi, i potenti della terra, non erano fatti
per la figliuola d'un pittore. Madonna Fiordalisa non amava
discendere, ma non voleva neanche salire ad una altezza, dove poi le
si potesse rinfacciare l'umiltà relativa dei suoi natali. In quel
corpicino leggiadro batteva un cuor di regina.

Nessuno, io spero, vorrà dirmi che io la rendo brutta, dipingendola un
tantino orgogliosa. L'ipocrisia non deve guastar l'arte, come qualche
volta pur troppo le avviene di guastar la natura. Orgogliosi lo siam
tutti la parte nostra, e meglio sarebbe confessarlo sinceramente,
ognuno per sè medesimo, anzi che fermarsi a biasimare la cosa negli
altri. Fiordalisa a buon conto, era superba come doveva essere, di
quella superbia che non reca offesa ad alcuno, ma che basta a farci
sentire non indegnamente di noi, ed è stimolo potente ad opere
egregie, o almeno almeno a non volgari pensieri.

La realtà piacevole che, come ho detto, mancava ancora alla bella
Fiordalisa quando ella incominciò ad insinuare nella mente di suo
padre l'idea di non volere che un artista per genero, si presentò
finalmente, nella persona di Spinello Spinelli. La fanciulla riconobbe
in lui l'ultimo venuto e il più modesto de' suoi adoratori di strada.
Si turbò, a tutta prima, immaginando che fosse un temerario
introdottosi destramente in casa di mastro Jacopo, sotto colore di una
vocazione artistica che non sentisse davvero nell'anima. Fiordalisa
era una di quelle donne che non amano gli audaci. Ma ella non istette
molto ad accorgersi che Spinello non aveva mentito, e incominciò a
vedere in lui l'incarnazione di quell'ideale che ella vagheggiava
nella sua mente. Si raccolse allora in sè medesima, assaporando la
nuova sensazione che il caso portava nella sua esistenza. Il cuore di
Fiordalisa si era svegliato; per contro, la sua fantasia, vigile da
prima e avvezza a vagar dietro alle chimere, si addormentava in un bel
sogno, che aveva argomento nel vero.

C'è nell'amore un grazioso dormiveglia, di cui come di tante altre
cose piacevoli, si sente la delizia, quando la sensazione è cessata, o
s'è trasformata in un'altra. Il cuore incomincia a farsi vivo, nel
confuso bisbiglio d'una voce arcana. La ragione, acquietata da onesti
argomenti, o persuasa dalla lontananza del pericolo, trova nel fatto
il suo tornaconto e sonnecchia, lasciando che l'anima si abbandoni
intieramente al soave sentimento che la invade. Tutti gli amori lo
hanno, questo dolce periodo d'infanzia, del non desiderare, del non
discuter nulla, dell'accettare la vita e la cosa come ci sono offerte
dalla lieta occasione. È il tempo in cui l'uomo osserva la veste
portata da una donna, per rammentarsene poi, come d'ogni parte più
appariscente della bellezza di lei; è il lampo in cui la donna medita
sulle frasi più insignificanti, e finisce a trovarci un senso riposto.
E più tardi l'uomo può dire: "Sapete? la prima volta che ho sentito di
amarvi, eravate vestita così e così." E la donna dal canto suo: "Vi
rammentate? Un giorno, nel tal luogo, alla tal ora, mi avete detto che
non vi piacevano i _marrons glacés_." Cara infanzia d'amore! In quel
soave dormiveglia si è compiuto il grande mistero della
compenetrazione (stavo per dire della transustanziazione) di due
cuori, di due anime, di due esistenze. E quando ci si trova innamorati
a buono, non si sa mica come la sia andata, nè quando sia entrato, nè
da che uscio, l'amore. Si vorrebbe saperlo, per appagare una gentile
curiosità, e rinnovarne la grata sensazione. Ma invano; l'indagine
nostra non può risalire all'origine, o, se vi giunge, non trova nulla
di chiaro. Così è l'infanzia del linguaggio, di quest'altro sublime
mistero. Come ha imparato a parlare il bambino? Quando e per che vie
ha trovati i nessi della frase e i segreti della coniugazione? Cercate
e non troverete; bussate e non vi sarà aperto, nè ora, nè mai.

Quando madonna Fiordalisa si accorse di amar tanto il nuovo discepolo
di suo padre, mastro Jacopo era già più infatuato dei meriti di
Spinello che ella non fosse invaghita del giovane. Una bella mattina
mastro Jacopo le disse così di schianto: "Sai? Spinello ti ama; io amo
lui; resta che lo ami anche tu, perchè la catena sia fatta". Ella rise
della forma bizzarra che suo padre avea dato alla notizia; ma non ebbe
a maravigliarsene punto. Come l'amore di Spinello Spinelli, così le
intenzioni benevole di mastro Jacopo non erano una novità per lei; le
sapeva già, le sentiva nell'aria.

Anche il trionfo artistico di Spinello nell'affresco del Duomo, per
grande che fosse, era preveduto. La cosa andava da sè. Era, per dir
così, la chiave della camera nuziale, ed era giusto che Spinello
facesse miracoli per ottenerla. Di questo ella non aveva mai dubitato,
poichè la ragione dell'impresa, il segreto della vittoria di Spinello,
era in lei, consapevole virtù teologale. Quante cose sapeva la bella
Fiordalisa! Ma badate, non più tante come prima. Per esempio, una
volta ella sapeva quanti uomini in Arezzo fossero innamorati di lei.
Nè già perchè ella si fosse fermata a contarli, vi prego di crederlo,
ma perchè non poteva non vederli, non sentirsi fischiare all'orecchio
le loro giaculatorie, anche quelle che non escivano fuori in parole
formate. Madonna Fiordalisa vedeva senza guardare, udiva senza
ascoltare. Ma quando ella sentì di amare Spinello, non vide, non udì
più nulla del mondo. Il sesto senso che hanno le donne, per cogliere
ciò che sfugge all'attenzione dell'universale, fu spento d'improvviso
in lei. Madonna Fiordalisa non vedeva, non udiva che un uomo. In
apparenza, era sempre contegnosa e tranquilla, come quando sentiva il
susurro degli inni che volavano a lei d'ogni parte, e direi quasi il
crepitio dei cuori che ardevano sul suo passaggio trionfale. Ma
nell'anima sua era un pensiero che non pativa rivali, nel suo cuore
un'immagine che non lasciava posto a nessuna impressione esteriore.

La rammentate, la favola di quella bella principessa a cui una fata
benigna aveva concesso di poter leggere nel cuore di tutti, fino a
tanto che ella potesse veder chiaro nel suo? Un giorno la principessa
si svegliò più triste dell'usato; guardò nel suo cuore e ci vide
torbido. La poverina era innamorata. La favola dice che da principio
ella non sapeva darsene pace; ma che poi ne fu consolata dalla sua
protettrice. Che ti giova, le disse la fata, di leggere nel cuore di
tutti? Le più grandi soddisfazioni della vanità non valgono il più
piccolo conforto d'amore.--

Il guasto dell'affresco era venuto in mal punto, per indugiare la
felicità dei nostri innamorati; ma non doveva altrimenti distruggerla,
poichè la mano che aveva condotto a termine il primo lavoro, poteva
incominciarne un secondo. Fiordaliso indovinò la presenza del nemico,
e sospettò anzi un geloso. Ma suo padre non ci aveva veduto che il
tiro mancino di un compagno d'arte invidioso, e mostrava anche di
sapere dove metter le mani. La partenza improvvisa del Chiacchiera,
del Granacci e di Lippo del Calzaiuolo dalla bottega di mastro Jacopo,
confermava i sospetti del vecchio pittore. E Fiordalisa lasciò in
disparte i suoi dubbi, non cercò altro, non si volse attorno per
interrogare i sembianti, che avrebbero potuto impallidire. Del resto,
che importava cercare il nemico, se Spinello doveva ad ogni modo
riportare la palma? Fiordalisa rianimò il coraggio del suo fidanzato e
gli persuase che da quel male ne sarebbe derivato un bene maggiore,
poichè nella seconda prova egli avrebbe dimostrato, se era possibile,
una più grande franchezza di mano.

Così avvenne, com'ella aveva pronosticato. Spinello ebbe vendetta
allegra dello sconosciuto nemico, nel plauso di tutti i suoi
concittadini, che avevano ammirato il primo dipinto e che levarono a
cielo il secondo. E mastro Jacopo, contento come poteva esserlo un
padre, diede a Spinello il maggior premio che per lui si potesse,
annunziandogli che il matrimonio si sarebbe fatto fra un mese. Un
mese! Appena quanto occorreva per gli apparecchi nuziali.

Gran giornata, quella festa di San Luca! Ma ogni santo ha la sua
vigilia, e mastro Jacopo pensò giustamente che dovesse averla anche il
terzo degli evangelisti e il primo dei pittori cristiani. Il giorno
delle nozze doveva essere un giorno di raccoglimento; bisognava dunque
solennizzarlo in anticipazione, facendo alla vigilia il pranzo
nuziale.

La casa di mastro Jacopo era di persona agiata, ma non ricca. Del
resto, a quei tempi, anche i popolani grassi vivevano semplicemente.
Al servigi della famiglia di mastro Jacopo non c'era che una vecchia
fante, la quale bastava a tutto, e a governare la casa e ad
accompagnare madonna Fiordalisa, quando esciva per andare agli uffizi
divini. Essa per altro non sarebbe bastata ai bisogni di quella
circostanza solenne, e fu mestieri provvedersi di quattro o cinque
mezzi servizi per quel giorno di grandi faccende domestiche. Parri
della Quercia e Tuccio di Credi, volonterosi aiutanti, si fecero in
quattro, per servire il maestro in quelle ricerche e in tutto l'altro
che gli fosse bisognevole. Nella necessità si conoscono gli amici; e
quello era il meno che potessero fare, per dimostrargli la loro
gratitudine.

Il vecchio pittore si rallegrava di vedere raccolta in casa sua tanta
gente. I congiunti non erano molti, poichè egli non era nato in Arezzo
e messer Luca Spinelli neppure. Ma una zia si trovò, ed anche una
copia di cugini o di cugine, a cui si aggiunse una mezza serqua di
amici vecchi, che potevano considerarsi come parenti, o giù di lì.
C'erano poi gli scolari di Mastro Jacopo, ed anche qualche bell'umore,
di quei tali che si invitano a tutte le feste, perchè rallegrino le
brigate coi loro motti arguti o con le loro canzoni.

Messer Luca Spinelli, quel giorno, baciò sulle gote la gentil
Fiordalisa e la chiamò col dolce nome di figlia. Com'era bella, nella
sua veste di ferrandina a larghe pieghe e la radice del collo coperta
da un baveretto bianco! Era la veste che ella indossava per recarsi al
Duomo; la veste con cui l'aveva veduta per la prima volta Spinello, e
voi intenderete, io m'immagino, il delicato pensiero che l'aveva
consigliata di vestirsi a quel modo, lasciando al giorno seguente le
più sfarzose abbigliature.

Ma ohimè, se Fiordalisa, era bella, non era altrimenti lieta. Messer
Luca osservò che la sua nuora futura, anzi, la sua cara figliuola,
poichè oramai poteva anch'egli chiamarla così, portava sul volto le
traccie d'un interno rammarico.

--Luca mio,--gli disse mastro Jacopo, traendolo in disparte,--che
volete? Son donne e ci hanno le loro piccole superstizioni. S'è dovuto
prendere quattro o cinque persone a mezzo servizio, per dar mano a
tutto il bisognevole in questa casa, dove pare che ci sia il
finimondo. E stamane, uno di questi gaglioffi anzi una di queste
sventate, poichè si tratta d'una donna, nel riporre certe robe nel
forziere di mia figlia, ha lasciato cadere un piccolo specchio, che è
andato, come potete immaginarvi, in tanti minuzzoli. E per giunta
(vedete che sciocca!) non s'è messa a gridare che era una grande
disgrazia?

--Lo è certamente;--notò messer Luca Spinelli.--Costa caro uno
specchio!

--Oh, per questo avete ragione; ma non era il caso di vederci altro
guaio. La mia figliuola veramente non li aveva, certi pregiudizi per
il capo; ma voi mi capirete bene; sentirsi dire che il rompere uno
specchio porta sventura, non è certamente una cosa piacevole, specie
alla vigilia d'un matrimonio. Io per altro l'ho consolata, dicendole
che la rottura d'uno specchio porta sventura, bensì, ma solamente a
chi lo ha lasciato cascare. Non ho detto bene? Ma lasciamo queste
ragazzate;--conchiuse mastro Jacopo;--e andiamo a tavola, con la
benedizione di Dio.

Del resto, se madonna Fiordalisa era grave all'aspetto, non crediate
che fosse per quel piccolo guaio, dimenticato pochi istanti dopo che
era avvenuto. Ed ella e il suo fidanzato stavano in contegno, come è
costume di tutti gl'innamorati, giunti a quel momento, in cui hanno da
custodire la loro allegrezza dallo sguardo importuno dei curiosi, ed
anche da nascondere, per debito di cortesia, la noia che provano a
dover perdere il loro tempo in compagnia di profani.

Fortunatamente, se i due innamorati apparivano un po' malinconici,
mastro Jacopo era gaio per essi e per altre undici coppie di sposi. È
sempre andata così. I caratteri più burberi quando girano per caso al
buon umore, diventano così pienamente e così rumorosamente allegri da
mettere in sacco una dozzina di giullari.

Mastro Jacopo aveva ragione d'essere così allegro. La sua figliuola
andava a marito. Era la sorte di tutte le ragazze; ma per quella volta
la frase non era precisa, poichè Fiordalisa non andava restava, ed era
il marito che faceva la strada. Mastro Jacopo aveva voluto tirarsi il
genero in casa, e Luca Spinelli che non era ricco, già lo sapete, si
acconciava al desiderio del vecchio pittore. Il quale poteva dire
giustamente di aver concessa con una mano sua figlia, ma di averla
ritenuta con l'altra.

Alle gioie domestiche di mastro Jacopo avevano preso parte moltissimi,
in Arezzo, e si potrebbe aggiungere tutti gli abitanti della contrada.
Mastro Jacopo era universalmente stimato; la sua figliuola era
universalmente amata, anzi per dirla con una iperbole tutta nostrana,
adorata. Figuratevi che davanti all'uscio di casa erano stati piantati
degli alberi inghirlandati di fiori. Era la confusione del calendario;
ii maggio in ottobre! E sotto alle finestre della casa si affollavano
i cantori popolari, per festeggiare le nozze di madonna Fiordalisa coi
loro rispetti, frammezzati da certe rifiorite, che era una delizia a
sentirle.

Non vi descrivo il pranzo. Vi dirò solamente che fu degno della
circostanza e lieto per una bella confusione di bicchieri e di lingue.
Il vin toscano, specie quello di Val di Chiana, è generoso, non
traditore; vi dà una dolce allegria, senza turbar la ragione.

Spinello non mangiava e non beveva che a fior di labbra. Guardava
Fiordalisa. Stava a sentire i motti, sorrideva ai complimenti,
accettava gli augurii, ma senza meditarci su. Guardava Fiordalisa. Di
tanto in tanto, facendo uno sforzo di volontà, si concentrava in sè
medesimo e chiedeva:

Son io, proprio io, che la sposo? Non è un sogno, che faccio? In fede
mia non lo so. Vedrò di persuadermene domani.--

La giornata era bellissima, forse un po' troppo calda, per il mezzo
d'ottobre. Guardando Fiordalisa ad ogni tratto, Spinello s'immaginò
ch'ella dovesse soffrire. Come Dio volle, anche il pranzo finì; ed
egli, accostandosi alla sua fidanzata, le chiese sotto voce:

--Madonna, che avete? Vi sentite qualche cosa?

--Oh, nulla;--rispose ella.--Un po' di caldo.

--Dovevo figurarmelo;--riprese Spinello.--Si sta male, chiusi qui
dentro, ed in tanti! Venite con me, madonna, a respirare un po' di
aria libera.--

Fiordalisa accettò l'invito di Spinello, ed escì con lui sul loggiato.
Era l'ora di vespro, e il sole incominciava a nascondersi dietro i
tetti delle case vicine. Il cielo era splendido scintillante d'oro con
riflessi di porpora. L'aria, sul loggiato, era tiepida ancora della
lunga refrazione dei raggi solari sulle pareti e sui colonnini di
marmo; ma dalla strada incominciava a spirare il timido soffio
dell'aria vespertina. Fiordalisa bevve con desiderio quell'alito
consolatore.

--Bella sera!--esclamò Spinello!--E miglior giorno sarà domani!--

Fiordalisa si volse a lui e sorrise, ma d'un sorriso stanco, che morì
appena nato su quelle pallide labbra.

--Anima mia!--proseguì Spinello avvicinandosi.--Voi non vi sentite
bene, quest'oggi!

--È vero;--diss'ella---Non so proprio che cosa sia. Mi parea di
morire, là dentro.

--Dio mio!--esclamò il giovane, commosso--bisognerà prendere qualche
cosa. Se io sapessi!...

--Oh, non vi date pensiero. Anche oggi, prima di venire a tavola, ho
preso un cordiale. Mi sentivo già un poco abbattuta!....--

Spinello si sarebbe turbato per molto meno. Volgendo la testa, come
chi cerchi qualche cosa che non sa, gli venne veduta, nel vano
dell'uscio che metteva al loggiato, la faccia scura di Tuccio di
Credi.

--Tuccio,--diss'egli allora,--vi prego, chiamate mastro Jacopo.--

Tuccio si era inoltrato fin là, con aria tra curiosa e indifferente.
Gli dava noia d'esser colto sull'atto di spiare i due giovani; ed era
già per tirarsi indietro, sperando di passare inosservato, quando gli
giunse la voce di Spinello.

--Subito;--rispose egli, confondendo nella scossa del comando ricevuto
quella del vedersi scoperto.

E andò prontamente a far l'imbasciata. Poco dopo, mastro Jacopo
giungeva sul loggiato.

--Mi avete chiesto? Che c'è? Che cosa è avvenuto?--gridò egli, vedendo
Spinello che si volgeva a lui, con la cera sconvolta.

--C'è... Oh, padre mio, non vi turbate oltre il necessario! Fiordalisa
non si sente troppo bene. Il caldo la soffocava, là dentro.

--Eh, capisco;--rispose mastro Jacopo, riavutosi dal primo
spavento.--Non è avvezza a queste confusioni. Per fortuna, non vengono
che una volta sola. Fiordalisa, figliuola mia, ora ti senti meglio,
non è vero?

--Sì, babbo;--rispose la fanciulla, con un filo di voce.--Quest'aria
mi fa bene. Ma vorrei berne tanta...tanta! Ho un po' di stanchezza...e
un po' di sonno, anche.--

In quel mentre, capitavano sul loggiato parecchi dei convitati.

--Che cos'è avvenuto?--chiese Luca Spinelli. Abbiamo veduto Tuccio di
--Credi così stralunato! Ah, Fiordalisa! Si sentirebbe male?

--Un po' di stanchezza; non è nulla;--rispose mastro Jacopo, ma con un
tono di voce che contrastava con le parole.--Il caldo della sala da
pranzo...le nostre chiacchiere!...

--Già, il caldo; lo sentivamo anche noi;--entrarono a dire le
cugine.--Ma l'aria libera le farà bene. Non è vero, Fiordalisa?

--Sì;--mormorò la fanciulla, socchiudendo le palpebre.

--In verità,--disse Spinello, che aveva notato quell'atto.--sarebbe
meglio un po' di moto. Non vi pare, Fiordalisa?

E avvicinatosi a lei, le bisbigliò all'orecchio una dolce parola.

--Andiamo;--balbettò ella.--Mi farà bene... con voi.

Ma ella non accennò altrimenti di volersi alzare. Scosse in quella
vece il capo e si recò la mano al petto, come se volesse trattenere
qualche cosa che era per fuggirle in quel punto.

Spinello si buttò ginocchioni davanti a lei e l'afferrò per le
braccia.

--Che è ciò? Dio santo!--gridò egli sbigottito.--Fiordalisa, amor
mio!--

Scossa da quell'accento supplichevole, la fanciulla aperse a stento le
ciglia e rivolse a Spinello una languida occhiata; ma le palpebre si
richiusero tosto. Mosse ancora le labbra, come per dire qualche cosa,
indi si abbandonò come persona stanca e lasciò ricader la testa
sull'omero.

Due grida strazianti proruppero ad un tempo; il grido di mastro Jacopo
e il grido di Spinello Spinelli. Ma la bella Fiordalisa non udì più i
disperati richiami di que' due amori che si concentravano in lei.

--Che avete?--entrò a dire messer Luca.--. Ella si è addormentata.

--Ah, diceste il vero, padre mio!--gridò Spinello Spinelli.--Un
medico! Un medico! Chi trova un medico?--

Il sospetto di una disgrazia era penetrato nel cuore di tutti. E tutti
si offersero di andare in cerca d'un medico. Ma primo tra tutti balzò
fuori mastro Jacopo, e nessuno ebbe il coraggio di contendergli
quell'ufficio. Il vecchio padre andò via come un disperato. Chi lo
vide in volto, mentre usciva a furia dal crocchio, senti corrersi un
brivido di terrore per l'ossa.

Intorno alla povera Fiordalisa era una confusione, un tramestio da non
dirsi a parole. Tutti volevano esser utili, tutti si confidavano di
farle ricuperare i sensi. Prime le donne, che si erano affrettate a
slacciarle la veste. Spinello e gli altri uomini, mossi da un
sentimento di rispetto, si ritrassero in disparte. Alcuni, obbedendo
ai comandi della vecchia zia, che prendeva ad esercitare l'autorità
inerente all'età sua ed al suo grado di parentela, andarono a cercare
l'aceto, le acque nanfe, e tutto quell'altro che poteva parere più
acconcio al bisogno. Il viso e la radice del collo furono
abbondantemente spruzzati, ma invano; Fiordalisa non dava segno di
vita.

Erano tutti ancora intenti a quell'opera quando ritornò mastro Jacopo.
Il vecchio pittore era andato e tornato come un fulmine, trascinando
con sè mastro Giovanni da Cortona, uno dei più valenti discepoli
d'Esculapio, che fossero allora in Arezzo.

--Orbene?--gridò il vecchio, affacciandosi al loggiato.--È
rinvenuta?--

Gli sguardi abbattuti della brigata dissero a mastro Jacopo che la
speranza con cui era tornato in casa era vana. Allora il povero padre
si cacciò avanti con impeto disperato, gridando:

--Mia figlia! mia, figlia!--

Povero padre! Faceva compassione a vederlo.

--Animo, via,--disse messer Giovanni da Cortona,--non vi disperate
così. Sarà uno svenimento.--

E si avanzò in mezzo al crocchio, il degno seguace di Galeno, per
vedere da vicino la fanciulla. Notò da principio il volto che ora
bianco come il marmo; indi toccò il polso e pose la mano al petto,
interrogando le fonti della vita; da ultimo accostò la guancia alle
labbra, per sentire se ci fosse ombra di respiro. A mano a mano che
egli procedeva nelle sue indagini, gli astanti si stringevano intorno
a lui, fissandolo negli occhi, come per indovinare il suo responso,
prima che gli escusse dal labbro. Messer Giovanni era grave, da
principio; ma, seguitando l'esplorazione, divenne triste senz'altro e
una lagrima gli apparve sul ciglio.

--Parlate, in nome di Dio!--gridò mastro Jacopo, in preda ad un'ansia
mortale.--C'è speranza, non è vero?--

Messer Giovanni gli rivolse un'occhiata malinconica.

--Povero padre!--rispose.--Avete nominato Iddio; rivolgetevi a lui e
pregate. Egli solo, con un atto della sua misericordia, potrebbe
restituirvi quest'angiola vostra.

--Ah!--esclamò il vecchio, con voce soffocata dai singhiozzi.--Che
avete detto, Giovanni da Cortona? A Dio? Rivolgermi a Dio? Mia figlia!
Voglio mia figlia! Medico, medico, hai inteso? Tu devi salvarla; lo
voglio.--

Messer Giovanni chinò la testa come un uomo che sente il dolore
altrui, ma che non può consolarlo altrimenti.

--Ma è impossibile! Impossibile!--ripigliò mastro Jacopo.--Mia
figlia...mia figlia morire? Se non aveva nulla, stamane!
Ah,--soggiunse, ricordandosi,--lo specchio! lo specchio!--

Il medico si volse ai vicini, chiedendo col gesto una spiegazione di
quelle oscure parole. Messer Luca credette necessario di raccontargli
ciò che sapeva, intorno alla rottura dello specchio e alla dolorosa
impressione che il tristo presagio aveva fatto sull'animo di
Fiordalisa. Messer Giovanni allora volle sapere minutamente ogni
particolare dalle donne di servizio.

--E che cosa le avete dato?--diss'egli.

--Un cordiale, messere. La poverina si sentiva languire, e abbiamo
pensato di confortarle lo stomaco. S'è ammannito un brodo, con tuorli
d'uova sbattute e un poco d'agro di limone. Abbiamo forse fatto male?

--No, niente di male;--rispose il medico.--Ma forse nessuna bevanda
confortativa poteva giovarle più, dopo quella commozione violenta. Son
cose che avvengono;--soggiunse, come parlando a sè stesso.--Le vene
che s'innestano al cuore son troppo deboli, qualche volta, e uno
spavento improvviso può romperle. Ah, povera macchina umana!

Chiuso con questo malinconico epifonema il discorso, messer Giovanni
da Cortona ritornò verso mastro Jacopo, che veramente aveva bisogno di
cure amorevoli. Quel povero padre urlava come un forsennato.
Avvinghiatosi al corpo della sua figliuola, baciava il suo volto
freddo, accarezzava, cercando di ravviarli, i suoi lucidi capelli
castagni, che l'acqua aveva impiastricciati alle tempie; la scuoteva,
tornava a baciarla, a carezzarla, e la chiamava per nome. Ma invano;
quella povera carne non rispondeva più; le braccia ricadevano
penzoloni sui fianchi.

La scena era troppo straziante. Si scongiurò mastro Jacopo a togliersi
di là, ma le preghiere non facevano che accrescerne il furore, e fu
necessario di trascinarlo a forza. Intanto le donne, preso sulle
braccia il cadavere della fanciulla, lo recarono in casa e andarono a
deporlo nel suo letticciuolo verginale.

Spinello Spinelli non aveva più proferito parola. Era caduto in uno
stato di prostrazione, che meglio si sarebbe potuto dire stupidità. Lo
sguardo languido che Fiordalisa gli aveva rivolto, morendo, gli stava
sempre negli occhi. Pareva guardarvi, ma non vedeva nulla davanti a
sè; pareva ascoltarvi a bocca aperta, ma non intendeva nulla di ciò
che si diceva all'intorno.

Parri gli si accostò, e, postogli un braccio intorno alla vita, cercò
di trascinarlo in casa.

--Animo, via! Siate forte,--gli disse,--e pensate a consolare quel
povero padre, che sta per uscire di senno.--

Spinello guardò il suo compagno d'arte con aria melensa.

--Perchè?--gli chiese.

Ma in quel punto parve risovvenirsi, e diede in uno scoppio di pianto.

--Chi piange qui?--domandò mastro Jacopo con voce tuonante.--Non
voglio che pianga nessuno. Finiamola con gli strepiti! Volete farla
morire? Non voglio che muoia. È la mia figliuola, è il sangue mio. La
custodirò, la rinchiuderò, che non abbia più a vederla anima nata.
Nessuno la sposerà, avete inteso? Il Buontalenti meno d'ogni altro.
Già,--esclamò il vecchio, con ironico accento,--pretendeva di averla
lui, perchè è ricco. Nè ricchi, nè poveri, voglio. Fiordalisa ha da
restare con me, sempre accanto a suo padre, per conforto alla sua
vecchiaia. Si ostineranno! E noi partiremo, lasceremo questa casa,
andremo a cercare sua madre. Medico, tu la salverai, siamo intesi.
Bada a te, medico! Sua madre mi ucciderebbe, se io non le riconducessi
l'amor suo. Ed io, vedi, prima di morire, ucciderei te con queste
mani.--

Messer Giovanni da Cortona guardava con occhio triste il povero
pittore impazzito. E pensava dentro di sè che nella compagine umana
troppo breve spazio intercede dalla sanità di mente alla follia.

E qual breve distanza altresì dalle nozze alla tomba! Lì, nella
cameretta verginale, posava sul letto la bianca salma di Fiordalisa.
Si sarebbe detto che dormisse, tanto era riposato l'atteggiamento e
tranquillo l'aspetto, e si poteva ripetere col poeta

    "Morte bella parea nel suo bel viso."

Le donne stavano intorno al letto piangendo e pregando. Spinello,
rannicchiato in un angolo, non dava altro segno di vita che il
singhiozzo, ond'era preso alla gola. Nella camera vicina, Tuccio di
Credi e Parri della Quercia si guardavano in viso, crollavano la testa
e sospiravano, come uomini percossi da una medesima sventura.

Quella sera il curato del Duomo mandò il sagrestano alla casa di
messer Jacopo, per chiedere a che ora del mattino gli facesse comodo
di andare in chiesa per la cerimonia nuziale.

Mastro Jacopo, custodito da parecchi di casa, i quali reputavano utile
per il momento di non contrariarlo nella sua fissazione, si fece
innanzi e rispose:

--Non posso dirvelo; mia figlia dorme e non vo' che si svegli. Del
resto, le nozze non si faranno più.

--O come?--esclamò quell'altro, volgendo intorno gli occhi attoniti e
non intendendo i segni che gli facevano le persone di casa.--Che cos'è
accaduto?--

La vecchia zia si fece innanzi e condusse il sagrestano sull'uscio.

--Dite al curato che venga per le preghiere dei defunti;--gli
bisbigliò con voce soffocata dalle lagrime.--Fiordalisa è morta.--




VIII.


La sventura toccata a mastro Jacopo di Casentino fu profondamente
sentita in Arezzo. Il vecchio pittore aveva molti amici, ed era ben
voluto anche da coloro che lo conoscevano appena. Madonna Fiordalisa,
poi, era celebrata da tutti come un miracolo di bellezza e di grazia.
L'annunzio della sua morte fece l'effetto d'uno schianto di fulmine.

Povero mastro Jacopo! Le anime caritatevoli, compiangendo il suo caso,
giustamente osservarono che Iddio gli aveva mandato il conforto
accanto alla disgrazia, togliendogli la coscienza del suo dolore. In
verità, quando siffatte sciagure vengono a rapirvi la vostra felicità,
e vi levano ogni pregio alla vita, non è meglio impazzire, che avere
dì e notte davanti agli occhi l'immagine spaventosa della vostra
miseria? Morire, sì, sarebbe il meglio: ma non è sempre dato questo
conforto agli infelici. La vita, che in tante occasioni è sospesa ad
un filo, in altre è molto più salda e sembra quasi che lo stesso
dolore aiuti a serbarvi questo inutile dono. Ed anche dopo essere
stato colpito dalla folgore, che l'ha incenerito a mezzo, il tronco
della quercia rimane qualche volta in piedi, nutrendo per un
rimasuglio di corteccia i pochi rami superstiti.

Così visse Jacopo di Casentino, ignorando di vivere. Ma, due mesi dopo
la perdita della sua Fiordalisa, anch'egli trovò la via dell'eterno
riposo. Non aveva potuto serbare in vita la figlia morì, credendo di
ricondurla egli stesso a sua madre.

Non compiangete mastro Jacopo. Assai più di chi muore è da compiangere
chi vive, condannato ad una esistenza in cui gli sia venuta meno ogni
gioia.

Le ossa del vecchio pittore ebbero tomba onorata in Sant'Agnolo, badia
dell'ordine dei Camaldoli, fuori di Prato Vecchio, nelle cui vicinanze
i parenti avevano condotto il povero pazzo, sperando che le aure
natali del Casentino potessero ridare un po' di calma al suo spirito.
Ma anche quell'ultima speranza fu vana.

La morte del vecchio scolaro di Taddeo Gaddi risaputa in Arezzo, non
fece altro che rinfrescare il dolore di un'altra morte, a cui essa era
collegata, come l'effetto alla causa. Si pensava sempre a madonna
Fiordalisa e si rimpiangeva la sua fine miseranda; si rammentava la
sua maravigliosa bellezza, raggio di sole così presto invidiato alla
terra, e nessuno sapeva acconciarsi all'idea di averne perduto per
sempre il divino sorriso.

