Project Gutenberg's I misteri del castello d'Udolfo, vol. 4, by Ann Radcliffe This eBook is for the use of anyone anywhere at no cost and with almost no restrictions whatsoever. You may copy it, give it away or re-use it under the terms of the Project Gutenberg License included with this eBook or online at www.gutenberg.org Title: I misteri del castello d'Udolfo, vol. 4 Author: Ann Radcliffe Release Date: September 20, 2010 [EBook #33784] Language: Italian *** START OF THIS PROJECT GUTENBERG EBOOK I MISTERI DEL CASTELLO D'UDOLFO, VOL. 4 *** Produced by Carlo Traverso, Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (This file was produced from images generously made available by Biblioteca Sormani - Milano) I MISTERI DEL CASTELLO D'UDOLFO DI ANNA RADCLIFFE VOL. IV MILANO _Oreste Ferrario_ Sotterranei Galleria Nuova, via Silvio Pellico, 6, scala n. 18 e Santa Margherita [Illustrazione: FUNERALI DELLA SIGNORA MONTONI. I lineamenti feroci, le bizzarre fogge di quegli scherani... _Cap. XXVIII_] CAPITOLO XXXVIII Bianca, che intanto trovavasi sola, non vedea l'ora di riveder la nuova amica, per dividere seco lei il piacere dello spettacolo della natura. Non aveva più nessuno cui esprimere l'ammirazione e comunicare le sue idee. Il conte, accortosi del di lei dispiacere, fece ricordare ad Emilia la visita promessa, ma il silenzio prolungato di Valancourt inquietava tanto la fanciulla, che fuggiva la società, ed avrebbe voluto differire il momento di riunirvisi fin quando non fosse calmata la sua ansietà. I Villefort la sollecitarono però così vivamente, che non potendo spiegare il motivo che l'attaccava alla solitudine, temè il suo rifiuto non avesse l'aria del capriccio, ed offendesse quegli amici dei quali voleva conservare la stima. Ritornò dunque al castello di Blangy; l'amicizia del conte la incoraggì a parlargli della sua posizione relativamente ai beni della zia ed a consultarlo sul modo di rivendicarli: non eravi dubbio che la legge non fosse in suo favore. Il conte la consigliò di occuparsene, e le offrì perfino di scrivere ad un avvocato di Aix per averne il parere. L'offerta venne accettata; le garbatezze che riceveva giornalmente in quella casa, l'avrebbero resa ancora felice, se avesse potuto esser certa che Valancourt stava bene e l'amava sempre. Aveva già passata più d'una settimana al castello senza riceverne notizie; sapeva benissimo che se Valancourt non fosse stato dal fratello, era molto dubbio che la sua lettera pervenisse, ed intanto l'inquietudine, il timore che non poteva vincere turbavano continuamente il di lei riposo. Le passavano per l'idea i tanti casi, che potevano essere divenuti possibili dopo la sua cattività nel castello di Udolfo; talvolta era colta da tanto timore, o che Valancourt non esistesse più, o che non esistesse più per lei, che la compagnia istessa di Bianca le diveniva insopportabile. Passava ore intiere sola nella sua stanza, quando le occupazioni della famiglia le permettevano di farlo senza inciviltà. In uno di questi momenti di solitudine, aprì una cassettina contenente le lettere di Valancourt, e qualcuno dei disegni fatti in Toscana; ma questi ultimi oggetti l'interessavano poco. Cercava in quelle lettere il piacere di rammentarsi una tenerezza, che aveva formato tutta la sua consolazione, ed avevale fatto qualche volta obliare ogni affanno; ma esse non producevano più l'istesso effetto, aumentando invece le sue angoscie. Pensava, aver forse Valancourt potuto cedere alla forza del tempo e della lontananza. Oppressa da tai dolorosi pensieri, appoggiò la testa sulle mani, lasciando libero sfogo alle lacrime. In quel momento, Dorotea entrò per avvertirla che il pranzo sarebbe stato anticipato di un'ora. Sussultò Emilia, ed affrettossi a raccogliere le carte; ma la vecchia notò le sue lagrime e la sua agitazione. «Ah! signorina,» esclamò essa, «nella vostra fresca età avete anche voi affanni?» Emilia si sforzò di sorridere, ma non poteva parlare. «Oimè! cara fanciulla, quando avrete i miei anni, non piangerete per inezie. Certo non dovete affliggervi per qualcosa di serio? --No, Dorotea,» rispose Emilia, «nulla d'importante.» Dorotea, chinatasi per raccogliere qualcosa, esclamò improvvisamente; «Cielo! che vedo?» Cominciò a tremare, e si abbandonò su d'una sedia. --Cosa avete veduto?» disse Emilia guardandosi intorno. --È ella stessa,» disse Dorotea, «è lei precisamente com'era poco tempo innanzi la sua morte... Questo ritratto, oh Dio! dove l'avete trovato? È la mia cara padrona, è lei stessa!» E gettò sul tavolino la miniatura trovata da Emilia tra le carte che il padre le aveva ordinato di bruciare; era lo stesso ritratto, sul quale l'aveva una volta veduto piangere. Rammentandosi a tal proposito le circostanze della sua condotta, che l'avevano tanto sorpresa, l'emozione di Emilia fu tale, che non ebbe la forza d'interrogare Dorotea: tremava delle risposte che avrebbe potuto riceverne, e potè appena domandarle s'era certa che quello fosse il ritratto della marchesa. «Ah! signorina,» rispose la vecchia, «come mi avrebbe colpito in questo modo, se non fosse l'effigie della mia padrona! O cielo,» soggiunse quindi riprendendo la miniatura, «ecco i suoi begli occhi azzurri, e quello sguardo così affabile e lusinghiero! Ecco la sua espressione, quando aveva pianto sola per qualche tempo! Ecco quell'aria di pazienza e rassegnazione, che mi squarciava il cuore e me la faceva adorare! --Dorotea,» disse Emilia, «io prendo per la vostra afflizione un interesse maggiore che non potete supporre. Vi domando di non negarvi a soddisfar la mia curiosità, che non è frivola.» Sì dicendo, ella rammentossi delle carte, fra le quali aveva trovato il ritratto, e si convinse quasi che fossero relative alla marchesa di Villeroy. Ma la supposizione le fece nascere uno scrupolo. Temeva che fosse precisamente il segreto che suo padre aveva voluto nasconderle, e pareale di mancare al suo dovere cercando di penetrarlo. Qualunque fosse la sua curiosità sul destino della marchesa, è probabile che vi avrebbe resistito tuttavia, se fosse stata certa che quelle terribili parole rimastele impresse appartenessero all'istoria di quella dama, o che le particolarità che poteva confidarle Dorotea potessero entrare nel divieto di suo padre. Ma ciò che sapeva Dorotea poteano saperlo molti altri, e non era presumibile che Sant'Aubert avesse il progetto di nascondere alla sua figlia ciò ch'essa poteva sapere in altra guisa. Emilia ne concluse che se quelle carte erano relative alla marchesa, non versavano su d'un oggetto che Dorotea potesse spiegarle; per cui, bandito ogni scrupolo, cominciò ad interrogarla. «Ah! signorina,» disse la vecchia, «la è un'istoria dolorosa, ed ora non posso raccontarvela; ma che dico? Non ve ne parlerò mai. Son molti anni ch'è accaduta, questa disgrazia, e non ho mai più parlato della signora marchesa se non con mio marito. Egli stava in questa casa come me, e sapeva soltanto da me certi dettagli che gli altri ignoravano. Io assisteva la padrona nell'ultima sua malattia, e ne seppi più che non il marchese istesso. Santa donna, quanto era paziente! Quand'essa morì, credetti morir con lei. --Dorotea,» la interruppe Emilia, «potete esser certa che quanto mi dite non uscirà mai dalla mia bocca. Vi ripeto che ho ragioni per cercar schiarimenti in proposito, e m'impegno coi più sacri giuramenti a non rivelar mai i vostri segreti.» Dorotea parve commossa dalle parole di lei; la guardò tacendo, e poi soggiunse: «Mia bella signorina, la vostra fisonomia mi parla a vantaggio vostro. Voi somigliate tanto alla mia cara padrona, che mi par di vedermela innanzi agli occhi. Se foste sua figlia, non potreste rammentarmela meglio di così. Ma l'ora del pranzo si avvicina, e voi dovete andare ad unirvi alla famiglia che vi attende. --Promettetemi prima di aderire alla mia domanda,» disse Emilia. --E voi, signorina, spero che mi direte in qual modo quel ritratto è caduto nelle vostre mani, ed i motivi della vostra curiosità a proposito della mia padrona. --No, Dorotea,» replicò Emilia ravvedendosi. «Ho ancor io ragioni particolari per tacere, almeno fin quando non ne sappia qualcosa di più. Ricordatevi che non vi prometto nulla, e se volete compiacervi di contentar la mia curiosità, non dovete farlo coll'idea ch'io possa soddisfare la vostra. Ciò ch'io non voglio rivelare, non interessa me sola, altrimenti avrei meno riguardo a parlarne, e voi non potete narrarmi quanto desidero, se non confidando nel mio onore. --Ebbene, madamigella,» disse Dorotea, dopo averla per qualche tempo fissata, «voi mostrate tanto interesse; quel ritratto, e la vostra fisonomia in particolare, mi fanno pensare che potete sì realmente prenderne, ch'io vi confiderò cose non mai dette ad altri tranne a mio marito, sebbene molti ne abbiano sospettata una parte. Vi descriverò la morte della marchesa, e vi dirò le mie idee in proposito. Ma promettetemi per tutti i santi...» Emilia, interrompendola, le promise solennemente di non rivelar mai, senza suo consenso, quanto le avrebbe detto. «Odo la campana che chiama a pranzo,» disse la vecchia, «io non posso più trattenermi. --Quando potrò dunque rivedervi?» Dorotea riflettè, e riprese: «Per non dar sospetto, verrò da voi allorchè tutti dormiranno. --Benissimo, ricordatevi di non mancare. --Sì, sì, me ne rammenterò. Ma temo di non poter venire stanotte, essendovi il ballo della vendemmia, e quando cominciano non ismettono fino a giorno. Io soglio assistervi, e non voglio mancarci...» Emilia affrettossi a scendere. La sera, il conte e la sua famiglia, eccettuate la contessa e la Bearn, andarono a passeggiare onde partecipare alla gioia dei contadini. La festa si faceva in un'aia intorno alla quale erano appesi lumi agli alberi, da cui pendeva a festoni l'uva matura. Sotto una pergola vedeansi imbandite tavole copiosamente provviste di pane, vino, frutta e cacio. I suonatori, seduti appiè degli alberi, parevano partecipare dell'allegria prodotta dai loro strumenti. Un fanciullo suonava il cembalo e ballava solo, e co' suoi gesti, veramente ridicoli, raddoppiava le risa ed il brio di quella festa campestre. Il conte gioiva di que' piaceri cui aveva contribuito la sua liberalità. Bianca prese parte al ballo con un gentiluomo del vicinato. Dupont venuto a visitare il conte a tenore della sua promessa, desiderava danzare con Emilia, ma ella era troppo trista, per prender parte a tanto brio. Questa festa le rammentava quella dell'anno precedente, gli ultimi momenti del padre, ed il caso terribile che l'aveva troncata. Piena di tali rimembranze, si allontanò insensibilmente, internandosi nel bosco; i suoni addolciti dalla musica tempravano la sua malinconia; la luna diffondea attraverso le foglie una luce misteriosa; immersa ne' pensieri, senza accorgersi della distanza si ritrovò nel viale, in cui la notte dell'arrivo di suo padre colà, Michele aveva procurato di trovargli un asilo. Il viale era sempre deserto e selvaggio come allora. Considerando il luogo, si rammentò le emozioni ivi sofferte allo scorgere la figura ch'erasi dileguata fra gli alberi, ed ebbe qualche paura; tornò tosto indietro, in quella udì un rumor di passi, e fu raggiunta da una persona, che riconobbe per Enrico, il quale le manifestò qualche sorpresa di trovarla così lontana: essa gli disse che il piacere di passeggiare al chiaro della luna l'aveva fatta involontariamente