Mi chiederete come avesse accolto il triste annunzio messer Lapo
Buontalenti. Il ricco e potente uomo, qualche giorno prima che madonna
Fiordalisa morisse, si era allontanato da Arezzo. Che egli amasse la
figlia del pittore e l'avesse chiesta in moglie, si sapeva da molti, e
si sapeva altresì che mastro Jacopo gli aveva dato un rifiuto. Era
naturale che messer Lapo se ne fosse adontato; non essendo piacevole a
nessuno di sentirsi dire un no, anche colorito da oneste ragioni.
Perciò s'intendeva facilmente come il Buontalenti non avesse voluto
rimanere in Arezzo, testimone delle nozze di Fiordalisa con Spinello
Spinelli, e non parve strano che egli si fosse ritirato a vivere per
qualche tempo in una sua terra sulla montagna pistoiese. Messer Lapo
aveva dunque portato il suo rammarico molto lontano da casa, e non
c'era modo di sapere se, udendo della morte di madonna Fiordalisa,
egli ce ne avesse aggiunto un altro più grande, o se invece non ne
dovesse avere la consolazione dei dannati. La quale, come sapete,
consiste nel rendere meno grave il proprio dolore, pensando che altri
l'ha eguale o maggiore.

Anche Spinello, dopo quella grande rovina della sua felicità, si era
allontanato da Arezzo. Se ci fosse vissuto più a lungo, sicuramente
sarebbe morto di crepacuore, non essendo maggior esca al dolore che il
vivere nei luoghi in cui si è patito il danno e in cui ne è sempre
vivo il ricordo. Unico degli scolari di mastro Jacopo rimase nella
nota bottega il mite e timido ingegno di Parri della Quercia. Vedete
stranezza di casi! Un dipintore di tavole a tempera, che non si era
mai arrischiato a lavorare in muro, ereditava il luogo e la tradizione
d'un artista come Jacopo di Casentino, che aveva sempre dipinto a
fresco, senza lasciar pennelleggiata una tavola. Infatti, la memoria
di mastro Jacopo doveva essere ricordata da questo epitaffio in versi
latini, della cui prosodia non posso starvi mallevadore:

    _Fingere me docuit Gaddus; componere plura
        Apte pingendo corpora doctus eram.
    Prompta manus fuit; et pictum est in pariete tantum
        A me; servat opus nulla tabella meum._


Tuccio di Credi, anima caritatevole, si fece compagno volenteroso ed
assiduo al povero Spinello, e questi si lasciò condurre da lui a
Firenze. Messer Luca aveva consigliato egli stesso il viaggio,
sperando che ne potesse ritrarre qualche giovamento lo spirito
conturbato di suo figlio, e immaginate come dovesse esser grato a
Tuccio di Credi, che si profferiva custode e guidatore del suo
disgraziato figliuolo.

Spinello non aveva più ombra di volontà. Lasciava che Tuccio di Credi
provvedesse lui ad ogni cosa. Era come il naufrago che ha tutto
perduto, fortune e speranze, e che, dalla riva deserta su cui l'hanno
sbalestrato i marosi, guarda con occhi smarriti, senza sdegno e senza
paura, il torbido elemento che ha portato i suoi danni. Spinello
seguiva alla muta il suo compagno, accettandone i servigi ed
ascoltandone i conforti, ma senza avere un'idea chiara di ciò che
quell'altro facesse o dicesse. Per fortuna, Tuccio di Credi non era
uomo di lunghi discorsi, nè di molte delicatezze, e non c'era pericolo
che per quel verso potesse mai diventare importuno. Alla tacita
obbedienza di Spinello non poteva convenire che l'amichevole ruvidezza
di Tuccio.

Questi badava alle noie della vita comune; l'altro seguiva il corso
vagabondo de' suoi tristi pensieri, che lo riconducevano ad ogni
istante nel chiostro del Duomo Vecchio di Arezzo, dove egli aveva
pregato sulla tomba di Fiordalisa. L'immagine della donna adorata
rompeva qualche volta il suggello del sepolcro e veniva a
intrattenersi con lui. Ah, se egli avesse mai potuto ritrarla, quale
essa gli stava sempre negli occhi!

A Firenze i due amici erano andati ad alloggiare in una povera casa,
nella via della Scala. Escivano insieme ogni giorno, passeggiando
lentamente fino alla piazza di Santa Maria Novella, dove Spinello
andava a sedersi su d'un muricciuolo, e vi restava a lungo, senza
parola, guardando il sole che tramontava. Quando era una cert'ora,
Tuccio di Credi si avvicinava all'amico e gli diceva: andiamo!
Spinello si alzava e lo seguiva senza far motto, come un fanciullino
segue la madre. Tornati al loro alloggio, la vecchia padrona di casa
dava loro il lume acceso e la buona notte. Era una vita monotona. Ma
ai grandi dolori queste vite convengono.

Ora avvenne che, passando ogni giorno per la via della Scala e davanti
alla chiesa di San Nicolò, nuova fabbrica edificata allora allora per
voto di messer Dardano Acciaiuoli, l'accoramento di Spinello Spinelli
desse nell'occhio ad un cavaliere, che per sue ragioni doveva trovarsi
spesso colà.

Tra i due taciturni viandanti e il cavaliere sconosciuto s'era
stabilita quella mezza dimestichezza di veduta, che occorre in simili
casi. Ad ognuno di voi sarà certamente capitato di fare
quotidianamente una via e di avvezzarvi così a certi sembianti di
persone ignote, da farvi parere quasi una trista giornata, quella in
cui non vi è dato di abbattervi nelle persone medesime, e in quegli
aspetti, ai quali, come suol dirsi, avevate fatto l'occhio.

Il vecchio gentiluomo (perchè infatti lo sconosciuto non era più di
primo pelo) aveva notato l'aria malinconica di Spinello, e veduto in
lui un uomo che portava nell'anima il peso di una grande sventura. Un
sentimento di pietosa curiosità lo persuase a seguire i due taciturni,
e per tre volte alla fila vide Spinello andarsi a posare su d'un
muricciuolo in piazza di Santa Maria Novella dove restava lungamente
assorto nelle sue meditazioni, mentre l'amico andava alle sue faccende
per ritornarne più tardi a riprenderlo. Chi erano quei taciturni? E
quale era la cagione della tristezza profonda che si leggeva sul volto
del più giovane dei due? Il vecchio gentiluomo volle saperlo; e perciò
lasciato che Spinello andasse per la terza volta a sedersi in piazza
di Santa Maria, corse dietro al compagno.

--Scusate,--gli disse fermandolo,--forse vi faccio una domanda
indiscreta; ma il sentimento che mi consiglia è d'uomo che vorrebbe
giovare a' suoi simili.

--Messere,--rispose Tuccio di Credi, inchinandosi.--Il vostro aspetto
e di uomo ragguardevole. Vogliate dirmi in che cosa io possa
compiacervi.

--Vedo ogni giorno con voi un giovinotto dall'aspetto assai
triste;--ripigliò il vecchio gentiluomo.--Egli ha certamente avuto a
patire una grave disgrazia.

--Maisì, messere, una disgrazia irreparabile;--replicò Tuccio di
Credi.--Gli è morta una donna a cui era fidanzato.

--Ah, dovevo immaginarmelo!--esclamò il cavaliere.--E il suo nome?

--Spinello Spinelli, aretino; ma i suoi maggiori erano di Firenze. La
sua fidanzata, poi, era figliuola a mastro Jacopo di Casentino.

--Il pittore?

--Sì, messere, morto anche lui due mesi dopo la sua figliuola.

--Triste cosa!--mormorò il vecchio gentiluomo.--E il vostro amico che
fa?

--Nulla, per ora, tanto è rimasto percosso da quella grande sciagura.
Ma egli è pittore.

--Come voi, probabilmente.

--Sì, messere; ma io valgo assai meno;--rispose Tuccio di Credi con
aria modesta.--Egli s'è già mostrato un valoroso frescante, e un suo
dipinto si ammira nel Duomo vecchio d'Arezzo, ove gl'intendenti dicono
che non isfiguri al confronto di quelli del suo vecchio maestro.

--Mi sembra d'averne udito parlare:--notò il vecchio gentiluomo.--E
voi mi dite che adesso non fa nulla?

--Nulla affatto, messere. La sua afflizione è tale che gli toglie
perfino il pensiero delle necessità della vita. Suo padre l'ha
affidato alle mie cure; e se non ci fossi io, egli certamente si
lascerebbe morir di fame.

--Povero ragazzo!--esclamò il vecchio gentiluomo, crollando
malinconicamente il capo.--Vorrei essergli utile.... Egli stesso
potrebbe esserlo a me. Vi piacerebbe dirglielo? Anzi, meglio, di
condurlo da me?

--Volentieri; ma dove?

--Laggiù, in via della Scala, nella chiesa di San Nicolò. È chiusa,
finora; ma potrete passare dall'uscio della sagrestia. Domani stesso,
all'ora in cui usate andare a diporto, io sarò ad aspettarvi,

--Ci verremo, messere;--rispose Tuccio di Credi.--Ma, di chi dobbiamo
noi domandare?

--Di Dardano Acciaiuoli: è questo il mio nome.--

Tuccio fece un atto di meraviglia, seguito da un inchino profondo. La
casa degli Acciaiuoli era una tra le più chiare di Firenze.

Il giorno seguente, scambio di accompagnare l'amico fino in piazza di
Santa Maria Novella, Tuccio di Credi si fermò davanti alla chiesa di
San Nicolò.

--Entriamo?--diss'egli.

--Per che fare?--domandò Spinello.

--Per vedere. È una chiesa nuova, e forse ci saranno degli affreschi
da osservare.--

Così dicendo, senza aspettare la risposta del compagno, Tuccio di
Credi si avviò verso l'uscio della sagrestia. Spinello tenne dietro
all'amico.

La chiesa era vuota e bianca tuttavia dell'ultima mano di calce. Ma
giù, nella navata di mezzo, stava un vecchio cavaliere, in atto di
guardare la volta. Spinello pensò che egli fosse l'architetto, oppure
uno dei massari della nuova chiesa.

Il vecchio cavaliere si avvicinò bel bello ai due giovani, e
rivolgendo il discorso a Tuccio di Credi, gli disse:

--Forse vi occorre qualche cosa, messeri?

--No;--rispose Tuccio di Credi, ammiccandogli;--eravamo entrati per
osservar le pitture; ma non ne vediamo traccia.

--Da pochi giorni s'è finito di fabbricare: rispose cortesemente il
vecchio.--Gli affreschi verranno, quando avremo trovati i dipintori.
Siete dell'arte, voi?

--Maisì, messere; io di poco valore, il mio compagno di molto.

--E il vostro nome, se è lecito saperlo? Io mi chiamo Dardano
Acciaiuoli.--

Spinello fece una mezza riverenza, per obbligo di cortesia. Intanto il
compagno rispondeva per ambedue alla domanda del gentiluomo.

--Io mi chiamo Tuccio di Credi: il mio compagno è Spinello Spinelli.
Tutt'e due della scuola di mastro Jacopo di Casentino.

--Ah!--disse messer Dardano.--Il vostro amico è l'autore d'un San
Donato, nel Duomo Vecchio d'Arezzo?--

A quel ricordo, Spinello Spinelli trasse un profondo sospiro dal
profondo del petto. E frattanto s'inchinò leggermente, per ringraziare
messer Dardano Acciaiuoli del suo accenno cortese.

--Mi congratulo con voi;--proseguì messer Dardano, volgendosi allora a
Spinello.--Così giovane e già tanto valoroso dipintore! Ma perdonate,
se io penso a me, intrattenendomi con voi. È l'occasione che passa, ed
io l'afferro pei capegli. Messer Spinello, volete dipingere per me?
Queste mura vi aspettano.--

Spinello Spinelli non si aspettava una simile conclusione, e ne rimase
sconcertato.

--Messere,--diss'egli,--in verità...Io debbo esservi grato della stima
che fate di me. Ma come volete che io riprenda il lavoro? La mia anima
è triste.

--Orbene, che importa? Io non vi dico già d'esser lieto. I grandi
dolori non vogliono consolazione, ed io rispetto il vostro. Ma badate,
il lavoro è il più possente dei farmachi. Piangete una persona cara?
Il vostro lavoro sarà come una preghiera per lei.

--Vorrei morire; la vita mi pesa;--mormorò Spinello.

--Oh, non parlate così, messere. Alla vostra età si hanno ancora degli
obblighi col mondo. Ad ogni età, se n'hanno sempre con Dio. Possiamo
desiderare di giungere a lui per la strada più breve; a lui sta
d'esaudirci, se lo avremo meritato, con una vita scevra di viltà.
Accettate la mia proposta, messer Spinello. Voi non lavorerete
soltanto per me, lavorando nella casa di Dio.--

Come resistere ad un invito così amorevole? La stessa miscèa che
l'Acciaiuoli faceva del lavoro e della preghiera, doveva piacere ad
un'anima afflitta come quella di Spinello Spinelli. E il giovane
pittore non uscì quel giorno dalla chiesa, senza avere accettata la
proposta.

Dardano Acciaiuoli aveva fatto fabbricare quel tempio, per darvi
sepoltura ad un suo fratello vescovo. Perciò l'intitolazione a San
Nicolò, che in suo vivente era stato vescovo di Bari. E la dedicazione
della chiesa, come potete immaginarvi, dava il tema obbligato al
pittore, che ideò per l'appunto e compose parecchie storie ricavate
dalla vita del Santo.

Una settimana dopo il dialogo che io v'ho riferito brevemente, si
rizzavano i ponti e Spinello si metteva al lavoro, aiutato da Tuccio
di Credi, il quale macinò e mesticò i colori del suo compagno d'arte,
diventato suo principale, assai meglio che non avesse fatto in Arezzo.

Nè messer Dardano Acciaiuoli ebbe a pentirsi della commissione data a
Spinello Aretino. Egli dovette anzi lodarsi grandemente della buona
idea che lo aveva condotto a seguitare per istrada quel giovine
taciturno, e vederci quasi una ispirazione del cielo. In quei tempi di
fede viva, la cosa poteva benissimo intendersi per quel verso, e il
ragionamento non faceva neppure una grinza.

Spinello si portò tanto bene in quell'opera, così nel colorirla come
nel disegnarla, che presto non si parlò più d'altro in Firenze, e
tutti gli amici e conoscenti di messer Dardano vollero vedere gli
affreschi del giovine aretino, anche prima che fosse levata
l'impalcatura. Tirato dalla fama di Spinello, e veduta la bontà delle
figure che egli dipingeva, un altro ragguardevole cittadino di
Firenze, messer Barone Capelli, volle che il giovane protetto
dell'Acciaiuoli dipingesse nella cappella principale di Santa Maria
Maggiore molte storie della Madonna, a fresco, ed alcune di
sant'Antonio abate, indi la cerimonia stessa della consecrazione della
chiesa, che era stata fatta da papa Pelagio. In questo quadro, che
ebbe molte lodi dagl'indipendenti, Spinello ritrasse lo stesso messer
Barone Capelli, al naturale, in abito di quei tempi, molto ben fatto,
e somigliante che nulla più. I ritratti gli riescivano sempre
mirabilmente, quasi ad accrescergli il rammarico di non aver potuto
cogliere la somiglianza di madonna Fiordalisa!

Finita la cappella principale di Santa Maria Maggiore, lavorò Spinello
nella chiesa del Carmine, dipingendo nella cappella dei santi apostoli
Giacomo e Giovanni alcune storie del Vangelo; tra l'altre quella della
moglie di Zebedeo, madre all'apostolo Giacomo, quando ella domanda a
Cristo che faccia sedere uno dei suoi figliuoli alla destra del padre
nei regno dei cieli, e l'altro a sinistra. Ai massari della chiesa
parve questo un meraviglioso lavoro; e tosto ne vollero un altro,
commettendo a Spinello di dipingere un'altra cappella, accanto alla
maggiore. Quivi Spinello fece prova d'ingegno singolare, poichè,
volendo esprimere l'Assunzione di Maria, e la storia dovendo riescire
più grande della vòlta, egli la rigirò per modo, tra la parete e la
vòlta medesima, che ai riguardanti parve tutta una cosa, condotta in
soavissima curva, senza interruzione d'angoli o di sottosquadri.

Come vedete, le commissioni fioccavano. E non erano solamente queste
che io v'ho accennate. In una cappella di Santa Trinita, Spinello fece
una Nunziata in fresco, molto bella secondo l'opinione di tutti; indi
nella chiesa di Sant'Apostolo una tavola a tempera, ov'era raffigurato
lo Spirito Santo quando discende sopra gli Apostoli in lingue di
fuoco. Tralascio i dipinti in Santa Lucia de' Bardi e in Santa Croce,
per non venirvi a noia, e perchè il racconto non si tramuti in
catalogo.




IX.


In mezzo a tante fatiche e trionfi dell'arte, non era dimenticata
Fiordalisa. La bella immagine aleggiava sempre davanti agli occhi di
Spinello. L'idea, insinuata nella sua mente da messer Dardano
Acciaiuoli, che il lavoro fosse preghiera, e che la preghiera lo
avrebbe avvicinato alla sua povera morta, gli aveva, come suol dirsi,
raddoppiate le forze. Indi, ne accadde quel che doveva accadere, cioè
che la stessa assiduità del lavoro gli recasse un po' di quiete allo
spirito.

Questo va detto, s'intende, pel caso di Spinello Spinelli; che, in
verità, non sarebbe più giusto nel caso di un altro, il quale si
struggesse d'amore per una persona viva. Amare ed esser privi della
vista di chi s'ama, è un male senza rimedio, o il lavoro non ci può
far nulla; se pure è vero che si possa lavorare di buona voglia.

Del resto, la quiete dell'animo di Spinello va intesa con discrezione.
Era una quiete, come oggi si direbbe, relativa. Gli restava un gran
vuoto nel cuore, e sul volto l'impronta di una rassegnata tristezza.

Da qualche tempo il nostro pittore aveva cambiato d'alloggio, o, per
dire più esattamente, aveva cambiato Tuccio di Credi, quello tra i due
che pensava alle cose materiali della vita, e che aveva riconosciuta
la necessità di un alloggio in cui si potessero muover le braccia. Le
opere commesse a Spinello avevano recato una certa agiatezza, e non
era più convenevole che si vivesse stretti e pigiati nella povera
cameretta in via della Scala. Inoltre, bisognava possedere un
quartierino con una camera abbastanza spaziosa per uso di studio, in
cui preparare i disegni e i cartoni che dovevano servire agli
affreschi.

Con queste ragioni si era persuaso Spinello. Ed anche meno sarebbe
bastato; per esempio la volontà di Tuccio, a cui Spinello si
acconciava mai sempre. E i due compagni d'arte, abbandonando la via
della Scala, erano andati ad alloggiare in un quartierino di là dal
Ponte Vecchio, anzi nel borgo Santo Jacopo, tra il Ponte Vecchio e il
ponte di Santa Trinita. Spinello ci guadagnava di non dover più escire
di casa alla sera, poichè l'edifizio dava dalla parte posteriore
sull'Arno, ed egli aveva presa l'usanza di sedersi su d'una terrazza
coperta, e di star là fino a ora tarda, contemplando le acque del
fiume, che sbucavano gorgogliando di sotto gli archi del ponte.

Di tutti gli spettacoli monotoni, i quali possono accordarsi con la
malinconia d'un pensiero dominante, è questo certamente il più
acconcio. Passano le acque, si seguono i fiotti: ma questo che seguite
con gli occhi non è più quello di prima, eppure vi sembra la medesima
cosa. Non dissimilmente la vita umana e le sue molte vicende, chi le
guardi nulla nulla dall'alto.

La terrazza di Spinello Spinelli prendeva luce da tre arcate, sorrette
da colonnini di marmo nello stesso piano della facciata, la quale
faceva angolo con un'altra casa, che usciva alquanto più fuori sulla
riva del fiume, ed era terminata da un balcone, o terrazza scoperta,
in cima all'edifizio. Colassù si vedevano di tanto in tanto parecchie
donne, intente a rasciugare il bucato. Spinello le vedeva solamente
verso sera, quando egli si riduceva nel suo osservatorio. Le donne che
stavano allora levando i pannilini dal sole, salutavano lui molto
garbatamente; ed egli rendeva il saluto, né più altro aveva che fare
con esse.

Una di loro, più giovane all'aspetto, restava più lungamente in
vista, lavorando di cucito. Così almeno si doveva argomentare
dall'atteggiamento del viso, chinato su qualche cosa che il parapetto
non consentiva di scorgere, e dal moto uniforme e continuo, come di
persona che tragga il refe. Questo aveva osservato Spinello, senza
badarci più che tanto. Del resto, una savia e costumata fanciulla,
che non alzava mai gli occhi a guardarsi d'attorno. Quando egli,
disoccupato com'era, alzava a caso la testa, intravvedeva la sua
vicina, con lo sguardo basso sempre intento al lavoro.

Diciamo, ad onore di Spinello, che se l'avesse veduta mai in atto di
guardarlo, anche alla sfuggita, egli n'avrebbe preso sospetto e non
sarebbe più tornato sul terrazzo.

Tuccio di Credi, dopo il pranzo, andava sempre fuori da solo, e non
tornava che a notte alta, per andare a dormire. Ma una sera egli venne
con un pretesto a fare un po' di compagnia al suo principale.

--Dio santo! che occhio di sole!--esclamò egli dopo aver guardato
verso il balcone della casa vicina.--Ecco un bel modello per la Santa
Lucia---

Per intendere la frase di Tuccio, vi bisognerà sapere che Spinello
aveva avuto alcuni giorni prima la commissione d'una tavola a tempera,
per l'altar maggiore di Santa Lucia de' Bardi.

Spinello alzò gli occhi per guardare lassù, dove guardava Tuccio di
Credi, ma non rispose nulla al compagno.

--Che, forse vi pare ch'io non abbia ragione?--ripigliò Tuccio di
Credi.--A me sembra bellissima. Una vera trovata, per un pittore come
voi, che fa, a detta universale, i bei visi di Madonne e di Sante. O
forse non l'avevate ancora osservata?

--No;--rispose asciuttamente Spinello.

--Osservatela, maestro, osservatela. Proprio adesso che guarda in
aria. L'occhio ha una grande espressione, mi pare.

--Sì;--disse Spinello per farla finita con le esortazioni di Tuccio.

Quell'altro si fermò lì, che forse aveva parlato per una prima volta
già troppo. E poco stante, detto al compagno quel che aveva da dirgli,
se ne andò a fare la sua solita passeggiata. Spinello rimase sulla
terrazza, ma senza rivolgere più oltre lo sguardo alla sua bella
vicina.

Pure negli occhi doveva essergliene rimasto abbastanza. E quando ebbe
a fare il bozzetto della Santa Lucia per la chiesa de' Bardi, senza
volerlo, gittò sulla carta qualche cosa che somigliava abbastanza al
tipo della fanciulla.

Quando finalmente la tavola fu esposta all'adorazione dei fedeli, si
trovò, nel quartiere, che Santa Lucia somigliava tutta a monna Ghita
dei Bastianelli, la figliuola dell'orafo, che abitava per l'appunto
nel sobborgo Santo Jacopo.

S'intende che le donnicciuole non erano giunte di per sè a quella
conclusione, e che la loro perspicacia era stata aiutata da
qualcheduno. Tuccio di Credi, per esempio, passava le mezze giornate
davanti all'altar maggiore di Santa Lucia de' Bardi.

--Che vi pare, monna Tessa? Non si direbbe die il pittore ha preso a
modello la figlia dell'orafo, che sta qui nel Borgo, nelle case dei
Nucci?

--O madonna delle poerine! Ma sicuro, è tutta lei. Vuol essere
superba, la Ghita, quando saprà che l'han messa sull'altare, a far la
figura di Santa Lucia!

--Eh, bisogna pur dire che la ci ha un visino di santa. È un bel tocco
di ragazza, e se non fosse zoppina a quel modo!

--Zoppa, voi dite? Non mi par mica! È vero che cammina un po' stenta.

--E che credete? che sia per le scarpe? È zoppina, vi dico. Ma in
fondo, è un difettuccio da nulla, e quando è ferma non ci si vede
neanche.--

Questi ed altri erano i discorsi delle borghinelle di Borgo Santo
Jacopo, poste in sull'orma da Tuccio di Credi. E voi già immaginate, o
lettori, che la cosa giunse all'orecchio di monna Ghita. Io, in
verità, non potrei starvene mallevadore; ma credo tuttavia lo si possa
ammettere come molto probabile. E non mi stupirebbe se venisse in
chiaro che la fanciulla del Bastianelli era andata anche lei,
zoppicando un tantino, in Santa Lucia de' Bardi, per vedere
quell'immagine, in cui tutti dicevano di riconoscere il suo grazioso
visino.

Una cosa io posso dirvi di certa scienza, ed è questa: che Spinello,
non sapendo nulla di tante chiacchiere fatte sopra la sua tavola,
passava sempre le sue serate sotto gli archi della terrazza, donde
intravvedeva la fanciulla, sempre seduta accanto al balcone e intenta
a lavorare di cucito.

Uno di quei giorni, entrando sulla terrazza, Spinello non vide lassù
le altre donne. Forse era giunto più tardi del solito, e quelle
avevano già levati i pannilini dal sole. O forse non era giorno di
bucato. Insomma, tutto ciò importa poco al racconto, ed io l'ho
accennato solamente per dirvi che lassù egli non vide quella volta che
la fanciulla, e non ebbe altro saluto che il suo.

--Poverina!--pensa egli, mentre si affacciava al parapetto della
terrazza.--Ella non fa che lavorare da mattina a sera. Già, lavoriamo
tutti, a questo mondo. E perchè, poi? Per morire.--

Vi fo grazia del soliloquio, che avviato su quel tono, andò molto
lungo. Quando ebbe finito di filosofare, alzò gli occhi, sempre a
caso, come soleva, tanto per muovere il capo, e intravvide la
fanciulla del balcone. Gli parve da un lieve motto della testa, che
ella avesse finito allora di guardarlo. Ma non badò più che tanto a
quel segno di curiosità femminile. Ormai ci aveva presa la piega, e
non doveva insospettirsi per una guardata innocente.

Ma il giorno dopo, mentre stava per mettersi a tavola, Tuccio di Credi
gli disse:

--Sapete, maestro? L'hanno riconosciuta.

--Chi?

--La vicina, nella figura di Santa Lucia.--

Spinello ebbe l'aria di cascar dalle nuvole.

--Che novità è questa?--esclamò.--Io non so che cosa si sia potalo
riconoscere....

--Ma sì, vi dico, il popolino del Borgo ha riconosciuta la figlia
dell'orafo. Perchè dovete sapere che quella ragazza del balcone qui
presso, è la figlia d'un orafo, che lavora in una bottega del Ponte
Vecchio. Ho udito io con questi orecchi, ho udito le donnicciuole che,
dopo aver guardata la vostra bella tavola, dicevano; to', è monna
Ghita dei Bastianelli. E infatti....

--Infatti,--interruppe Spinello,--io non ho mai pensato di fare il
ritratto alla nostra vicina.

--Sarà;--disse Tuccio chinando la testa.

--È, vi dico, è.

--Sia pure come voi dite, maestro. Ma a me, ve lo confesso, pareva
davvero un ritratto. E mi figuravo anche come fosse andata la cosa.

--Sentiamo quest'altra.

--Sicuro! Rammentate quel che v'ho detto, forse un mese fa, vedendo
dalla terrazza la fanciulla dei Bastianelli? Sarebbe un modello
eccellente per la Santa Lucia.

--Rammento benissimo il discorso,--rispose Spinello,--ma io allora non
ci ho pensato più che tanto.

--Lo capisco,--ripigliò Tuccio di Credi.--Ma bisogna dire che la cosa
vi sia rimasta impressa nell'animo, come accada qualche volta senza
badarci, e che perciò, disegnando la Santa Lucia, vi siano venuti
inavvertitamente i contorni della nostra bella vicina.

--Sarà così;--disse Spinello che non amava disputare.

--Del resto,--continuò Tuccio di Credi,--son casi che si danno. E noi
possiamo prender questo come un augurio.

--Un augurio! Di che?

--Di matrimonio, perbacco!--osò rispondere Tuccio di Credi.--Via, non
mi fate quella brutta cera. Non ho mica parlato del diavolo! I
Bastianelli son brava gente, stimati per tutto il Borgo, e di monna
Ghita si parla assai bene; perfino dalle donne, che è tutto dire! Voi
siete solo, maestro. Io non potrò mica esser qui sempre, a tenervi
compagnia!

--Povero Tuccio!--mormorò Spinello.--Io debbo esservi grato di tante
cure amorevoli. Cure inutili, del resto;--soggiunse egli,
sospirando.--A che serve la vita?

--Serve ai fini di Domineddio, e vi par poco? Fino a tanto che egli ci
tiene quaggiù, bisogna starci. Non ricordate quel che dice messer
Dardano quando gli fate dei discorsi come questo? Il gentile uomo vi
ama assai. Anche ieri me lo diceva:--Bisognerebbe che Spinello
togliesse moglie.

--Ah!--gridò Spinello.--E voi?

--Io.... Scusate, maestro. Io gli ho raccontato di questo ritratto,
che tale è parso a tutti, come a me.--

Spinello si morse le labbra e diede una guardataccia all'imprudente
compagno.

--Questo non dovevate far voi!--esclamò.--Mettere in piazza una onesta
fanciulla!

--Oh, per questo, non ci vedo alcun male;--rispose Tuccio di Credi,
appoggiando la frase con un'alzata di spalle.--Ella stessa, rimanendo
ogni giorno in vista, presso al balcone....

--O perchè dovrebbe allontanarsene, se è in casa sua?--disse
Spinello.--E non credete che possa starci per consuetudine e senza
badare a me, come ci sto io, sulla terrazza, e senza occuparmi di lei?

--Potrebb'essere così, come voi dite, se non fosse
altrimenti;--rispose Tuccio di Credi.--Il fatto è questo, che la
fanciulla vi ha osservato e pensa a voi di continuo.

--Come sapete voi ciò?

--Eh, Dio buono, nel modo più naturale del mondo. Sapete pure! Le
ragazze, quando ci hanno un segreto di questa fatta, provano subito il
desiderio di confidarlo a qualcheduno. Mettete dunque che monna Ghita
ne abbia parlato ad una sua parente; che questa parente conosca me,
sapendo per giunta che io vivo insieme con voi, e che essa sia venuta
in gran segretezza a darmene un cenno, con la speranza che io spenda
una parola presso di voi, come faccio per l'appunto ora.--

--Spinello rimase un po' sconcertato da quelle notizie dell'amico, che
tanto s'accordavano con le sue medesime osservazioni. V'ho narrato
poc'anzi com'egli si fosse avveduto di qualche sguardo furtivo della
sua bella vicina. Ma egli lo aveva attribuito a mera curiosità, e non
si era fermato a vederci altro di più grave.

--Ve ne avrei toccato prima d'ora,--soggiunse Tuccio di Credi,--ma me
ne sono astenuto, perchè volevo consigliarmi con messer Dardano
Acciaiuoli.

--E vi siete consigliato!

--Certamente. Messer Dardano è un uomo di gran giudizio e pieno di
benevolenza per voi. Ora, anch'egli vedrebbe assai volentieri le
vostre nozze.--

Spinello fremeva dentro di sè dalla stizza. Gli cuoceva che si
occupassero tutti della sua felicità, come la chiamavano, mentre egli
non consigliava niente a nessuno e ai casi suoi intendeva di
provvedere da sè. Ma si trattenne dal manifestare ciò che gli bolliva
nel cuore, per non dir cosa la quale potesse far contro alla
gratitudine che egli sentiva per Dardano Acciaiuoli e all'amicizia
che, ad onta di quella seccatura, egli sentiva di dover professare a
Tuccio di Credi.

Questi, frattanto, veduto che l'amico si richiudeva nel suo guscio,
non pensò più che a mangiare. E finito il pasto, infilò l'uscio
senz'altro.

Quella sera, Spinello, già arrivato sul limitare della terrazza, mutò
prontamente opinione e uscì di casa a sua volta, per andare a diporto
lungo l'Arno, dove la riva, era più deserta, di là dalle case de'
Bardi. Anche lui non tornò che a notte alta, per andarsene a letto. E
la mattina seguente si recò in Santa Croce, dova lavorava in quel
tempo, e a Tuccio non disse parola che alludesse al discorso del
giorno innanzi, nè Tuccio a lui. Venne l'ora del pranzo, e si parlò
poco, di cose da nulla; indi Tuccio se ne andò pei fatti suoi, e
Spinello, rimasto solo, uscì da capo, per recarsi a diporto lung'Arno.

Il cangiamento non era piacevole. La sua triste e cara consuetudine
era interrotta. Spinello non poteva più esser solo, poichè un uomo che
passeggia è sempre esposto ad imbattersi in qualcheduno. Inoltre,
vedeva il suo fiume, i cui fiotti lievemente increspati si seguivano
lentamente; ma non era più lo spettacolo della terrazza, donde egli
vedova lo acque limacciose illuminarsi di qualche riflesso
cristallino, mentre gorgogliavano intorno alle pile del suo Ponte
Vecchio.

Uno di que' giorni, capitò una visita inaspettata nel quartierino di
Spinello Spinelli. Era Parri della Quercia, giunto allora da Arezzo.
Fu accolto, come potete immaginarvi, a braccia aperte. Alla vista
dell'amico che gli ricordava i suoi giorni più lieti, Spinello pianse
come un bambino. Era un pezzo che non piangeva, e quelle lagrime lo
sollevarono un poco.

Parri della Quercia era venuto a bella posta da Arezzo per dare al suo
compagno d'arte una lieta notizia. Prendeva moglie, e la gioia
domestica di cui voleva far parte a Spinello colorava alquanto le sue
guance scarne, su cui si leggeva il destino del giovine e modesto
pittore.

--Ci avete ben pensato, Parri?--chiese allora Spinello.

--Ci ho pensato;--rispose Parri, con l'usata placidezza.--Appunto
perchè ci ho pensato, fo conto di affrettare le nozze. Son condannato
a morire di mal sottile; lo so, ma che volete? Con questi mali si
campa qualche volta più a lungo di molti sani.

--Speriamo che il vostro male non sia così grave come dite;--replicò
Spinello.--Ma se lo fossa, Parri, vorreste voi condannare una povera
donna a vivere con voi, per restar vedova anzi tempo?

---Quando vi dico che ci ho pensato!--disse di rimando
quell'altro.--Sentite qua. La mia fidanzata è una ragazza povera, non
bella, nè felice. La tolgo da una casa, dove i suoi non l'amano come
dovrebbero, e dove la vita le è divenuta un inferno. Come vedete, fo
anche un'opera buona. Ella ha poi un cuor d'oro; mi terrà compagnia,
assisterà i miei ultimi giorni e li renderà meno dolorosi. Infine,
erediterà quei pochi ch'io vo guadagnando dalle opere mie. Non sarà
una gran cosa, perchè la mia arte è meschina; ma per lei sarà sempre
la ricchezza.

--Ottimo Parri!--esclamò Spinello, intenerito.--Speriamo che la nuova
vita vi giovi, e le miti gioie domestiche vi restituiscano a sanità.

--Eh, tutto può darsi. Quantunque io non lo speri, voi potete
immaginarvi che lo desidero. E voi, Spinello, non risanerete delle
vostre malinconie? Non prendete moglie anche voi?--

A quelle parole, buttate là a caso, Spinello rizzò prontamente la
testa.

--Avete parlato con Tuccio?--gli chiese, fissandolo in volto.

--Mio Dio, sì;--rispose Parri, che non sapeva mentire.

--Che noia!--gridò Spinello, sbuffando.

--Tuccio vi ama;--osservò placidamente quell'altro.

--Lo so, e m'è uggioso questo amore, che vuole ad ogni costo
impicciarsi nei fatti miei. Mi lascino alle mie tristezze. Parri, io
ci ho i morti nell'anima; come volete che pensi alle creature vive?

--Ecco il male;--ripigliò Parri.--Io non credo che ciò vi consiglino i
morti, sibbene di andare per la via retta e di avere un po' di
pazienza.

--Ne ho.

--Ma per uccidervi lentamente. E questo è un grave peccato innanzi a
Dio. Così amate i morti, Spinello? E vorrete voi mettere sull'anima di
quella poveretta la rovina del vostro ingegno, la morte vostra, la
disperazione del vostro povero padre?--

Era la prima volta, dopo un anno, che si accennava così direttamente a
madonna Fiordalisa, in presenza di Spinello Spinelli. E il modo era
ingegnoso, come ispirava l'affetto al mite animo di Parri della
Quercia.

Spinello rimase alquanto sconcertato dalla novità dell'argomento. Un
teologo, dugent'anni più tardi, ne avrebbe fatto un caso di coscienza,
sicuro di vincere con esso la riluttanza di un credente come Spinello
Spinelli, più che allora non isperasse di vincerla quel bravo giovine
d'un Parri.

E certamente non poteva sperarlo, poichè Spinello non gli aveva
risposto più nulla. Era la sua consuetudine, quando un discorso non
gli andava a' versi, di chiudersi in sè medesimo, alla maniera dei
grandi, e di lasciarvi lì, a mezzo della vostra perorazione.

Parri, come potete immaginarvi, fu trattenuto a desinare. La casa di
Spinello Spinelli doveva essere la sua, per tutto il tempo che egli
contava di rimanere a Firenze. Ma dopo il desinare, Tuccio di Credi lo
tirò in disparte e gli disse:

--Lasciamo solo il maestro; questa è l'ora in cui egli si raccoglie un
tantino, per meditare le sue composizioni.

--Che gli fanno tanto onore!--esclamò Parri, con accento di profonda
convinzione.--In Arezzo si parla sempre de' suoi trionfi, e tutti se
ne rallegrano di cuore. Suo padre, poi, ne è veramente orgoglioso.
Povero messer Luca! Come sarebbe contento, se voi poteste mandargli
una buona volta l'annunzio che suo figlio ha cacciate dal capo le sue
malinconie!--

Spinello udiva il dialogo dei due compagni d'arte. Alle ultime parole
di Parri della Quercia si volse in soprassalto, e gli chiese:

--È mio padre che vi ha incaricato di parlarmi in tal guisa?

--Sì;--rispose Parri volgendosi a lui;--ma lo ha fatto con una frase
più calda. Morrei contento, mi disse, morrei proprio contento, se
Spinello mi desse prova d'aver risanato lo spirito.

--Povero padre!--esclamò Spinello, sospirando.--Poterlo!--

E congedati gli amici, andò verso la terrazza, dove lo tirava la
vecchia consuetudine. Ma, come fu giunto sul limitare, tornò indietro.
Avrebbe voluto contentar tutti, ma in verità non se ne sentiva la
forza.

Passarono così altri due giorni, senza che si tornasse su quel triste
argomento. Spinello era a lavorare in Santa Croce, quando gli fu
annunziata la visita di messer Dardano Acciaiuoli. La cosa non parve
strana a Spinello, poichè messer Dardano era stato il suo primo
protettore in Firenze, e rimaneva il suo migliore amico. Spesse volte
il vecchio gentiluomo andava a cercarlo e stava qualche ora a vederlo
dipingere, in questa o in quella delle chiese che Spinello decorava
de' suoi mirabili affreschi.

Quella volta, salendo sul ponte, messer Dardano gli disse,
incominciando:

--Maestrino, ho a farvi un lungo discorso. Non vi spaventerete mica?--

Spinello indovinò subito dove messar Dardano volesse andare a battere.
Ma ci voleva pazienza; bisognava ascoltarlo.

--Sedete, messere;--gli rispose, additandogli uno sgabello.--Il luogo
è forse incomodo, per una lunga conversazione; ma tal sia, come voi vi
siete degnato di sceglierlo.

--Oh, si sta benissimo qui;--disse l'Acciaiuoli.--Sedete anche voi.--

Spinello voltò dalla parte di messer Dardano il suo trèspolo, e si
assise sul gradino più basso nell'atteggiamento del minore che ascolta
il maggiore.

Messer Bardano incominciò:

--Sapete se vi amo, Spinello!...

--Oh, messere! Me ne avete dato tante prove!--rispose il giovine
pittore.--Senza il vostro aiuto, che sarei? Mi conoscerebbero, forse,
a Firenze?

--Non parliamo di ciò;--disse il vecchio gentiluomo, dandovi sulla
voce.--È debito d'un cavaliere che ami la patria, promuovere con ogni
sforzo tutto ciò che le torni ad onore. E in questo io sono ancora il
vostro debitore.--

Spinello s'inchinò, arrossendo.

--Volevo parlarvi in quella vece dell'amicizia che ho per
voi,--continuò messer Dardano,--che vorrei vi fosse nota in tutta la
sua profondità. Vi amo come un figlio, maestrino mio, e vorrei vedervi
felice.

--Felice!--mormorò Spinello.--È forse possibile?

--Se lo vorrete, sì certamente.

--Risuscitate i morti, messere?

--Ahimè, troppo mi domandate. Un solo, al mondo, ha potuto far ciò, e
quell'uno non era un uomo;--replicò messer Dardano.--Ma quell'uno
sopportò molte miserie e bevve il calice delle amarezze per noi,
insegnandoci in questa guisa a patire, a vivere fortemente in mezzo
alle prove più dolorose. Siete voi certo, Spinello, di fare il debito
vostro, chiudendovi in questa cupa tristezza! E siete voi certo di
piacere a quell'anima santa che avete perduta? Credete voi che lassù
non si dolgano di vedervi cagionare tanto rammarico al vostro vecchio
padre? Pensate com'egli sarebbe consolato se vi sapesse più lieto! Me
lo ha confessato ieri un vostro amico, Parri della Quercia, che fu
condotto a casa mia da Tuccio di Credi. Un altro che vi ama. Spinello!
E voi vedete che io non vi faccio misteri; vengo subito a mezza spada
con voi. Orbene, proseguiamo a parlarci schiettamente; vostro padre
vuole da voi questa consolazione, l'ultima che potrete dargli, da quel
buon figlio che siete. Morrà triste, se non saprà che il vostro
spirito ha ritrovata la pace.

--Messere,--balbettò Spinello, confuso,--vorrei.... Lo sa il cielo, se
vorrei!...

--Vogliate dunque; dipende da voi;--ripigliò messer Dardano.--Voi
dovete ammogliarvi. Una compagna vi è necessaria. Non credete a ciò
che sentenziano taluni, che l'artista ha da viver solo, perchè l'arte
non vuole rivali. Chi immagina e crea, deve trovare in casa la pace
allegra, che ritempra le forze, e il viso sorridente di qualcheduno
che l'ama. Si narra d'un gigante, che combattè con Ercole, e che
rinfrescava il vigore delle membra, quante volte toccava coi piedi la
terra. La terra, per l'artista è la sua famiglia. Fatevi una famiglia,
Spinello. E poichè ho udito d'una buona fanciulla che vi ama....
Suvvia, perchè non la sposereste?

--Messere,--disse allora Spinello,--per far ciò che voi dite, bisogna
amare. Ed io non amo.

--Pazienza! Cerchiamone un'altra che vi piaccia di più. Quantunque,
monna Ghita, che io ho veduta l'altro dì....

--Come?--gridò Spinello.--Anche questo avete fatto?--

Messer Dardano sorrise, come sa sorridere un uomo accorto, quando
altri s'avvede di qualche sua bella trovata.

--Sicuramente;--diss'egli.--Avevo udito di questa ragazza vostra
vicina di casa, ed ho voluto vederla. Domenica mattina, per l'appunto,
il nostro Tuccio di Credi è venuto a prendermi a casa mia, per
accompagnarmi agli uffizi divini in Santa Lucia dei Bardi. Monna Ghita
ha un'aria modesta e buona che innamora. E certamente se tutta la
persona fosse così bella come il viso.... Ma già, non si nasce
perfetti, a questo mondo.

--Ah!--notò Spinello, incominciando a respirare.--Ci avete trovato
qualche difetto?

--Una cosa da nulla, in verità, e quasi non metterebbe conto
parlarne,--rispose messer Dardano.--Ma infine, se questo può essere un
ostacolo per voi, ve lo torno a dire, cerchiamone un'altra che vi
piaccia di più.

--No, no;--disse Spinello.--Se io volessi pure risolvermi al gran
passo, credetelo, io non andrei a cercare la perfezione. Tutt'altro!
Mi parrebbe un'offesa alla, memoria di quella poveretta;--soggiunse
egli rabbrividendo istintivamente.--Voi lo avrete saputo da Tuccio, o
da altri, messer Dardano mio veneratissimo; Fiordalisa era un miracolo
di bellezza. Iddio non ha voluto che tanto splendore privilegiasse la
terra, e l'ha ripreso con sè, per ornamento del suo trono. Ma io non
ne cercherei altra, che valesse altrettanto, quand'anche sapessi di
trovarla al mondo: nè vorrei cercarne una che agli occhi altrui
potesse parere scelta da me per le grazie della persona. Su ciò mi
troverete saldo, messere; nè essere, nè parere, anco lontanamente,
infedele a quell'immagine di celestiale bellezza, che la morte ha
potuto rapirmi, ma che non potrà farmi dimenticare più mai.

--Orbene, eccovi nel caso;--replicò l'Acciaiuoli. Monna Ghita non ha
--di veramente gentile che il viso. Alla sua persona mancano affatto
--quei contorni delicati che hanno, per esempio, le vostre Madonne, e
--che certamente ebbe la vostra povera morta. La figlia del
--Bastianelli cammina male, per giunta, ed anzi la dicono un po'
--zoppa. Chi potrà dire che voi vi siate invaghito di lei, per le
--grazie della persona? Diranno che dovevate farvi una famiglia,
--perchè questo è l'obbligo d'ogni uomo per bene, d'ogni artista che
--voglia lavorare da senno. E poi, ella vi ama, mio bel maestrino, ed
--anche questo va considerato. La sua figura, che fu ritratta da voi
--nella Santa Lucia....

--Un caso!--interruppe Spinello.--Un mero caso, di cui non so
neanch'io rendermi ragione. Tuccio di Credi ve lo avrà detto, che
io....

--Sì, sì, m'ha detto ogni cosa, ed io ho capito benissimo come sia
andata questa faccenda. Infine, un pittore ha da prenderli in qualche
luogo, i suoi tipi. Non ci mancherebbe altro che l'artista dovesse
reputarsi innamorato di tutte le figure che ha da ritrarre, per dar
varietà alle sue opere! Una cosa rimane, che il viso di monna Ghita ha
una grande espressione, ed è l'indizio di una bell'anima. Pensateci,
Spinello, e poi mi direte che cosa avrete deliberato di fare. Ma
badate, maestrino, non dovete rattristarmi, dovete dirmi di sì.--

Spinello non rispose. E in verità non aveva da risponder nulla, perchè
messer Dardano gli dava tempo a pensare, risparmiandogli il rimorso di
un no troppo reciso e pronto, che sarebbe parso un atto di scortesia
verso quell'uomo onorando.

Pensò, difatti, quando fu solo, pensò lungamente a tutte le cose che
gli aveva detto il vecchio gentiluomo, ed anche ai discorsi di Parri,
come a quelli di Tuccio. Benedetto chiacchierone, quel Tuccio! Era
lui, proprio lui, che aveva destato quel vespaio, tirandogli addosso
tante esortazioni ad un tempo. Spinello, per altro, non poteva
lagnarsene troppo. Il suo compagno d'arte non aveva peccato che per
eccesso di zelo. Così grande era il tesoro dell'amicizia, sotto quella
ruvida scorza d'uomo.

Monna Ghita! Dunque egli, per essere andato ad abitare in Borgo Santo
Jacopo, doveva acconciarsi a prender moglie? Ma già, fosse andato a
Por Santa Maria, a porta Pinti, a Santa Croce, in Ognissanti, sarebbe
stato lo stesso. Quando gli amici hanno stabilito di darvi moglie, le
donne non mancano e se ne trova una ad ogni uscio. Manco male la
figliuola dell'orafo, poichè messer Dardano ci aveva trovato un grosso
difetto. Era zoppa, e tozzotta per giunta. Poverina! Non lo avrebbe
trovato facilmente, un marito. E gli divenne cara, quella povera
figliuola, già condannata nell'animo suo a rimanersene in casa, gli
divenne cara per quel tanto di ambizioncelle e di vanità a cui ella
avrebbe dovuto rinunziare. Infatti chi nol sa? La donna, destinata a
risplendere per la bellezza, e ad essere dal più al meno una
meraviglia per qualcheduno, scade nella propria estimazione, quando le
manchi questa piccola speranza, in cui è riposta ogni sua contentezza.

Quel giorno Spinello si arrischiò a tornare sulla terrazza, ove da una
settimana non aveva più posto piede. Monna Ghita non si vedeva al
balcone, ed egli si trovò meno impacciato. La corrente del fiume
scendeva gorgogliando di sotto gli archi del Ponte Vecchio, ed egli
stette ad osservar la corrente.--Così la vita;--pensò tornando al
monologo;--poi si finisce nel gran mare dell'essere. Bella cosa, il
finire, non sentir più nulla delle usate molestie, e ricongiungersi a
ciò che s'è avuto di più caro nel mondo!--

La mattina seguente, Parri della Quercia faceva ritorno ad Arezzo.

--Che dirò a vostro padre?--chiese egli all'amico.

--A mio padre?...--balbettò Spinello.--Ditegli....--

E trasse, così dicendo, un sospiro. Poi, facendo uno sforzo, riprese:

--Ditegli che lo contenterò.

--Ah!--grido Tuccio di Credi.--Davvero?

--Sì,--mormorò Spinello.--se la vicina mi vorrà, io sono disposto. Vi
contenterò tutti, non dubitate.--

Gli occhi di Tuccio sfavillarono d'allegrezza. Quel bravo Tuccio di
Credi! Amava tanto Spinello!




X.


L'anno era trascorso dacchè madonna Fiordalisa era morta per lo
sventurato Spinello. Ed egli, il fedele, l'inconsolabile amante,
circuito, spronato, incalzato, oppresso dalle esortazioni di tutti,
dava tregua al lutto del suo cuore, per impalmare un'altra donna.

Così finiscono, direte, così finiscono gli eroi da romanzo! Ma, di
grazia, umani lettori (e vorrei soggiungere umane lettrici), sentite
un pochino le ragioni del narratore. Si grida tanto alla debolezza dei
romanzieri, che si son fitti in capo di presentare al pubblico dei
tipi perfetti, soprannaturali, impossibili! E i romanzieri, che sono
uomini veri, cioè a dire imperfetti la parte loro, si seccano di
questa chiacchiera, oramai troppo ripetuta. Ah, volete del vero?
Eccone. Voi pretendete, osservatori giudiziosi della natura, che il
dolore non duri eterno nell'anima umana. L'esempio costante di ciò che
vedete intorno a voi sembra dirvi che la gioventù della carne,
mortificata a lungo da un profondo rammarico, si ribella un bel giorno
al suo tormentatore e ripiglia i suoi diritti? Ammettiamo che sia
vero, e rifacciamo i nostri poveri eroi su questo grazioso esemplare.
Noi dunque dicevamo....

No, non dicevamo nulla; o piuttosto, dicevamo che non è proprio così.
Il senso morale si ribella anche lui, respinge queste superficialità
dell'osservazione quotidiana, ed anche in un atto di debolezza vuol
vedere le ragioni di un grande sacrifizio. Andate coll'indagine minuta
e paziente, andate in fondo a queste apparenti infedeltà che sono
portate dai casi e consigliate dagli obblighi della vita, e troverete
ancora il dolore, più profondo e più grave che mai, poichè i contrasti
degli affetti lo avranno mutato in rimorso.

Lo abbiamo tutti, non dubitate, lo abbiamo tutti, un alto ideale
nell'anima. Lo si nega da molti, a cui pesa di nutrire un ospite così
ragguardevole, e di apparire poco padroni in casa propria. Ma la
coscienza lo svela a tutti e col testimonio della coscienza non c'è
negazione che tenga. Quando la commedia del giorno è finita e l'attore
si trova solo nel suo camerino, dove non ha più da ingannare nessuno,
spoglia le vesti e gitta gli arnesi della sua parte, incominciando da
quei mustacchi neri e arroncigliati che gli davano un'aria di
gradasso, o da quelle fedine bionde, che lo facevano parere un inglese
annoiato. Quando tacciano intorno a voi le voci del mondo, ascoltate
la voce arcana che è dentro di voi e che vi dice: Così devi essere,
non come ti sei dato a vedere. Nobiltà, grandezza, culto della virtù,
non sono vuote parole. Perchè vuoi mostrarti spregiatore delle cose
invisibili, solo perchè non si riflettono nello specchio che ti
rappresenta la tua immagine arcigna? E chi credi tu d'ingannare, con
questa tua scettica asseveranza? Chi ti dice che tutto ciò che fu, sia
morto davvero e per sempre? Chi ti assicura che gli occhi vigili, di
là dalla tomba, non guardino ancora, con tristezza o pietà, ciò che tu
fai di malvagio o di sciocco?

Spinello Spinelli vedeva la propria condizione e pensava con
raccapriccio che avrebbe dovuto mentire davanti ad una povera
fanciulla un affetto che non sentiva nel cuore. Ma gli soccorreva in
quel punto l'esempio di Parri della Quercia. Già condannato ad una
fine immatura, non impalmava egli una ragazza, col nobile proposito di
liberarla dalle strette della miseria e dai mali trattamenti della
famiglia? E Spinello, dal canto suo, condannato al lutto eterno delle
sue morte speranze, non avrebbe assicurato a monna Ghita dei
Bastianelli uno stato di gran lunga superiore a ciò che ella poteva
ripromettersi? Perchè, infine, egli era giunto in breve ora
all'eccellenza dell'arte e ne raccoglieva i frutti ogni giorno. La sua
medesima tristezza, appartandolo dal mondo, gli recava il benefizio
inestimabile di una febbrile operosità. La ricchezza si faceva
incontro a Spinello, più che egli non andasse a cercarla; e quella
ricchezza egli avrebbe data a monna Ghita, in compenso di un amore che
non era in poter suo di offerirle.

E poi, che cosa doveva ella sapere delle cose d'amore, quella vergine
creatura, vissuta sempre rinchiusa tra le pareti domestiche? Così
pensava egli, ingannandosi; ma in quella stessa guisa che si ingannano
tutti, credendo che amore sia una scuola, mentre esso è una
rivelazione. Una donna, anche più facilmente e meglio dell'uomo, si
inizia all'amore da sè, Non ne ha imparati i segreti; eppure ella
sente subito, appena il suo cuore abbia incominciato a dare i battiti
più frequenti dell'usato, ella si addestra a discernere l'amore vero
dal falso, l'accento della passione da quello della tenerezza e della
pietà. Ma infine, ve l'ho detto, Spinello s'ingannava come tanti e
tanti altri, e poteva credere che quella innocente fanciulla non gli
avrebbe saputo chiedere più di quello che egli poteva darle in
ricambio. E all'ombra di Fiordalisa, che gli stava sempre negli occhi,
mostrava gli amici, i protettori, messer Dardano, suo padre, tutti
collegati nell'opera di volerlo ammogliato. E le soggiungeva, quasi a
finire di persuaderla: vedete, la donna che io ho, non già trascelta
fra mille, ma accettata dalle mani del caso, è una povera creatura, a
cui mancano le grazie della persona, e nessuno potrà credere che il
mio cuore, ancor pieno di voi, si sia infiammato per una donna così
poco paragonabile a voi.

In questo modo e con questi ragionamenti, Spinello Spinelli si
acconciò al nuovo proposito. Messer Luca, a mala pena ne ebbe il
felicissimo annunzio, si partì da Arezzo, per venire a Firenze. Gli
antichi odii partigiani che lo avevano cacciato dall'ombra del suo bel
San Giovanni erano da gran tempo sopiti. Riabbracciò il suo figliuolo
e gli parve di vederlo tornato da morte a vita; nè si dolse, nel suo
cuore di padre, aperto a tutte le ammirazioni come a tutte le
tenerezze, di dover mandare il rispetto di costa all'amore, trovando
Spinello così grande, per le sue opere, nella estimazione di tutti.

--Figliuol mio,--gli dicea, non sapendo saziarsi mai di guardarlo e di
baciarlo sul viso,--sei tu? proprio tu? il dipintore famoso, che
contende la palma ai migliori della scuola di Giotto? E sono io tuo
padre?--

Dopo una così lunga notte di amaro sconforto, Spinello Spinelli ebbe i
primi sorrisi di gioia, vedendo l'allegrezza di quel povero vecchio,
che per lui, per suo figlio, tornato alla quiete dell'animo, cresciuto
alla gloria dell'arte, dimenticava perfino le ebbrezze del fuoruscito,
che dopo tanti anni d'esilio rivede finalmente la patria.

Messer Dardano Acciaiuoli accolse anche lui amorevolmente il padre del
suo giovine amico e gli fece gran festa. Ambedue andarono dal
Bastianelli che lavorava, come vi ho detto, in una botteguccia d'orafo
sul Ponte Vecchio.

Il bravo e modesto artefice cascò dalle nuvole udendo quella domanda
di matrimonio fatta a sua figlia da un pittore famoso e recata a lui
da un uomo così ragguardevole, da uno dei maggiorenti di Firenze, qual
era messer Dardano Acciaiuoli. Non accettò lì, su due piedi, perchè
voleva interrogare sua figlia, ma in fondo in fondo perchè non credeva
a' suoi medesimi orecchi. Non poteva darsi che quei due visitatori
avessero preso un granchio e fossero andati da lui, scambio dì andare
da un altro?

--La mia figliuola, non fo per dire, è un'angiola;--rispose il
Bastianelli, com'ebbe udita la domanda di messer Dardano.--Ma forse
messer Spinello, di cui mi parlate, non l'ha vista bene. Agli occhi
del mondo, che non conosce il suo cuore, la mia Ghita è una povera
ragazza, senza garbo, come senza sostanze. Troppo le manca di ciò che
può far piacere una donna, specie ai pittori, che s'innamorano di
veduta, anteponendo, com'è naturale, i pregi della persona a quelli
del cuore.

--Via, mastro Zanobi,--rispose l'Acciaiuoli, non fate così poca stima
--del sangue vostro. Spinello conosce la vostra Ghita e ne è
--innamorato morto. E poi l'ho veduta anch'io, che me ne intendo, per
--antica esperienza;--soggiunse usando dei diritti che concede
--l'età.--Non vi date dunque pensiero di certi nonnulla. Piuttosto
--chiedete a lei che cosa pensi di questa proposta. Si sa, poichè col
--marito ci ha da vivere lei, è anche giusto che sia interrogata la
--sua volontà.

--È giusto, sicuro, è giusto;--disse il Bastianelli, che non sapeva
raccapezzarsi, tra il dubbio e l'allegrezza.

Siamo dunque intesi;--ripigliò l'Acciaiuoli.--Chiedete l'avviso della
vostra figliuola. Noi ripasseremo domani da voi.

--No, messere, so il debito mio;--replicò 11 Bastianelli facendo un
inchino.--Passerò io alle vostre case, messere.--

Quel giorno mastro Zanobi chiuse bottega alle undici del mattino,
quantunque non fosse giorno di festa. Ma era festa per lui, a bastava.
Gli sapeva mill'anni di essere a casa, di avere interrogata sua figlia
e di saperne l'intiero.

Monna Crezia, che tale era il nome della moglie dell'orafo, fece le
meraviglie, vedendo ritornare in casa a quell'ora insolita il marito.

--Domine!--gridò ella, inarcando le ciglia. Che cos'è stato? Perchè
--avete lasciata la bottega?

--La bottega è la bottega e la casa è la casa; sentenziò mastro
--Zanobi.--Dov'è la Ghita?

--È di là, che lavora. Ma si può sapere che cosa abbiate, Zanobi!

--Crezia, voi saprete ogni cosa a suo tempo. Venga la Ghita; ho
bisogno di parlarle.--

Venne la Ghita. Una bella ragazza, a non guardare che la testa;
capegli neri come l'ebano, occhi neri e pieni d'espressione; nobili e
delicati i lineamenti, bianca la carnagione, e soave il sorriso, che
prendeva lume in giusta misura dalla bontà dell'animo e dalla bellezza
della bocca. Peccato che il collo non fosse lungo abbastanza, ma in
fine, era un collo bianco e tondeggiante, indizio di forte e serena
maternità. La vita era un po' tozza, ma seguitava anch'essa il
carattere e l'espressione del collo, quasi preparando l'occhio a
quella andatura impacciata, che in parte lasciava indovinare e in
parte nascondere il difetto già noto ai lettori. Un difetto da nulla,
in verità, quello che aveva meritato a monna Ghita il soprannome di
zoppina, e si poteva dimenticarlo, quando essa non si muoveva;
condonarlo, e trovarci anzi una certa grazia, quando ella si faceva
innanzi, con quella sua andatura di persona stanca e svogliata.

--Ghita,--incominciò gravemente mastro Zanobi,--dimmi la verità.
Conosci tu un giovane, qui presso, che ti fa.... mi capisci?

--Babbo, io non capisco;--rispose la Ghita.

--Vo' dire che ti fa l'occhiolino. Capisci ora?--

La Ghita si fece rossa come una fravola montanina.

--Padre mio...--balbettò ella, più confusa che mai.

--Rispondi! Non voglio mica mangiarti. Qui presso alla nostra casa,
abita forse un giovanotto, che tu vedi qualche volta?

--Non so.... Io non conosco nessuno;--rispose la fanciulla.--Ce ne
stanno due, qui presso, nella casa degli Ammannati. Si vedono qualche
volta sulla terrazza, senza volerlo, stando quassù, presso al balcone.

--Il loro nome!

--Non lo so. Si dice che siano due pittori. Ma la mamma potrà saperlo
meglio di me. Io non parlo con nessuno, lo sai.

--Che c'è? che c'è?--entrò a dire monna Crezia.--Perchè domandate il
nome dei vicini, Zanobi?

--Perchè? Perchè uno di costoro ha chiesta la Ghita in moglie. Vi pare
che io non abbia il diritto di domandarvi qualche ragguaglio?

--Ah!--gridò monna Crezia.--Messer Spinello Spinelli?...

--Bene! Voi sapete già il nome?--ripigliò ironicamente, ma senza
sdegno il marito.--E tu, Ghita, lo sapevi anche tu, non è vero?--

Ghita chinò la testa, arrossendo di bel nuovo. Voi capirete, lettori
discreti, che, alla sua età e nella sua condizione di figlia al
cospetto del babbo, la fanciulla non poteva far altro.

Mastro Zanobi seppe quel che voleva sapere, e rimase lì un tratto
senza parole, guardando la moglie e la figlia, con una cert'aria che
voleva parere arcigna, e con una gran voglia in corpo di abbandonarsi
alle più matte dimostrazioni di gioia. Maritare una figlia, levarsi di
casa la zoppina, che vi pare? Non c'era da far le capriole? Il re
David, uomo gravissimo pel suo tempo e per la sua dignità in Israele,
ballò davanti all'Arca per molto meno.

--Sicchè,--disse finalmente mastro Zanobi, conchiudendo ad alta voce
un suo ragionamento mentale,--non sarà neanche il caso di chiedervi se
siete contente? Meglio così. Io, tanto e tanto, avrei risposto di si,
anche senza il vostro consenso. Vi ho interrogate perchè la cosa mi
pareva strana, e ancora adesso non so capacitarmi in che modo sia nato
questo innamoramento del pittore.

--Oh, non stiate a credere che noi si sia fatto un passo per andargli
incontro;--rispose prontamente monna Crezia.--Si vedevano qualche
volta i due giovani sulla terrazza degli Ammannati, nella casa qui
presso dove sono venuti da qualche mese ad abitare. Uno di essi ci
restava a lungo seduto, guardando in Arno, come se aspettasse una
barca, che non veniva mai. L'ho capito un po' tardi, che barca
aspettasse! Ma come indovinarlo subito, Dio buono, se non guardava mai
in alto, salvo una volta in principio, per salutarci, come s'usa tra
buoni vicini? Bisogna proprio dire che ci abbia gli occhi sulla
fronte, alla guisa delle chiocciole!

--Abbreviate, Crezia!--disse mastro Zanobi. Quando incominciate a
--parlar voi, benedetta donna!