inoltrare in quel viale. D'improvviso, udì un'esclamazione d'un uomo che seguiva Enrico a poca distanza, e le parve riconoscere Valancourt; era lui stesso. L'incontro fu quale si può immaginarlo tra due persone sì care l'una all'altra, e separate per tanto tempo. Nell'ebbrezza del momento, Emilia obliò tutti i suoi affanni: Valancourt stesso pareva obliare che esistessero nel mondo altri fuor di lei, ed Enrico, attonito, li considerava in silenzio. Valancourt le fece tante interrogazioni in una volta, che non ebbe tempo di rispondergli. Seppe che la sua lettera eragli stata mandata a Parigi, mentre partiva per la Guascogna; e che finalmente avendola ricevuta era volato in Linguadoca. Giunto al monastero, d'onde ella aveva datata la sua lettera, con molto suo dispiacere trovò le porte chiuse per esser già notte. Credendo di non poter vedere Emilia se non il giorno dopo, tornava al suo alloggio, quando incontrò Enrico, da lui conosciuto a Parigi, e per caso infine si trovò presso colei che non si lusingava di vedere se non la domane. CAPITOLO XXXIX Emilia, Valancourt e Enrico tornarono insieme alla festa; quest'ultimo presentò Valancourt al conte; Emilia credette accorgersi che questi non lo riceveva coll'ordinaria cordialità, quantunque paresse che si fossero già veduti. Fu invitato a godere i divertimenti della sera: quand'ebbe fatti i debiti complimenti al conte, andò a sedere accanto ad Emilia, e potè parlarle senza riserbo. I lumi appesi agli alberi permisero alla fanciulla di considerare quel volto, di cui nella sua assenza aveva procurato di rammentarsi tutti i lineamenti, e vide con pena che non era più l'istesso. Brillava come pel passato, di spirito e di fuoco, ma aveva perduto molto di quella semplicità, ed un poco anche di quella franca bontà, che ne formava il carattere principale: era sempre però una fisonomia interessante. Emilia credeva travedere in lui un misto d'inquietudine e di malinconia. Egli cadeva talvolta in un'astrazione passeggera, e sembrava sforzarsi d'uscirne; tal altra guardava fiso la fanciulla, ed una specie di fremito pareva agitare la di lui anima. Ritrovava in Emilia la stessa bontà e beltà semplice che l'aveva sedotto allorchè la conobbe. Le guance erano un po' impallidite, ma la di lei dolce fisonomia, sebbene alquanto malinconica, la rendeva sempre più interessante. Gli raccontò le più importanti circostanze di quanto erale accaduto dopo la di lei partenza di Francia. La pietà e lo sdegno penetravano a vicenda, Valancourt al racconto delle atrocità di Montoni. Più di una volta, mentr'essa parlava, egli alzossi dalla sedia e passeggiò agitato. Non parlò se non dei mali da lei sofferti, nelle poche parole che potè dirigerle, non intese ciò ch'ella gli disse, quantunque con chiarezza, del sacrifizio necessario dei beni della sua zia, e della poca speranza di ricuperarli. Il giovane che pareva agitato da qualche affanno segreto, la lasciò bruscamente; quando tornò, ella si accorse che aveva pianto, e lo pregò di rimettersi. «Le mie pene sono finite,» gli disse Emilia, «io sono sfuggita alla tirannia di Montoni. Vi ritrovo sano, lasciate adunque ch'io vi veda anche felice.» Valancourt, più agitato che mai, rispose: «Io sono indegno di voi, Emilia, sono indegno di voi.» Tali parole, e più ancora l'espressione colla quale vennero pronunziate, afflissero vivamente Emilia. «Non mi guardate così,» le diss'egli stringendole la mano, «deh! non mi guardate così! --Vi vorrei chiedere,» gli diss'ella con voce affettuosa e commossa, «di spiegarvi chiaramente; ma mi accorgo che in questo momento tal domanda vi affliggerebbe: parliamo di tutt'altro: domani forse sarete più tranquillo. Voi eravate una volta ammiratore della natura; vi rammentate il nostro viaggio dei Pirenei? --E posso obliarlo? Fu quella l'epoca più felice della mia vita: allora io amava con entusiasmo tutto ciò ch'era veramente buono e grande. Promettetemi Emilia di non dimenticarlo mai, ed io sarò tranquillo. --La mia condotta dipenderà dalla vostra,» disse Emilia, «ma possiamo essere ascoltati. Viene appunto madamigella Bianca; andiamole incontro.» I due amanti, raggiunta Bianca, recaronsi dal conte, e si misero a tavola sotto una pergola, ove sedevano i più venerandi vassalli, e tutti stettero allegri, tranne Emilia e Valancourt. Quando il conte tornò al castello, non invitò questi a seguirlo; egli prese dunque congedo da Emilia, e partì. La fanciulla, tornando in camera, pensò a lungo alla condotta di Valancourt ed all'accoglienza fattagli dal conte, ed in mezzo a queste riflessioni, obliò Dorotea. La mattina era già inoltrata quando se ne ricordò, e pensando giustamente che la buona vecchia non sarebbe venuta, pensò a riposare. La sera seguente, il conte incontrò a caso Emilia in un viale del giardino. Parlarono della festa, ed il discorso cadde su Valancourt. «Quel giovine ha talento,» disse Villefort. «Lo conoscete voi da un pezzo? --Da un anno circa. --Mi fu presentato a Parigi, ed in principio ne fui contentissimo.» E si fermò. Emilia tremava, desiderava saperne di più, e temeva di far conoscere l'interesse che vi prendeva. «Posso io domandarvi,» soggiunse egli poscia, «da quanto tempo vedete il signor Valancourt? --Posso io domandarvi, o signore, il motivo di questa interrogazione?» diss'ella; «e vi risponderò immediatamente. --Sicuro io vi dirò i miei motivi. È chiaro che Valancourt vi ama, e fin qui non vi è nulla di straordinario, chè tutti quelli che vi vedono fanno altrettanto. Non ve lo dico per complimento, parlo con sincerità; ciò ch'io temo è ch'egli non sia amante preferito e corrisposto. --Perchè lo temete voi, signore?» disse Emilia, cercando nascondere l'emozione. --Perchè temo non ne sia degno.» Emilia, agitatissima, lo pregò di spiegarsi meglio. «Lo farò,» ripigliò egli, «se voi sarete convinta che solo l'interesse ch'io prendo per voi, mi ha indotto a parlarvene... Io mi trovo in una posizione delicata, ma il desiderio di esservi utile deve vincere tutto il resto. Volete voi aver la compiacenza d'informarmi in qual modo conosceste il signor Valancourt?» Emilia raccontò brevemente come l'avesse incontrato, e pregò poscia il conte di spiegarsi. «Il cavaliere e mio figlio,» le disse egli, «fecero amicizia nella casa di un loro compagno, ove l'incontrai io stesso. L'invitai a venire in casa mia: allora ignorava le sue relazioni con una specie di uomini, rifiuto della società, che vivono della risorsa del giuoco, e passano la vita nelle dissolutezze. Io conosceva soltanto qualche parente del cavaliere, e riguardava questo motivo come sufficiente per riceverlo in casa mia. Ma mi accorgo che voi soffrite... troncherò questo discorso. --No, signore,» gli disse Emilia; «vi supplico di continuare. --In breve seppi,» soggiunse il conte, «che le sue relazioni l'avevano trascinato in una vita di dissipazione da cui pareva non aver nè il potere, nè la volontà di ritirarsi. Perdè al giuoco grosse somme; questo vizio divenne per lui una vera passione, e si rovinò. Ne parlai con interesse ai di lui parenti, i quali mi assicurarono che le loro ammonizioni essendo state inutili, erano stanchi di farne. Seppi in seguito che pe' suoi talenti era stato iniziato nei segreti della professione del giuoco, e che aveva avuta la sua parte in certi ignominiosi profitti. --È impossibile,» sclamò Emilia; «ma perdonatemi, signore, non so quel che mi dico; perdonate al mio dolore: io credo, e debbo credere che foste male informato: il cavaliere ha senza dubbio nemici che hanno esagerato questi rapporti. --Vorrei crederlo, ma nol posso; mi son deciso a parlarvene soltanto per l'interesse che prendo alla vostra felicità, e dietro mia piena convinzione.» Emilia taceva, e rammentavasi le parole di Valancourt, che avevano scoperto tanti rimorsi, è sembravano confermare i detti del conte; non aveva però il coraggio di convincersene, ed il suo cuore era oppresso dall'angoscia. Dopo una lunga pausa Villefort soggiunse: «Mi accorgo dei vostri dubbi, e li trovo naturali; è giusto ch'io vi dia la prova di quanto ho detto, eppure nol posso senza esporre qualcuno a me sommamente caro. --Cosa temete, signore?» disse Emilia; «se posso prevenirlo; affidatevi al mio onore. --Mi affido senza dubbio all'onor vostro, ma posso io fidarmi egualmente del vostro coraggio? Credete voi di poter resistere alle preghiere di un amante corrisposto, che, nel suo dolore, vorrà sapere il nome di chi lo priva della sua felicità? --Non sarò esposta a questa tentazione, signore,» disse Emilia, con nobile fierezza, pur reprimendo a stento le lagrime; «non potrei continuare ad amare una persona che non posso più stimare, e perciò vi do la mia parola d'onore. --Vi dirò dunque tutto; la convinzione è necessaria alla vostra futura pace, e la mia intiera confidenza è il solo mezzo per procurarvela. Enrico, il figlio mio, è stato troppo spesso testimone della cattiva condotta del cavaliere: vi fu quasi trascinato anche lui, e si abbandonò a mille stravaganze; ma riuscii a preservarlo dalla perdizione. Giudicate ora, signora Emilia, se un padre, a cui l'esempio del cavaliere ha quasi traviato l'unico figlio, non abbia un titolo bastante per avvertire quelli ch'egli stima, di non affidare la loro felicità in tali mani. Ho veduto io stesso il cavaliere impegnato nel giuoco con tai persone, che fremo al solo rammentarle; se ne dubitate ancora potete informarvi meglio da mio figlio. --Non dubito, o signore, dei fatti dei quali foste testimone, o che affermate,» disse Emilia, soccombendo al suo dolore; «il cavaliere si sarà forse abbandonato ad eccessi nei quali non cadrà più; se aveste conosciuto la purità dei suoi primi principii, potreste scusare la mia attuale incredulità. --Aimè! quanto è difficile il credere ciò che ci affligge! ma non voglio consolarvi con false speranze... Noi sappiamo tutti quale attrattiva abbia la passione del giuoco, e quanto sia difficile il vincerla. Il cavaliere si correggerebbe forse per un certo tempo, ma tornerebbe ben presto a ricadere nella funesta sua inclinazione. Temo la forza dell'abitudine, temo anzi che il suo cuore sia già corrotto. E perchè dovrei nascondervelo? Il giuoco non è il suo unico vizio; pare ch'egli abbia preso il gusto di tutti i piaceri vergognosi.» Qui il conte ammutolì; Emilia, addolorata, sentendosi quasi mancare, aspettava ciò che aveva ancora da dirle. Villefort, visibilmente agitato, continuò: «Sarebbe una delicatezza crudele se persistessi a tacerlo; per due volte, le stravaganze del cavaliere lo trassero nelle carceri di Parigi, d'onde è uscito, a quanto mi fu accertato da persone degne di fede, la mercè d'una certa contessa notissima, e colla quale viveva tuttavia quand'io partii da Parigi.» E cessò di parlare; guardando Emilia, si accorse che cadeva svenuta, e s'affrettò a soccorrerla. Passò qualche tempo prima ch'ella potesse riaversi: allora si trovò fra le braccia, non già del conte ma di Valancourt, il quale l'osservava con occhio smarrito, volgendole la parola con voce tremante. Al suono di quella voce tanto nota, Emilia aprì gli occhi, ma li rinchiuse tosto, e svenne di nuovo. Il conte, con un'occhiata severa, fe' segno al giovane di allontanarsi. Questi non fece che sospirare e chiamare Emilia presentandole acqua. Il conte ripetè il suo gesto, e l'accompagnò con qualche parola; Valancourt rispose con uno sguardo risentito, ricusò di abbandonare il suo posto, finchè