--Oh, vi contento subito. Un giorno, sarà forse due settimane fa, è
venuta da noi monna Tessa, la cognata di vostro fratello, povero Meo,
che Iddio abbia in gloria l'anima sua, e m'ha detto che nel Borgo si
faceva un gran parlare d'una tavola esposta in Santa Lucia de'
Bardi.--Che importa a me di quella tavola?--Può importarvi perchè la
faccia della Santa è il ritratto puro e pretto della vostra
figliuola.--Che volete, Zanobi? La curiosità ci ha prese e siamo
andate a vedere anche noi questa Santa Lucia. Monna Tessa aveva
ragione; la Santa somigliava alla Ghita come... come... aiutatemi a
dire!

--Abbreviate, Crezia, abbreviate! Il paragone non serve a nulla.

--Che uomo impaziente siete voi! Ci avete sempre vent'anni. Basta,
sappiate che, dopo la faccenda del ritratto, monna Tessa, che conosce
i due pittori, è venuta a dirmi dell'altro. I pittori le avevano
chiesto di noi, chi fossimo, che cosa facessimo, se la Ghita avesse
già un fidanzato, ed altre scioccherie di questa fatta.

--E non mi avevate avvertito di nulla? Brava la mia Crezia!

--Madonna delle poerine! O che volevate che io venissi subito a
confidarmene con voi! Monna Tessa me ne aveva parlato così in aria,
senza assicurarmi nulla. Erano chiacchiere fatte tra noi donne, ed io
credevo che non ci avessero neanche ombra di fondamento, perchè dopo
quel discorso avevo incominciato a fare un po' di guardia e non m'ero
avveduta di nulla. Il giovanotto non veniva neanche più a sedersi
sulla terrazza. Oh, per questo, non dubitate, dev'essere un uomo
dabbene.

--Meglio così;--sentenziò mastro Zanobi;--senza contare che è un
artista di grido e che la domanda di matrimonio mi è stata fatta da
suo padre, venuto a bella posta d'Arezzo, e accompagnato alla mia
bottega da uno dei più ragguardevoli cavalieri di Firenze. Non capisco
come una sorte così grande sia toccata alla nostra casa. Ma già, dice
il proverbio: fortuna e dormi. Siete contente voi altre? Io sono
arcicontento. Preparatevi a ricevere il fidanzato, che un giorno o
l'altro bisognerà pure aprirgli l'uscio di casa. E a due battenti, se
lo accompagna messer Dardano Acciaiuoli. Voi, Crezia, mi direte poi
che cosa gli bisogna alla nostra figliuola, non siamo ricchi, ma
grazie a Dio, tanto da non farla sfigurare lo avrà.--

Così ebbe fine il primo dialogo dei coniugi Bastianelli intorno al
matrimonio di monna Ghita. La quale, poverina, ci perdette l'appetito,
tanto era sconvolta dall'idea di quelle nozze, che certamente
l'avrebbero fatta invidiare da tutte le ragazze del vicinato.

Mastro Zanobi temeva un pochino quantunque non lo lasciasse trapelare
a nessuno, che il pittore, entrato una volta in casa, non gli girasse
nel manico, trovando, come suol dirsi, il vino troppo diverso da
quello che prometteva l'insegna. Spinello venne, e fu proprio il caso
di aprir l'uscio a due battenti poichè messer Dardano Acciaiuoli si
era degnato di accompagnare il suo giovane amico. Per fidanzato gli
parve un po' grave; ma forse era da attribuirlo alla timidità del
carattere e alla confusione di un primo incontro. Infatti, come il
ghiaccio fu rotto, Spinello Spinelli parve rasserenarsi a grado a
grado, e mezz'ora dopo non c'era in lui più traccia di musoneria.

Comunque, egli l'aveva voluta; doveva pensarci lui. Mastro Zanobi andò
bravamente all'ultimo esperimento. Bisognava far onore agli ospiti, ed
egli mandò le sue donne a prendere nell'armadio una bottiglia di vin
Santo. Monna Ghita dovette muoversi dalla sedia, su cui era rimasta a
così dire inchiodata, e andare attorno come avrebbe fatto Ebe
nell'Olimpo, o Briseide nella tenda di Achille. Gli occhi del babbo
seguirono la fanciulla che camminava più stenta del solito; indi si
volsero a indagare il viso di Spinello Spinelli. Lo credereste? Il
giovinetto non parve darsi per inteso del difetto; anzi, da quel
momento, incominciò a mostrarsi più franco, e poco stante si alzava
anche lui, chiedendo licenza di aiutar la fanciulla in quell'umile
ufficio di servitù familiare.

E bisognava vederlo, con che garbo ci si adoperava. Forse un
osservatore più diligente e più acuto avrebbe trovato che Spinello
Spinelli mirava a dissimulare con quella mostra di operosità un
sentimento di freddezza che poteva benissimo essersi impadronito di
lui. Perchè gli uomini son fatti così, e si cavano volentieri
d'impaccio fingendo una gran voglia d'esser utili, che li dispensa dal
rimanere estatici. La sollecitudine s'inventa lì per lì; l'estasi non
si comanda. Essa, è come quel tal segreto degli artisti, che

    A cui natura non lo volle dire
    Nol dirian mille Ateni e mille Rome.

Per fortuna, mastro Zanobi non era un osservatore di quei tali, e a
lui la spigliata sollecitudine del fidanzato poteva e doveva parere
tutt'altro.

--Non siete scontento di noi?--gli chiese in un momento che potè
averlo in disparte.--Siamo povera gente, messere, e ancora tutti
confusi dal grande onore che ci fate.--

Spinello Spinelli si commosse a tanta semplicità di parole.

--Che dite mai, padre mio?--esclamò.--Son io che debbo esser confuso
di gratitudine. E che io lo sia davvero ve lo dimostra il non avere
ancora saputo trovar l'occasione di dirvelo. Nel seno della vostra
cara famiglia io troverò la pace che non ho potuto avere nella mia, da
troppi anni disfatta. Mia madre è morta, quando io ero ancora bambino;
mio padre, esule dalla sua Firenze e triste come tutti gli esuli, non
ha potuto circondare di gioie domestiche la mia fanciullezza. Son
venuto su triste come lui e lo sono rimasto, come vedete. Egli e
messer Dardano potranno dirvi che questa è la mia indole. Ma io vi
prego di credere una cosa, mastro Zanobi; la vostra figliuola non avrà
mai a dolersi di me. Questo posso promettere, sulla mia fede
d'onest'uomo.--

Mastro Zanobi, intenerito, strinse fra le sue braccia il futuro suo
genero.

--L'avete detto,--rispose,--l'avevo detto fin dal primo momento che vi
ho veduto: ecco un giovine dabbene!--

Le nozze furono affrettate quanto più si potè, senza danno dei
consueti apparecchi. C'era in tutti una gran furia di far presto.
Furia del Bastianellì, a cui non parea vero di allogare la figliuola
in quel modo; furia di messer Luca, che non vedeva l'ora di veder suo
figlio sottratto ai pericoli dell'umor nero; furia di messer Dardano,
che adempiva con coscienza a tutti i suoi uffici di protettore;
finalmente (e forse era da metter questa innanzi alle altre) furia di
Tuccio di Credi, il quale voleva riconquistare la sua libertà. Non già
per abbandonare la bottega di Spinello Spinelli, che miglior
principale di lui non avrebbe trovato in tutta Firenze; ma per
liberarsi, diceva lui a messer Dardano, da quel faticoso mestiere di
angelo custode, che messer Luca gli aveva appioppato.

Monna Ghita accettava la sua sorte con una allegrezza raccolta, e
vorrei quasi dire concentrata, di cui ella stessa non misurava la
profondità. Era sbalordita, oppressa, e la felicità si mostrava per la
prima volta a lei sotto l'aspetto di una cosa inaudita. Perciò
immaginate voi se monna Ghita avesse tempo o modo di studiar l'animo o
il contegno di Spinello Spinelli. Era bello, famoso e aveva chiesto la
sua mano. Che cosa avrebbe ella potuto cercare di più? Quel fidanzato
era agli occhi di lei un essere soprannaturale.

Il matrimonio, per espresso desiderio di messer Dardano Acciaiuoli, si
celebrò nella chiesa di San Niccolò, fatta edificare da lui e dipinta
da Spinello Spinelli. Quelle Madonne, quei Santi e quelle glorie
d'angioli, che coprivano le volte, dovevano assistere alla cerimonia
che consacrava la felicità del loro celebre autore. E non erano i
soli, poichè quel giorno ci fu gran concorso in chiesa e le tribune
erano tutte piene di ragguardevoli cittadini e di donne gentili, che
la fama del giovine pittore chiamava allo spettacolo della sua fine
miseranda. Non parlo per celia. Il matrimonio di un artista è sempre
un fatto luttuoso, un evento lagrimevole, come a dire un suicidio
nella mente dei più.

Monna Ghita entrò in chiesa, vestita di bianco, secondo il costume
delle spose. Il suo bel volto, per verità, rosseggiava un po' troppo,
a cagione dello sforzo che ella faceva per camminare ritta e
nascondere la lieve imperfezione del piede; ma quelle fiamme si
potevano credere accese dalla verecondia, e la cosa appariva
naturalissima. Spinello, per contro, era contegnoso, impacciato, quasi
triste; ma quell'aria, che s'accordava così poco con la felicità del
momento, poteva essere attribuita ad un pochettino di confusione. Già
si sa, un uomo, con tutta la sua pratica del mondo, non può mica andar
franco in una congiuntura così difficile, che gli capita per la prima
volta in sua vita.

Quando giunse il momento di profferire il monosillabo che lo avrebbe
legato per sempre, Spinello ebbe una stretta al cuore e rimase un
istante perplesso. Intravvide, quasi in nube, l'immagine di
Fiordalisa, e chiuse gli occhi, come se da quel moto di riluttanza
infantile dovesse venirgli la forza di compiere il suo sacrifizio. Ma
fu invece la paura che lo vinse; quel momento di esitazione gli era
parso un secolo; ed egli si affrettò a rispondere un sì più vivo e più
sonoro, che forse non avrebbe fatto in una diversa condizione di
spirito. E più sonoro e più vivo glielo fece sembrare il rombo che
sentiva negli orecchi, per effetto della commozione del sangue.

Era inganno dei sensi, o realtà? Gli parve che a quel sì rispondesse
un grido dall'alto, un grido acuto e breve, come di persona colpita da
un improvviso stupore,

--Ah!--pensò egli, sbigottito.--Non è questa la mia dolce Fiordalisa,
che mi rimprovera di averla dimenticata?--

Ma proprio allora gli si fecero intorno congiunti ed amici, per
congratularsi con lui e con la sua gentile compagna; e la confusione
di quel momento e l'obbligo di rispondere a tante cortesie,
soverchiarono in lui lo smarrimento dell'animo.

Poco stante, egli esciva dalla chiesa, dando il braccio alla sposa. Io
veramente non saprei dirvi quale del due avesse maggior bisogno di
essere sorretto dall'altro.

Tuccio di Credi presentò alla sposa un mazzolino di fiori.

--Li ha colti l'amicizia;--diss'egli inchinandosi.--Rammentando questo
bel giorno, madonna, non dimenticate il fedel servitore della vostra
casa.--

Quel caro Tuccio di Credi, a tempo e luogo, sapeva anche mostrarsi
galante. Ma già quando si ha un cuore ben fatto, le son cose che
vengono spontanee come... come.... Domandiamolo a mastro Zanobi, il
paragone. Ed egli ci risponderà come fece a monna Crezia, sua moglie:

--Abbreviate, abbreviate! Il paragone non serve a nulla.--

E sia, facciamone dunque di meno.




XI. [2]


Non vi è egli mai occorso di pensare, o lettori, a tutte le cose che
si fanno, nel corso della vita, sapendo che non andrebbero fatte, ed
anche provandone un certo dispiacere? La più parte deboli di tempra,
perchè la forza è il privilegio di poche anime, e non sempre buone,
noi siamo troppe volte i servitori umilissimi dell'altrui volontà, più
spesso dell'ambiente in cui la necessità ci fa vivere. Sacrifichiamo
agli dei falsi e bugiardi dell'uso comune, delle convenienze sociali,
e via discorrendo; comperiamo la quiete del momento, a prezzo della
felicità, di tutta la vita.

Spinello Spinelli aveva dovuto farsi una famiglia. Non ne sentiva il
bisogno, eppure l'aveva fatta; non per sè, ma per gli altri, cioè a
dire per suo padre, che non avea pace, e per gli amici, che non gli
davano tregua. Ma la sua anima, si era come avvilita in quello sforzo
di obbedienza,

[Footnote 2: Nel testo "XI"] che lo conduceva a bandire perfino la sua
tristezza, quella tristezza che gli era tanto cara, dopo la morte
delle sue speranze giovanili, dopo la distruzione del suo bel sogno
d'amore.

E come se ciò non bastasse ancora, il povero Spinello doveva
contentare suo padre in un'altra cosa, e restituirsi ad Arezzo. Messer
Luca pregava, i maggiorenti della città mandavano inviti su inviti.

In Arezzo, lui! Mai e poi mai. Chiedessero pure i maggiorenti della
città l'opera sua e gli promettessero mari e monti; Spinello non era
avido di ricchezze e di onori; Spinello sarebbe rimasto a Firenze.

Ma un giorno, gli giunse la nuova che suo Padre era infermo. Gli onori
e le ricchezze non c'entravano più per nulla, il suo debito di figlio
lo chiamava in Arezzo. E ci andò, conducendo seco la moglie.

Malinconico ritorno, nel paese in cui si è sofferto! Ma egli bisogna
adattarsi anche a queste dolorose impressioni, e saper rivedere con
animo forte i luoghi delle tristi memorie. Con animo forte! Quando e
fin dove si può. Eravamo avvezzi a vedere quel tratto di paese
popolato dalla immagini della speranza; quella corona di monti
chiudeva tutto ciò che avevamo di più caro nel mondo; quelle mura,
quegli archi, quelle vie, prendevano luce d'allegrezza dal pensiero
che un'amata creatura vedeva con noi la medesima scena e vi respirava
le medesime aure vitali. Ad un tratto, più nulla. Aure, luce,
allegrezza, tutto è sparito; la città e morta, la corona dei monti non
vi dà che lo scheletro ignudo di ciò che amavate. È questa, e non ce
n'è altra, la vera sensazione del vuoto.

A sviare un tratto i dolorosi pensieri, Spinello ebbe le onoranze de'
suoi concittadini. I sessanta che governavano Arezzo, saputo del suo
arrivo, deputarono quattro dei maggiori a muovergli incontro sulla via
di Firenze e gli fecero accoglienze così schiettamente amorevoli, che
avrebbero reso invidioso un trionfatore, tornato pur mo' dagli
splendori del Campidoglio, per ricondursi a più semplici dimostrazioni
di gioia, a Tuscolo, a Lanuvio, ad Arpino.

Messer Luca era meno ammalato di quello che a tutta prima paresse. Ma
fosse stato anche più grave, l'arrivo del figliuol suo, tanto
invocato, lo avrebbe certamente rimesso in salute. Madonna Ghita,
angiolo di bontà (questa giustizia le va resa anche dai divoti di
madonna Fiordalisa), non si spiccò più dal capezzale del vecchio.

Frattanto, i rettori della città erano tutti intorno a messer
Spinello, al valente pittore, e lo richiedevano con gran desiderio
dell'opera sua.

--Vedete, maestro,--gli dicevano, additandogli il San Donato da lui
dipinto nel Duomo vecchio,--quello è il vostro primo lavoro, donde
incominciò la vostra fama. Non farete voi altro per la città che ha
salutato il vostro ingegno nascente?--

Spinello non seppe resistere a tante preghiere, e fece promessa di
trattenersi qualche tempo in Arezzo, per dipingere nel Duomo vecchio,
secondo la richiesta dei massari, una Storia dei Magi.

Ma dopo i massari del Duomo vennero quelli di San Francesco. La chiesa
mancava affatto di affreschi, ed era quella una eccellente occasione
per dar campo all'ingegno di Spinello Spinelli. I Marsupini, ricca
famiglia di Arezzo, ottennero primi che egli dipingesse nella loro
cappella un Papa Onorio, in atto di confermar la regola dei santo
fraticello di Assisi.

Dopo i Marsupini venne la volta dei Bacci. Messer Giuliano Bacci aveva
il patronato di una cappella in San Francesco, e volle che il valente
artista vi dipingesse una Nunziata. A questo nuovo desiderio rispose
prontamente l'opera di Spinello Spinelli, ed anche a quello dei
massari di San Francesco, che vollero un arcangelo San Michele, nella
cappella intitolata al gran giustiziere del cielo.

Lavorava, il povero e glorioso Spinello, lavorava assiduamente ogni
giorno, ma senza che il lavoro lo aiutasse a dimenticare per un'ora il
suo profondo rammarico. L'immagine della bellissima estinta era sempre
davanti agli occhi dell'artefice:

Madonna Fiordalisa, come sapete, era stata seppellita nel chiostro del
Duomo vecchio. Spinello trovò nel suo memore affetto il coraggio di
andare fin là, ad inginocchiarsi sulla pietra che copriva le spoglie
mortali della sua fidanzata, e vi rimase lungamente piangendo e
chiedendo perdono a quell'ombra adorata di aver data la mano ad
un'altra donna.

Gli perdonò Fiordalisa? Ahimè, il povero Spinello non ebbe neanche
quel triste conforto al dolore. Nessuna voce arcana giunse dal regno
della morte alla sua anima afflitta. Fiordalisa era muta, ed egli
sentì più vivo il rimorso di ciò che aveva fatto, per appagare il
desiderio di suo padre. Era poi necessario di appagarlo? E non sarebbe
stalo meglio persuadere messer Luca Spinello che quel matrimonio era
impossibile? Il cuore d'un padre non avrebbe intese le ragioni del
cuore di un figlio?

Abbandonato da quella speranza, l'animo di Spinello Spinelli cadde in
balla dello scoramento. Era malinconico e si buttò al disperato;
desiderava la morte e si compiaceva soltanto nella solitudine, che gli
consentiva di pensare al più bel giorno della sua vita, il giorno in
cui sarebbe cessata ogni sua pena. Lodato a gara da tutti, non dava
retta alle lodi, o mostrava solamente di udirle, per mostrarne
impazienza. Voleva esser lasciato solo, per darsi tutto alle sue
smanie, alle sue alternative di fatica e di lagrime. Infatti, spesso
deponeva i pennelli per piangere; poi rasciugate in fretta le lagrime,
afferrava i pennelli e lavorava a furia, come un uomo che non ha tempo
da perdere. Ineffabile angoscia, quella che non può avere neanche una
lontana speranza di pace, poichè la tregua è solo di là dalla tomba!

Intanto, la religione dei sepolcri si era impossessata dell'animo di
Spinello Spinelli. Quante volte gli era dato di escir solo dal suo
lavoro quotidiano, egli andava nel chiostro del Duomo vecchio, per
inginocchiarsi sulla pietra di madonna Fiordalisa, e ripetere con
pienezza d'affetto la sua triste domanda: mi avete voi perdonato?
Ahimè, povero Spinello! La pietra sepolcrale era muta; la voce arcana,
invocata da lui, non si faceva sentire. Si sarebbe dello che le anime
dei trapassati sdegnassero di vigilare qualche volta sulle ossa
abbandonate, o che la salma di madonna Fiordalisa non fosse là dentro.
Spinello, nel suo disperato dolore, pensò che ella non volesse
ascoltarlo, amando meglio tacere, che dirgli una troppo amara parola.
Infatti, la risposta di Fiordalisa egli se la immaginava qualche
volta, e gliela ripeteva il suo rimorso.--Sei tu che l'hai voluto,
disgraziato; sei tu che l'hai voluto. Di che ti lagni ora, nel tuo
tardo pentimento, e che cosa domandi ad un cuore, che hai contristato
con la tua ingratitudine?--

Per avvicinarsi meglio alla morte, a questo pensiero dominante di chi
non trova più consolazioni nella vita, Spinello Spinelli incominciò
allora a metter l'animo in quelle pratiche di coraggiosa pietà che i
tempi consigliavano ai cuori angustiati. Pareva a lui che l'amante di
una persona morta dovesse pensare più che ad altro agli estinti;
epperò si ascrisse alla confraternita di Santa Maria della
Misericordia.

Non invento nulla; sèguito passo passo il nostro malinconico eroe. La
confraternita della Misericordia, che io accenno qui per necessità del
racconto, era nata da un sentimento di gentile pietà, cresciuto nel
cuore di parecchi buoni ed onorati cittadini d'Arezzo, i quali
andavano attorno, accattando limosine per i poveri vergognosi e per
gl'infermi, vegliavano al capezzale dei moribondi e portavano a
seppellire i trapassati. E Spinello, essendo entrato a far parte della
compagnia, andava anche lui con la tasca al collo e il martello di
legno in mano, picchiando all'uscio dei ricchi, ed entrava nelle case
visitate dalla morte, per recarsi sulle spalle i cadaveri. La cosa non
era senza un grave pericolo, perchè allora la peste entrava di sovente
nelle mura indifese delle città italiane, e quell'ufficio di
misericordia, era una vera e propria milizia per gli animosi
spregiatori della morte, o per coloro che amassero dissimulare con un
debito di carità cristiana il tedio dell'esistenza.

Di queste nobili cure il valoroso artefice aveva più lode in Arezzo,
che non delle stupende tavole dipinto senza compenso per l'oratorio
della confraternita, a cui, tra l'altre cose, una bella invenzione
artistica, di Spinello, destando gli spiriti caritatevoli dei
facoltosi aretini, aveva grandemente accresciute le entrate, e per
conseguenza le forze necessaria ad operare il bene. Della quale
invenzione io vi dirò solamente questo: che egli dipinse sulla
facciata della chiesa dei Santi Laurentino e Pergentino una Madonna,
che, avendo aperti davanti i lembi del mantello, vi raccoglieva sotto
il popolo di Arezzo, nel quale si scorgevano molti uomini tra i primi
della confraternita, con la tasca al collo e il martello in mano,
simile a quelli che s'usavano per andar ad accattar le limosine.

Madonna Ghita, poverina, ammirava e taceva. Il che significa in buon
volgare, che ammirava a mezzo e che il silenzio nascondeva qualche
altra cosa, come a dire un pochettino di tristezza. Ma egli è di certe
donne il soffrire con misura, e perchè soffrano veramente meno di
certe altre, e perchè manchino loro le forme in cui si esprime agli
altri e si rappresenta a noi stessi il dolore. Questa vi parrà una
sottigliezza, ma è tuttavia una verità. Chiedetene a tutti i filosofi
e vi diranno che l'uomo non sente i bisogni di cui gli manchi
un'esatta cognizione. Resta una vaga tristezza di cui non si conosce
la causa, e il non conoscer la causa basta più delle volte a toglier
ogni importanza agli effetti. Così in di grosso, e senza pensarci su,
monna Ghita intendeva che un antico dolore pesava sull'anima di
quell'uomo, parco di parole, avaro di tenerezze. Ma pur sempre buono
con lei. Anch'ella ebbe le sue tristezze, ma non si fermò più che
tanto a farne argomento di meditazione. L'animo di monna Ghita non era
fatto per uno studio così fine. E se pure una vaga malinconia
s'impadronì un giorno del suo cuore, ben presto venne a mutar
l'indirizzo de' suoi pensieri, e darle una vera e profonda
consolazione, la nascita di un angioletto, che ebbe il nome di Parri,
il nome del primo e prediletto amico di Spinello Spinelli. Infine, che
importava l'umor triste del marito, se di lui, e dell'affetto che la
legava a lui era nato il suo Parri? Monna Ghita si consolò,
raccogliendo su quella bionda testolina l'amore che non poteva
espandere nel seno del suo triste o glorioso compagno.

Ghita, anima buona, sa Iddio se mi duole di voi. Ma siamo giusti,
forse ci avete avuto dalla vita assai più che non vi riprometteste nei
vostri sogni di vergine, ed io penso che voi non abbiate avuto mai una
idea molto chiara della vostra infelicità sulla terra.

L'umor nero di Spinello non potè sfuggire all'occhio vigile di Tuccio
di Credi. L'astuto malveggente seguiva con attenta cura le fasi morali
del suo compagno d'arte, o poichè bisognerà distinguer meglio, del suo
principale. Ma egli non cercava più di consolarlo, come faceva in
principio. Lo aveva ammogliato, gli aveva assicurata la pace; il suo
ufficio amichevole era adempiuto.

Tuccio di Credi, del resto, soffriva anche lui la sua parte. S'era
fatto più cupo e più verde del solito. Quella potenza d'ingegno che
niente bastava ad uccidere, nè la perdita di Fiordalisa, nè un
matrimonio fatto a suo mal grado, gli riusciva molesta. Di sicuro,
egli non poteva argomentarsi di competere mai con Spinello Spinelli.
Egli era uno di quegli artisti che restano sempre sull'uscio, che
hanno preso un pennello a caso come altri prenderebbe una scopa, e
vanno avanti senza sapere il perchè, imparando il meccanismo
dell'arte, per ridurla ad un mestiere che più oltre non saprebbero
intenderne.

Ma anche condannato a restare sull'uscio, e consapevole di quella
condanna, Tuccio di Credi sentiva la gelosia, questa brutta sorella
dell'emulazione. Vedeva Spinello salire sempre più nella estimazione
delle genti, triste, ma operoso, anzi più operoso quanto più era
triste. Nè solo Arezzo chiedeva miracoli d'arte a Spinello Spinelli,
ma anche molte altre città di Toscana. Lo aveva voluto la famosa Badia
del Camaldoli in Casentino; lo aveva voluto Firenze, nella Badia degli
Olivetani, in San Miniato al Monte; lo aveva voluto Pisa per il suo
Camposanto, maraviglia dell'arte e della pietà italiana; lo voleva
Pistoia, per la sua chiesa di Sant'Andrea.

Tuccio di Credi aveva portati in pace, o giù di li, gli inviti del
Casentino; aveva mandati giù, senza troppo dolersi, gl'inviti di
Firenze; aveva rizzato muso agl'inviti di Pisa, ma non si era
arrischiato a dir nulla. Ma non portò in pace, non mandò giù, non
lasciò correre senza proteste, gl'inviti di Pistoia. O perchè?
Aspettate, lettori umanesimi, e vedremo di sapere anche questo.

Per intanto, sappiate che Tuccio di Credi si dichiarò contrario al
viaggio di Pistoia. La città delle fazioni, anzi la culla, perchè
lassù erano nate e di là s'erano propagate per tutta la Toscana, non
era fatta per Spinello Spinelli. Il suo ingegno avrebbe trovato
ammiratori, ma anche detrattori in buon dato. Voleva egli che la sua
eccellenza nell'arte fosse contrastata? Voleva proprio comperarsi co'
suoi danari un amarissimo pentimento? Andasse allora a Pistoia. Ma se
amava la sua quiete, se voleva provvedere degnamente alla sua fama, si
contentasse di Firenze e di Pisa, di Arezzo, di Rasentino e di Siena.

Spinello non diede retta a Tuccio di Credi. Della sua fama
gl'importava poco, dei detrattori anche almeno. Checchè ne pensasse e
dicesse il suo compagno d'arte, egli aveva promesso e sarebbe andato a
Pistoia.

Tuccio di Credi chinò la testa e non argomentò più nulla in contrario.
Ma prima che il principale avesse fatta una risoluzione intorno a quel
viaggio, Tuccio di Credi si presentò a Spinello Spinelli per prendere
commiato da lui.

Spinello ebbe l'aria di cascar dalle nuvole.

--Come?--gli disse.--Anche tu hai risoluto di lasciarmi?

--Sì, maestro. Tanto non sono buono a nulla, e l'opera mia non
potrebbe esservi utile più di quella d'ogni altro fattore.

--Andiamo, via! Buono a nulla!--esclamò Spinello, con accento di dolce
rimprovero.

--È la coscienza che me lo dice;--replicò Tuccio di Credi;--e perciò
vi domando licenza di andarmene.

--Quando è così... se ad ogni modo lo vuoi, disse allora
--Spinello,--sia fatto secondo il tuo desiderio.--

Spinello era come tutti gli uomini i quali vivono raccolti in sè
stessi, che non credono conveniente di far violenza amichevole con
nessuno, poichè a lor volta non amano di essere oppressi dalla
benevolenza altrui. Lasciò che Tuccio di Credi andasse con Dio, e il
giorno seguente partì per alla volta di Pistoia.

Era solo, ma la solitudine non tornava uggiosa al suo spirito
malinconico. Il pensiero che vaga dietro allo immagini del passato
prova una voluttà tutta sua nel trovarsi abbandonato a sè stesso, non
obbligato a seguire, anche per poco, il pensiero degli altri. E
Spinello fu più calmo a Pistoia, che non fosse a Pisa o a Firenze. La
valle dell'Ombrone gli recò un senso di pace, che doveva tornargli
nuovo, poichè della pace, come della allegrezza, egli aveva quasi
perduto il ricordo.

La città, sebbene scaduta alquanto dell'antica grandezza, per le ire
cittadine ond'era stata così lungamente travagliata, era bella a
vedersi, per la quieta grandiosità delle sue vie, come per la elegante
nobiltà, de' suoi monumenti. Pistoia non aveva avuto un'arte propria;
nell'architettura aveva sentita da principio l'influenza dei pisani;
nella pittura sentiva quella dei fiorentini. Ma fosse di Firenze o di
Pisa, quella era sempre arte paesana. La Cattedrale, Sant'Andrea, il
Battistero, San Giovanni Fuoricivitas, il palazzo del Podestà, erano
saggi mirabili di quello stile che una critica poco degna del suo nome
s'affanna ancora a chiamar gotico, laddove esso apparisce ed è
prettamente italiano, e non ammette mistura di forme straniere se non
in alcuni luoghi dove erano più vicini gli esempi, o più strette le
relazioni con l'arte tedesca, normanna, araba, bisantina e via
discorrendo. Quello che era avvenuto da noi per la lingua, che,
scaduto l'idioma latino, riprendessero a mano a mano i loro diritti
gli antichi dialetti italici, surrogando agli strascichi della
magniloquenza romana le loro forme grammaticali più snelle e più
efficaci nella loro medesima spontaneità, era avvenuto per l'arte. Lo
stile romano si era imbastardito, per le ragioni che tutti sanno e che
ad ogni modo non mette conto dir qui; doveva ritornare per conseguenza
in onore l'antica forma toscana, più leggiera e più aggraziata,
accettando necessariamente qualche cosa dal gusto dei dominatori o dai
bisogni del tempo, e rimutando in nuova leggiadria una certa rozzezza
d'ornati, che qua i bisantini, là i longobardi, avevano appiccicata
agli artefici italiani.

Vi ho già detto che Spinello Spinelli era chiamato a Pistoia, per
dipingere nella chiesa di Sant'Andrea, la vecchia basilica del XII
secolo, pregevole per la severa nobiltà delle sue forme e per le
sculture onde l'aveva arricchita Giovanni Pisano. Spinello Spinelli,
andato a vederla, appena giunto in Pistola, fu contento di averci a
lavorare. E tosto si diede a meditare qualche cosa che potesse
rispondere alla magnificenza del luogo e alla buona opinione che i
pistoiesi s'avean fatta di lui.

Spinello Spinelli era alloggiato, a grande onor suo, nelle case dei
Cancellieri, antica e potente famiglia, ed una tra le due che avevano
data la stura alle ire cittadine di Pistoia, dilagate poscia a
Firenze, e via via per tutte le città e per tutte le borgate d'Italia.
Ma, a proposito di ire cittadine, dov'era in quel tempo l'umor feroce
di Pistoia a cui alludeva Tuccio di Credi? La città delle prime
discordie posava da molti anni in pace, e ci fioriva liberamente la
gentilezza naturale delle valli toscane, affinate da un certo che di
arguzia montanina, per cui Pistoia la bella è rimasta famosa tra le
vecchie città lucumoniche.

Nè solamente la città piaceva a Spinello Spinelli, ma eziandio e più
particolarmente la campagna. Fin dai primi giorni della sua dimora in
Pistoia, tratto dall'amor solitario che in lui era diventato come una
seconda natura, Spinello usava andare a diporto nel borgo, e di là
fino al colmo di una collina piantata di querci, donde l'occhio
dominava la gran valle dell'Ombrone e quella dell'Arno che le vien
presso. Era quello il suo luogo prediletto. Spinello non aveva mai
veduto una più larga distesa d'orizzonte; non aveva mai veduto uno
spettacolo più bello di quella conca di verde e d'azzurro, nel cui
primo piano si stendeva la turrita Pistoia e nel cui fondo
biancheggiava Firenze, circonfusa di soavi vapori alla luce del sole.

Nelle sue gite quotidiane al Poggiuolo (che così si chiamava il suo
colle prediletto) Spinello Spinelli aveva stretta amicizia con un
vecchio contadino di lassù, sentenzioso come tutti i vecchi montanini
e garbato come tutti i contadini della montagna pistoiese. Pasquino
dava il buon giorno o la buona sera al giovine forestiero, gli offriva
una tazza di latte, che Spinello ricusava quasi sempre, non accettando
che un bicchier d'acqua della Brana, picciolo ruscello che correva al
piano, tra la costa del Poggiuolo e quella di Colle Gigliato,

Spinello aveva preso ad amare il vecchio Pasquino. E Pasquino che
aveva veduto il forestiero con una cartella rilegata in pelle, entro a
cui erano parecchi fogli di carta che il giovinetto andava spesso
coprendo di disegni a matita, aveva preso a stimar grandemente il
pittore.

Così, di chiacchiera in chiacchiera, il vecchio Pasquino era venuto a
sapere chi fosse Spinello e di qual parte di Toscana.

--To'--aveva egli esclamato, udendo che il pittore era nato ad
Arezzo.--Abbiamo un altro aretino nel vicinato.--

E accennava col dito a manca, verso una collina poco distante dal
Poggiuolo, dove si scorgeva un edifizio di forme robuste, tra il
palazzo di campagna e il castello.

--Come si chiama quel luogo?--chiese allora Spinello.

--Colle Gigliato, messere. È un bel sito, ma non quanto il Poggiuolo.
Sa anche qui ci fosse un castello, ci farebbe il doppio di figura.

--No, non guastate il Poggiuolo con una fabbrica così tozza,
Pasquino;--replicò Spinello Spinelli.--Amo meglio questa piantata di
querci, che campeggia così bene sul fondo e divide in due la
prospettiva della valle, lasciando incerti se l'una sia più bella
dell'altra. La natura, mio vecchio Pasquino, la natura dispone i suoi
quadri assai meglio di noi. Dove volete trovare uno spettacolo più
vago! Una costruzione superba su questo colmo non guasterebbe ogni
cosa? E ditemi, ora, come si chiama l'aretino di laggiù?

--Dovete conoscerlo, messere, perchè lo dicono d'una potente famiglia.
È un Buontalenti.--

A quel nome, Spinello Spinelli aggrottò le ciglia. Ricordava infatti
quel superbo cavaliere e le parole scambiate con lui nel Duomo vecchio
di Arezzo.

--Sì, mi pare d'averlo conosciuto;--rispondeva frattanto.--Un uomo
tarchiato di membra, dal volto bruno e con un certo piglio
altezzoso....

--Oh sì, davvero, il piglio non è bello;--disse Pasquino,
ridendo.--Messer Lapo Buontalenti m'ha l'aria d'esser superbo più di
Lucifero. E qui, non dubitate, lo vedono volentieri come il fumo negli
occhi. Già, non è entrato in dimestichezza con nessuno, e vi fa grazia
quando vi rende il saluto. Anzi, scusate, messere, ma qui si fa per
dire qualche cosa;--soggiunse Pasquino;--io ho pensato un giorno che
se tutti gli aretini fossero come quello lì, non sarebbe davvero un
bel vivere, nella vostra città. Grazie a voi, messere, ho cangiato
opinione e penso oggi che ce ne sia di buoni e di tristi in ogni
luogo.

--Voi dunque lo fate addirittura un tristo?--chiese Spinello.

--O che altro volete che sia, un uomo che non parla con nessuno, che
vi guarda tutti dall'alto al basso, e fa passare una grama vita alle
persone che vivono con lui? Basta vedere come tratta la sua donna!

--Davvero? È ammogliato!

--Sì, con una donna che ha portata da Arezzo, a quanto dicono.--

Spinello fece il gesto dell'uomo a cui riesce nuova una notizia e che
non ha altro da aggiungervi. Infatti, egli rammentava che il
Buontalenti s'era allontanato da Arezzo, per recarsi a vivere nel
pistoiese; ma non sapeva che avesse condotta un'aretina con sè. Par
altro, siccome la cosa non gli importava affatto, lasciò cadere il
discorso.

Ma non lo lasciò cadere il vecchio Pasquino, che aveva trovato un
argomento di chiacchiera, e pensava che Spinello, nella sua qualità
d'aretino, dovesse udire le sue notizie con una certa curiosità.

--Oh, non pare che la lo sposasse volentieri; continuò.--Già, quando
--arrivarono a Colle Gigliato, madonna era assai male di salute.
--Pareva di vedere una statua di marmo, come quelle che sono nella
--cattedrale di Pistoia, tanto era bianca nel viso. Io ho potuto
--vederla da vicino, nell'andare in giù per le mie faccende, mentre
--essa tornava con messer Lapo dalla cerimonia nuziale, che tu fatta
--in San Giovanni. La via era stretta ed io ho dovuto tirarmi contro
--il muro, per lasciarla passare. Se l'aveste veduta in quel punto,
--messere! Pareva una madonna, di quelle che disegnate voi, in quei
--vostri cartoni. Una carnagione bianca come il latte, i capegli neri,
--le labbra smorte, ma due occhi... due occhi che parevano stelle! Un
--sorriso, poi, un sorriso pieno di tristezza e di bontà, un sorriso
--che faceva tenerezza e sgomento. Da quel giorno non m'è mai più
--avvenuto di vederla da vicino. Dicono che non esce mai dal recinto
--del castello e che vive là dentro come quella principessa
--prigioniera d'uno stregone, di cui si narra nella storia di
--Lancilotto del Lago. Verso la sera la si vede qualche volta laggiù,
--da quella loggia die guarda verso la pianura. Rimane là per due o
--tre ore alla finestra, con le braccia appoggiate sul parapetto, e
--gli occhi fissi a guardare il sole, che si nasconde dietro i monti
--pisani. Povera dama! Dev'essere molto disgraziata. A che pensate,
--messere?

--Penso,--disse Spinello,--che anche voi siete pittore alla vostra
maniera. Mi par quasi di vederla.

--E non vi dico nemmeno la metà della sua bellezza;--ripigliò il
vecchio contadino.--Anche così malandata, è un portento. Doveva essere
un occhio di sole, prima che le toccasse quella brutta sorte. Ma già,
voi siete aretino come lei, e la conoscerete.

--Io no;--rispose Spinello.--Da tre anni ho lasciato Arezzo.

--E anche da tre anni messer Lapo Buontalenti è venuto ad abitare nei
nostro contado. Quel castello e il podere che ha intorno gli sono
toccati in eredità, dopo la morte di un suo zio materno, che fu messer
Roselino Sismondi. E quando venne, aveva giù con sè quella bella
creatura. Dovrebb'essere una sua parente orfana,--soggiunse
discretamente il vecchio Pasquino,--perchè è venuta a dimorare con
lui, senza essere ancora sua moglie. Anzi, sulle prime, noi s'immaginò
che lo fosse già; ma le nozze celebrate un anno dopo, ci hanno fatto
ricredere.

--Un anno dopo;--ripetè Spinello Spinelli.---Dunque, due anni fa?

--Sì, messere, per l'appunto, saranno due anni a San Michele.

--Due anni fa!--mormorò Spinello, crollando mestamente il capo.--Due
anni fa mi sono ammogliato anch'io.--

E questa doppia coincidenza lo colpì. In verità era strano il fatto
che il Buontalenti, partito d'Arezzo poco prima che la morte di
Fiordalisa ne cacciasse anche Spinello, prendesse moglie nello stesso
tempo di lui. E la donna era un'aretina? Condotta via da messer Lapo,
quando aveva abbandonata la sua terra? In Arezzo, di quel fatto, non
si aveva cognizione; o almeno nessuno ne aveva fatto cenno a Spinello.
O fors'anche Spinello, nella tristezza ond'era tutto compreso, non ci
aveva fatto attenzione.

Comunque fosse, la cosa era strana e colpiva di stupore la mente di
Spinello Spinelli. Come mai, pensava egli, come mai messer Lapo
Buontalenti, che la voce pubblica diceva invaghito della figliuola di
mastro Jacopo, aveva potuto amarne un'altra così presto? E che
necessità di bandirsi da Arezzo, se con un'altra doveva partire? Dopo
avere a lungo almanaccato su quel fatto, Spinello si accostò all'idea
che messer Lapo avesse amato madonna Fiordalisa come poteva amare un
pari suo, per il solo desiderio di possedere colei che tutti
celebravano bellissima tra le fanciulle d'Arezzo, e che il rifiuto di
mastro Jacopo non avesse ferito il suo cuore, ma piuttosto il suo
orgoglio smisurato.

Ma chi era l'aretina che aveva così presto consolato il Buontalenti
della patita ripulsa? Una strana curiosità s'era infiltrata nell'animo
di Spinello Spinelli. Dico strana, perchè in fondo non doveva
importargli molto di conoscere un nome, e tuttavia il suo pensiero
tornava con una certa insistenza a quella pallida castellana,
intravveduta nel racconto del vecchio Pasquino. Forse era da ascrivere
la cosa a un senso di gentile pietà, naturalissimo in un cuore ben
fatto come il suo. Egli, invero, pensando alla signora di Colle
Gigliato, rammentava la bella e infelice Pia de' Tolomei, di cui si
narrava la storia lagrimevole, resa popolare dai versi di Dante,
popolarissimo allora.

Quel giorno, scendendo dal poggiuolo per ritornarsene in città, si
mise per una via che non aveva ancor fatta; di guisa che, scambio di
rientrare in Pistoia da porta al Borgo, rientrò da porta San Marco.
Avrete già indovinato da questo cenno che Spinello Spinelli si calò
verso il letto della Brana, per costeggiar le falde di Colle Gigliato
e rasentare la villa del Buontalenti, cinta da un muro nerastro, che
si vedeva tutto rivestito d'edera e sormontato dalla frappa scura dei
nocciuoli e degli elci.

Lì presso, nel greto della Brana, il nostro pittore s'abbattè in una
povera donna che stava lavando alcuni pannilini all'acqua corrente. La
donna lo salutò, secondo il costume dei contadini, ed egli, resole
cortesemente il saluto, si fermò a dimandarle:

--Sposa, sapreste voi dirmi a chi appartiene questo castello?

--Maisì, messere, poichè ci abito da quarant'anni. Era di messer
Rosellino Sismondi, buon'anima sua; oggi è di messer Lapo Buontalenti.

--Non è un casato pistoiese;--osservò timidamente Spinello.

--No, messere; il nuovo padrone del castello è un cittadino d'Arezzo.

--Dev'essere un ragguardevole uomo;--ripigliò Spinello.--Questo suo
castello ha un aspetto assai nobile, e penso che ci si abbia a stare
da principi.

--Eh, potete giurarlo, messere;--rispose la contadina.--Il vecchio
padrone lo amava su tutti i suoi poderi, che n'aveva parecchi, e ci
s'era fatto un luogo di delizie. Eppure, i padroni d'adesso non ci si
vedono tanto volentieri!

--Davvero? E come va? Se ci fossi io, vi assicuro che mi parrebbe di
stare in paradiso.

--Che volete, messere? Bisogna proprio dire che nessuno è contento del
proprio stato. Del resto, messer Lapo non farebbe differenza tra
questo luogo ed un altro; è piuttosto madonna Fiordalisa che non ci
gode l'aria....

--Fiordalisa!--esclamò Spinello, dando un sobbalzo improvviso.

Ma subito, facendo uno sforzo violento per dominare la sua commozione,
riprese:

--Ha un bel nome, la vostra signora!

--Un bel nome e un bel viso, messere. Che Iddio la prosperi com'ella
si merita; perchè, in verità, non c'è dama in tutto il contado, e
direi quasi in tutta Pistoia, che possa entrare in paragone con lei.--

Spinello Spinelli noci ascoltava già più la sua interlocutrice.
Fiordalisa! pensava egli. Fiordalisa! Perchè quel nome, venuto al suo
orecchio in quell'ora e in quel modo, come una voce dalla tomba?

Anche voi, lettori, mi chiederete perchè tanta curiosità fosse venuta
a Spinello, da farlo discendere a manca del Poggiuolo, anzi che a
destra, per avvicinarsi alla casa del Buontalenti. Ma questa non dee
parervi una cosa fuori del naturale. Chiunque ha perduto una persona
caramente diletta ama il suo dolore e prova come un'amara voluttà a
rinfrancarlo, nel culto delle memorie in una sollecitudine quasi
infantile per tutto ciò che abbia avuto relazione con l'argomento dei
suoi poveri amori, come se nei superstiti, od anche nelle cose
inanimate, sia rimasto alcun che del tesoro perduto. Ora, il
Buontalenti aveva amata e chiesta in moglie la figliuola di mastro
Jacopo di Casentino, prima che questi accogliesse come discepolo il
giovine Spinello. Il Buontalenti era stato un rivale; ma che importava
ciò, in quel punto, so il Buontalenti lo ravvicinava al passato?

Ed ecco perchè Spinello era disceso verso la Brona, scambio di far la
strada degli altri giorni. Quel nome, poi, il nome di Fiordalisa,
buttato là dalla vecchia contadina, gli disse tutto. Non già tutto
quello che potreste immaginarvi voi, fatti accorti in buon punto, ma
tutto quello che egli poteva supporre, nello stato in cui era.
Infatti, che cosa doveva significare per lui il nome di Fiordalisa, se
non questo, che il Buontalenti serbava fede in qualche modo alla sua
fiamma antica? Non potendo avere la bella figliuola di mastro Jacopo
di Casentino, messer Lapo aveva voluto sposare una donna che portasse
il medesimo nome.

Fatto dentro di sè questo ragionamento, Spinello Spinelli stette ad
ascoltare la vecchia contadina. E non vi faccia senso che egli
l'avesse salutata col nome di sposa. Nel pistoiese le donne del popolo
sono tutte spose, o sposine, per l'uomo che le combina in istrada. Il
nome di sposina è un augurio gentile per le giovani; il nome di sposa
è una continuazione di giovinezza, cortesemente accordata alle
vecchie.

Spinello Spinelli rimase ancora un tratto, chiacchierando con la
donna, o, se vi piace meglio, facendola chiacchierare. Indi, preso
commiato con un grazioso "arrivederci" scese verso la città, non senza
aver dato più d'una occhiata alle mura nerastre del castello del
Buontalenti, e pensando involontariamente a quel poetico capriccio che
aveva fatto trovare a messer Lapo una sposa col nome di Fiordalisa.

--Ha tradita la memoria della prima!--diceva egli tra sè.--Ma che cosa
ho fatto io di diverso? E con assai maggior torto di lui; perchè in
fine, egli era un pretendente rifiutato, mentre io.... Ah, padre mio,
se voi non eravate, con le vostre preghiere!...--

Era giunto frattanto ad una svolta del sentiero dove sorgeva una rozza
croce di legno, piantata su d'una mora di sassi. Colà, di certo, era
stato ucciso qualcheduno.

--Ah! fossi io morto,--esclamò Spinello, abbandonandosi a' piedi della
mora,--fossi io morto, come questo poveretto! Vi avrei raggiunta,
madonna; avrei finito di patire. A che mi giova la gloria, senza di
voi? È bello il vivere, quando si spera; è bello il rispondere per
opere egregie in mezzo a' suoi simili, quando si può riferire ad una
persona cara i proprii trionfi, deporre a' suoi piedi le palme
raccolte e gli allori mietuti. Ma io?... Costretto continuamente a
mentire, costretto a fingere un sorriso agli uomini che mi lodano,
mentre delle lodi loro, e della stessa coscienza di ciò che sono, non
m'importa più nulla; costretto a fingere con una povera creatura che
mi ama, e che dovrebbe maledirmi; io non so davvero perchè rimanga
ancora quaggiù. Signore Iddio, liberatemi da questo peso, che è
davvero troppo grave per me.--

Un rumore di passi e di voci dietro la svolta del sentiero tolse
Spinello dalla sua triste meditazione. Temendo di esser colto in quel
luogo con le lagrime agli occhi, e fors'anche mal soffrendo di
imbattersi in qualcheduno, balzò in piedi e corse a nascondersi dietro
la mora, in mezzo ad alcuni cespugli d'eriche e d'imbrèntini, ond'era
folto il ciglione.

Poco stante egli vide inoltrarsi due viandanti, dalla parte della
città. Non erano contadini, ma gentiluomini, come appariva dalle cappe
che indossavano e dalle berrette piumate che portavano in capo. In uno
d'essi, Spinello non tardò a riconoscere messer Lapo Buontalenti.

Fu lieto di essersi nascosto in tempo. Più lieto, quando riconobbe
l'altro viandante. Ma ho detto più lieto? Avrei dovuto dire
stupefatto, perchè quell'altro era il suo compagno d'arte; era l'uomo
che aveva creduto opportuno di separarsi da lui, per non accompagnarlo
a Pistoia; era Tuccio di Credi.

Che cosa veniva a fare costui nella città che gli era parsa così
uggiosa! E se aveva pur risoluto di venirci, perchè non era andato a
cercare l'amico, il suo compagno d'arte? Perchè, infine, quella sua
lega con messer Lapo Buontalenti? E che voleva dire quel ravvicinameto
di personaggi aretini, in un angolo della campagna pistoiese? Il caso,
il semplice caso, poteva egli recare una serie di coincidenze così
fatte?

Un vago terrore s'impadronì della mente di Spinello Spinelli, e gli
balenò tosto il sospetto delle cose ignote. Vide chiarori che a dir
vero non gli illuminarono nulla, ma che sembrarono dirgli: c'è qui
sotto un mistero, e tu devi scoprirlo. Non dissimilmente, una credenza
popolare ravvicina i fuochi fatui ai tesori nascosti nella campagna,
di guisa che le pallide fiammelle erranti nella notte sembrino
invitare il passeggiero alla ricerca del più ingannevole tra i beni
terrestri.

I due viandanti passarono davanti alla mora che nascondeva Spinello.
Parevano in buonissima armonia e infervorati in un colloquio di molta
importanza per ambedue.

Spinello, dal nascondiglio in cui era e da cui non gli parve prudente
muoversi, non udì che queste parole:

--Voi farete quel che vi parrà meglio, messer Lapo degnissimo. Io, da
fedel servitore, ho reputato necessario di darvene avviso.--

Parlava Tuccio di Credi, come avrete capito. E messer Lapo rispondeva:

--Partirò, non dubitate, partirò. Quantunque io non credo che egli
possa giungere fin qua. Forse, egli ignora perfino che io...--

La voce di messer Lapo si perdette dietro la svolta del sentiero, e
Spinello non potè udirne più altro.

--Che cos'è questa novità?--pensò egli, balzando fuori dal suo
nascondiglio.--Tuccio di Credi a Pistola, e con messer Lapo
Buontalenti! Quale avviso ha creduto egli necessario di recargli? E
qual relazione può correre tra loro?--

Immaginate in che condizione d'animo giungesse egli in quel giorno in
città. E doveva rispondere alle cortesie de' suoi ospiti, come se non
avesse nulla, nè tristezze, nè sopraccapi; come se fosse l'uomo più
tranquillo del mondo!

Proprio quel giorno i massari di Sant'Andrea si recavano alle case dei
Cancelleri, per avere un colloquio con lui.

--E così, messere,--gli chiedevano,--avete voi ideata la composizione
che Pistoia potrà ammirare nella nostra vecchia cattedrale?

--Non ancora, messeri onorandissimi, non ancora. Ho la mente confusa;
non m'è venuto ancor nulla che sia degno della chiesa e di voi.
Perdonate, sarà per un altro giorno, se Iddio mi aiuta.--

Così rispondeva Spinello. Ma in cuor suo cominciava a pensare che
Iddio non l'avrebbe aiutato e che Pistoia non avrebbe ammirato nulla
di suo.




XII.


Tra i pensieri del giovine pittore c'era anche quello che Tuccio di
Credi dovesse andare quella sera, o la mattina seguente, a cercarlo.
Infatti era naturale supporre che Tuccio fosse venuto a Pistoia per
lui, e non avendolo trovato subito, ed essendosi imbattuto a caso nel
Buontalenti, vecchia conoscenza, di Arezzo, si fosse accompagnato un
tratto con quest'ultimo.

Se non che per ammettere questa spiegazione, bisognava dimenticare che
Tuccio di Credi andava dicendo a messer Lapo:--"ho reputato necessario
di darvene avviso" e che messer Lapo gli aveva risposto, come uomo che
riconosceva il pregio dell'avviso ricevuto:--"partirò, non dubitate,
partirò". Donde appariva evidente che Tuccio di Credi non fosse venuto
a Pistoia per vedere il suo compagno d'arte, ma per abboccarsi con
messer Lapo Buontalenti, a cui si professava fedel servitore.

Comunque fosse, era da credere che Tuccio di Credi, venuto a Pistoia,
non avrebbe potuto altrimenti, nè voluto, cansare l'amico. E Spinello
Spinelli lo attese per tutta la sera; lo attese per tutta la mattina
seguente; ma invano. Tuccio di Credi non si era fatto vivo con lui;
forse, quella stessa mattina egli aveva lasciato Pistoia.

Spinello rimase sconcertato, con una fiera curiosità in corpo, e con
tutta l'impazienza che no doveva conseguire. Che cosa significava quel
misterioso viaggio? E non era possibile che risguardasse anche quella
povera vittima, che portava il nome gentile della sua Fiordalisa?

Agitato da questi sospetti, uscì verso l'ora di vespro dalla porta del
Borgo. Messa la sua spada al fianco e il pugnale alla cintola, gittato
un mantello sulle spalle e calata la berretta sugli occhi, andò di
buon passo verso la collina. Ma come fu alle falde del Poggiuolo, non
ascese altrimenti per l'erta, e proseguì il suo cammino verso il letto
della Brana.

Aveva portata, per ogni buon fine, la sua cartella da disegno. Appena
ebbe passato il torrente e fu in vista del castello dei Buontalenti,
andò a sedersi sulla proda d'un campo, fingendo di copiare qualche
cosa dal vero, ma volgendo gli occhi curiosi qua e là, e più spesso al
muro nerastro che girava torno torno alla villa. Un terrazzino di
pietra sporgeva dal ciglio del muro. Se la donna del castello usava
uscire ogni sera all'aperto, come diceva Pasquino, certamente doveva
andar là, ed egli, dal suo osservatorio, l'avrebbe veduta senz'altro.

Il sole calava, in una gloria di fiamme, dietro la collina di
Serravalle, che chiude la valle dell'Ombrone da quella della Nievole.
Tutto ad un tratto, Spinello vide comparire sul ciglio del muro
nerastro una figura di donna. Era la dama del castello Buontalenti; lo
dimostrava assai chiaramente la nobiltà delle vesti e l'eleganza delle
forme.

Giunta al terrazzino, la dama si fermò. Quella doveva essere la meta
delle sua passeggiate quotidiane. Era venuta con passo lento, come
persona stanca; poscia, rimasta un tratto in piedi davanti alla
balaustrata, si era adagiata sopra un sedile, sporgendo per mezzo il
busto dal davanzale di pietra.

Spinello si alzò dal suo posto, col cuore tremante, e andò verso il
recinto della villa. Che cosa intendeva di fare? In verità non lo
sapeva neppur egli. A mano a mano che si accostava al muraglione e la
figura s'innalzava davanti a lui, uscendo in risalto sul fondo azzurro
chiaro del cielo, la commozione del giovane si andava tramutando in
stupore. Dei immortali! Quel viso bianco, che gli appariva da lunge,
non rammentava il tipo di madonna Fiordalisa, ma dell'antica, della
figliuola di mastro Jacopo, della sua fidanzata? Già gli pareva di
riconoscere l'atteggiamento consueto di quella graziosa testa, il cui
contorno era così armoniosamente rigirato. Accostatosi vieppiù,
riconobbe il profilo soave del volto, la fronte prominente, incoronata
dalle ciocche ricciolute dei capegli neri e lucenti, l'occhio profondo
e pieno d'espressione, la bocca tenue, aperta ad un languido sorriso,
che non era sempre di gioia, e il mento, sì anche il mento, quel mento
arguto e tondeggiante di paggio, che era stato una volta l'argomento
delle sue ammirazioni.

Ma egli, per allora, non doveva ammirare con occhi d'artista, o
d'innamorato, come prima faceva. Era attonito, abbacinato da quella
stessa rassomiglianza, che gli cresceva allo sguardo. Come fu a
cinquanta passi dal muro, si fermò, levando gli occhi, per guardare
più attentamente la dama. Dio santo! Era lei, era la sua Fiordalisa, o
uno spirito maligno ne aveva assunta la forma, per farsi giuoco di
lui.

Confuso, sbalordito, e nondimeno anche più attratto da quella cara
visione, Spinello tese le braccia verso il terrazzino e con impeto di
amore gridò:

--Fiordalisa!

--Chi mi chiama?--domandò la gentildonna, chinando gli occhi a' piedi
del muro, dond'era venuta la voce.

Vide allora l'atto supplichevole e riconobbe Spinello. Ma in quella
che metteva gli occhi su lui, lo vedeva cadere a terra come fulminato.
Il povero Spinello aveva riconosciuta la voce di madonna Fiordalisa,
della sua fidanzata. Era dunque lei? Lei, tornata dalla tomba, per
farlo morire d'angoscia? Agitò le braccia, come se tentasse di
aggrapparsi a qualche cosa, balbettò alcune parole die non avevano
senso, e cadde tramortito al suolo.

Disgraziato Spinello! Compatitelo. Non accade a tutti di avere perduta
una donna fieramente amata e di vederla di punto in bianco ritornare
dai regni della morte.

Quando il povero giovane ricuperò i sensi smarriti, si trovò accanto
la dama, escita dal recinto della villa per recargli soccorso.

--Mio Dio, messere, che avete?--diceva ella, sbigottita.--Fatevi
animo!--

Spinello Spinelli, senza darsi ragione di quel che faceva, e tratto
solamente da una forza quasi istintiva prolungò di qualche istante il
suo smarrimento, per ascoltare la musica di quelle parole che escivano
dalle labbra di Fiordalisa. Gli pareva, in udirla, di rassicurarsi
meglio che era lei.

--Ah, madonna!--esclamò finalmente.--Non sogno io? Non sono io il
ludibrio di una visione? Iddio misericordioso vi restituisce al vostro
povero Spinello?--

Madonna Fiordalisa, commossa da quel grido, in cui parlava un amore
infinito, chinò la testa su lui. E il povero Spinello, insieme con la
certezza di avere ritrovata la sua Fiordalisa, ebbe il secondo
deliquio.

--Dio, soccorretemi!--gridò madonna Fiordalisa. Questo poveretto mi
--muore nelle braccia. Permettete che io mi discolpi a' suoi occhi e
--poi datemi la morte, che da tanto tempo vi chiedo.--

Monna Cia, chiamata da lei, giunse prontamente in aiuto. Era la
contadina che il giorno innanzi Spinello aveva veduta, intenta a
lavare i suoi pannilini nel letto della Brana. Le braccia di monna Cia
erano robuste: il giovine fu trasportato entro il recinto e adagiato
su d'un sedile di pietra, in quel medesimo terrazzino donde pur dianzi
gli era apparsa la figura di madonna Fiordalisa.

--Va, te ne prego, va, mia buona Cia; prendi un po' d'acqua,
dell'aceto, quello che troverai, per ridar la vita a questo poveretto.

--Sì, madonna, vo subito. Oh, disgraziato giovane! Così buono, così
gentile! Non si direbbe l'arcangelo Gabriele! L'ho conosciuto ieri....
Chi m'avrebbe mai detto che oggi....

--Va, corri,--gridò madonna Fiordalisa.--Ma bada, non una parola al
castello!

--Non dubitate, madonna; prenderò ogni cosa nelle mie stanze.--

Così dicendo, monna Cia, ottima donna, andò speditamente lungo la
redola che metteva al castello. Madonna Fiordalisa rimase sola accanto
a Spinello, che, povero lui, durava fatica a riaversi.

Infelice Fiordalisa! Anche lei, che il caso metteva di punto in
bianco, senza preparazione, a faccia a faccia con Spinello Spinelli,
anche lei era degna di compassione. Lo stato dell'animo suo non si
descrive, come non si descrivono le commozioni violente. In qual modo
era avvenuto quel ravvicinamento improvviso? Spinello aveva dunque
ritrovato il suo nascondiglio, dopo tre anni di ricerche? Quando mai
gli era balenato il sospetto che ella non fosse morta? E quando, e
come, il sospetto si era tramutato in certezza? Anch'egli aveva
profanata la santità d'una tomba, per giungere alla scoperta del vero?
E come era vissuto fino a quel giorno? E come, e perchè, quella
cerimonia nuziale, per cui Spinello si era allontanato da lei? Ma
anche ella non si era allontanata da lui? Non apparteneva ella ad un
altro? Ahimè, triste cosa; le due anime che un primo amore aveva
congiunte, il destino le aveva separate per sempre.

Com'era avvenuto ciò? Spinello, tornato finalmente in sè, doveva
udirlo dalle labbra di madonna Fiordalisa. Fu un doloroso racconto,
che lo fece fremere di raccapriccio e di sdegno.

Fiordalisa era morta per i suoi cari; messer Giovanni da Cortona,
chiamato al letto della vergine, aveva dato il triste responso. E
morta appariva per tutti, e la compagnia della Misericordia era andata
a prendere con gran pompa la bella salma, per chiuderla in un modesto
avello, nel chiostro del Duomo vecchio. Ma Fiordalisa, come vi sarà
facile immaginare, non aveva memoria di ciò. Rammentava l'improvviso
malore ond'era stata colpita, in mezzo alle gioie domestiche, e
rammentava d'essersi risvegliata alla coscienza di sè, in una camera
sconosciuta. Si sentiva spossata, senza volontà, con una gran
propensione a riaddormentarsi. Infatti, le era avvenuto di assopirsi,
e di quelle ore non ricordava che brevi intervalli, come pallidi
chiarori in un buio fitto, nei quali si sentiva trasportata verso una
meta ignota, da uomini prezzolati, tra cui non spiccavano che due
figure: quella del Buontalenti, che l'aveva turbata, e quella d'uno
scolaro di suo padre, che l'aveva atterrita, poichè le lasciava
indovinare il tradimento, ond'era stata vittima, e tutto il peggio che
doveva toccarlo in futuro, senza alcuna speranza di salvezza. Infine,
che più? Ella si era veduta in balla di due feroci che l'avevano
amata; e uno di costoro la dava in preda all'altro; il più povero la
vendeva al più ricco.

E non poteva resistere; le mancava perfino la forza di gridare al
soccorso. Poco stante, non aveva più veduto uno dei due traditori.
L'altro, messer Lapo Buontalenti, restava padrone del campo. Ella era
chiusa in una lettiga, che viaggiava di notte, scortata da un
drappello d'uomini armati, secondo l'uso del tempo, per le vie
maestre, così poco sicure al paragone d'adesso. Evidentemente, quelli
erano i servi, i masnadieri di messer Lapo Buontalenti. A che le
sarebbe giovato il gridare?

Messer Lapo era grave all'aspetto, severo ed arcigno come la vendetta
che gli covava nel cuore. Ma quando gli occorreva di rivolgersi a lei,
in atto di chiederle se avesse mestieri di nulla, assumeva un'aria tra
impacciata e cortese. Non c'ora, per altro, da ingannarsi a quelle
apparenze,

Quando Fiordalisa potè finalmente parlare, gli chiese risoluta:

--Dove mi conducete voi? Dov'è mio padre?--

Il Buontalenti increspò le labbra ad un mezzo sorriso e pacatamente
rispose:

--Madonna, voi siete morta per tutti, così per vostro padre, come per
ogni altro cittadino d'Arezzo. Vi hanno sepolta l'altro dì, con pompa
solenne, entro il chiostro del Duomo vecchio. Gli sciocchi! Pareva che
avessero fretta di liberarsi di voi. Ma vigilava per la vostra
salvezza un amore antico e gagliardo. Il mondo vi ha composta
sotterra, per dimenticarsi di voi; io vi ho restituita alla luce del
giorno; siete mia, finalmente.--

Fiordalisa fremette, pensando a ciò che era accaduto di lei. Ma
indovinò in pari tempo che la sua morte apparente era stata procurata
dalle arti d'un tristo, che lavorava a benefizio d'un altro. E il
senso che questa scoperta doveva produrre nell'animo suo, le si
dipinse nel viso.