Emilia non fosse rinvenuta, e non permise ad alcuno di avvicinarsele; ma nell'istante parve che la sua coscienza l'informasse del soggetto dell'abboccamento del conte e di Emilia: i suoi occhi si accesero di sdegno, che fu tosto represso dall'espressione d'un profondo dolore: il conte, osservandolo, fu mosso a pietà più che ad ira. Emilia, ripreso l'uso dei sensi, si mise a piangere amaramente, ma facendosi coraggio ringraziò il conte ed Enrico, con cui Valancourt era entrato nel parco, e s'avviò al castello, senza dir nulla a quest'ultimo. Colpito nel cuore da tal condotta, egli esclamò: «Gran Dio! In qual modo ho io meritato questo trattamento? Che vi hanno detto per cambiarvi a tal punto?» Emilia, senza rispondere, ma sempre più commossa, raddoppiava il passo. «Accordatemi pochi minuti di colloquio,» le diss'egli avanzandosi al di lei fianco, «ve ne scongiuro: io sono infelice.» Quantunque avesse parlato sottovoce, il conte lo intese, e replicò che Emilia era troppo indisposta, onde poter parlare con alcuno, ma che ardiva accertare ch'ella avrebbe veduto il signor Valancourt il dì seguente se fosse stata meglio. Il giovane arrossì, guardò Villefort con fierezza, quindi Emilia con espressione di dolorosa sorpresa, poi raccogliendosi alquanto, soggiunse: «Ebbene, verrò, signora; approfitterò del _permesso del signor conte_.» E fatto un leggiero inchino, si allontanò. Appena rientrata nel suo appartamento, Emilia fu agitata da mille pensieri rammentandosi il racconto di Villefort. Talora credea che avessero falsamente accusato Valancourt, parendole impossibile che quel carattere sì franco e leale avesse potuto avvilirsi e cadere sì basso. Tal altra dubitava perfino della buona fede del conte, supponendolo spinto da motivi segreti a rompere la sua relazione con Valancourt; ma, riflettendoci, respingeva di poi siffatto pensiero. In ogni modo sentiva il peso della sua sventura. In mezzo al tumulto de' contrari affetti, si rammentò la semplicità dimostrata da Valancourt la sera precedente. Se avesse potuto dar ascolto al cuore, ne avrebbe sperato bene. Non poteva risolversi ad allontanarsi da lui per sempre, prima di avere acquistata una prova più convincente della sua cattiva condotta. Infine deliberò di tornare al convento per passarvi due o tre giorni. Nello stato in cui si trovava, la società le diveniva insopportabile. Sperava che la solitudine del chiostro e la bontà della badessa l'aiuterebbero a riprendere qualche impero su sè medesima, ed a sostenere lo scioglimento che pur troppo prevedeva. Le pareva che sarebbe stata meno afflitta se Valancourt fosse morto, o s'egli avesse sposato qualche rivale. Ciò che la riduceva alla disperazione, era il vedere l'amante disonorato e coperto d'obbrobrio, costringendola così a strapparsi dal cuore un'immagine sì lungamente adorata. Le triste riflessioni vennero interrotte da un biglietto di Valancourt, il quale, dipingendo il disordine dell'anima sua, la scongiurava di riceverlo quella sera medesima, anzichè la mattina. Provò essa tanta agitazione, che non ebbe la forza di rispondere: desiderava vederlo, per uscire da quello stato d'incertezza. Recatasi dal conte, gli domandò consiglio. Villefort le rispose che, se credeva avere forza bastante da sopportare questa scena, credeva utile ad ambedue di accelerarla. La fanciulla rispose all'amante che acconsentiva a vederlo, e procurò in seguito di raccogliere le forze ed il coraggio di cui aveva tanto bisogno per sostenere un colloquio che doveva distruggere le sue più dolci e care speranze. CAPITOLO XL Allorchè vennero ad avvertire Emilia che Villefort desiderava vederla, s'immaginò che vi fosse Valancourt. Nell'avvicinarsi al gabinetto del conte, la sua emozione divenne sì forte, che, non osando mostrarsi, si trattenne in sala per riaversi. Rimessasi alquanto, entrò, e trovò Valancourt seduto presso il conte. Si alzarono ambidue, e quest'ultimo si ritirò. Emilia stava cogli occhi bassi, non potendo parlare, e respirando appena. Valancourt le sedette vicino; sospirava, e taceva. Finalmente, con voce tremante disse: «Desiderai vedervi stasera per uscire almeno dall'orribile incertezza in cui mi piombò il vostro cambiamento. Alcune parole del conte mi hanno spiegato qualcosa. Mi accorgo che ho nemici, invidiosi della mia felicità, accaniti a distruggerla; e m'accorgo parimente che il tempo e la lontananza indebolirono i vostri sentimenti per me.» Queste ultime parole furono pronunziate colla massima commozione, ed Emilia non potè rispondere. «Quale incontro è il nostro?» esclamò Valancourt alzandosi, e camminando a gran passi per la stanza; «quale incontro, dopo una sì lunga e barbara separazione!» Tornò a sedere, poi soggiunse: «Emilia crudele, voi non mi parlate?» Si coprì la faccia come per nascondere l'agitazione, e prese la mano di lei, che non seppe ritirarla. Essa non potè trattenere le lacrime: tutta la sua tenerezza tornò. Il giovane se ne accorse, un raggio di speranza gli surse nell'anima. «E che! voi mi compiangete?» diss'egli; «voi mi amate ancora! Siete sempre la mia Emilia! Soffrite ch'io creda alle vostre lacrime. --Sì, vi compiango, ma debbo io amarvi? Credete voi di essere tuttavia quel medesimo stimabile Valancourt ch'io amava pel passato? --Che voi amavate pel passato?» sclamò egli. «L'istesso, l'istesso...» Si fermò un istante per la gran commozione, e continuò dolorosamente: «No, non sono più lo stesso, io son perduto: non son più degno di voi.» E si coprì di nuovo la faccia. Emilia era troppo colpita da una confessione tanto sincera per poter rispondere. Lottava contro il suo cuore, e sentiva il pericolo di fidar troppo nella sua risoluzione in presenza dell'amante. Le premea di por fine ad un colloquio sì penoso per entrambi. Ma, quando pensava che probabilmente sarebbe stato l'ultimo, mancavale ogni coraggio per non sentire più che il dolore e la tenerezza. Valancourt intanto, divorato dai rimorsi e dall'affanno, non aveva forza, nè volontà di esprimersi. Sembrava appena sensibile alla presenza di Emilia, e non faceva che piangere. «Risparmiatemi,» gli disse la fanciulla, «il dispiacere di riparlare dei dettagli della vostra condotta, che mi obbligano a troncare la nostra relazione; bisogna separarci, ed io or vi vedo per l'ultima volta. --No,» esclamò Valancourt, «il vostro cuore non può essere d'accordo col labbro; non potete pensare a respingermi per sempre da voi. --Bisogna separarci,» ripetè Emilia, «e per sempre; la vostra condotta ce ne impone la necessità. --È la decisione del conte, ma non la vostra; ed io saprò con qual diritto egli si frappone tra noi.» Ed alzatosi, percorrea a passi precipitosi la camera. --Disingannatevi,» disse Emilia non meno commossa. «La decisione è mia, il mio riposo lo esige. --Il vostro riposo esige che noi ci separiamo per sempre!» sclamò Valancourt. «È vero ch'io sono decaduto dalla mia propria stima: ma come avreste potuto rinunziare così presto a me, se non aveste già cessato di amarmi, o se non aveste ceduto alle suggestioni d'un altro?... No, Emilia, voi non vi acconsentirete, se mi amate ancora, e troverete la vostra felicità nel conservare la mia. --Come potrei essere scusabile,» rispos'ella, «se io vi affidassi il riposo della mia vita? Come potreste consigliarmelo, se vi fossi cara? --Se mi foste cara? è egli possibile che dubitiate dell'amor mio? Ma sì, avete ragione di dubitarne, poichè io son meno disposto all'orrore di separarmi da voi, che a quello d'avvolgermi nella mia rovina. Sì, son rovinato, e rovinato senza risorsa; sono oppresso dai debiti, e non so come pagarli.» Sì dicendo, gli occhi di lui erano smarriti e pieni di disperazione. Emilia fu costretta di ammirare la sua franchezza, e parve essere per qualche minuto in lotta con sè medesima. «Io non prolungherò,» diss'ella alfine, «un abboccamento il cui esito non può essere felice. Valancourt, addio. --No, voi non partirete,» gridò egli imperiosamente, «non mi lascerete così prima che l'animo mio abbia raccolta la forza necessaria per sopportare la mia perdita.» Emilia, spaventata dal suo disperato dolore, gli disse con dolcezza: «Riconosceste voi stesso la necessità di separarci; se volete farmi vedere che mi amate, perchè opporvi? --Io era uno stolto quando vi confessava... Emilia, è troppo: voi non v'ingannate sulle mie colpe, ma il conte è la barriera, e non sarà a lungo l'ostacolo della mia felicità. --Ora voi parlate veramente da stolto: il conte non è vostro nemico, Valancourt; gli è mio amico, e questa sola considerazione dovrebbe bastare per farvelo riguardare come vostro. --Vostro amico!» disse vivamente Valancourt; «da quanto tempo è egli tale, per farvi obliare così presto l'amante? È egli vostro amico colui che vi suggerì di preferire Dupont? Dupont, che voi dite avervi ricondotta dall'Italia? Dupont, ch'io dico avermi rapito il vostro cuore? Ma io non ho diritto d'interrogarvi. Siete padrona di voi stessa; ma quel Dupont non trionferà a lungo della mia sciagura.» Emilia, più spaventata che mai dal furore di Valancourt, gli disse: «In nome del cielo, siate ragionevole; calmatevi; Dupont non è vostro rivale, ed il conte non è suo difensore; voi non avete altri nemici che voi stesso, e mi convinco sempre più che non siete quel Valancourt che ho amato tanto.» Egli non rispose; coi gomiti appoggiati sul tavolino, stava silenzioso. Emilia era muta e tremante, e non osava lasciarlo. «Infelice!» esclamò egli poco dopo; «io non posso lagnarmi senza accusarmi! Perchè fui io trascinato a Parigi? Perchè non seppi difendermi dalle seduzioni che dovevano rendermi disprezzabile per sempre?» Voltosi quindi vêr lei, le prese la mano, e le disse affettuosamente: «Emilia, potete voi sopportare l'idea della nostra separazione? Potete voi abbandonare un cuore che vi ama come il mio? Un cuore che, malgrado i suoi errori, apparterrà a voi sola?» La fanciulla non rispondeva se non colle lacrime. «Io non aveva,» soggiunse egli, «un solo pensiero che volessi nascondervi non un piacere, nè un desiderio, ai quali voi non poteste prender parte. Queste virtù potrebbero appartenermi tuttora, se la vostra tenerezza, che le aveva alimentate, non fosse cambiata senza rimedio; ma voi non mi amate più: quelle ore felici passate insieme si presenterebbero alla vostra immaginazione, e non potreste pensarvi con indifferenza. Non vi affliggerò oltre, ma prima ch'io parta, permettetemi di ripetervi, che qualunque possa essere il mio destino ed i miei patimenti, non cesserò mai d'amarvi teneramente. Io parto, Emilia, vi lascio per sempre.» La di lui voce s'indebolì, e cadde sulla sedia nel massimo abbattimento. Emilia non poteva nè uscire, nè dirgli addio. Tutte le di lui follie erano quasi cancellate dal suo spirito, e non sentiva più che dolore e pietà. «Ditemi almeno,» disse Valancourt, «che mi vedrete un'altra volta.» Il cuore di lei fu in certa qual guisa sollevato da tale preghiera. Si sforzò di persuadersi che non doveva negargliela; ma provava nondimeno qualche imbarazzo pensando ch'era in casa del conte, il quale avrebbe potuto offendersi del ritorno di Valancourt; finì ad acconsentirvi a patto che non avrebbe considerato il conte come nemico, nè Dupont come rivale; allora egli partì talmente consolato dalle ultime parole di lei, che perdè il primiero sentimento della sua disgrazia. Emilia tornò in camera per ricomporsi e nascondere le orme delle lacrime: ella