--Comunque vediate la cosa, datevi pace, madonna;--ripigliò messer
Lapo, che notava ogni moto più lieve.--Vi ho detto che siete morta pel
mondo.

--E per opera vostra, non è vero?--chiese ella, fissandolo negli
occhi.

--Mettete pure che sia così;--disse di rimando il
Buontalenti.--Credete che un amatore par mio sia disposto a perdervi,
dopo avervi ottenuta con un delitto? Datevi pace, vi ripeto, datevi
pace, madonna. Lapo Buontalenti, vostro fedel servitore, non imiterà
messer Gentile dei Carisendi, che, dopo aver disseppellita la donna
sua, la restituì scioccamente al marito.--

Messer Lapo non poteva citare il caso di Ginevra degli Amieri, che era
ancora di là da venire. E poi foss'anche avvenuto prima d'allora, esso
non poteva servirgli come argomento di persuasione con madonna
Fiordalisa. Ginevra degli Amieri, gentildonna fiorentina d'alto
lignaggio, sotterrata per morta, da per sè stessa uscì fuori
dall'avello, e andò a picchiare a casa di Francesco degli Agogolanti,
suo marito, che la credette un'ombra e non la volle ricevere. In
quella vece, gli serviva benissimo l'esempio di Catalina Caccianimico,
gentildonna bolognese, amata da messer Gentile dei Carisendi. Essendo
il cavaliere andato podestà a Modena e avendo colà ricevuto il
doloroso annunzio della morte di lei, tratto fuor di sè dall'angoscia,
fece disegno di rapire all'estinta il bacio che mai non aveva avuto da
lei viva. Andato di notte tempo a Bologna con un suo famigliare,
aperse la sepoltura, e ivi, con molte lagrime, baciò il viso di
madonna Catalina. La quale non era altrimenti morta, siccome tutti
avevano creduto; laonde, messer Gentile, che aveva sentiti i battiti
del suo cuore, soavemente quanto più gli venne fatto la trasse dal
sepolcro, e postosi il dolce peso in arcione, cavalcò speditamente io
città, dove, commessa l'amatissima donna alle cure di sua madre, potè
vederla presto rifiorita in salute, E perchè la bella Catalina, per
quello stesso amore che egli le aveva portato, lo pregava di
rimandarla a casa sua, messer Gentile, da quel prode cavallero che
egli era e veramente degno del suo nome, la restituì al marito, in
quella commovente maniera che sanno tutti coloro i quali hanno letto
la bellissima storia nel Decamerone di messer Giovanni Boccaccio.

Quant'era distante il Buontalenti da messer Gentile dei Carisendi!
Madonna Fiordalisa, udito il beffardo racconto, conobbe di essere
irremissibilmente perduta.

Giunta a Pistoia e rinchiusa nel castello che messer Lapo aveva
ereditato da Rosellino Sismondi, la povera fanciulla visse là dentro
come in una prigione, senza aver più contezza di ciò che era avvenuto
de' suoi. Era una debole creatura; ma ai deboli soccorre spesso il
coraggio della resistenza inerte, e Fiordalisa anche fuor di speranza
com'era, si chiuse nel suo triste silenzio, aspettando la morte che la
liberasse dalle istanze del feroce amatore.

Il quale, un giorno, stanco della ripulsa di lei, se fece a parlarle
in tal guisa:

--Voi piangete, madonna, e turbate il riso divino della vostra
bellezza. A qual pro' se tutti vi hanno dimenticata?

--Non parlate così!--diss'ella con accento severo.--Quando tutti
m'avessero dimenticata, non mi abbandonerebbe il pensiero di mio
padre.

--Ahimè, madonna!--replicò il Buontalenti. Vostro padre....--

E s'interruppe tosto, chinando la fronte a terra, in segno di grande
rammarico. Fiordalisa ebbe una stretta violenta al cuore.

--Mio padre!--ripetè ella, turbata.--Orbene, che volete voi dire? Che
volete tacermi?

--Madonna,--ripigliò allora il Buontalenti, sa Iddio se mi pento di
--ciò che ho fatto, e se non darei la mia vita per restituirvi il
--vostro ottimo padre. Ma egli, almeno, è ora più felice di me, che mi
--trovo così povero della grazia vostra e non ispero di ottenerla mai
--più.--

Argomentate il pianto e la disperazione della infelice creatura. Suo
padre era morto da sei mesi, ed ella soltanto allora ne aveva notizia.
Povero padre! Ed ora morto di crepacuore, sperando di ricongiungersi
all'anima della sua diletta figliuola.

Passarono giorni, passarono settimane, e le lagrime di madonna
Fiordalisa si rasciugarono. Ma non cessava altrimenti il dolore.

--Di che vi accorate?--le disse un giorno il suo
carceriere.--Spinello, a cui pensate in silenzio, di cui vagheggiate
l'immagine, Spinello non pensa più a voi.--

Ella rizzò la testa, e diede al Buontalenti un'occhiata sdegnosa.

--Oh! non v'inalberate;--riprese egli freddamente.--La cosa è così,
com'io vi racconto, che credete voi, madonna? Che l'amore sopravviva
alla morte della persona amata? Spinello si consolerà.

--Che non mi dite ch'egli ha già data la sua mano ad un'altra
donna?--diss'ella.--Voi mentite, messer Lapo. La menzogna è chiara
nelle vostre parole. Spinello si consolerà, voi dite. Egli non si è
dunque consolato.--

Messer Lapo si morse le labbra. Il colpo gli era andato fallito. Ma
egli promise a sè stesso che quella donna non si sarebbe più oltre
beffata di lui.

Due mesi passarono, tristi coma gli altri che la povera donna aveva
vissuti nella sua solitudine di Colle Gigliato. Ahi, non era una
solitudine, quella, se ogni giorno ella doveva vedersi davanti agli
occhi messer Lapo Buontalenti. Meno infelice di lei, una povera eroina
della favola era stata abbandonata su d'uno scoglio, dannata ad esser
la preda d'un mostro. Per Andromeda, infatti, vedere il suo nemico ed
esserne divorata era quasi tutt'uno; laddove madonna Fiordalisa doveva
scorgere il suo ad ogni istante, appostato in attesa, come una fiera
all'agguato, e tremare ogni giorno, pensando che nessuna difesa
avrebbe più avuta contro di lui; pensando che suo padre era morto e
che Spinello, il suo fidanzato, non avrebbe potuto far altro per lei
che piangere su d'una tomba.

E il Buontalenti osava dire che il suo rivale si sarebbe consolato!
No, non era possibile, Fiordalisa era una fanciulla inesperta e non
aveva anche potuto giudicare la vita nei disinganni che questa può
offrire a mano a mano, in compenso d'ogni nostra speranza. Ma ella si
era sentita così fortemente amata, che veramente l'affetto di Spinello
Spinelli doveva parerle una cosa eterna. Argomentiamo così facilmente
dai nostri i sentimenti degli altri! Eppure, le beffarde parole di
messer Lapo, anche respinte da un'intima convinzione, non potevano
essere dimenticate, e l'eco doveva restarne in quel povero cuore. E in
quella guisa che noi tutti raccogliamo con superstiziosa paura ogni
frase, udita a caso, la quale si riferisca ad un pensiero dominante
dell'anima nostra, avvenne a lei che altre parole, e non da messer
Lapo, ridestassero i dubbi suscitati da lui. "Chi muore giace e chi
vive si dà pace." Questo proverbio, che ella aveva udito le cento
volte, senza avvertirne la dolorosa filosofia, accennato sbadatamente
da quell'umile contadina che sapete, e che era l'unica donna con cui
madonna Fiordalisa scambiasse qualche parola nel castello Buontalenti,
la ferì profondamente, più che non avrebbe fatto ogni altro discorso
del suo carceriere. Chi vive si dà pace! Era proprio vero così! E
perchè, infine, sarebbe stato diverso? È in noi potentissimo l'istinto
della conservazione; la fibra umana ha qualche cosa in sè, che la
persuade a resistere, a desiderare la vita. Il dolore opprime lo
spirito; ma la fibra si ribella al dolore; la schiava non obbedisce al
padrone. E non è forse così in tutti gli ordini di natura? Non è legge
comune che tutto si rinnovi, e che ogni forza depressa si prepari a
risorgere? È possibile che la natura umana ci condanni a morte, e che
la gioventù non trovi in sè medesima quella forza di risurrezione che
trova la più umile pianta, nella vicenda delle stagioni? L'oblio è
fatale come il sonno, e il tempo è rimedio per tutti gli affanni
dell'esistenza. Del resto, se per una creatura viva si può soffrire
aspettando, come si potrebbe soffrire eternamente per una creatura
morta? Aspettare è sperare; e non si aspetta più, quando non si spera
più nulla.

E Fiordalisa era morta, per il suo fidanzato. Spinello poteva, dunque,
doveva cedere anch'egli alla legge comune. Triste cosa, ma vera.
Restava solamente di vedere quanto sarebbe durato il lutto in
quell'anima solitaria.

Così avvenne che, quando messer Lapo le annunziò le nozze di Spinello
Spinelli, Fiordalisa tremò tutta, ma non osò più negare la possibilità
del fatto. L'anima sua era preparata a quel tristissimo evento.

--Madonna,--le disse il Buontalenti,--che io vi ami, e quanto, lo
sapete da un pezzo. Voi farete quel che vi parrà meglio; chi può
aspettare, non vi domanderà nulla anzi tempo. Giuratemi soltanto che
se io vi farò vedere Spinello al fianco d'un'altra donna, voi non
tenterete cosa alcuna per fuggirmi.

--Che mi chiedete voi?--gridò ella, turbata.

--Nessuna cosa che non possiate fare, rimanendo per me quella che
siete stata finora. Vi chiedo una promessa semplicissima, per condurvi
fino a Firenze, dove Spinello impalmerà fra due giorni un'altra donna.

L'istinto della resistenza lampeggiò negli occhi di Fiordalisa.

--Ah!--gridò ella.--Spinello è libero ancora?

--Sì e no;--rispose freddamente messer Lapo.--Un uomo che andrà doman
l'altro all'altare non è già impegnato oggi? Non è già risoluto di
fare ciò che vi torna tanto increscevole sapere di lui! Non ama già
egli la donna a cui darà la sua mano?

--È vero;--diss'ella chinando la fronte.--Messere, conducetemi pure a
Firenze; io vi giuro per la memoria di mio padre che non tenterò di
fuggirvi.--

Madonna Fiordalisa pianse dirottamente, quel giorno, stemperò il suo
povero cuore; indi segui Messer Lapo a Firenze.

Una mattina, la chiesa di San Nicolò, in via della Scala, era parata a
festa. Madonna Fiordalisa, con un fitto zendado sugli occhi, entrò in
quella chiesa e andò a sedersi sulla tribuna dell'altar maggiore.
Stette immobile lassù, senza volger neppure uno sguardo ai dipinti che
tutti ammiravano, aspettando ciò che tutti aspettavano e pregando
Iddio, nell'amarezza del suo cuore, che fosse delusa la sua
aspettazione. Ma Iddio fu sordo alle preghiere della povera fanciulla.

Quando apparve nella navata di mezzo il suo fidanzato, tenuto per mano
da un vecchio gentiluomo che ella non conosceva, ma seguito da una
donna, la cui bianca veste e la ghirlanda di fiori dicevano
chiaramente chi ella fosse e perchè si trovasse colà, Fiordalisa si
sentì venir meno. Supplicò Iddio che dettasse nella sua misericordia
onnipotente un'altra parola a Spinello. Se avesse udito un no, come
sarebbe morta volentieri! Ma Spinello appartenere ad un'altra! E là,
davanti agli occhi suoi! Ma era insensibile, quell'uomo? Ma niente gli
diceva che la sua Fiordalisa era vicina, e lo vedeva, e lo udiva!
Ahimè, Dio poteva essere sordo, se non aveva cuore Spinello! La povera
creatura non resse più oltre all'angoscia; un grido straziante le
ruppe dal petto, all'udire quel sì che le rapiva per sempre il suo
fidanzato; e in quel grido le vennero meno le forze.

Quando ritornò in sè, la chiesa era vuota. Restavano soltanto presso a
lei alcune pietose gentildonne, che le avevano spruzzato il viso
d'acque nanfe e lo prodigavano le più sollecite cure.

Lo svenimento di madonna Fiordalisa era stato attribuito al caldo
soffocante che aveva prodotto nella chiesa quella calca straordinaria
di persone. Altri pensava che le avesse dato sui nervi l'odore della
calce, trattandosi d'una chiesa nuova, che da poco tempo era
uffiziata. Infatti, parecchie dame accennavano di aver sofferto,
durante la cerimonia, un pochettino di mal di capo. E tutti gli
astanti si dolsero che non si fosse pensato da nessuno ad aprire
qualche spiraglio, nelle invetriate dei balconi. La colpa era tutta di
messer Dardano Acciaiuoli e dello scaccino di San Nicola; innocenti
ambedue, come potete immaginarvi. Ma che farci? Si era così lontani
dall'indovinare la vera cagione, che ogni congettura otteneva fede
presso gli astanti.

Madonna Fiordalisa volle ritornare quello stesso giorno a Pistoia. E
messer Lapo non indugiò a farla contenta nel suo desiderio, che tanto
s'accordava co' suoi fini. I cavalli erano pronti, e la partenza seguì
di poche ore l'arrivo.

Intanto, nel cuore della povera bella si era fatto uno strano
mutamento. L'immagine di Spinello Spinelli, che vi era così
profondamente scolpita, si cancellò a grado a grado. Così presente a'
suoi occhi quando era lontano, egli rimpiccioliva improvvisamente dopo
esserle stato vicino. Madonna Fiordalisa non l'odiava ancora, e già lo
aveva discacciato dal sacrario delle sue ricordanze. Lo sposo di Ghita
Bastianelli era diventato uno straniero per lei.

E lo aveva amato tanto! Nessun uomo al mondo avrebbe potuto vantarsi
d'essere amato di più. Ma quell'animo fiacco aveva avuto ribrezzo
della morte! L'ingrato, dopo aver posseduto quel cuore di vergine,
pieno per lui di tenerezza ineffabile, non aveva saputo serbar fede
alla tomba!

Immaginate quel che seguì da questo mutamento improvviso. Il dispetto
contro Spinello fu più forte dell'odio contro Lapo Buontalenti.
Madonna Fiordalisa aveva consentita la sua mano a quell'uomo, a cui
parve grande fortuna ottenere dall'ira ciò che non avrebbe potuto
dargli l'amore. A quell'uomo bastava di possedere; poco gl'importava
del modo.

Ed anche madonna Fiordalisa aveva avuta la sua cerimonia nuziale. Ma
gli echi di San Giovanni di Pistoia non la avevano recato nessun grido
d'angoscia, quando ella aveva profferito il sì che doveva legarla per
sempre. La vittima era immolata; il sacrificio piaceva agli uomini,
com'era accolto da Dio.

Era naturale che così fosse. Spinello ignorava come sanno ignorare i
felici. Non aveva egli dimenticata l'estinta! Eppure, sarebbe stato
così bello in lui serbarsi fedele alla tomba! L'uomo che si ama ha da
essere perfetto. E costa così poco esser tale! Ma non è egli
possibile, Dio santo, che un forte amore vi occupi l'anima e vi renda
insensibile ad ogni lusinga della vita? E perchè non si potrebbe amare
eternamente una persona morta, quando ella, vivente, è stata tutto per
voi? Ci sono delle donne che hanno questa virtù di raccoglimento; e
non l'avranno gli uomini?

Così pensava, e l'amarezza di quel pensiero la vinse. L'immagine di
Spinello fu cancellata dal suo cuore. Nello stordimento che l'ira
contro di lui e la vergogna di sè medesima avevano recato nell'animo
suo, madonna Fiordalisa non solamente si diede animosa in balia del
Buontalenti, ma disse il suo sì con un ardore, che parve impeto
d'affetto, tanto più forte, quanto più repentino. Cose che avvengono!
Questi inganni del cuore son più comuni che la gente non creda.

Ma quando ella appartenne a quell'uomo, quando conobbe di avergli data
la sua libertà, la sua vita, e tutto ciò che vale assai più della vita
e della libertà, Fiordalisa vide che la sua promessa d'amore e di fede
le era stata carpita da un sentimento bugiardo. Si pentì, ma era
tardi, e la poveretta ebbe paura. Ah, non era così l'amore che ella
aveva sognato. L'amore è l'abbandono consapevole e volenteroso del
nostro essere; l'amore e una profonda allegrezza, anche in mezzo ai
tormenti; l'amore è una superba rinunzia di sè ad una creatura che si
crede superiore a tutte le altre, o solamente uguale a noi medesimi.
Che cos'era invece messer Lapo Buontalenti? Un codardo, che non aveva
saputo vincere in guerra leale, e si faceva forte d'un sotterfugio, un
astuto che giungeva dopo e faceva suo pro d'un movimento di sdegno. E
quell'uomo era diventato il suo signore e padrone. Abbominevole cosa!
E la bellezza di lei, che aveva infiammato il più nobile dei cuori, si
sarebbe data a lui, avrebbe patite le sue ardenti carezze!

Pure, così doveva essere. La vita ha più drammi che non si pensi;
drammi tanto più dolorosi, quanto più inavvertiti. Perchè egli c'è
qualche cosa di grande nei dolori patiti alla luce del sole, con
migliaia di sguardi rivolti su voi e di cuori compassionevoli che
s'inteneriscono per voi, imprecando ai vostri oppressori. Ma il dramma
intimo, il dramma rinchiuso nelle quattro pareti d'una casa,
senz'altro testimonio che la vostra coscienza abbattuta, quello è il
più orribile dei drammi. Rammentate la leggenda, che narra di donne
rapite dagli abitatori delle selve? Anche certi animali, a noi vicini
nell'ordine della creazione, sentono come noi la bellezza. Sommessi al
suo potere e terribili nelle ire gelose, amano e digrignano i denti;
proteggono, nutrono, e sono disposti a percuotere, ad uccidere per un
nonnulla che svegli i loro sospetti. Ma di tali belve non sono
popolate solamente le boscaglie africane. In ogni consorzio umano è
dato di trovare l'uomo feroce dei boschi. Gran mercé sentirsi amate in
tal guisa! E come fuggire a quella forma d'affetto? La donna, si sa, è
debole e paurosa. Quanto meno è saldo in lei il vincolo che lega la
vita alla carne, tanto più grande è il timore di perderla. Desdemona
trema. Peggio ancora, ella non osa dire a sè stessa di amar Cassio,
così dolce e così buono; il dramma finisce, e finisce la vita per lei,
nella persuasione di avere amato il suo furibondo carnefice.

Così la bella Fiordalisa apparteneva a messer Lapo Buontalenti. La
povera anima tentò a quando a quando di ribellarsi, ma finalmente si
spense nella sommissione a quella volontà, volgare ma forte. Il suo
signore e padrone la soggiogava con la sua stessa ferocia. Qualche
volta le avvenne di sentire la forza di quell'amore violento, e (debbo
dirvi ogni cosa, per l'ossequio che merita la verità) si compiacque di
essere amata in tal guisa. Se in uno di quei momenti le fosse capitato
davanti il povero Spinello, essa gli avrebbe detto: Sai? Io amo
quell'uomo, che un giorno o l'altro mi ucciderà; lo amo, perchè egli
mi ucciderà. Ma altre volte ella sentiva un odio profondo, e, insieme
con l'odio, il desiderio di mormorare all'orecchio messer Lapo: Sai,
uomo feroce? Io ti disprezzo, quanto tu mi ami. Checchè tu faccia, non
cancellerai dal mio cuore l'immagine di Spinello. Uccidimi pure,
poichè questo è il tuo diritto; ma, io amo quell'uomo.

E certo ella avrebbe parlato in tal forma, se Lapo le avesse domandato
quali pensieri passavano per la sua mente, nelle ore più segrete, in
cui il signore d'una donna s'atteggia più superbamente a padrone. Ma
Lapo Buontalenti non chiedeva nulla. Egli era uno di quegli spiriti
volgari, destinati a vincere nelle battaglie della vita, perchè hanno
un'idea sola, e in quella appuntano tutti i loro desiderii, tutte le
forze della loro volontà. Siffatti uomini, quando l'occasione li fa
innalzare a più grandi propositi, appaiono anche uomini insigni, e si
chiamano Cesare, o Napoleone, perchè, scambio di vincere una donna,
hanno soggiogata la patria, caduta, per effetto di tristi circostanze,
nelle condizioni miserande di una povera donna, che deve cedere senza
fallo al più forte, e al più temerario. Per essi, nessun dubbio,
nessuna perplessità, nessuna esitanza nell'animo; vanno diritti alla
meta, godere e comandare, comandare e godere. L'impero del mondo è una
posta, essi la giuocano. Non hanno guadagnato ciò che giuocano;
l'hanno trovato sul tappeto verde e se ne sono impadroniti,
approfittando della disattenzione di tutti. Che cos'è la morale per
essi? Non sentono che il loro egoismo. E il mondo crede a queste
povere teste; il mondo s'innamora di questi giuocatori audacissimi, da
qualunque parte essi vengano, a qualunque fazione si ascrivano. Ed è
forse perciò che tanti pensatori modesti, i quali hanno lungamente
vagliato dentro di sè il pro ed il contro, delle cose umane non
credono agli entusiasmi del mondo e vivono a giornata in questa cara
Babele, senza pigliarla sul serio.

Spinello aveva ascoltata la confessione di madonna Fiordalisa, e le
aveva fatta sinceramente la sua. La bella creatura udì per quali vie
l'amor paterno di Luca Spinelli e l'odio astuto di Tuccio di Credi
avessero vinto l'animo del suo fidanzato e fossero giunti a
strappargli un sì che doveva renderlo felice per tutto il rimanente
de' suoi giorni.

--Povera donna!--esclamò Fiordalisa.--Voi dovete amarla, oramai.--

Spinello crollò malinconicamente la testa.

--Ahimè, non è possibile;--risposa egli.--Ed ella lo sa.

--Come? Avete avuto il coraggio di dirglielo?

--Sì, madonna; era il debito mio. Veramente,--soggiunse Spinello,--vi
parrà che il debito mio fosse anche di non condurla all'altare. Ma
questo, voi sapete oramai come andasse. Lo stato dell'animo mio non
poteva sfuggire all'occhio attento della povera Ghita; mi chiese che
cagioni di turbamento fossero in me, e come avvenisse che nulla poteva
rimuoverle dal mio spirito; ed ho parlato, le ho aperto,
schiettamente, il mio cuore.

--E lei?

--Povera Ghita! Mi ha inteso e mi ha perdonato. Vedete, Fiordalisa, il
suo perdono mi pesa. Oh, se m'avesse odiato! Se mi avesse tradito!
Credetelo pure, io l'avrei benedetta, anche prima che voi foste viva,
mia bella e dolce fidanzata. Rinchiudermi nel mio lutto, senza esser
cagione di rammarico a lei, vivere con le immagini del passato,
lasciando altrui di trovare le sue gioie nel presente, era questo il
mio voto, era questo il mio sogno.--

Fiordalisa non rispose parola. Chinò la fronte e rimase pensosa, quasi
ascoltando dentro di sè l'eco delle ultime parole di Spinello
Spinelli.

Il sole si era nascosto allora dietro i monti pisani. Una brezza soave
incominciava a spirare dal piano, recando alla giovine coppia le acute
fragranze degli orti pistoiesi.

--E voi, Fiordalisa,--mormorò Spinello, dopo un lungo
silenzio,--pensavate al vostro povero amico?

--Sempre;--rispose ella con un filo di voce.

--Angelo, ed io l'ho meritato, sapete? Ogni giorno della mia triste
vita è stato un assiduo pensiero per voi, un ricordo continuo,
doloroso e caro, delle mie speranze perdute. Oh Fiordalisa, come t'ho
amata, e come t'amo tuttavia! Sorriso della mia giovinezza, ti ho
dunque ritrovato? E non sei più mia! L'ira dei tristi ci ha separati.
Ma è forse vero? L'amore che mi legava a te, dal giorno che ti ho
veduta per la prima volta e ti ho votato il mio cuore, non dura eterno
qui dentro? Fiordaliso, anima dell'anima mia, senti, è il destino che
ci ha divisi, è il destino che ci ricongiunge. Non è desso che m'ha
chiamato a Pistola? E contro il desiderio dell'infame Tuccio di Credi?
Oh, quell'uomo, quell'uomo! Come dovrà pagar caro il suo tradimento!
Perchè io lo ucciderò, sai, lo ucciderò come si uccide un rettile
schifoso e malefico!--

Fiordalisa fremette a quelle parole di minaccia.

--No, Spinello, amico mio, non giurate la morte di nessuno. È la
vostra Fiordalisa che ve ne prega. Chi siamo noi per farci giudici,
dov'è la mano di Dio? E tu ed io,--soggiunse ella abbassando la
voce,--siamo forse così puri, nel profondo dell'anima, per non aver
mestieri di perdono davanti alla giustizia degli uomini ed alla
misericordia di Dio?

--Ah!--gridò egli, colpito da quelle parole, e più dall'accento con
cui erano stato profferite.---Tu m'ami dunque, o Fiordalisa! Mi ami...
come t'amo?

La bella creatura gli volse uno sguardo in cui si dipingeva tutta la
confusione dell'animo suo, e cadde perduta nello braccia
dell'innamorato Spinello.

Ore soavi, ore di cielo, chi potrebbe descrivere la vostra dolcezza
infinita? Parole sussurrate da labbro a labbro, quasi paurose di
essere udite dall'aria, chi potrebbe ridirvi? Quei due nobili cuori,
separati dalla tristizia degli uomini, erano dunque resi a sè stessi,
e si confondevano allora tanto più infiammati l'uno dell'altro, quanto
più lunghi erano stati il desiderio e la pena? Si erano amati; si
amavano. Il doloroso intervallo spariva; quei due cuori non avevano
mai cessato di amarsi.

La luna, apparsa pur dianzi dal colmo del poggio, s'innalzò lentamente
su per la volta azzurra: Ed essi erano là, immobili, ebbri di amore,
gli occhi cupidamente fisi negli occhi, le braccia intrecciate alle
braccia. Il mite chiarore dell'astro notturno, che pioveva sui due
felici e pareva involgerli d'una velatura bianca, li faceva
rassomigliare a due figure di marmo, che, aggruppate dal sentimento
d'un gentile artefice, eternassero il loro amplesso nella radura d'un
bosco; delizioso spettacolo d'amore, e veramente degno di essere
contemplato dalle stelle. Quete notti della bella Toscana, in mezzo al
cupo smeraldo dei poggi digradanti, al biancheggiare dei nitidi borghi
in lontananza, al luccicare dei fiumi, serpeggianti in fascia
d'argento lunghesso le valli, avevate mai accolta e accarezzata dal
vostro raggio amoroso una felicità così piena?

Ella guardando lui, ed egli vedendo il creato negli occhi di lei,
avevano dimenticato ogni cosa. Ma che cos'altro è un vero e forte
amore, se non un profondo oblio! Respirare le dolci fragranze d'una
guancia adorata, farsi collana di due candide braccia, è come affogare
nell'infinito; anticiparsi il maraviglioso _nirvana_ dei filosofi
indiani. Sopra tutto, se duri tra voi e intorno a voi un grande
silenzio, che vi dà l'illusione d'esser cullati sul flutto, in un mare
senza sponde, e senza tempeste. Ogni piena allegrezza è naturalmente
muta, la beatitudine non si dice; è la cosa sublime, ineffabile, che
si tiene gelosamente in serbo, nel segreto dell'anima, per rammentarla
nei giorni malinconici, d'ogni luce muti.

E poi, che bisogno avrebbero avuto di manifestarsi i loro pensieri a
vicenda? Un linguaggio più tenero e più efficace parlavano quelle
labbra ardenti, quegli occhi confusi di voluttà. E tacevano, intanto,
ed ogni cosa taceva intorno a loro. Da lunge, si udiva solamente lo
stridio dei grilli, monotono ma lene, che non urtava l'orecchio, ma
conciliava il raccoglimento, e pareva la voce della natura, la nota
della realtà, che dicesse loro: voi siete persone vive, non ombre
vane; quel che sentite, è gaudio consapevole, non illusione del sogno.

Amore, amore! Quanti inni non ha sciolti per te l'anima umana ne' suoi
impeti di poesia! Ma tu sei così vario e profondo, che nessuna forma
dell'arte basterebbe a comprenderti. Tu non sei intiero in nessuno dei
nostri cantici, perchè ogni cantico è in te. Scioglierò anch'io, gramo
poeta, il mio inno alla tua potenza infinita? No, chiuderò gli occhi,
e contemplerò i tuoi miracoli nella penombra delle mie ricordanze:
evocherò il caro fantasma che meglio risponde alla tua immagine non
mai ritratta da umano pennello. E a me, pur troppo, non risponderà da
lontano il monotono e lene stridìo dei grilli canterini; la voce della
natura, la cara nota della realtà, sarà muta per questo povero
cantastorie.

Mentre io parlo, ricordando troppo, ed essi tacciono, dimenticando
ogni cosa e vivendo un'eternità nello spazio d'un'ora, un fruscio
della frappa s'è udito tra le piante.

All'improvviso rumore, Fiordalisa tremò; Spinello balzò prontamente in
piedi tendendo l'occhio sospettoso e l'orecchio. Ambedue rimasero
lungamente in ascolto, rattenendo il respiro; ella più innanzi, e
pronta ad allontanarsi dal terrazzo; egli più indietro, ma con la mano
agli elsi della spada.

--Non è nulla;--diss'ella poco stante;--forse il vento tra i rami.

--Ah!--sospirò egli.--Povera vita! Tremare, nascondersi.... E perchè?
Tu verrai meco, non è vero, amor mio!--

Fiordalisa si strinse al petto di Spinello, e non rispose parola.

--Dimmi, te ne prego,--ripigliò Spinello,--verrai?

--Verrò, sì, non dubitare, verrò;--rispose ella, turbata.--Ma, per
amor del cielo, per me, non cedere alla tua impazienza! Una cosa ti
sia certa;--soggiunse, parlandogli all'orecchio come se vergognasse di
udire il suono delle proprie parole,--che io non vivrò con quell'uomo,
non profanerò l'impronta dei tuoi baci.--

Spinello premette al seno quella fronte adorata e depose un bacio tra
i suoi bruni capelli. Ma Fiordalisa, non bene rassicurata, stava
ancora in ascolto.

--È il vento, dicevi, è il vento che stormisce nella frappa;--mormorò
allora Spinello.--Di che temi tu dunque? Ma lui, a quest'ora dov'è?

--Non so;--rispose Fiordalisa;--forse ancora in città, dov'è andato a
salutare un amico.

--È un fedel servitore;--notò amaramente Spinello;--il suo Tuccio di
Credi, venuto a Pistoia per lui.

--Ah! forse per avvertirlo della tua presenza?--diss'ella, guidata da
quel senso indovino che hanno in simili casi le donne.

--Orbene, sia pure così;--rispose Spinello.--Io lo aspetterò di piè
fermo.

--No, te ne supplico, parti! Egli sarà qui tra poco. Potrebb'essere
già ritornato, e cercare in questo punto di me.

--Andrò,--disse Spinello, sospirando.--Ma non intendi tu, Fiordalisa?
Ieri ho colto a volo una sua frase, in risposta all'infame Tuccio di
Credi. "Partiremo, diceva egli, partiremo." E se egli domani ti
conducesse via da Colle Gigliato? Dove ti troverei io, adorata?

--È vero;--rispose ella perplessa.--Ma tu conosci Cia, la buona
contadina. Ella mi ama; a lei posso confidarmi, ove sia necessario.
Ella ti avvertirà d'ogni cosa. Ma parti, ora; che egli non abbia a
ritrovarti qui! Saremmo perduti ambedue.

--Sì, partirò. Dio Santo!--mormorò Spinello, comprimendosi il petto,
che pareva volesse scoppiargli dalla pena.--Ecco la luce degli occhi
miei, e debbo ritornar nelle tenebre! Quando ti rivedrò, mia dolce
signora?