ebbe però difficoltà a calmarsi, non potendo bandire la rimembranza di quest'ultima scena, nè l'idea di rivedere Valancourt, giacchè quest'ultimo abboccamento sembravale dover essere più terribile del precedente. Il giovane le aveva fatta grand'impressione, malgrado quanto aveva saputo. Pareale impossibile ch'egli avesse potuto depravarsi al punto che le si voleva far credere, ed avrebbe ceduto forse alle lusinghiere persuasioni del suo cuore, senza la prudenza di Villefort, il quale le rappresentò il pericolo della sua situazione, e la poca speranza che poteva offrire un nodo la cui felicità doveva consistere nel ristabilimento d'un patrimonio scialacquato, e nell'obblìo delle più viziose abitudini; e' fu perciò afflittissimo, ch'ella avesse condisceso ad un secondo colloquio. Quella notte Emilia non potè chiuder occhio. Valancourt intanto era in preda all'angosce della disperazione. La vista di Emilia aveva rinnovata l'antica fiamma, indebolita solo leggermente dall'assenza e dalle distrazioni d'una vita tumultuosa. Allorchè, ricevendo la sua lettera era partito per la Linguadoca, sapeva pur troppo che le sue follie l'aveano rovinato, nè pensava di nasconderlo all'amante; si affliggeva solo del ritardo che la sua condotta potrebbe cagionare al loro matrimonio, nè prevedeva come tale informazione avrebbe potuto indurla a rompere ogni loro legame. Oppresso all'idea di questa eterna separazione, lacerato dai rimorsi, attendeva il secondo abboccamento in uno stato quasi di delirio; ma sperava però sempre di ottenere a forza di preghiere qualche mutamento nella di lei risoluzione. La mattina le fece domandare a che ora avrebbe potuto riceverlo: quand'essa ricevè il biglietto, era col conte, che approfittò del nuovo pretesto per riparlarle di Valancourt. Vedeva la disperazione della giovine amica, e temeva che il coraggio l'abbandonasse. Emilia rispose al biglietto, ed il conte ritornò sul proposito dell'ultima conversazione. Egli parve temere le tentazioni di Valancourt, e le disgrazie alle quali si esporrebbe per l'avvenire, se non resisteva ad un dispiacere presente e passaggiero: queste ripetute ammonizioni potevano sole premunirla contro gli effetti della sua affezione, ed ella risolse di seguire i di lui consigli. Giunse alfine l'ora dell'abboccamento: Emilia si presentò sostenuta nel contegno, ma Valancourt, troppo agitato, restò qualche minuto senza poter parlare; le sue prime frasi furono preghiere, lamenti, rimproveri contro sè medesimo; in seguito le disse: «Emilia, vi ho amata, e vi amo più di me stesso; son rovinato per colpa mia, ma intanto non posso negare ch'io preferissi trascinarvi in un'unione infelice, anzichè soffrire, perdendovi il castigo che merito... Io sono un infelice, ma non voglio più esser un vile; non cercherò più di smovervi dalla vostra risoluzione colle istanze d'una passione egoista. Io rinunzio a voi, Emilia, e cercherò di consolarmi, pensando che, se sono disgraziato, voi potete almeno esser felice. Non ho, è vero, il merito del sacrifizio, e non avrei mai avuta la forza di farvi libera, se la vostra prudenza non l'avesse esigiuto.» La fanciulla procurava di rattenere le lagrime, e stava per dirgli: «Voi parlate ora come facevate una volta.» Ma restò in silenzio. «Perdonatemi, Emilia,» ripigliò egli, «tutte le inquietudini che vi ho cagionate. Pensate talvolta al povero Valancourt, e ricordatevi, che la di lui sola consolazione sarà di sapere che le sue follie non vi resero infelice.» Le lagrime sgorgarono in copia dagli occhi di Emilia, la quale si sforzò di farsi coraggio e por fine ad un colloquio che aumentava la loro comune afflizione. Valancourt la vide piangere mentre si alzava; fece un nuovo sforzo per contenere i propri sentimenti, e calmare quelli di Emilia. «La rimembranza di questo doloroso momento,» le diss'egli, «sarà in futuro la mia salvaguardia. L'esempio e la tentazione non potranno più sedurmi. La memoria di quel pianto che versate per me, mi darà la forza di superare ogni pericolo.» Emilia, alquanto consolata da tale assicurazione, rispose: «Noi ci separiamo per sempre; ma se la mia felicità vi è cara, ricordatevi ognora che nulla vi potrà maggiormente contribuirvi colla certezza che voi riacquistaste la vostra propria stima.» Valancourt le prese la mano, aveva gli occhi lagrimosi, e l'addio che voleva pronunziare veniva soffocato dai singulti. Dopo qualche momento, Emilia, tutta commossa, disse: «Addio, Valancourt, possiate essere eternamente felice! Addio,» ripetè nuovamente volendo ritirare la mano; ma egli la teneva stretta fra le sue, e la bagnava di lacrime. «Perchè prolungare questi momenti?» continuò ella, con voce inarticolata; «essi son troppo penosi per noi. --Troppo, sì, troppo, davvero,» sclamò Valancourt, lasciandole la mano, e abbandonandosi sulla sedia, celossi la faccia. Dopo un lungo intervallo, durante il quale Emilia piangeva amaramente e Valancourt lottava contro il suo dolore, egli si alzò di nuovo, e prendendo un accento più fermo, disse: «Io vi affliggo, ma l'ambascia che provo dev'essere la mia scusa. Addio, Emilia, voi sarete sempre l'unico oggetto della mia tenerezza. Pensate qualche volta all'infelice Valancourt, almeno per compassione, se non per istima, giacchè cosa sarebbe per me il mondo intiero senza di voi e senza la vostra stima? Cara Emilia, addio per sempre.» Le baciò la mano, la guardò per l'ultima volta e fuggì precipitosamente. Emilia restò nell'atteggiamento in cui l'aveva lasciata, col cuore così oppresso, che poteva appena respirare; udì il rumore dei di lui passi indebolirsi mano mano. Fu scossa da tale stato dalla voce della contessa che parlava in giardino. Allora versò lagrime che la sollevarono, e così, ripreso vigore, ebbe la forza di recarsi alla sua camera. CAPITOLO XLI Torniamo a Montoni, la cui sorpresa e rabbia per la fuga di Emilia fecero tosto luogo ad interessi più urgenti. Le sue depredazioni eransi talmente moltiplicate, che il senato di Venezia, malgrado la sua debolezza e l'utilità, che all'occasione avrebbe potuto ritrarre da Montoni, non volle sopportarle più a lungo. Fu decretato pertanto di distruggere le di lui forze e punire il suo brigandaggio. Un grosso stuolo di milizie accingevasi a marciare contro il castello di Udolfo. Un giovane ufficiale, animato contro Montoni dal risentimento di qualche ingiuria particolare, o fors'anco dal desiderio di distinguersi, chiese udienza al ministro che dirigeva quest'impresa. Gli rappresentò che Udolfo era un forte situato in un luogo troppo formidabile per essere preso d'assalto. Un corpo di truppe non poteva avvicinarvisi senza che Montoni ne fosse avvertito. L'onore della repubblica si opponeva al piano d'assediare quel castello con un esercito regolare. Bastava un pugno di gente risoluta, ed era probabilissimo d'incontrare ed attaccare Montoni ed i suoi fuori delle mura, ovvero avvicinandosi al castello colla cautela compatibile con pochi soldati, sarebbe stato facile trar vantaggio da qualche tradimento o negligenza, per penetrare d'improvviso nell'interno. Il piano, seriamente meditato, fu affidato allo stesso ufficiale che l'aveva concepito. Dapprincipio egli usò l'astuzia; si accampò nei dintorni di Udolfo e procurò guadagnarsi l'assistenza de' vari condottieri. Non ne trovò neppur uno che non fosse pronto a tradire un padrone imperioso, per assicurarsi così il perdono del senato. Informatosi del numero delle truppe di Montoni, seppe che i suoi ultimi successi le avevano aumentate d'assai. Non iscoraggitosi per questo, appiccò intelligenze nell'interno della piazza, che gli procurarono la parola d'ordine, e mescolatosi colla sua gente ai seguaci di Montoni, potè introdursi nel castello e sorprenderlo, mentre un altro stuolo de' suoi, dopo una lieve resistenza, faceva cedere le armi alla guarnigione. Tra le persone prese con Montoni, trovavasi Orsino: avendo saputo, dopo l'inutile sforzo fatto per rapire Emilia, che quello scellerato aveva raggiunto Montoni ad Udolfo, Morano ne aveva avvertito il senato. Il desiderio di prendere quest'uomo, autore dell'assassinio d'un senatore, fu uno dei motivi che fecero accelerare l'impresa, il cui successo riuscì gradito tanto, che, malgrado i sospetti politici e l'accusa segreta di Montoni, il conte Morano fu rimesso in libertà. La celerità e facilità di questa spedizione prevennero il chiasso e le dicerie, sicchè Emilia, in Linguadoca, ignorò la disfatta e l'umiliazione del suo crudele persecutore. Il di lei spirito era sì oppresso da tanti affanni, che verun sforzo della sua ragione, valea a superarne l'effetto. Villefort non risparmiava alcun mezzo per consolarla. L'invitava spesso a passeggiare con lui e colla figlia, e tenevale acconci discorsi sperando sradicare gradatamente il soggetto del suo dolore e risvegliare in lei nuove idee. Emilia, vedendo in lui un vero amico, il protettore della sua gioventù, lo prese ad amare con affetto figliale. Il di lei cuore si apriva con Bianca come con una sorella. La bontà e semplicità di questa fanciulla compensavala abbastanza della privazione di qualche vantaggio più lusinghiero. Passò qualche tempo prima che Emilia potesse distrarsi tanto dal pensiero di Valancourt, per ascoltare l'istoria promessale dalla vecchia Dorotea, la quale in fine, premurosa di narrargliela, glie ne fece sovvenire, e Emilia l'aspettò l'istessa sera. Infatti, dopo mezzanotte, giunse Dorotea, e dopo pochi minuti di riposo cominciò così il suo racconto: «Sono ormai venti anni che la signora marchesa arrivò in questo castello. Quanto era bella allorchè entrò nella sala ov'eravamo riuniti per riceverla! Quanto sembrava felice il signore marchese! Chi l'avrebbe potuto indovinare! Ma che dico? Signora Emilia, mi parve che la marchesa fosse un poco afflitta. Lo dissi a mio marito, ed egli mi rispose che sbagliava: non glie ne parlai più, e tenni per me le mie osservazioni. La signora marchesa aveva all'incirca la vostra età, e, come l'ho spesso notato, vi somigliava moltissimo. Il signor marchese diede feste splendide, e pranzi così magnifici, che da quel tempo il castello non fu mai così brillante. Io allora era giovine ed allegra quanto chicchessia. Mi rammento che ballava con Filippo il cantiniere; era vestita in gran gala. Vi giuro che faceva la mia figura. Il signor marchese allora mi osservava. Ah! egli era pur allora il bravo signore. Chi avrebbe potuto mai supporre che lui... --Ma la marchesa cosa faceva?» interruppe Emilia. --Ah! sì, è vero. La marchesa mi pareva che non fosse felice. Io la sorpresi una volta a piangere. Allorchè mi vide, si asciugò gli occhi sforzandosi di ridere. Non osai domandarle che avesse, ma la seconda volta che la trovai in quello stato, glie ne chiesi il motivo, e parve offendersene. Non le dissi più nulla, ma però indovinai qualcosa. Pareva che il padre l'avesse costretta a sposare il marchese per le sue ricchezze. Essa amava un altro signore, grandemente invaghito di lei. M'immaginai dunque che si affliggesse d'averlo perduto, ma però non me ne ha parlato mai. La mia padrona procurava di nascondere le sue lacrime al marito. Io la vedeva spesso dopo i suoi trasporti di dolore, prendere un'aria tranquilla quand'egli entrava. Il mio padrone divenne d'improvviso pensieroso e severo colla moglie, la quale se ne afflisse, senza però lagnarsene mai. Allora parve disposta a tornare di buon umore, ma il marchese era così