--Se Iddio lo consente, domani. Ma non venire di giorno. Attendi il
colmo della notte. Cia verrà ad aprirti. Io troverò un pretesto per
escire in giardino.

--Pronta a seguirmi?

--Sì, pronta a tutto. Iddio mi usi misericordia, perchè io ti amo e
farò ogni cosa per te.--

Parlavano a bassa voce, guancia a guancia, tenendosi per mano, come
persone che vorrebbero separarsi e non sanno risolversi, tanto è forte
l'affetto.

In quel mentre, un nuovo rumore si udì dalla rèdola. Spinello mise
mano alla spada.

--Zitto!--diss'ella.--Sicuramente è tornato, e questa è Cia che viene
a cercarmi.

--Vado a vedere:--bisbigliò Spinello, facendo atto di muoversi.

--No, fèrmati; essa non deve trovarti ancora qui, così tardi! Mio Dio,
chi sa che cosa ella avrà già pensato di noi! Lascia almeno che io la
disponga a domani. Tu rimarrai qui, fino a tanto che io non sia presso
di lei, avviata al castello; indi scenderai verso il portone. Andrai a
sinistra e troverai a scala di pietra.--

Così dicendo, si allontanò. Spinello la seguì un tratto, fino al
limitare del terrazzo, per stringervi la sua mano e deporvi un ultimo
bacio. Ella, si volse con moto rapidissimo, lo baciò in fronte e
fuggì.

Il giovane innamorato rimase in sull'ali, pronto a muoversi, appena
fosse sparita, e a discendere da quella parte che essa gli aveva
accennata. Ma proprio nel punto che egli stava per togliersi di là,
udì un grido di spavento, che gli gelò il sangue nelle vene. E subito
dopo vide riapparire madonna Fiordalisa, che correva a furia verso il
terrazzo, come persona inseguita.

--Ah, salvami!--gridò ella.--Salvami! Egli mi ucciderà.--

Spinello fu pronto come la folgore. Con la spada nel pugno, si cacciò
tra lei e il suo persecutore invisibile.

Ma appunto allora un uomo comparve dalla rèdola e venne a piantarsi
sull'entrata del terrazzo. Veduto a lume di luna, in mezzo alla radura
delle piante, pareva un fantasma.

--Chi siete voi, messere!--gridò egli, con accento impresso di
sdegno.--Perchè vi trovo io con la mia donna, in quest'ora notturna, e
senza avervi dato licenza di entrare?

--La vostra, donna!--ruggì Spinello Spinelli.--Voi parlate, messer
Lapo Buontalenti, da quel ladro sfacciato che siete. Tenetevi
indietro, o per la croce di Dio, è questa la vostra ultima ora.--

Ma in quella che faceva dare indietro il suo nemico, udì un gemito e
vide Fiordalisa abbandonarsi sul fianco.

--Fatevi animo, madonna;--diss'egli;--il tristo non potrà nulla contro
voi. Ma che è ciò!--soggiunse egli, con accento mutato, dalla baldanza
al terrore, poichè aveva veduto luccicare nella mano di messer Lapo la
lama d'un pugnale.--Ah! L'avete ferita? Vigliacco! Ferire un donna!

--È il mio dritto;--rispose il Buontalenti.--In mia casa son giudice e
punisco senza il vostro beneplacito.--

Indi, alzando la voce gridò:

--A me la mia gente! A me!

--Vivaddio!--rispose allora Spinello.--Voi siete un giudice? Ed io
sono la giustizia divina, in quest'ora. A voi, Lapo Buontalenti; io
renderò cento per uno.--

E si avventò a messer Lapo, con la spada levata. L'impeto fu tale, che
il Buontalenti non ebbe tempo a causarlo e ricevette il colpo nel bel
mezzo del petto. La punta della spada si ruppe sul corsaletto di cuoio
che messer Lapo indossava. Ma la violenza del colpo lo aveva fatto
stramazzare a terra. Spinello, lesto come una tigre, gli fu addosso
col ginocchio, e afferrata la spada sotto gli elsi, gli piantò il
troncone nella gola, prima che quell'altro potesse menargli una
pugnalata attraverso il costato.

I famigli del Buontalenti erano accorsi al frastuono. Tra i primi era
la Cia.

--Vergine santa!--gridò ella atterrita.--Che è ciò? La mia signora?...

--È là, sul terrazzo. Andate, buona donna, ella aspetta i vostri
soccorsi;--rispose Spinello, balzando in piedi, col suo troncone di
spada nel pugno.--E voi,--soggiunse, rivolgendosi agli uomini, che
erano rimasti sbigottiti, davanti a quella scena di scompiglio nei
buio, senza sapere con chi e con quanti avesse a fare,--andate subito
al castello. Portate acqua, una lettiga, una scranna, quel che vi
capita, per adagiarvi la vostra signora, che questo infame ha ferita.

--La mia signora!--gridò la contadina.--La mia signora ferita! Ah, Dio
di misericordia! Andate, correte, obbedite a questo buon cavaliere. È
un congiunto di sangue della nostra padrona.--

Quella povera donna non sapeva quel che si dicesse; parlava a caso,
seguendo l'ispirazione della paura. Aveva sospettato, poche ore
innanzi; ma in quel punto indovinava il triste dramma, a cui il
destino aveva data una così dolorosa catastrofe. Mentre i famigli del
castello ritornavano sui loro passi, per obbedire ai comandi dello
sconosciuto, altrettanto storditi dall'accento di sicurezza della
donna, quanto dallo spettacolo atroce che si era parato davanti ai
loro occhi, la buona Cia accorreva presso la sua diletta signora.

Spinello non la seguì, prima di aver dato uno sguardo al suo rivale,
disteso supino per terra a boccheggiante nel proprio sangue.

--Lapo Buontalenti,--diss'egli.--Domineddio non paga il sabbato, ma
paga. Così gli piaccia di perdonare a me, se ho ardito di farmi suo
ministro di giustizia.--

Ciò detto, andò anch'egli verso il terrazzo, ove giaceva madonna
Fiordalisa, col capo già sollevato sulle ginocchia della fedel
contadina.

--Fiordalisa! Angiola mia!--esclamò egli, con voce lagrimosa.

--Sei tu, Spinello!--mormorò Fiordalisa, volgendo languidamente la
faccia verso di lui.--Sia ringraziato il cielo! Disperavo già di
vederti.

--Amor mio, sempre daccanto a te!--rispose egli, chinandosi al fianco
di lei.

--Sempre!--ripetè la bella creatura.--Ahimè, sarà per poco. Ormai, è
finita, per me. Il crudele, sai, mi ha ferita.... qui!--

Aveva recata, in quel mentre, la mano al petto, e la mostrava a
Spinello intrisa di sangue.

Così era, pur troppo. Messer Lapo Buontalenti, appostato dietro un
cespuglio, si era scagliato su lei e l'aveva ferita, senza che ella se
ne accorgesse. Era fuggita, la misera donna, credendo di cansare il
colpo che aveva veduto balenare nell'ombra; ma il suo movimento di
terrore non era servito che a mutare di breve distanza il punto a cui
mirava il carnefice. Il ferro, che doveva colpirla a mezzo il petto,
l'aveva colta nel fianco.

La buona Cia si era fatta da principio a sollevarle il busto, per
aiutarla a respirare. Ma, veduto il sangue che grondava dal costato,
si era affrettata a slacciarle la veste, e, appena giunsero i famigli
con l'acqua, v'inzuppò un pannilino, che pose con ogni diligenza e
raffermò sulla ferita. L'impressione del freddo parve ristorare la
sofferente, ma non ristorò altrimenti le speranze de' suoi assistenti
amorevoli. Poco stante, la bella creatura incominciò a rammaricarsi, e
qualche goccia di sangue le apparve sugli angoli delle labbra.

Spinello si cacciò le mani nei capegli.

--Oh, per colpa mia! per colpa mia!--gridava egli, con accento
disperato.

--No, amico mio;--mormorò Fiordalisa;--non ti accusare! È stato il
destino. Perchè ti ho trattenuto io questa sera? Dio santo, ero così
avida di questa felicità! Ho pianto, sai, ho durato tre anni tra il
dolore dell'anima e la menzogna del volto, disperando di vederti,
amandoti e odiandoti.... Perdonami, non si odia così, che quando si
ama così. E dovevo io discacciarti, appena ritrovato? Non eri mio? Non
mi eri reso? E non dovevo accettare il dono che mi era fatto dal
destino? Oh, lo sapevo, sai, lo sapevo, che m'avrebbe uccisa. Ma in
questa certezza è stata anche la mia scusa. Ti amo! ti amo!--

Un fiotto di sangue interruppe lo sfogo di quell'anima addolorata.

--Mia buona signora, chetatevi;--disse amorevolmente la
contadina.--Voi vi affaticate troppo.

--No, no, lasciami parlare, ottima Cia; ho pochi istanti di vita.--

Il petto di Spinello parve rompersi dai singhiozzi.

--Amico mio, perchè ti lagni?--ripigliò Fiordalisa.--Non mi seguirai
tu? Ho bisogno d'esser seguita da te. Ma bada, non sia per opera delle
tue mani, e solo quando a Dio piacerà. Pregalo con tutta l'anima,
digli che la tua Fiordalisa si sentirà troppo sola, senza di te. Ma
no, son crudele; vivi, mio povero amico, vivi per i tuoi figli. Solo
ti prego che tu non abbia a scordarti di me. Verrò a visitarti, ogni
giorno, se Iddio lo permetterà; il mio pensiero ti sarà sempre vicino.
Oh, misericordia divina! Quante cose da dire, e la vita mi
sfugge!...--

La buona Cia le spruzzò acqua sul viso, ed ella si riebbe un tratto.

--Che è avvenuto... di lui?--domandò volgendosi alla contadina.

--Oh, mia dolce signora, di che vi date pensiero? Egli rende conto a
Dio di ciò che vi ha fatto soffrire.

--Dici bene, mi ha fatto soffrire; molto mi ha fatto soffrire; tanto,
che lingua umana non potrebbe ridire. Sono colpevole.... ma per lui.
Dio perdoni all'anima sua!--

Quindi, volgendosi a Spinello, gli disse:

--Amico mio, vorrei esser sorretta da te.--

Spinello si affrettò a prenderla tra le sue braccia.

--Mia buona Cia, allontana quegli uomini. E allontanati anche tu, te
ne prego. Vorrei dire qualche cosa a Spinello. Mi perdoni tu, non è
vero?--

Cia baciò la mano della sua padrona e si tirò in disparte, dall'altro
lato del terrazzo, dopo aver congedato i famigli. Spinello rimase solo
accanto alla morente, sostenendola nelle sue braccia.

--Spinello, amico mio, amante mio,--diss'ella,--qua, la tua mano sul
mio cuore! Oh, come sarebbe stato dolce vivere sempre così! Ma Iddio
non l'ha voluto. Egli non consente che si ami troppo la vita.
Ringraziamolo, poichè almeno egli ci ha dato quest'ora. Non basta,
forse? Ci siamo amati. Ho dimenticato ogni cosa nelle tue braccia.
Vedi, che notte serena! che splendore di stelle! E che bel giorno sarà
domani! Ah, ma tu non lo vedrai tale, non è vero, amor mio? Se questa
valle sorriderà del suo più amabile sorriso alla luce del sole, tu non
vedrai che tenebre? Giuralo, perchè io muoia contenta. Sai, quando la
persona amata non è più, il mondo non deve avere più nulla, più nulla,
che lo faccia amare da chi resta.

--Oh, io ne morrò;--disse Spinello, con voce soffocata dalle lagrime.

--Vivi, le l'ho detto; vivi triste, ma vivi. Col desiderio di me,
ricordati, col desiderio di me! Sentirei freddo, nella tomba, se il
tuo amore non venisse a ricingere le mie povere ossa, là dentro. Ahi,
triste cosa, morire! Non voglio morire! Di grazia, ancora un giorno!
Un'ora, almeno un'ora di vita! Spinello, mio fidanzato, amor mio, dove
sei? Non mi lasciare! Non mi lasciare! Prega il Signore per me.... per
l'anima della tua Fiordalisa.--

La bella creatura balbettò ancora poche parole, il cui suono si spense
nel sangue che le gorgogliò sulle labbra, e la testa ricadde inerte
tra le braccia dell'amato. Nè le lagrime ardenti di lui valsero a
trattenere quella vita che fuggiva; le sue grida disperate si
perdettero nel gran silenzio della notte.




XIII.


Vi ho detto come quel degno gentiluomo che era messer Bardano
Acciaiuoli amasse Spinello Spinelli. La mestizia del giovine pittore
lo aveva colpito; il suo ingegno messo alla prova, lo aveva
stupefatto; la sua bontà gli aveva parlato al cuore, lo aveva
innamorato senz'altro. E il vecchio cavaliere, poi che Spinello si fu
allontanato da Firenze, prese a seguire i suoi trionfi artistici nelle
varie città di Toscana, che facevano a gara per averlo, come un padre
seguirebbe da lunge, con gli occhi dell'anima, i trionfi d'un figlio
diletto.

Però, immaginate voi con che cuore messer Dardano leggesse un giorno
certa lettera di madonna Ghita Spinelli che gli annunziava tristi cose
del suo povero marito. Ridottosi in patria dopo lunghe e vane
peregrinazioni, Spinello Spinelli era comparso davanti alla madre de'
suoi figli, pallido, sparuto, coi capegli quasi bianchi, e col
cervello in volta. Sicuro, il povero Spinello Spinelli era impazzito.

Di questa catastrofe messer Dardano aveva avuto come un presentimento
alcuni mesi prima quando Spinello gli era capitato d'improvviso a
Firenze. Il giovine pittore tornava allora da Pistoia, senza aver
posto mano agli affreschi, che quei cittadini s'aspettavano con tanto
desiderio da lui. Non si sentiva di far niente che avesse garbo;
quella bella città non lo aveva ispirato. La cosa parve strana a
messer Dardano; ma egli stando qualche ora col suo protetto, non aveva
durato fatica ad intendere che un grande infortunio e una profonda
afflizione lo avevano oppresso, offuscando in lui la coscienza del
proprio ingegno e del proprio dolore. Infatti passava con la massima
volubilità dal pianto alle risa, incominciava un discorso o finiva in
un altro, se pure si poteva dire che ne finisse mai uno. Messer
Dardano aveva cercato di penetrare il segreto di quella mente turbata,
ma non ne era venuto a capo. E Spinello Spinelli aveva lasciato
Firenze, dicendo al suo protettore che gravi cose lo chiamavano
altrove; tra l'altre, e prima di tutte, un voto da sciogliere.

Il degno gentiluomo si era industriato a trattenerlo ancora qualche
giorno: ma Spinello, promettendogli di tornare a prender commiato da
lui, gli era fuggito di mano. Ricordando l'accenno a quel voto, messer
Dardano pensò che Spinello dovesse recarsi a qualche famoso santuario.
Lo aveva conosciuto religiosissimo; aveva saputo delle sue pratiche di
pietà in Arezzo, condotte, a dir vero, oltre le medesime costumanze
del tempo, e aveva detto tra sè, rassegnandosi a quella
sparizione:--"Povero giovane! Speriamo che il tempo, questo gran
medico delle anime afflitte, rechi un po' di sollievo ai suoi mali, e
ch'egli non abbia a perderci l'ingegno; che sarebbe veramente
peccato!"--

La lettera di monna Ghita ricordò a messer Dardano Acciaiuoli le sue
prime apprensioni. Era stato il protettore di Spinello e il pronubo
della giovine coppia, e intendeva benissimo come in un giorno di
tristezza domestica, la moglie di Spinello dovesse ricorrere a lui col
pensiero e invocare il suo patrocinio. Quel degno gentiluomo non
istette in forse, e il giorno dopo che ebbe ricevuto il messaggio
della povera donna, si avviò con gran diligenza ad Arezzo, per vedere
in che modo potesse tornar utile alla dolente famiglia.

Era appena giunto in Arezzo, che gli si parò davanti agli occhi la
torbida figura di Tuccio di Credi. Quel disgraziato era assai male in
arnese; ma messer Dardano lo riconobbe subito. Rammentate che Tuccio
di Credi era il compagno inseparabile di Spinello, nella sua gita a
Firenze, e che proprio a lui si era rivolto messer Dardano, per avere
notizie intorno alla tristezza di quel giovinotto, che andava ogni
giorno a sedersi sulla piazza di Santa Maria Novella. Inoltre, Tuccio
di Credi era l'aiuto di Spinello Spinelli, quando questi dipingeva
nella chiesa di San Nicolò, in via della Scala, e messer Dardano non
poteva averlo dimenticato così facilmente.

--Tuccio di Credi!--esclamò egli andandogli incontro.--Che fortuna
d'imbattermi in voi, appena entrato in Arezzo!--

Tuccio di Credi aveva veduto messer Dardano anche prima che messer
Dardano vedesse lui. E avrebbe voluto cansarlo; ma, come accade in
simili circostanze, che il timore d'essere osservati vi trattiene e vi
fa cadere più presto nelle unghie di chi volevate sfuggire, andò a lui
come la biscia all'incanto.

--Messere,--diss'egli,--mi duole di presentarmi a voi... in questo
povero stato.

--Ah, sì, gli è proprio il momento di badare a queste cose;--esclamò
l'Acciaiuoli.--Come va il nostro caro Spinello? Son venuto a bella
posta per lui.

--Messere,--balbettò l'altro turbato,--io non lo vedo da un pezzo.

--Come? non siete con lui?

--No, messere, ci siamo lasciati, dopo che egli ebbe dipinto nel
camposanto di Pisa. Non lo sapevate?

--Io no; Spinello non mi ha detto niente di ciò. Ma spera che non
sarete diventati nemici.

--Per quanto è da me, no, certamente;--rispose Tuccio di Credi.--Del
resto, abbiamo avuto da dire su cose da nulla, e il torto è stato il
mio. Ho parlato di andarmene ed egli mi ha lasciato andare. Già non
gli servivo gran fatto. E da quel giorno sono andato qua e là, per
tutta Toscana, in cerca di lavoro...

--E non ne avete trovato?

--Ahimè, messere! Con tutta la miglior volontà del mondo, non son
venuto a capo di nulla. Che volete? Non si nasce tutti sotto una buona
stella, e la mia è stata la più trista.

--E siete senza lavoro?

--Come voi dite, messere.

--Ma lavora Spinello, m'immagino.

--Sì,--rispose Tuccio di Credi;--quantunque io non riesca ad intendere
come gli venga fatto. Voi saprete che egli è impazzito?

--La voce ne è corsa; ma speriamo che sia esagerata;--disse messer
Dardano.

--Lo volesse il cielo!--esclamò Tuccio di Credi; ma facendo la sua
brava restrizione mentale, di cui messer Dardano Acciaiuoli non doveva
avvedersi.

--Ah, sì!--ripigliò il vecchio gentiluomo,--Questo dobbiamo tutti
desiderare. Forse non si tratterà che delle solite malinconie. Sapete
pure, Tuccio, che il nostro amico ha sempre dato nel triste. Sarà la
stessa malattia di Firenze. Certi dolori, quando si sono impadroniti
di noi, amano ritornare e non c'è verso di liberarsene del tutto.

--Non sa nulla!--pensò Tuccio di Credi, udendo le parole di messer
Dardano.

E ad alta voce proseguì:

--Messere, da quando non avete più visto Spinello?

--Dal suo ritorno da Pistoia a Firenze;--rispose l'Acciaiuoli.--Il
nostro amico doveva essere già in balia de' suoi tristi pensieri,
poichè non è riescito a far nulla, in quella città, deludendo così
l'aspettazione di tutti. Come diamine è andata? Io non ho potuto
cavarne un costrutto. Non ne sapete nulla, voi? Ma già, dimenticavo
che eravate separati.

--Ve l'ho detto, messere, ci eravamo lasciati, prima che egli andasse
a Pistoia.

--Spero che non sarà una separazione eterna;--disse allora
l'Acciaiuoli.--Se Spinello ha avuto dei torti con voi, dovete
dimenticarli. Se la colpa è stata vostra, dovete farvela perdonare,
cercando di rinfrescar l'amicizia.

--Non sa nulla! Non sa nulla!--ripetè in cuor suo Tuccio di
Credi.--Ah, se non sapesse nulla neanche quell'altro!

--Siamo dunque intesi;--proseguiva messer Dardano.--Gli parlerò di
voi, aggiusterò io questa faccenda. Giovinotto, queste freddezza non
istanno bene tra compagni d'arte, che sono sempre andati d'accordo. La
vita è già troppo piena di noie; non la turbiamo ancora con le nostre
contese. Vi vedrò, questa sera?

--Volentieri;--disse Tuccio di Credi.--Voi siete così buono con me!
Passerò da voi, se vi piace.

--No;--rispose messer Dardano.--Forse rimarrò presso il nostro amico,
e non sarà bene che io vi dia la posta in casa sua. Verrò dopo il
vespro in piazza del Duomo. Vi torna?

--Ci sarò, messere. E siate ringraziato per l'onesta intenzione.

--Che! che! Non mi ringraziate di nulla. Sarò proprio felice di aver
posto fine a questa mala intesa; che altro non può essere davvero.--

Fatte queste parole, che vi daranno misura della sua bontà di cuore,
messer Dardano Acciaiuoli si avviò alla casa di Spinello Spinelli.
Tuccio di Credi se ne andò per i fatti suoi, contento di
quell'incontro, donde gli appariva che il suo compagno d'arte non
sapesse niente delle sue marachelle.

--È strano,--pensava egli,--è strano che egli non sia venuto in chiaro
di nulla. Ma già, chi può averglielo detto? Il Buontalenti, no
certamente, che dev'essergli capitato addosso alla sprovveduta, e per
farsi ammazzare come un cane. Che sciocco! È vero che egli, prima di
morire, ha freddata la moglie; e in questo io ho riconosciuto il mio
uomo. Povera madonna Fiordalisa! Ma già, così doveva finire. Ed ella,
di sicuro, non ha neanche avuto il tempo di raccontare al suo antico
fidanzato che parte ci avessi avuto io nella sua risurrezione. Ah,
madonna Fiordalisa! Siete voi che l'avete voluto. Se non vi prendeva
quella sciocca mania per l'amico Spinello! Mastro Jacopo vi avrebbe
concessa a me, suo primo discepolo; ed io, chi sa? avrei potuto anche
diventare un maestro. Dicono che l'amore faccia miracoli! Ma vedete
quel dannato di Spinello! È fortunato anche nella disgrazia! Ha
perduta due volte la sua innamorata, è impazzito e conserva l'ingegno
per dipingere!--

Tuccio di Credi era tornato in Arezzo, perchè in nessuna città di
Toscana aveva trovato modo di occuparsi. E sentiva più dura la sua
condizione, rientrando così male in arnese nella sua terra natale,
donde era escito con tanti disegni ambiziosi nell'anima. Una speranza
lo sosteneva, nel ritorno; la speranza di appoggiarsi a Parri della
Quercia, modesto ma non ultimo tra gli scolari di mastro Jacopo di
Casentino. E vedete disdetta; Parri della Quercia era morto; lo studio
di mastro Jacopo era chiuso per sempre. Ma se Parri mancava, era
tornato Spinello; e la notizia di quel ritorno aveva dato
maledettamente sui nervi a Tuccio di Credi. Era già sul punto di
tornarsene via, anche non sapendo dove sarebbe andato a battere del
capo; tanto gli riusciva molesto di averlo ad incontrare per via. Ma
subito dopo l'annunzio dell'arrivo di Spinello, aveva avuto quello
della sua pazzia, naturalmente spiegata a' suoi occhi da ciò che per
altra via, gli era giunto all'orecchio, intorno alla tragedia di Colle
Gigliato. E allora, Tuccio di Credi aveva mutato proposito; era
rimasto in Arezzo. Messer Dardano gli era capitato proprio in buon
punto. Da lui avrebbe potuto sapere che cosa pensasse Spinello, e che
cosa egli avesse a sperare per sè.

Spinello non era in casa, quando messer Dardano Acciaiuoli vi giunse.
Ma il vecchio gentiluomo ne fu contento, poichè l'assenza del suo
protetto gli dava agio d'intrattenersi con monna Ghita.

Egli la trovò malinconica, ma rassegnata. La povera donna non aveva
saputo nulla da nessuno, ma aveva indovinato ogni cosa. Un uomo si
nasconde male con la compagna della sua vita, e Spinello, che non
mirava a nascondersi, aveva lasciato scorgere a Ghita assai più che
ella non fosse curiosa di sapere. La buona creatura apparteneva a
quella classe di donne, per cui è natura il soffrire in silenzio,
rinchiudersi nell'esercizio dei proprii doveri e trovarci anche un
compenso bastevole a tutti i disinganni della vita. Certo il vivere in
questa guisa è un sacrificio; ma per il desiderio di rendergli
giustizia, non è mestieri esagerarne la grandezza. Spesso è quistione
di nervi; più spesso di educazione. Le anime avvezze fin dai primi
anni alle freddezze, ai mali trattamenti, alla mancanza d'ogni
affetto, alle aperte ingiustizie degli uomini e della sorte, si
raccolgono in sè medesime, imparano a non chieder nulla al di fuori, e
acquistano a lungo andare una padronanza di sè, che sfida ogni
traversia, rende men gravi i patimenti, innalza all'eroismo, fa parer
bello all'occorrenza il martirio.

E se vi parrà che con questo ragionamento io tolga merito al
sacrificio di Ghita Bastianelli, pensate che le ragioni della verità
son superiori a tutti gli artifizi della rettorica, come a tutte le
illusioni del sentimento, e che un elogio modesto è l'omaggio più
conveniente alle modeste virtù. Beati gli umili, e beati coloro che
sanno contentarsi del poco. La mammola ascosa nel fogliame, a' piedi
delle ripe, non ha lieti splendori per gli occhi del riguardante, ma
lo trattiene con la cara soavità delle miti fragranze. E queste anime
elette, che adempiono ai loro uffizi senza ombra di ostentazione, non
domandano lodi smaccate; si dorrebbero troppo di ottenerle.

Perchè vi magnificherei io il carattere di Ghita Bastianelli, oltre i
confini che gli erano assegnati dalla sua propria coscienza? Certo, ad
un uomo come Spinello Spinelli, carico di gloria e pieno di angoscie
così grandi come la gloria, si conveniva una donna simile. Illustri
sventurati, anime ferite a morto nelle battaglie dell'esistenza,
auguratevi gli estremi conforti di un'umile compagna, la quale, se non
potrà risanare la nostre piaghe, non aiuterà ad inasprirle. Soldati
che una palla cieca ha colpiti, pensatori che una grande ambizione ha
travolti, fidenti giostratori che il mondo ha abbandonati sull'arena,
non lo trovate voi, quel mite conforto, nella corsia d'un ospedale,
dove le ebbrezze, gli splendori, le speranze, i sogni, andarono
miseramente a far capo? Il sorriso tranquillo e benevolo d'una suora
di carità, donna come vostra madre, che è morta, come vostra sorella,
che è lontana, come la vostra amante, che s'è data ad un altro, non
basta a fare men doloroso il vostro ultimo giorno? Pure, quella donna
adempie senza sforzo un ufficio di altissima carità; si è appartata
dalle gioie del mondo, per ereditarne solamente i dolori; ma non
v'intenderebbe, o riderebbe d'un riso tutto suo, se in quella bontà
che è la sua consuetudine voi voleste trovare l'argomento di un inno.

Messer Dardano Acciaiuoli udì da monna Ghita come Spinello fosse
ritornato in patria, grandemente mutato da quello di prima, e come il
suo animo, di triste che era, ed inchinevole ad una dolce malinconia,
si fosse ottenebrato di schianto. Non gli restava altro lume che
quello dell'arte; ma era un lume a sprazzi momentanei, quando l'uomo
si trovava sulla sua impalcatura, con la tavolozza e i pennelli tra
mani. In quei momenti, si riconosceva ancora Spinello; mancavano le
audacie, mancavano quei lampi in cui si mostra la battaglia interna
tra il magistero dell'arte e l'idea che vuol condurre a nuove altezze
l'ingegno; ma l'ingegno tuttavia si vedeva, e l'ingegno è sempre una
luce. Levato dal suo trèspolo, il povero Spinello diventava un altro
uomo: si addensavano le ombre intorno al suo spirito; non si vedeva un
mentecatto, ma si compiangeva uno scemo.

Il vecchio gentiluomo ascoltò con grande rammarico la storia dolente
del suo povero amico, e confortò come potè quella ottima donna, che
gli additava i suoi figli, Parri e Forzore, in cui si raccoglievano
tutte le sue tenerezze.

--Son essi la mia consolazione e la mia forza;--diceva monna
Ghita.--Quando sento che il mio cuore non regge più a tanti
dispiaceri, guardo quelle due testoline bionde. Ecco una gioia che
Iddio mi concede;--soggiungeva ella sorridendo malinconicamente;--e
quello che Iddio mi ha concesso non mi toglie nessuno.--

Messer Dardano Acciaiuoli ammirò quella serenità di mente, e, presa la
mano di Ghita, l'accostò da buon cavaliere alle labbra.

--Dio vi guardi, madonna;--diss'egli;--con tali conforti voi non
potrete mai reputarvi infelice.--

Dopo ciò, messer Dardano escì, per andare in cerca di Spinello, che
dipingeva allora nella chiesa di Sant'Agnolo.

Vi accenno senza descriverla, che oramai s'andrebbe troppo per le
lunghe, la scena commovente di quell'incontro tra il vecchio
gentiluomo fiorentino e il suo protetto di via della Scala. A mala
pena lo vide comparire sul ponte, Spinello depose la tavolozza, si
calò a furia dal trespolo su cui stava seduto, e andò a piangero
lagrime di tenerezza tra le braccia di messer Dardano.

--Su, su, ragazzo mio!--disse il vecchio gentiluomo.--Non vi commovete
più del bisogno. Che cosa c'è egli di strano? Ho voluto vedervi ed
abbracciarvi ancora una volta, prima di andarmene _ad patres_. Son
vecchio oltre i settanta, che sono il colmo della vita, se dobbiam
credere agli antichi; e tutto il resto è un di più, sul quale non
bisogna far conto.

Con queste chiacchiere allegre, messer Dardano Acciaiuoli cercava di
sviare le idee malinconiche, naturalissime in quell'incontro, che
doveva svegliare tanti dolorosi ricordi nell'animo di Spinello.
Frattanto, il nobile fiorentino sbirciava il suo protetto, che male
avrebbe riconosciuto, se, scambio di trovarlo al suo posto d'onore, lo
avesse incontrato per via. Spinello aveva le guancie scarne, gli occhi
infossati, i capegli largamente brizzolati di bianco; era, a dirvela
in due parole, una rovina d'uomo. La gioventù e la forza si vedevano
solamente in quegli occhi; ma l'una e l'altra parevano fittizie, come
se la vita che traspariva da essi non fosse altro che un effetto di
ebbrezza momentanea, od anche di pazzia.

Ma perchè egli non poteva guardar sempre Spinello, senza aver l'aria
di far confronti tra il presente e il passato, messer Dardano si volse
intorno a guardare i dipinti. L'impalcatura su cui era salito, si
stendeva dall'arco del presbiterio fino all'emiciclo del coro, e gli
affreschi di Spinello Spinelli si vedevano stesi lungo la facciata
dell'altar maggiore. Vi ho detto che la chiesa avea nome da
Sant'Agnolo; aggiungo ora che si diceva Sant'Agnolo per mo'
d'antonomasia, dovendo intendersi l'arcangiolo San Michele, che è il
primo e il più ragguardevole tra gli spiriti celesti. Gli affreschi di
Spinello Spinelli rappresentavano per l'appunto la più nobile impresa
del Santo, vo' dire la rovina degli angioli ribelli, e il pittore li
aveva colti quasi tutti nel punto critico, in cui, piovendo sulla
terra, si tramutarono in diavoli. Terribile all'aspetto, campeggiava
in alto l'arcangiolo Michele, che combatteva da par suo con l'antico
serpente di sette teste e di dieci corna; un serpente assai brutto,
come potete immaginarvi, e diventato anche più brutto per la
disgraziatissima circostanza in cui era.