salvatico, e le rispondeva con tanta durezza, che fuggiva piangendo nella sua stanza. Io ascoltava tutto nell'anticamera. Povera signora! qualche volta credeva che il marchese fosse geloso: la mia padrona, benchè ammirata da tutti, era troppo onesta per meritare il più lieve sospetto. Fra tutti i cavalieri che frequentavano il castello eravene uno che mi pareva fatto per lei. Egli era così gentile, così galante! Ho osservato sempre che, quando veniva in casa il signor marchese era più malcontento del solito, e la padrona più pensierosa. Mi venne allora in idea che fosse quello il gentiluomo amante e riamato da lei, ma non ho potuto mai assicurarmene. --Quale era il nome di quel cavaliere?» disse Emilia. --Non posso dirvelo, signorina, perchè non conviene. Una persona morta poco tempo fa mi ha assicurato che la marchesa non era in buona regola la moglie del marchese, avendo ella prima sposato segretamente il cavaliere che amava. Non ardì confessarlo al padre, uomo brutale, ma non è verosimile, ed io non l'ho mai creduto. Come vi diceva, il marchese era quasi fuori di sè, allorchè quel cavaliere veniva qui. Il trattamento che faceva del continuo alla moglie la rese alfine infelicissima. Non voleva più che vedesse alcuno, e la costringeva a vivere affatto isolata. Io l'ho sempre servita: vedeva i suoi patimenti, ma ella non se ne doleva mai. Dopo un anno di questa vita, la padrona si ammalò: credei da principio che il suo male derivasse dagli affanni; ma, ohimè! temo molto che quella malattia non avesse un motivo più terribile. --Più terribile!» sclamò Emilia; «ed in qual modo? --Io ne dubito molto; vi furono circostanze strane davvero, ma vi dirò solo ciò che accadde. Il signor marchese... --Zitto! Dorotea.» La vecchia mutò colore. Ascoltarono tuttaddue attentamente, e udirono cantare. «Mi pare di aver già sentita questa voce,» disse Emilia. --L'ho intesa spesso anch'io, e sempre precisamente a quest'ora,» disse Dorotea con gravità. «Se gli spiriti possono cantare, certo questa musica non può venire che da loro.» A misura che la musica si avvicinava, Emilia la riconobbe per l'istessa già intesa all'epoca della morte del padre. La custode soggiunse: «Mi pare d'avervi già detto, signorina, che cominciai a sentire questa musica poco dopo la morte della mia cara padrona. --Zitto,» disse Emilia, «apriamo la finestra ed ascoltiamo.» Ma la musica si allontanò insensibilmente, e tutto rientrò nel silenzio. Il paese intiero era avvolto nelle tenebre, e lasciava scorgere solo indistintamente qualche parte del giardino. Emilia, appoggiata alla finestra, considerava quel tenebrore con rispettoso silenzio, ed alzava gli occhi al cielo adorando i decreti del Supremo Fattore. Dorotea allora continuò con voce sommessa: «Vi diceva adunque, signorina, che mi rammentava della prima sera in cui intesi questa musica: ciò avvenne una notte poco dopo la morte della mia cara padrona. Non so per qual motivo non era andata ancora a dormire, e pensava dolorosamente alla marchesa, ed alla trista scena ond'era stata testimone. Tutto era tranquillo, e la mia camera era lontana da quelle degli altri domestici; in quella solitudine, e colla fantasia piena di tristi idee, mi trovava isolata, e bramava udire qualche rumore, giacchè sapete che quando si ode movimento, non si ha tanta paura. Io mi asteneva perfino dal girare gli occhi per la camera, temendo sempre di vedere la faccia moribonda della mia povera padrona, che mi stava presente: quando d'improvviso intesi una dolce armonia, la quale pareva essere sotto la mia finestra; non ebbi la forza di alzarmi, ma credei fosse la voce della marchesa, e piansi di tenerezza. Da quella notte, intesi spesso quest'armonia, la quale però era cessata da qualche mese, ma ora è tornata di nuovo. --È strano,» disse Emilia, «che non siasi ancora scoperto il cantore. --Oh! signora, se fosse una persona naturale, si conoscerebbe da molto tempo; ma chi può avere il coraggio di correr dietro ad uno spirito? E quand'anco avesse tal coraggio, cosa si scoprirebbe? Gli spiriti, come sapete, possono prender la figura che vogliono: ora son qui, ora son là, e poco dopo sono cento miglia distanti. --Di grazia, riprendiamo l'istoria della marchesa,» disse Emilia; «informatemi del genere della sua morte. --Sì, signora... Il marchese divenne sempre più burbero, e la signora peggiorava tutti i giorni. Una notte vennero a chiamarmi; corsi da lei, e fui spaventata dallo stato in cui la trovai. Qual cambiamento! Mi guardò in modo da muovere a compassione i sassi. Mi pregò di chiamar il marchese, che non si era fatto vedere per tutto il giorno, avendo cose segrete da comunicargli. Venne; parve afflittissimo di vederla così malata, e parlò poco. La mia padrona gli disse che si sentiva moribonda, e desiderava parlargli senza testimoni; io uscii, e non mi dimenticherò mai l'occhiata che mi lanciò in quel momento. Allorchè rientrai, dissi al padrone di mandar a chiamare un medico, immaginando che il dolore gl'impedisse di pensarvi; la signora rispose ch'era troppo tardi: ma egli pareva non crederle, e riguardare la sua malattia come leggera. Di lì a poco cadde in terribili convulsioni; urlava orrendamente. Il marchese fece partire un uomo a cavallo per cercar il medico. Io restai presso la marchesa, procurando di sollevarla. In un intervallo molto doloroso mandò a cercar di nuovo il padrone: egli venne, ed io voleva ritirarmi, ma ella desiderò che non m'allontanassi. Oh! io non mi scorderò mai quella scena. Il marchese perdeva quasi la ragione; ma la signora gli parlava con tanta bontà, e si dava tanta pena per consolarlo, che se mai egli avesse avuto qualche sospetto, doveva cancellarlo in quel momento. Sembrava oppresso dalla rimembranza de' suoi maltrattamenti, ed ella ne fu tanto commossa, che svenne fra le mie braccia. Io feci subito uscire il marchese, il quale corse nel suo gabinetto, e si gettò per terra, non volendo più veder nessuno. Quando la signora fu alquanto rimessa, chiese sue nuove, e disse in seguito che il di lui dolore l'affliggeva troppo, e che bisognava lasciarla morire in pace. Spirò nelle mie braccia colla dolcezza d'un angelo, giacchè la crisi violenta era già passata.» Dorotea versò un torrente di lagrime. Emilia pianse con lei, intenerita dalla bontà della marchesa, e dalla rassegnazione colla quale aveva sofferto. «Il medico giunse,» continuò Dorotea, «ma troppo tardi. Parve stupefatto nel vedere il cadavere della mia padrona, la cui faccia era divenuta livida e nera. Fece uscire tutti, e mi volse singolari domande a proposito della marchesa e della sua malattia. Scuoteva la testa alle mie risposte, e pareva giudicare sinistramente. Io lo compresi pur troppo, ma non comunicai le mie congetture se non a mio marito, che mi raccomandò di tacere: alcuni altri domestici ebbero però gli stessi sospetti che circolarono nel vicinato. Allorchè il marchese seppe che la signora era morta, si rinchiuse nel suo appartamento, e non volle vedere che il medico. Restarono insieme più di un'ora, e il dottore non mi parlò più della marchesa, la quale fu sepolta nella chiesa del convento. Tutti i vassalli assistettero piangendo al suo funerale, perchè era molto caritatevole. Quanto al signor marchese, io non ho mai veduto un'afflizione come la sua, e talvolta nell'eccesso del dolore perdeva l'uso dei sensi. Non restò molto tempo nel castello, e partì pel suo reggimento. Poco dopo, tutti furono congedati, tranne mio marito e me, nè l'ho riveduto mai più. --La morte della marchesa pare straordinaria!» disse Emilia, desiderando saperne qualcosa di più. --Sì, signora, fu straordinaria. Vi dico tutto ciò che ho veduto, e voi potete indovinar quel che ne penso; non posso dir altro per non diffondere ciarle che potrebbero offendere il signor conte. --Avete ragione; sapete voi dove sia morto il marchese? --Nell'Alsazia, a quanto credo,» rispose Dorotea. «Mi rallegrai molto quando seppi che arrivava il signor conte. Questo luogo è stato lunga pezza in una trista desolazione. Noi vi udimmo rumori straordinari, poco dopo la morte della padrona, ed io, con mio marito, ci ritirammo in una casuccia poco lontana. Adesso, signora Emilia, che vi ho raccontato questa tragica istoria, vi rammenterò la vostra promessa di non lasciarne traspirar nulla ad alcuno. --Sarò fedele alla mia parola,» rispose Emilia; «ciò che mi narraste m'interessa assai più di quanto potete supporre. Vorrei solo pregarvi di nominarmi il cavaliere che, secondo voi, s'interessava tanto per la marchesa.» Dorotea negò assolutamente di acconsentirvi, e tornò a parlare della somiglianza di lei colla marchesa. --«Vi è un altro ritratto di questa,» soggiunse, «ed è in una delle stanze chiuse. Fu fatto prima del suo matrimonio, e voi le somigliate assaissimo.» La fanciulla mostrò desiderio di vederlo, e Dorotea rispose che non aveva coraggio di entrare in quell'appartamento. Emilia le rammentò che, il dì innanzi, il conte aveva parlato di farlo aprire. La custode convenne allora d'andarlo prima a vedere con lei. La notte era molto avanzata, e Emilia troppo commossa dal racconto inteso per visitare così tardi quel luogo. Pregò dunque la vecchia di tornare la notte seguente. Oltre il desiderio di vedere il ritratto, sentiva un'ansiosa curiosità di visitare la camera ov'era morta la marchesa, e che, secondo Dorotea, era rimasta nel primiero stato. La commozione che le cagionava l'aspettativa di una tale scena, era allora conforme allo stato del di lei spirito. Oppressa dal cambiamento della sua sorte, gli oggetti piacevoli aumentavano la sua malinconia in vece di dissiparla; forse aveva torto di piangere sì amaramente un infortunio inevitabile; ma veruno sforzo della ragione valeva a lasciarle scorgere con indifferenza l'avvilimento di colui che aveva già stimato ed amato con tanto trasporto. Dorotea promise di tornare la notte seguente colle chiavi dell'appartamento, e si ritirò. Emilia restò alla finestra, meditando tristamente sul destino dell'infelice marchesa, ed aspettando ansiosa il ritorno della musica notturna. La calma non fu turbata se non dallo stormir delle frondi agitate da lieve brezzolina. La campana del convento suonò mattutino, e Emilia se ne andò a letto cercando nel sonno l'oblio della dolorosa storia della marchesa di Villeroy. CAPITOLO XLII La notte seguente, all'istessa ora circa, Dorotea venne a prendere Emilia e portò le chiavi dell'appartamento della marchesa, che si trovava dalla parte opposta, al nord. Dovevano passare vicino alle stanze della servitù, e Dorotea desiderava sfuggire alle loro osservazioni. Volle dunque aspettare un'altra mezz'ora ond'assicurarsi che tutti i servitori dormissero. Era quasi un'ora dopo mezzanotte allorchè si misero in cammino. Dorotea andava innanzi e portava il lume; ma il suo braccio, indebolito dal timore e dalla vecchiaia, tremava sì forte, che Emilia, presa ella stessa la lucerna, s'offrì a sostenere i di lei passi mal sicuri. Bisognava scendere lo scalone, traversare gran parte del castello, e salire l'altro situato al nord. Non incontrarono nulla che alterasse vie maggiormente la loro agitata fantasia, e giunte in cima alla scala Dorotea mise la chiave nella serratura. «Ah!» diss'ella sforzandosi di girarla; «è chiusa da tanto tempo, che forse la ruggine non ci permetterà di aprirla.» Emilia però, più destra di lei, girò la chiave, aprì la porta, ed entrarono in una stanza