Messer Dardano meravigliò in cuor suo che Spinello avesse fatto prova
di tanta fantasia. Forse, ce n'era più che il pittore non avesse
mostrato mai; perchè, se non sapete, lo scolaro di mastro Jacopo di
Casentino ora salito in gran fama per la sua eccellenza nel trattare
soggetti più quieti e nel dare espressione di gravità, e di tenerezza,
ad aggruppamenti di poche figure. La grazia semplice dei suoi Santi e
delle sue Madonne sentiva qualche cosa della divinità. Ed era tenuta
per l'opera sua più maravigliosa una Vergine che porgeva a Cristo
fanciullino una rosa, affresco condotto da lui su d'una parete, in
Santo Stefano fuori le mura d'Arezzo. La fama di quel dipinto doveva
sopravvivere all'autore e alla chiesa, poichè, quando questa cadde in
rovina nel 1561, gli Aretini, senza guardare a nessuna difficoltà o
spesa, tagliarono il muro intorno all'affresco, e allacciatolo
ingegnosamente lo portarono in città, per collocarlo in via delle
Derelitte, sotto il nome poco appropriato di Madonna del Duomo.

Contro tutte le consuetudini, anzi meglio, contro l'indole del suo
ingegno, Spinello Spinelli dava allora nel fantastico e nel truce. E
si compiaceva, mentre Dardano Acciaiuoli contemplava il dipinto, si
compiaceva in quella rovina d'angioli, quasi dovesse riescire il suo
capolavoro. Forse egli sentiva dentro di sè che sarebbe stato
l'ultimo?

--Vedete, messere;--diceva egli, dopo avere esposto il suo concetto al
vecchio gentiluomo;--sono ormai presso a finire. Quel vano che
scorgete nel centro è il posto di Lucifero. Ho incominciato con San
Michele; finirò col suo grande inimico. È il più difficile, e l'ho
lasciato per l'ultimo. Ci penserò stanotte, e domani, senz'altro, mi
sbrigherò anche di lui.

--Che?--esclamò messer Cardano.--Avete lavorato senza cartoni?

--Sì, messere; per questa volta ho seguita l'ispirazione. Da
principio, per darne un'idea a questi massari, avevo disegnato ogni
cosa di rossaccio, così alla grossa, non dipingendo di buono che una
piccola parte di questa composizione. L'idea è piaciuta, e m'hanno
allogato il lavoro.--

Spinello non diceva tutto, poichè non lo sapeva appuntino. Le sue
distrazioni, la sua aria melensa, e certi segni che dava d'esser tocco
nel cervello, avevano fatti rimanere dubbiosi i massari di
Sant'Agnolo. Perciò, ad assicurarsi che l'artista era sempre quel
desso, e che non ne sarebbe venuta un'opera da doversi cancellare,
avevano chiesto un disegno sul muro. E Spinello, che era sempre lui,
quando si trovava sul suo trèspolo, aveva fatto il disegno richiesto,
meritando in tal guisa la lode di tutti e la pronta commissione
dell'affresco.

Quel giorno, Spinello Spinelli lasciò il lavoro assai prima del
solito, volendo dedicare tutto il suo tempo al nobilissimo ospite.
S'intende che messer Dardano, per isviare l'animo del suo protetto dai
dolorosi pensieri, che avevano purtroppo il triste effetto di
offuscargli la ragione, si adoperò come potè meglio a tenere il
discorso nel campo dell'arte. E Spinello da principio segui benissimo
il filo della conversazione, ragionando dei lavori che aveva in mente
di fare. Ma a poco a poco si smarrì, e, un'ora dopo, messer Dardano
vide di non aver più accanto a sè che un povero scemo.

Quando giunsero a casa per desinare, monna Ghita fece all'Acciaiuoli
un gesto malinconico, che voleva dire:--Orbene, messere, lo vedete
anche voi, come è ridotto?--

Infatti, il povero Spinello non aveva più coscienza di sè. Solamente
il lavoro poteva rialzarne lo spirito; cessato il lavoro, tornavano le
ombre. Strana forma di pazzia, non è vero? Ma se non fosse strana, non
sarebbe pazzia.

Mentre erano a tavola, messer Dardano entrò a ricordare il nome di
Tuccio di Credi. E Spinello ne parlò come di un amico, da cui si fosse
separato pur dianzi, con una fraterna stretta di mano.

--Ottimo Tuccio!--diss'egli.--Come va che non si trova con noi?

--Non ha osato presentarsi;--rispose messer Dardano.--Egli è tornato
assai male in arnese. Figuratevi che in nessuna scuola delle tante
città di Toscana ha trovato da vivere.

--Da vivere!--esclamò Spinello.--O che bisogno aveva di trovar da
vivere. La mia scuola non gli basta?--

Messer Dardano capì facilmente che il cervello del suo amico andava in
processione, e ripigliò tranquillamente il discorso.

--Voi ricorderete, Spinello mio, che Tuccio di Credi, qualche
tempo fa, si era risoluto di andarsene dal vostro servizio. Temeva
di esservi inutile, il poveretto! Non ha molta levatura d'ingegno,
ma per contro, ci ha un discreto amor proprio. Malattia dei
poveri,--soggiunse il vecchio gentiluomo,--e va curata con garbo.
Volete voi ripigliarlo a bottega?

--Non rammento di averlo mai congedato;--rispose Spinello.--Se
tornerà, l'avrò caro.

--Ah bene!--gridò l'Acciaiuoli.--Così va fatto. Voi siete sempre un
nobile cuore.

Quella sera, passeggiando col suo ospite in piazza del Duomo, messer
Dardano vide Tuccio di Credi e gli accennò di accostarsi. Quell'altro
obbedì prontamente.

--Ecco Tuccio di Credi;--incominciò l'Acciaiuoli, volgendosi al suo
ospite.

Spinello si scosse a quelle parole, alzò gli occhi e salutò il suo
compagno d'arte.

--Buona sera, Tuccio!--diss'egli stendendogli la mano.

--Buona sera, maestro!--rispose Tuccio, sporgendo timidamente la sua,
e chinando gli occhi a terra, come se volesse ringraziare messer
Dardano della sua benevola intercessione.

--Ecco un patto conchiuso;--disse allora l'Acciaiuoli.--Domani
tornerete a lavoro col nostro ottimo Spinello. Eravate amici e non
avete mai cessato di esserlo. A voi, Tuccio, sarà grande fortuna di
lavorare con un tant'uomo; egli, poi, sarà lieto di avervi aiutatore,
secondo l'antica consuetudine, che era così profittevole ad ambedue.--

Messer Dardano era contentissimo di aver fatta quella pace, non tanto
per il piacere di averla fatta, quanto per l'utile che doveva, secondo
lui, derivarne a Spinello.

--Tuccio è un uomo serio;--pensava egli;--conosce da lunga mano
l'umore del suo compagno e potrà tenerlo in riga più facilmente di un
altro. Ora, più che mai, il nostro povero amico ha bisogno di
qualcheduno che abbia pratica con lui e lo sostenga nei momenti
difficili. Sia lodato il cielo!--conchiuse il vecchio gentiluomo.--Me
ne andrò via da Arezzo con l'animo più tranquillo.--




XIV.


La mattina seguente, Spinello Spinelli andò per tempo alla chiesa di
Sant'Agnolo. Gli premeva di metter mano a dipingere il suo Lucifero,
che aveva già tratteggiato sull'intonaco.

--Non venite voi, messere?--diss'egli all'Acciaiuoli.

--No, verrò più tardi;--rispose messer Dardano.--Verrò con Tuccio di
Credi. Frattanto ci guadagnerò di vedere il vostro Lucifero abbozzato.

--Ed anche dipinto, solo che v'indugiate due o tre ore;--disse
Spinello.--Sarà un Lucifero abbastanza nuovo. L'ho ancora sognato
stanotte, bello come l'angelo che ha dato agli uomini l'esempio della
superbia. Perchè, io dico, d'onde gli può esser nata la superbia a
Lucifero? Non già da una speciale predilezione di Domineddio, poichè
questi non può non avere amato in ugual modo tutte le sue creature. Io
penso adunque che debba essere montato in superbia, a cagione della
sua grande bellezza.--

Messer Dardano intendeva poco questa distinzione. Infatti, ammettendo
che Domineddio non potesse aver preferenze, si doveva anche credere
che non avesse fatto Lucifero (Helel, come lo chiamarono gli ebrei)
più bello degli altri spiriti, creati insieme con lui. Ma infine, in
quella vecchia storia religiosa, molte generazioni avevano lavorato di
fantasia e si poteva ammettere senza sforzo che gli uomini, dopo avere
foggiato a loro immagine il Creatore, si pigliassero uguale libertà
con le sue creature più nobili.

Per queste ragioni, o per altre consimili che gli balenassero alla
fantasia, messer Dardano Acciaiuoli lodò grandemente il concetto del
suo amico Spinello. In fin dei conti la pittura ha una filosofia tutta
sua, che ne vale molte altre, vo' dire la filosofia dei contrasti; e i
contrasti, appunto per quella impressione che fanno immediamente
sull'animo del riguardante, offrono argomento a profonde meditazioni.
Un Lucifero bello! Che vi pare una cosa da nulla? Una simile
stonatura, certamente voluta dall'autore, non è forse tale da far
pensare che quel diavolo non meritava poi la sua trista sorte? E
perchè subito viene in mente che Iddio non può aver fatto una cosa
ingiusta, o almeno egli non può averla lasciata fare a spiriti
perfetti, come sono senza dubbio i suoi angeli, non dee venire di
conseguenza il pensiero che la malvagità dello spirito ribelle
s'intenda aggravata dalla sua medesima bellezza? E non deve risaltare
agli occhi di tutti una certa rispondenza tra i figli di Dio e i figli
degli uomini, per cui negli uni e negli altri sia necessario fare una
distinzione tra la bellezza esterna e la bellezza interiore? Ahimè!
dice il filosofo. Vedete il triste uso che noi facciamo dei doni
celesti! Anche Lucifero, spirito eletto e prediletto del Padre, doveva
esser guasto nella propria ambizione. Bello tra tutti gli immortali,
doveva precedere nella sua caduta la istessa caduta dell'uomo, e ad
onta della sua grande bellezza esteriore, averci il baco nell'anima,
come tanti e tante che conosciamo noi!

--Bene!--esclamò dunque messer Dardano Acciaiuoli, poichè ebbe udito
il ragionamento di Spinello Spinelli.--Seguite il vostro pensiero,
maestro; noi verremo ad ammirare gli effetti.--

Caldo del suo concetto, il pittore si era messo all'opera. Mi pare di
avervi già detto (e se non ve l'avessi detto prima, ve lo dico adesso)
che il nostro gentile artefice precedeva di oltre dugent'anni quel
famoso Luca Giordano, pittore immaginoso e delicato se altri fu mai,
chiamato dai suoi contemporanei "Luca Fa presto" poichè, a colorire in
breve spazio di tempo le sue leggiadre invenzioni, usava dipingere a
furia, con ambedue le mani, quasi temesse di non aver tempo a fare
tutto quello che gli passava per la mente. Spinello Spinelli non
dipingeva con due pennelli ad un tempo; la storia non lo dice, ed io
non posso usurpare i diritti della storia. Ma posso dirvi che egli era
pronto di mano, oltre il costume di tutti gli artisti del suo tempo;
donde si spiega come egli abbia potuto compiere tante opere mirabili,
in una vita di cui i biografi si contendono a gara i confini, e che
lascerebbe ai tardi nipoti il diritto di accorciarla assai più che io
non mi sia attentato di fare.

Lucifero era già abbozzato sull'intonaco, e non si trattava più che di
colorirlo. Spinello ci lavorava a furia. Il corpo era già fatto, e il
pittore stava per attaccare la figura poco prima dell'ora di vespero,
quando giunse sul ponte messer Dardano Acciaiuoli insieme con Tuccio
di Credi, pecorella smarrita che tornava all'ovile.

Spinello non li vide neanche, invasato come era. La febbre dell'arte
gli ardeva nel sangue e sarei quasi per dire che gli faceva bruciare
il pennello tra le dita. Maraviglioso artista! E più maraviglioso a
gran pezza per chi conosceva la storia delle sue grandi mestizie!

Tuccio di Credi guardò il dipinto e si sentì correre un brivido per
tutte le vene. Quella rovina d'angioli era veramente un miracolo di
fantasia e di esecuzione. L'arcangelo Michele si vedeva in alto,
atteggiato a battaglia come un paladino antico, e così fiero
all'aspetto, così forte all'assalto, da rovesciare ad ogni colpo un
nemico. La battaglia poteva dirsi già vinta. Come non avrebbe avuto
vittoria d'un serpente, anche con sette teste e dieci corna, chi aveva
battuto e piombato negli abissi il più forte de' suoi avversari, che
tale era certamente Lucifero? Anche in ciò l'ingegno di Spinello aveva
dato nel segno. La sua composizione sarebbe stata manchevole, non
avrebbe espresso pienamente il concetto di quella storia grandiosa, se
Michele fosse stato ancora alle prese col maggiore dei ribelli. La
sorte della giornata, almeno per ciò che si rappresentava all'occhio,
poteva rimaner dubbia, ed esserne scemato per conseguenza l'effetto.
Ma Lucifero, in quella vece, era vinto; Lucifero piombava giù
nell'abisso. E come era giustamente collocato nel mezzo del quadro!
Michele trionfava; ma il protagonista era Lucifero, poichè la
catastrofe era appunto la sua.

I due nuovi venuti restarono immobili in un angolo, guardando quella
scena terribile; messer Dardano estatico, beato di assistere ad un
miracolo dell'arte; Tuccio di Credi avvilito, rodendosi dentro di sè,
alla vista di quell'ingegno singolare che resisteva ai colpi più
gravi.

Ma che cosa avveniva in quel punto? A mano a mano che i contorni del
viso di Lucifero prendevano forma sotto le pennellate dell'artefice,
cresceva la bellezza del tipo, e, insieme con la bellezza, balzava
fuori una rassomiglianza, che faceva sudar freddo lo sciagurato Taccio
di Credi.

Strano a vedersi, e più strano a raccontarsi! Quel pittore che, ad
onta del suo ingegno smisurato e dell'amore che suol raddoppiare, anzi
centuplicare l'ingegno, non era mai venuto a capo di cogliere le
sembianze di una donna adorata, quel pittore, postosi in mente di dare
a Lucifero l'impronta di una straordinaria bellezza, andava effigiando
nel volto dell'angiolo ribelle la divina immagine di madonna
Fiordalisa.

A qual sentimento obbediva in quel punto la mano di Spinello Spinelli?
Operava egli con piena coscienza di sè, o non faceva che seguire un
impulso arcano e fatale? Certo, se egli vedeva nelle sembianze di
madonna Fiordalisa il colmo della bellezza umana, si poteva credere
che, dovendo egli esprimere alcun che di perfetto, fosse tratto
naturalmente ad effigiare l'immagine della sua povera estinta. Ma,
allora, perchè il tipo di Fiordalisa non era mai stato espresso in
tanti volti di Madonne e di Sante che egli aveva pur dovuto dipingere,
e col naturale desiderio di accostarsi alla perfezione? Non era invece
da credere che una virtù misteriosa guidasse il suo pennello, se a lui
per la prima volta occorreva così facilmente di ritrarre una cara
sembianza, non mai potuta cogliere appieno, per quanto egli si
arrovellasse nel suo proposito? E questa opinione non era forse
avvalorata dalla medesima bizzarria che riconduceva al suo pennello i
lineamenti di Fiordalisa, mentre egli doveva esprimere la bellezza di
uno spirito malvagio?

Vi ho detto che Tuccio di Credi sudava freddo, vedendo l'opera strana
che prendeva forma sotto le pennellate del pittore. Era bene madonna
Fiordaliso, che si presentava in tal guisa davanti a lui; era madonna
Fiordalisa, con gli occhi lampeggianti di sdegno; era madonna
Fiordalisa, che piombava nei regni della morte, maledicendo ai suoi
uccisori. Pensando a quei riscontri così naturali tra il soggetto
celeste e la rimembranza umana che prendeva vita da esso, Tuccio di
Credi si sentì correre un brivido di paura per le ossa. Se avesse
potuto tirarsi indietro, come lo avrebbe fatto volentieri!

E istintivamente voltando la testa, egli dava un'occhiata alla buca
donde era salito lassù. Ma proprio in quel punto messer Dardano
Acciaiuoli lo prendeva amorevolmente per un braccio.

--Vedete, Tuccio, com'è bello quest'angiolo!--diceva il vecchio
gentiluomo.--Se si potesse muovere un rimprovero all'artista,
ignorando quello che egli ha voluto fare, si direbbe che è troppo
bello, per rappresentare lo spirito del male.

--Sì, troppo bello;--balbettò Tuccio di Credi, facendosi livido dalla
paura.

--Che è?--disse allora messer Dardano, a cui non era sfuggito il
tremito della voce di Tuccio.--Che cosa avete voi?--soggiunse tosto,
vedendo il suo compagno con la cera stravolta.

--Io nulla, messere;--rispose Tuccio, confuso.--Notavo una
rassomiglianza.... Non è quello il volto di madonna Fiordalisa?

--Fiordalisa!--esclamò messer Dardano.--Chi è costei?--

Spinello, dalla eminenza su cui stava seduto, udì le parole di messer
Dardano e si volse di schianto.

--Che avete detto, messere? Perchè quel nome, pronunziato da voi?

--Perdonate, maestro;--rispose messer Dardano, turbato da quella
escita improvvisa, ma più assai dalla strana animazione del viso di
Spinello.--Si ragionava con Tuccio di Credi, il quale trova una certa
rassomiglianza, nel volto di Lucifero....

--Ah!--disse Spinello.--Tuccio di Credi ha trovato questo? La cosa
merita di esser chiarita.--

E scese dal trèspolo, su cui depose tavolozza e pennelli, per andarsi
a piantare in uno dei punti estremi del tavolato.

Messer Dardano lo seguiva degli occhi, non pronosticando niente di
buono da quella scena inaspettata.

--È vero!--ripigliò Spinello, dopo essere stato alquanto a guardare
l'affresco.--Ecco una somiglianza che io non aveva cercata. Una
somiglianza fatale!--proseguì, con accento cupo, che fece fremere il
vecchio Acciaiuoli.--Tuccio di Credi ha ragione, e a lui va fatto
omaggio di un cambiamento necessario. Infine, che diamine m'è saltato
in mente, di far così bello lo spirito delle tenebre? E perchè sarebbe
profanata così la più bella immagine che apparisse mai sulla terra?--

Così dicendo, Spinello correva al trèspolo, ripigliava i pennelli, e,
rimescolando i colori sulla tavolozza, andava mutando, insieme con le
tinte, i lineamenti del suo Lucifero.

--Tuccio di Credi ha ragione!--esclamava, parlando ad intervalli, tra
una pennellata e l'altra.--Bisogna correggere. Perchè questo incarnato
nel viso? Olivastro vuol essere; anzi terreo come il colore della
morte. E questi occhi, perchè così belli? Ispide sopracciglia, rughe
precoci, in cui vorrebbe appiattarsi la malvagità del pensiero,
trasformate voi questa fronte di dannato. Tuccio di Credi ha ragione.
E sarà contento, Tuccio di Credi! Va bene così, Tuccio? non vi par
egli che così, e non altrimenti, s'abbia ad esprimere lo spirito del
male?--

Tuccio di Credi non rispondeva; era allibito; era rimasto di sasso.

Ma non era rimasto di sasso il vecchio gentiluomo che lo aveva
condotto lassù, e che non poteva intendere le ragioni di quella gran
collera di Spinello Spinelli. E non si fosse trattato che di collera!
Ma c'era di peggio; c'era il segno di una gravissima ingiuria, o d'una
terribile vendetta. Il volto di Lucifero, sotto le rapide e convulse
pennellata di Spinello, si era tramutato dal bello all'orrido, dalle
sembianze di madonna Fiordalisa a quelle di Tuccio di Credi. Non c'era
da dubitarne. Tuccio era lì, e gli occhi di messer Dardano potevano
spiccarsi da lui per volgersi al Lucifero, o dal Lucifero per volgersi
a lui, e vedere tra l'uno e l'altro una rispondenza perfetta.

--Che vuol dir ciò?--chiese il vecchio gentiluomo, con accento
severo.--Spinello mio, non recate voi forse offesa a Tuccio di Credi,
che ha avuto il torto di fare una semplice osservazione al vostro
dipinto? E perchè una ingiuria così grave, senza cagione, ad un
compagno d'arte, all'amico della vostra giovinezza?--

Spinello era ridisceso in quel punto dal trèspolo.

--Senza cagione!--gridò egli.--Amico mio, quest'uomo!

--Amico, sì;--replicò messer Dardano.--Voi stesso non lo avete
richiamato ieri al vostro fianco?

--Io? Io richiamare quel tristo?

--Maisì, maestro, e dando a me l'incarico di parlargliene. Egli era
così felice di ritornare con voi!--

Spinello levò la fronte, come in atto d'interrogare la sua memoria; ma
essa non gli disse nulla di ciò che l'Acciaiuoli asseriva.

--Perdonate, messere,--ripigliò egli,--è impossibile. Vi sarete
ingannato; dovete esservi ingannato. Io richiamare quel Giuda? Ma se
ciò fosse, ci sarebbe stato un perchè, ed io sarei venuto con qualche
cosa al fianco,--soggiunse Spinello, tastandosi con moto convulso alla
cintola,--nè egli sarebbe più qui, ritto e sano davanti a me.
Guardatelo, messer Dardano; quello è il più malvagio degli uomini. Ah,
voi non sapete ciò che m'ha fatto? Amavo una donna, messere.... E
l'amava anche lui! Il rettile aveva osato levar gli occhi alla
colomba. La vigilia delle mie nozze, la bella creatura moriva,
avvelenata da lui. Almeno, così parve. Egli non aveva fatto che
addormentarla con uno de' suoi filtri, scaturiti d'inferno, e madonna
Fiordalisa fu seppellita per morta. L'avesse egli dissotterrata per
sè! L'avrei ucciso, ma non lo avrei disprezzato. In quella vece, egli
ha venduto il segreto ad un altro. L'amante s'è tramutato in....

--Cessate, messere!--interruppe l'Acciaiuoli, preso da un sentimento
di profondo disgusto.--Ma siete voi ben sicuro che una simile
infamia....

--Oh, giudicatene voi! Madonna Fiordalisa fu venduta al Buontalenti,
banditosi dalla sua città per godersi il frutto del tradimento. Ma
l'opera non è compiuta. A persuadere la povera donna, occorreva che
Spinello apparisse dimentico di lei, sposo felice ad un'altra. E
Tuccio di Credi si pose al fianco di Spinello, fu con lui a
Firenze.... Ciò che avvenisse a Firenze vi è noto. Ah, pazzo che io
fui! Mi credono pazzo, ora, a mi guardano sott'occhi e si tirano da un
lato quando m'incontrano per via. Lo sono stato, un pazzo, lo sono
stato, quando t'ho creduto un onest'uomo, o Tuccio di Credi, rettile
velenoso ed immondo, spirito malvagio, venuto daccanto a me per la mia
dannazione. Dillo, che non è vero; dillo a quest'uomo onorando, che
questo non era il tuo fine, quando portavi a me i lagni del mio povero
padre.... ed egli sentirà ora come sappiano fischiare i serpenti, e
qual suono abbia la voce d'un demone!--

Tuccio di Credi guardò bieco il suo avversario, ben vedendo di non
poter più ingannare nessuno, e crollò sdegnosamente le spalle.

--Quante parole inutili!--esclamò egli.--Bastava dire che mi sono
vendicato. Messere, statevi con Dio, e non vi provate a tenermi
dietro;--soggiunse, vedendo l'atto di Spinello che voleva scagliarsi
contro di lui.--Voi andate qualche volta senz'armi; io non ho mai
dimenticato questo spuntone, che so maneggiare, al bisogno, e che
punge assai meglio della vostra lingua.--

Così dicendo, si avviava verso la scala a piuoli, il cui capo usciva
due o tre palmi fuori del tavolato.

Ma l'amore della frase perdette Tuccio di Credi. Spinello conosceva
l'impalcatura del ponte su cui stava a dipingere, e il traballar che
fece un pancone su cui Tuccio di Credi aveva posto il piede per
ritirarsi verso la scala, gli rammentò in buon punto che le assi non
erano inchiodate, ma semplicemente posate sulle traverse, l'una di
costa all'altra. E subito chinatosi ad abbrancare un capo del pancone,
lo spinse verso l'apertura della scala.

--Riponi il tuo spiedo!--gridò, con accento di trionfo, mentre Tuccio
scivolava sull'asse inclinata.--Meglio ti sarebbe aver penne alle
mani.--

Colto alla sprovveduta, Tuccio di Credi annaspò con le braccia,
lasciando cadere lo spuntone, e tentò di aggrapparsi alla traversa,
nel punto in cui essa era assicurata all'abetella con parecchi giri di
fune. Ma non gli venne fatto, ed egli ebbe per gran ventura di trovare
un capo della fune, che penzolava dalla traversa, e ad esso
s'avvinghiò disperatamente, in quella che il suo corpo dava un
tracollo nel vuoto.

--Aiuto! aiuto!--gridò messer Dardano, sbigottito dall'atto
improvviso.

--Salvatemi, per amor del cielo!--urlava il caduto.--Salvatemi! Ve ne
supplico, messere Spinello!... Per la memoria di Fiordaliso!

--Infame!--tuonò Spinello, affacciato all'apertura del ponte.--E
ardisci profferire quel nome? Trovò ella misericordia presso di te?
Tuccio di Credi, bestemmia la tua ultima preghiera; l'abisso è
spalancato per accoglierti.

--Spinello!--gridò messer Dardano.--È un uomo che sta per morire!

--Orbene, che c'è di strano!--disse Spinello. La pena segue il
--delitto. A Colle Gigliato ho ucciso il suo complice; qui uccido lui.
--Se Iddio non avesse voluta la sua morte, non me l'avrebbe cacciato
--tra' piedi.--

Intanto quell'altro perdeva le forze. La fune, scorrendogli tra le
dita aggranchite, gli aveva lacerate le carni. I tendini denudati non
ressero allo strazio, e le mani sanguinolenti si apersero. Tuccio di
Credi mise un grido di alto spavento, che parve ruggito di fiera, e
precipitò nello spazio.

Il vecchio Acciaiuoli udì il tonfo del corpo sui gradini dell'altar
maggiore e si ritrasse indietro atterrito.

Poco stante si raccoglievano le membra sfracellate. In chiesa e fuori
si credette ad una disgrazia. Nè messer Dardano volle dire il
contrario; nè Spinello sapeva più che cosa fosse avvenuto. Sceso dal
ponte, il povero pazzo non ricordava più nulla.

Per altro quella notte fu un grande trambusto in casa sua. Spinello
aveva una visione e fu agevole intenderla dalle rotte parole che gli
uscivano di bocca. Lo spirito delle tenebre era apparso al pittore,
dolendosi con lui d'essere stato fatto così spaventosamente brutto,

--Brutto! Brutto!--gridava il povero pazzo.--Non eri forse Tuccio di
Credi? ed io non ti ho forse dato il tuo aspetto vero?--

Il vecchio Acciaiuoli prodigò al suo sventurato amico le più amorevoli
cure. Ma nè le cura dell'amicizia, nè quelle dell'arte, nè i pianti
della famiglia, nè le preghiere di tutta Arezzo, che amava il suo
grande artefice, valsero a rattenerlo in vita. L'amore di Spinello
Spinelli era morto; le sue vendette erano compiute; non gli restava
che di finire anche lui. Ed era misericordia pregare a quell'anima
travagliata il riposo della tomba.

E null'altro, forse? Non ci sarà dato di sperare che lo spirito
dell'infelice amatore si sia ricongiunto a quello della sua
Fiordalisa? Ciò che sentiamo di questi grandi esempi d'amore, così
rari purtroppo nel mondo, ci conforta a credere che tanto ardore non
possa e non debba morire con questa povera compagine d'ossa e di
polpe. Infine, ogni spettacolo di martirio non richiama l'idea del
trionfo?



FINE







End of Project Gutenberg's Il ritratto del diavolo, by Anton Giulio Barrili

*** END OF THIS PROJECT GUTENBERG EBOOK IL RITRATTO DEL DIAVOLO ***

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harmless from all liability, costs and expenses, including legal fees,
that arise directly or indirectly from any of the following which you do
or cause to occur: (a) distribution of this or any Project Gutenberg-tm
work, (b) alteration, modification, or additions or deletions to any
Project Gutenberg-tm work, and (c) any Defect you cause.


Section  2.  Information about the Mission of Project Gutenberg-tm

Project Gutenberg-tm is synonymous with the free distribution of
electronic works in formats readable by the widest variety of computers
including obsolete, old, middle-aged and new computers.  It exists
because of the efforts of hundreds of volunteers and donations from
people in all walks of life.

Volunteers and financial support to provide volunteers with the
assistance they need, is critical to reaching Project Gutenberg-tm's
goals and ensuring that the Project Gutenberg-tm collection will
remain freely available for generations to come.  In 2001, the Project
Gutenberg Literary Archive Foundation was created to provide a secure
and permanent future for Project Gutenberg-tm and future generations.
To learn more about the Project Gutenberg Literary Archive Foundation
and how your efforts and donations can help, see Sections 3 and 4
and the Foundation web page at http://www.pglaf.org.


Section 3.  Information about the Project Gutenberg Literary Archive
Foundation

The Project Gutenberg Literary Archive Foundation is a non profit
501(c)(3) educational corporation organized under the laws of the
state of Mississippi and granted tax exempt status by the Internal
Revenue Service.  The Foundation's EIN or federal tax identification
number is 64-6221541.  Its 501(c)(3) letter is posted at
http://pglaf.org/fundraising.  Contributions to the Project Gutenberg
Literary Archive Foundation are tax deductible to the full extent
permitted by U.S. federal laws and your state's laws.

The Foundation's principal office is located at 4557 Melan Dr. S.
Fairbanks, AK, 99712., but its volunteers and employees are scattered
throughout numerous locations.  Its business office is located at
809 North 1500 West, Salt Lake City, UT 84116, (801) 596-1887, email
[email protected].  Email contact links and up to date contact
information can be found at the Foundation's web site and official
page at http://pglaf.org

For additional contact information:
     Dr. Gregory B. Newby
     Chief Executive and Director
     [email protected]


Section 4.  Information about Donations to the Project Gutenberg
Literary Archive Foundation

Project Gutenberg-tm depends upon and cannot survive without wide
spread public support and donations to carry out its mission of
increasing the number of public domain and licensed works that can be
freely distributed in machine readable form accessible by the widest
array of equipment including outdated equipment.  Many small donations
($1 to $5,000) are particularly important to maintaining tax exempt
status with the IRS.

The Foundation is committed to complying with the laws regulating
charities and charitable donations in all 50 states of the United
States.  Compliance requirements are not uniform and it takes a
considerable effort, much paperwork and many fees to meet and keep up
with these requirements.  We do not solicit donations in locations
where we have not received written confirmation of compliance.  To
SEND DONATIONS or determine the status of compliance for any
particular state visit http://pglaf.org

While we cannot and do not solicit contributions from states where we
have not met the solicitation requirements, we know of no prohibition
against accepting unsolicited donations from donors in such states who
approach us with offers to donate.

International donations are gratefully accepted, but we cannot make
any statements concerning tax treatment of donations received from
outside the United States.  U.S. laws alone swamp our small staff.

Please check the Project Gutenberg Web pages for current donation
methods and addresses.  Donations are accepted in a number of other
ways including checks, online payments and credit card donations.
To donate, please visit: http://pglaf.org/donate


Section 5.  General Information About Project Gutenberg-tm electronic
works.

Professor Michael S. Hart is the originator of the Project Gutenberg-tm
concept of a library of electronic works that could be freely shared
with anyone.  For thirty years, he produced and distributed Project
Gutenberg-tm eBooks with only a loose network of volunteer support.


Project Gutenberg-tm eBooks are often created from several printed
editions, all of which are confirmed as Public Domain in the U.S.
unless a copyright notice is included.  Thus, we do not necessarily
keep eBooks in compliance with any particular paper edition.


Most people start at our Web site which has the main PG search facility:

     http://www.gutenberg.org

This Web site includes information about Project Gutenberg-tm,
including how to make donations to the Project Gutenberg Literary
Archive Foundation, how to help produce our new eBooks, and how to
subscribe to our email newsletter to hear about new eBooks.