antica e spaziosa. «Dio buono!» disse Dorotea nell'entrare; «l'ultima volta che son passata da questa porta, io seguiva la salma della mia povera padrona!» Traversarono una fila di stanze, e giunsero in un salotto adorno ancora con magnificenza. «Riposiamo qui un momento,» disse Dorotea; «quella è la porta della camera, in cui è morta la padrona. Ah! signorina, perchè mi avete fatto venir qua?» Emilia, vedendo la povera vecchia in uno stato compassionevole, la fece sedere e procurò di tranquillarla. «Come la vista di questo appartamento mi richiama alla memoria l'immagine del tempo passato! Mi pare che fosse ieri.» --Zitto! qual rumore è questo?» disse Emilia. Dorotea, spaventata, guardò per tutta la camera; ascoltarono ma non intesero nulla. La vecchia allora riprese il soggetto del suo dolore: «Questo salotto era, al tempo della signora, la più bella stanza del castello. Era mobiliato all'ultimo gusto. Tutti questi mobili vennero da Parigi; quei grandi specchi sono di Venezia. Questi arazzi erano in ispecie ammirati da tutti; rappresentano essi un'istoria che si trova in un libro, di cui ora non mi ricordo il nome.» Emilia si alzò per esaminarli. Alcuni versi in provenzale, in fondo ai medesimi, le fecero riconoscere la storia di Coriolano. Dorotea essendosi alquanto rimessa, aprì finalmente la porta fatale. Entrarono in una camera cupa e spaziosa. La custode si abbandonò tosto su d'una sedia esalando profondi sospiri, e ardiva appena alzar gli occhi. Emilia osservò il letto ove dicevasi morta la marchesa. Era parato di damasco verde. Un gran panno di velluto nero lo cuopriva fino a terra. Mentre la fanciulla, col lume in mano, girava intorno alla camera: «Dio buono!» esclamò Dorotea; «mi par di veder la mia padrona distesa su quel letto, come la vidi per l'ultima volta. Ah!» soggiunse ella piangendo ed appoggiandosi al letto; «io era qui quella notte terribile: le teneva la mano; intesi le sue ultime parole, vidi tutti i suoi patimenti, e spirò fra le mie braccia. --Non vi abbandonate a queste funeste rimembranze,» disse Emilia; «usciamo e mostratemi il ritratto di cui mi parlate. --Egli è nel gabinetto,» rispose Dorotea, mostrandole un uscio. L'aprì, ed entrarono ambedue nel gabinetto della marchesa. «Aimè! eccola là,» disse la custode, additando un quadro. «Ecco com'era allorchè giunse qui. Vedete bene ch'era fresca quanto voi.» Mentr'ella continuava a smaniarsi, Emilia osservava attenta il ritratto, che somigliava moltissimo alla miniatura trovata fra le carte di Sant'Aubert: eravi soltanto una piccola differenza nell'espressione della fisonomia, e le parve riconoscere nel quadro un'ombra di quella malinconia pensierosa che caratterizzava sì forte il ritratto in miniatura. «Vi prego, signorina,» disse Dorotea, «di situarvi presso questo quadro, affinchè io possa confrontarvi.» Emilia la compiacque, e la vecchia rinnovò gli atti di sorpresa sulla di lei somiglianza. La fanciulla tornò a guardare, e le parve d'aver veduta in qualche parte una persona simigliante al ritratto; ma non potè rammentarselo bene. In quel gabinetto eranvi tuttavia molte cose d'uso della defunta, un abito, una sottana, un cappello, scarpe e guanti gettati là sul tavolino, come se li avesse cavati poco prima: eravi inoltre un gran velo nero ricamato; Emilia lo prese in mano per esaminarlo, ma si avvide tosto che cadeva in pezzi per vetustà; lo depose, e scorrendo il gabinetto, tutti gli oggetti le pareano parlar della marchesa. Rientrata nella camera, Emilia volle vedere di nuovo il letto; osservando la punta bianca del guanciale che usciva di sotto al velluto nero, le parve scorgere un movimento. Senz'aprir bocca prese il braccio di Dorotea, la quale, sorpresa dall'azione e dal terrore di lei, rivolse gli occhi verso il letto, e vide il velluto sollevarsi ed abbassarsi; Emilia volle fuggire, ma la vecchia, cogli occhi fissi sul letto, le disse: «E il vento, signorina; abbiamo lasciato tutte le porte aperte. Vedete come l'aria agita anche il lume; è il vento sicuramente.» Appena ebbe detto così, il panno si agitò con maggior violenza. Emilia, vergognandosi del suo timore, si riavvicina al letto, volendo assicurarsi se il vento solo le avesse impaurite: osserva attentamente, il velluto si agita ancora, si solleva e lascia vedere... una figura umana. Misero entrambe un grido spaventoso, e lasciando le porte aperte, fuggirono a precipizio. Allorchè giunsero alla scala, Dorotea aprì una camera, in cui dormivano due serve, e cadde svenuta sul letto. Emilia, abbandonata dalla sua solita presenza di spirito, fece un debole sforzo per nascondere alle donne stupefatte la vera cagione del suo terrore. Dorotea, riavendosi, si sforzò di ridere del suo timore; ma quelle serve, giustamente allarmate, non poterono risolversi a passare il resto della notte in vicinanza del terribile appartamento. La custode condusse Emilia alle sue stanze, ove parlarono con più calma del caso strano. Quest'ultima avrebbe quasi dubitato di quella visione, se la vecchia non glie ne avesse attestata la realtà. Le domandò dunque se era ben sicura che qualcuno non si fosse introdotto segretamente colà: essa le rispose che le chiavi non erano mai uscite dalle sue mani, e facendo spesso la ronda, aveva più volte esaminata quella porta, e trovatala sempre chiusa. «È dunque impossibile,» soggiunse ella, «che nessuno siasi introdotto in quelle stanze, e quando avessero potuto farlo, com'è probabile che abbiano scelto d'andar a dormire in un luogo così freddo e solitario!» Emilia le fece osservare che la loro gita notturna poteva essere stata spiata; che forse qualcuno, per burla, le aveva seguite coll'intenzione di far loro paura, e che, mentre esaminavano il gabinetto, erasi nascosto nel letto. Dorotea convenne da principio che la cosa era possibile, ma si rammentò quindi che, entrando, aveva per precauzione levata la chiave della prima porta, e chiusala di dentro. Non eravi dunque potuto penetrare alcuno, e Dorotea affermò che il fantasma veduto non aveva nulla d'umano, ed era una spaventevole apparizione. Emilia era molto commossa; di qualunque natura fosse quell'apparizione, umana o soprannaturale, il destino della marchesa era una verità incontrastabile. L'inesplicabile incidente accaduto nel luogo istesso dov'era morta, incusse ad Emilia un timore superstizioso. Scongiurò Dorotea di non parlare di quel caso a chicchessia, perchè il conte non fosse importunato da rapporti che avrebbero potuto spargere l'allarme in tutta la casa. La vecchia acconsentì, ma si rammentò allora che l'appartamento era rimasto aperto, e non si sentì il coraggio di tornar sola a chiuderlo. Emilia, vincendo i suoi timori, le offrì di accompagnarla sino in fondo alla scala, ed ivi aspettarla. Rianimata da tale compiacenza, Dorotea andò nel modo proposto, e si contentò di chiuder la prima porta e poi raggiungere Emilia. Avanzandosi lungo l'andito che conduceva nella sala, udirono sospiri e lamenti che sembravano venire dal salone medesimo. Emilia ascoltò attenta, e riconobbe subito la voce di Annetta, che, spaventata dal racconto fattole dalle due serve, e non credendosi sicura che vicino alla padrona, andava a rifugiarsi da lei. Emilia cercò indarno di tranquillarla; ebbe pietà del suo spavento, ed acconsentì a lasciarla dormire nella sua camera. CAPITOLO XLIII Gli ordini precisi dati ad Annetta da Emilia, di tacere, cioè, sull'occorso, non produssero verun effetto. Il soggetto del di lei terrore aveva sparso un allarme così vivo tra la servitù, che tutti affermavano allora di aver sentito nel castello i rumori più straordinari. Il conte ne fu ben presto informato, e gli disser che la parte del nord era indubbitatamente frequentata dagli spiriti. Ne rise in principio, e mise la cosa in ridicolo, ma accorgendosi quindi che produceva confusione nel castello, proibì di parlarne sotto pena di castigo. L'arrivo di qualche amico lo distrasse intieramente, ed i suoi medesimi servi non avean tempo di parlare di quest'affare se non dopo aver cenato. Riuniti allora nel tinello, raccontavano del continuo istorie di morti, di maghi, di spiriti e d'ombre fino al punto che non ardivano più alzar gli occhi, tremavano tutti al più piccolo rumore, e ricusavano di andar soli in qualunque luogo della casa. Annetta si distingueva raccontando non solo i prodigi, ond'era stata testimone, ma anche tutto ciò che aveva immaginato nel recinto del castello di Udolfo. Non obliava la strana scomparsa della signora Laurentini, che faceva una forte impressione sull'animo degli ascoltanti. Annetta avrebbe anche chiacchierato de' sospetti concepiti su Montoni, se il prudente Lodovico, allora al servizio di Villefort, non l'avesse sempre a tal punto interrotta. Tra i forestieri venuti a visitare il conte nel suo castello, eranvi il barone di Santa-Fè suo amico, e il di lui figlio, cavaliere amabilissimo e sensibile. Egli aveva conosciuto Bianca a Parigi l'anno precedente, e concepita per lei una vera passione. L'antica amicizia del conte per suo padre, e le reciproche convenienze di cotesto parentado, aveanlo fatto internamente desiderare al conte. Ma trovando la figlia ancor troppo giovine per fissare la scelta della sua vita, e volendo d'altronde provar la costanza del cavaliere, aveva differito di approvare quest'unione, senza però toglierne la speranza. Or il giovine veniva col barone suo padre a reclamare il premio della sua perseveranza; il conte acconsentì, e Bianca non vi si oppose. Il castello, così bene abitato, divenne ridente e magnifico. Il casino sulla riva del mare era spessissimo visitato da tutta la compagnia, che vi cenava quasi sempre quando permettevalo il tempo, e la sera finiva regolarmente con un'accademia di musica. Il conte e la contessa erano buoni filarmonici. Enrico, il giovine Santa-Fè, Bianca ed Emilia avevano tutti bella voce, ed il gusto suppliva alla mancanza del metodo. Parecchi suonatori di corni e strumenti a fiato, posti nel bosco, rispondevano con soavi armonie a quella che partiva dal casino. In ogni altro tempo quei luoghi sarebbero stati deliziosi per Emilia, ma troppo oppressa allora dalla sua malinconia, trovava che nessun divertimento poteva riuscire a distrarla, e spesso l'interessantissima melodia di quelle accademie accresceva invece la sua tristezza. Preferiva perciò di passeggiar sola ne' boschi circostanti. La calma che vi regnava influiva sul suo cuore, e non tornava al castello se non costrettavi dall'assoluta oscurità. Una sera vi si trattenne più del solito: assisa su d'un masso, vide la luna sorgere sull'orizzonte a poco a poco, e rivestir successivamente della sua debole luce il mare, il castello ed il convento di Santa Chiara poco distante. Pensierosa, contemplava e meditava, quando d'improvviso una voce e la musica, già udita a mezzanotte, venne a colpirle l'orecchio. Il sentimento che provò fu un misto di sorpresa e terrore, considerando il suo isolamento. La musica si avvicinò; si sarebbe alzata per fuggire, ma i suoni parevan venire dalla parte per cui doveva passare, e tutta tremante ristette ad aspettar gli eventi; d'improvviso la musica cessò, e vide uscir dal bosco e passare una figura molto vicino a lei, ma così ratto, e l'emozione di lei fu si grande, che non distinse quasi nulla. Finalmente tornò al castello, risoluta di non venir più sola e così tardi in quel luogo. Questo leggiero avvenimento produsse grand'impressione sul di lei spirito. Rientrata in camera, si rammentò sì bene l'altra circostanza spaventosa di cui era stata testimone pochi di prima, che appena ebbe coraggio di restar sola. Vegliò a lungo, ma nessun rumore venendo a rinnovare i suoi timori, andò a letto per cercar di gustare un po' di riposo. Fu breve però; un chiasso spaventoso e singolare parve sorgere dal corridoio: s'udirono gemiti distinti; un corpo pesante urtò l'uscio che fu scosso dalla violenza del colpo: essa chiamò per sapere che fosse: non le fu risposto, ma ad intervalli udiva cupi gemiti. Il terrore la privò sulle prime della favella; ma quando intese strepito di passi nella galleria, gridò più forte. I passi fermaronsi al di lei uscio; ella distinse la voce di alcune fantesche, che pareano troppo occupate per poter risponderle. Annetta entrò a prender acqua, ed Emilia seppe allora come una donna fosse svenuta; la fece portare in camera per prestarle soccorso. Quando colei ebbe ricuperato i sensi, affermò che, salendo le scale per andar a dormire, aveva visto un fantasma sul secondo ripiano. Essa tenea la lampada abbasso a motivo dei gradini rovinati; sollevando gli occhi, scorse lo spettro, il quale dapprima immobile in un cantuccio, erasi poscia cacciato sulla scala, scomparendo alla porta dell'appartamento visitato ultimamente da Emilia. Un suono lugubre era susseguito a questo prodigio. La fante tornò a scendere e correndo spaventata, era andata a cadere con un grido dinanzi all'uscio d'Emilia. «Il diavolo senza dubbio,» disse Dorotea, accorsa al chiasso, «ha preso una chiave di quell'appartamento; non può essere altri; ho chiusa la porta io stessa.» La fanciulla sgridò la donna dolcemente, e cercò di farla vergognare del suo spavento. La fante persistè a sostenere d'aver visto una vera apparizione. Tutte le altre donne accompagnaronla alla di lei stanza, tranne Dorotea, che Emilia trattenne seco. La vecchia, tutta paurosa, narrolle antiche circostanze in appoggio del caso occorso. Di tal novero era una consimile apparizione da lei vista nel medesimo sito; tal rimembranza aveala fatta esitare prima di salir la scala, ed avea accresciuta la di lei ripugnanza ad aprir l'appartamento del nord. Emilia s'astenne dall'esternare la sua opinione intorno a ciò; ma ascoltò attentamente la ciarliera, e ne risentì vie maggiore inquietudine. Da quella notte il terrore de' servi crebbe al punto, che gran parte di essi risolse d'accommiatarsi. Se il conte prestava fede ai loro timori, aveva cura di dissimularlo, e volendo prevenire gl'inconvenienti che lo minacciavano, impiegava il ridicolo ed i ragionamenti per distruggere quei timori e quegli spaventi soprannaturali. Nondimeno, la paura aveva reso tutti gli spiriti ribelli alla ragione. Lodovico scelse quel momento per provare al conte il suo coraggio e la riconoscenza pe' di lui buoni trattamenti. Si offrì di passare una notte nella parte del castello, cui pretendevano abitata dagli spiriti, ch'egli assicurava di non temere; e se fosse comparso qualche essere vivente, disse che avrebbe fatto vedere che nol temea egualmente. Il conte riflettè alla proposta; i domestici che lo udirono si guardarono l'un l'altro muti per la sorpresa e la paura. Annetta, spaventata per Lodovico, impiegò lagrime e preghiere per dissuaderlo da tale disegno. «Tu sei un bravo giovane,» disse il conte sorridendo; «pensa bene alla tua impresa prima di accingerviti, ma se vi persisti, accetto la tua offerta, e la tua intrepidezza sarà generosamente ricompensata. --Eccellenza,» rispose Lodovico, «io non desidero ricompense, ma la vostra approvazione. Vostra eccellenza ha già avuto molta bontà per me. Desidero soltanto aver qualche arme per difendermi in caso di bisogno. --Una spada non potrà difenderti contro gli spiriti,» disse ironicamente il conte, guardando i servi; «essi non temono nè porte, nè catenacci: un fantasma, voi lo sapete, passa tanto dal buco d'una serratura, come da una porta aperta. --Datemi una spada, signor conte,» disse Lodovico, «ed io m'incarico di cacciare nel mar Rosso tutti gli spiriti che volessero attaccarmi. --Ebbene,» rispose il conte, «avrai una spada, e di più una buona cena. I tuoi camerati avranno forse il coraggio di restare ancora per istanotte nel castello: certo è che almeno per questa notte il tuo ardire attirerà su di te tutti i malefizi dello spettro.» Una estrema curiosità contrastò allora colla paura nello spirito degli uditori, i quali risolsero d'aspettare l'esito della temeraria impresa del loro collega. CAPITOLO XLIV Il conte avea ordinato che l'appartamento del nord fosse aperto e preparato, ma Dorotea, rammentandosi quanto ci aveva veduto, non ebbe coraggio di obbedire: nessuno dei servitori volle prestarvisi, ed esso restò chiuso fino al momento in cui Lodovico doveva entrarvi, momento aspettato da tutti con impazienza. Dopo cena, il giovane seguì il conte nel suo gabinetto, e vi rimasero quasi mezz'ora; nell'uscire, il conte gli consegnò una spada. «Questa ha servito nelle guerre mortali,» diss'egli ridendo; «tu ne farai senza dubbio uso onorevole in una mischia affatto spirituale; e domattina sentirò con piacere che non resta più un solo fantasma nel castello.» Lodovico ricevè la spada con un saluto rispettoso, e rispose: «Sarete obbedito, signor conte, e m'impegno da ora in avanti che veruno spettro non turbi ulteriormente il riposo di questa dimora.» Recaronsi nel salotto, ove gli ospiti del conte aspettavano per accompagnarlo all'appartamento del nord. Dorotea consegnò le chiavi a Lodovico, e s'incamminò a quella volta in compagnia della maggior parte degli abitanti. Giunti a' piè della scala, parecchi servitori, impauriti, non vollero andar più innanzi, e gli altri la salirono sino al pianerottolo. Lodovico mise la chiave nella serratura, ed intanto tutti lo guardavano con tanta curiosità, come se fosse occupato di qualche operazione magica; e siccome egli non era pratico di quella serratura, Dorotea l'aprì pian piano; ma quando i di lei sguardi ebbero penetrato nell'interno oscuro della stanza, mise un grido e si ritirò. A questo segnale d'allarme, la maggior parte degli spettatori fuggirono a precipizio giù per la scala; il conte, Enrico e Lodovico, rimasti soli, entrarono nell'appartamento; Lodovico teneva in mano la spada nuda, il conte portava una lampada, ed Enrico un paniere pieno di provvisioni pel bravo avventuriere. Traversando quella fila di stanze, il conte restò sorpreso del loro stato rovinoso, ed ordinò al servo di dire il giorno dopo a Dorotea, d'aprire tutte quelle finestre, volendo far restaurare quel magnifico appartamento; indi gli chiese dove facesse conto di stabilirsi. «Dicono esserci un letto in una stanza; è là che voglio dormire, se per caso mi sentissi stanco di vegliare.» Giunti alla camera indicata, v'entrarono tutti: il conte fu colpito nel vederne l'aspetto funebre; accostossi al letto commosso, e trovandolo coperto col panno di velluto nero, sclamò: «Che cosa significa ciò?--Mi fu detto che la marchesa di Villeroy è morta in questo luogo stesso, e vi giacque sino all'ora del seppellimento. Quel velluto ricopriva per certo il feretro.» Il conte non rispose nulla, ma divenne pensieroso; voltossi quindi verso Lodovico, gli domandò con serietà se realmente avrebbe coraggio di restar lì solo tutta la notte. «Se hai paura,» soggiunse, «non arrossire di confessarmelo; io saprò scioglierti dal tuo impegno senza esporti ai sarcasmi degli altri.» L'orgoglio e qualche poco di paura parevan tenere perplessa l'anima di Lodovico. Finalmente l'orgoglio trionfò e rispose: «No, signore, no, finirò l'impresa che ho cominciata, e sono commosso della vostra attenzione. Accenderò un bel fuoco nel camino, e spero passare bene il tempo colle provvisioni del paniere. --Benissimo, ma come farai a difenderti dalla noia, se tu non potessi dormire? --Quando sarò stanco, eccellenza, non avrò paura di dormire; ma in tutti i casi ho meco un libro che mi divertirà. --Spero che non sarai sturbato; ma se nel corso della notte tu potessi concepire qualche serio timore, vieni a trovarmi nel mio appartamento. Confido troppo nel tuo giudizio e coraggio, per temere che tu possa spaventarti per qualche frivolezza. Domani io t'avrò l'obbligo d'un servigio importante. Si aprirà l'appartamento, e tutta la servitù sarà convinta della sua stoltezza. Buona notte, Lodovico; vieni a trovarmi di buon'ora, e ricordati ciò che ti ho detto. --Sì, signore, me ne rammenterò. Buona notte, eccellenza; permettete che vi faccia lume.» Accompagnò il conte ed Enrico fino all'ultima porta, e siccome qualche servitore, nel fuggire, aveva lasciato un lume sul pianerottolo, il contino lo prese, e augurò la buona notte a Lodovico, il quale rispose con molto rispetto, e chiuse la porta. Cammin facendo per tornare nella camera da letto, esaminò con iscrupolosa cura tutte le stanze per le quali doveva passare, temendo vi si potesse essere nascosto qualcuno per ispaventarlo. Non vi trovò nessuno. Lasciò aperti tutti gli usci, e giunse nel salone, la cui muta oscurità lo fece gelare. Voltandosi indietro a guardare la lunga fila di stanze percorse, nel procedere innanzi scorse un lume e la propria figura riflettuti in uno specchio; rabbrividì. Altri oggetti pingeansivi oscuramente; non si fermò a considerarli; avanzandosi ratto nella camera da letto, vide la porta dell'oratorio. L'aprì, tutto era tranquillo. Colpito alla vista del ritratto della defunta, lo considerò lungo tempo con sorpresa ed ammirazione. Esaminato quindi il luogo, rientrò in camera, ed accese un buon fuoco, la cui vivida fiamma rianimò il di lui spirito, che cominciava a indebolirsi per l'oscurità e pel silenzio. Non si sentiva allora se non il vento soffiare attraverso le finestre, prese una sedia trascinò un tavolino presso al fuoco, cavò una bottiglia di vino con alcune provvisioni dal paniere, e cominciò a mangiare. Allorchè ebbe cenato, pose la spada sul tavolino, e non essendo disposto a dormire, trasse di tasca il libro ond'aveva parlato. Era una raccolta di antiche novelle provenzali. Attizzò il fuoco, smoccolò la lampada, e si mise a leggere. La novella che scelse attirò in breve tutta la sua attenzione........ Il conte frattanto era tornato nel tinello ove tutti l'aspettavano. Ciascuno era fuggito al grido penetrante di Dorotea, e gli fecero mille domande sullo stato dell'appartamento. Il conte li beffò per quella fuga precipitata e la superstiziosa loro debolezza. Quando la compagnia si fu separata, il conte si ritirò nel suo quartiere. La rimembranza delle scene onde la casa era stata il teatro, l'affannava singolarmente. Alla fine fu scosso da' suoi pensieri dal suono d'una musica che intese vicino alla finestra. «Cos'è quest'armonia?» diss'egli al suo cameriere; «chi suona e canta a quest'ora sì tarda?» Pietro rispose, quella musica aggirarsi spesso intorno al castello verso mezzanotte, e credere averla udita anch'egli altre volte. «Che bella voce!» soggiunse il conte; «che suono melodioso è mai questo! sembra qualcosa di sovrumano. Ma ora si allontana...» E fatto cenno al servo di ritirarsi, stette assorto un pezzo in dubbiosi pensieri. Lodovico intanto, nella sua camera isolata, sentiva tratto tratto il rumore lontano di una porta che si chiudeva. L'orologio del salone, da cui era molto distante, suonò dodici colpi. «È mezzanotte,» diss'egli, e guardò per la camera. Il fuoco era quasi spento; l'alimentò con nuove legna, bevve un buon bicchier di vino, e avvicinandosi sempre più al caminetto, procurò di esser sordo al rumorio del vento che fischiava da tutte le parti. Infine, per resistere alla malinconia che gradatamente s'impadroniva di lui, riprese la sua lettura. Dopo qualche tempo, depose il libro avendo sonno; accomodatosi alla meglio sulla sedia, si addormentò. Gli parve vedere in sogno la camera, ove si trovava realmente; due o tre volte si svegliò dal sonno leggero, sembrandogli scorgere la faccia d'un uomo appoggiata alla sua sedia. Quest'idea fece su di lui tanta impressione, che, alzando gli occhi, gli parve quasi di vederne altri che si fissassero nei suoi. Si alzò e andò a fare una visita scrupolosa della camera, prima di convincersi appieno non esservi nessuno dietro la sedia. CAPITOLO XLV Il conte dormì pochissimo, si alzò di buon'ora, e premuroso di parlar con Lodovico, corse all'appartamento del nord. La prima porta era chiusa di dentro, e fu perciò costretto a batter forte, ma nè i suoi colpi, nè la sua voce vennero ascoltati. Considerando la distanza che separava quella porta dalla camera da letto, credè che Lodovico, stanco di vegliare, si fosse profondamente addormentato. Poco sorpreso adunque di non ricevere veruna risposta, si ritirò e andò a passeggiare pe' boschi. Il tempo era oscuro; i fiochi raggi del sole combattevano i vapori che sorgevano dal mare, ricoprendo la cima degli alberi dalle frondi gialleggianti per la stagione autunnale. La bufera era calmata, ma l'onde, sempre commosse, muggivano tuttora. Emilia erasi egualmente alzata di buon'ora, ed aveva diretto i passi verso il promontorio alpestre dal quale scoprivasi l'Oceano. Gli avvenimenti del castello occupavano il suo spirito, e Valancourt formava eziandio l'oggetto de' suoi tristi pensieri; non poteva esserle ancora indifferente. La sua ragione le rimproverava sempre una tenerezza che sopravviveva nel suo cuore alla stima; rammentavasi l'espressione de' suoi sguardi allorchè l'avea abbandonato, l'accento con cui le disse addio, e se qualche caso aumentava l'energia de' suoi pensieri, struggevasi in amare lacrime. Giunta all'antica torre, si riposò su di un gradino mezzo rovinato, osservando le onde che venivano lentamente a frangersi sulla riva, cospargendo gli scogli dalla bianca loro spuma. Il monotono loro fragore, e le grige nubi che velavano il cielo, rendeano la scena più misteriosa ed analoga allo stato del suo cuore. Tale stato le divenne troppo penoso; si alzò, e traversando una parte delle ruine, guardando a caso su d'un muro vide alcune parole malamente scolpite colla punta d'un coltello; le esaminò, e riconobbe il carattere di Valancourt: le lesse tremando. Chiaro dunque appariva che Valancourt aveva visitato quella torre, ed era anzi probabile che fosse stato nella notte precedente ch'era stata burrascosa, e quei versi descrivevano un naufragio: inoltre parea che non avesse abbandonato quelle rovine se non da poco tempo, chè il sole essendo sorto allora, non poteva avere scolpiti quei caratteri all'oscuro. Era dunque probabilissimo che Valancourt fosse nelle vicinanze. Mentre tutte queste idee si presentavano con rapidità all'immaginazione di Emilia, tante emozioni la combatterono, che ne fu quasi oppressa; ma ebbe la prudenza di sfuggire un incontro pericoloso alla sua virtù, e s'incamminò in fretta alla volta del castello. Ricordandosi allora della musica già sentita e della figura passatale così vicino quella sera, fu quasi tentata di credere nella sua agitazione che fosse lo stesso Valancourt. Fatti pochi passi, incontrò il conte, che per distrarla dall'afflizione in cui la vide, le fece conoscere la risposta dell'avvocato di Aix, suo amico, a proposito della cessione dei beni della signora Montoni. Ritornati al castello, Emilia si ritirò nella sua camera, ed il conte andò all'appartamento del nord. La porta n'era peranco chiusa. Il conte chiamò forte Lodovico, senza ricevere risposta. Sorpreso di tale silenzio, cominciò a temere non fosse accaduta qualche disgrazia all'infelice, o che la paura di qualche oggetto immaginario l'avesse fatto svenire. Cercò alcuni servitori, ai quali chiese se avessero veduto Lodovico, ma tutti risposero che, dalla sera precedente, nessuno erasi più avvicinato all'appartamento del nord. «Egli dorme profondamente,» disse il conte, «è così lontano dalla porta d'ingresso, che non può sentire; bisognerà gettarla a terra. Prendete una leva e seguitemi.» I servi rimasero muti e confusi; nessuno si movea. Dorotea parlò di un'altra porta che dalla galleria dello scalone metteva nell'anticamera del salotto, ed era per conseguenza assai più vicina alla camera da letto. Il conte vi andò, ma tutti i suoi sforzi furono inutili; per cui la fece atterrare. Esso entrò pel primo; Enrico lo seguì co' più coraggiosi, e gli altri aspettarono sulla scala. Regnava in quel luogo il più cupo silenzio. Entrato nel salotto, il conte chiamò Lodovico, ma, non ricevendo risposta, aprì egli stesso, ed entrò. Il silenzio assoluto regnante colà confermò i suoi timori; Enrico fece aprire le imposte d'una finestra, ma Lodovico non fu trovato, malgrado le più esatte ricerche nell'oratorio, nel letto, ed in tutte le altre stanze. Tutte le porte che comunicavano al di fuori, erano chiuse internamente come pure tutte le finestre. Lo stupore del conte fu inesprimibile; rientrò nella camera, ove tutto era al suo luogo. La spada stava sul tavolino, colla lucerna, un libro ed un mezzo bicchier di vino. Accanto al caminetto eravi il paniere con un resto di provvisioni, e legna col fuoco spento. Il conte parlava poco, ma il di lui silenzio esprimeva molto. Pareva che Lodovico avesse dovuto fuggire per qualche uscio segreto ed ignoto. Il conte non poteva risolversi ad ammettere una causa soprannaturale; e poi, quando anche vi fosse, quest'uscio segreto, come spiegare i motivi della sua fuga? Villefort aiutò egli stesso a staccare il parato di tutte le stanze, per iscuoprire se nascondeva qualche apertura, ma tutto indarno. Egli si ritirò dunque dopo aver chiuso il salotto, e messasene la chiave in tasca. Diede ordini pressanti perchè si cercasse Lodovico fino ne' dintorni, e si ritirò con Enrico nel suo gabinetto, ove restarono un'ora circa. Qualunque fosse stato il soggetto della loro conferenza, Enrico da allora perdè tutto il brio, e diveniva grave e riservato allorchè trattavasi il soggetto che allarmava tutta la famiglia. La paura dei servi crebbe al punto che la maggior parte di essi partì immediatamente, e gli altri restarono finchè il conte non li avesse surrogati. Le ricerche più esatte sul destino di Lodovico furono inutili. Dopo molti giorni d'indagini, la povera Annetta si abbandonò alla disperazione, e la sorpresa generale fu al colmo. Emilia, il cui spirito era stato vivamente commosso dalla strana fine della marchesa, e dalla misteriosa relazione ch'essa immaginava aver esistito fra lei e Sant'Aubert, era colpita in ispecie da un caso sì straordinario. Era inoltre afflittissima della perdita di Lodovico, la cui probità, fedeltà ed i servigi meritavano tutta la sua stima e riconoscenza. Desiderava trovarsi nella placida solitudine del suo convento; ma tutte le volte che ne parlava al conte, questi ne la dissuadea teneramente; ella sentiva per lui l'affetto, l'ammirazione ed il rispetto di una figlia; e Dorotea consentì alfine ch'ella l'informasse dell'apparizione da loro veduta nella camera da letto della marchesa. In tutt'altro momento avrebbe sorriso della di lei relazione, ma allora ascoltolla sul serio, ed allorchè ebbe finito, le raccomandò il più scrupoloso segreto. «Qualunque possa essere la causa di questi avvenimenti singolari,» disse il conte, «il tempo solo può spiegargli. Io veglierò con cura su quanto accadrà nel castello, ed impiegherò ogni mezzo per iscuoprire il destino di Lodovico. Intanto usiamo prudenza e circospezione. Andrò io stesso a passare una notte intiera in quell'appartamento, ma fintantochè ne determini l'istante, voglio che l'ignorino tutti.» La vecchia Dorotea gli raccontò allora le particolarità della morte della marchesa, che cagionarongli alta sorpresa. La settimana seguente, tutti gli ospiti del conte partirono, eccettuato il barone, suo figlio ed Emilia. Quest'ultima ebbe l'imbarazzo di un'altra visita del signor Dupont, che la fece risolvere a tornar subito al convento. La gioia manifestata da quell'uomo appassionato nel rivederla, la persuase come non avesse rinunziato alla speranza di farla sua, Emilia però fu seco lui molto riservata. Il conte lo ricevè con piacere, glielo presentò sorridendo, e parve ritrarre buon augurio dall'impaccio in cui la vedea. Dupont però lo comprese meglio, perdè d'improvviso ogni brio, e ricadde nel languore e nello scoraggiamento. Il giorno seguente, nondimeno, spiò l'occasione di spiegare il motivo della sua visita, e rinnovò la domanda. Questa dichiarazione fu ricevuta da Emilia con visibile dispiacere: procurò di addolcirgli la pena d'un secondo rifiuto, coll'assicurazione reiterata della sua stima e amicizia. Più persuasa che mai dell'inconvenienza d'un più lungo soggiorno nel castello, andò subito ad informare il conte della sua volontà di tornare al convento. «Cara Emilia,» le diss'egli, «vedo con dispiacere che incoraggite le illusioni pur troppo comuni ai giovani cuori: il vostro ha ricevuto un colpo violento, e credete non doverne guarir più. Cercate di respingere queste idee; scacciate le illusioni, e svegliatevi al sentimento del pericolo.» Emilia sorrise forzatamente, e rispose: «So che cosa volete dire, o signore, e son preparata a rispondervi. Sento che il mio cuore non proverà mai un secondo affetto, e perderei la speranza di ricuperare ancora la pace e la tranquillità, se mi lasciassi trascinare a nuovi impegni. --So bene che voi sentite tutto questo, ma so eziandio che il tempo indebolirà tale sentimento; io posso parlarvene in proposito, e so compatire i vostri affanni, chè conosco per esperienza cosa vuol dire amare e piangere l'oggetto amato,» soggiunse commosso assai; «giudicate dunque s'io debbo premunir voi contro i terribili effetti di un'inclinazione, che può influire su tutta la vita, e abbreviare quegli anni che avrebbero potuto esser felici. Il signor Dupont è uomo amabile e sensibile; vi adora da lungo tempo, la sua famiglia e le sue sostanze non son suscettibili d'alcuna obiezione. Or è superfluo aggiungere ch'io credo il signor Dupont capace di fare la vostra felicità. Non piangete, mia cara Emilia,» continuò il conte, prendendole una mano; «io non voglio indurvi a sforzi violenti per domare i vostri affetti, ma pregarvi solo a star lontana da tutte le occasioni, che possono rammentarvi gli oggetti della vostra tristezza, pensando qualche volta all'infelice Dupont, senza condannarlo a quello stato di disperazione da cui bramerei veder guarita voi stessa. --Ah! signore,» disse Emilia, versando un torrente di lacrime, «non vorrei che i vostri voti a tal proposito ingannassero il signor Dupont, colla speranza ch'io possa accordargli la mia mano. Se consulto il cuore, ciò non accadrà mai, ed io posso sopportar tutto fuorchè l'idea che possa mai cambiar di pensiero. --Soffrite ch'io mi faccia interprete del vostro cuore,» ripigliò il conte con un sorriso; «se mi fate l'onore di seguire i miei consigli sul resto, vi perdonerò l'incredulità sulla vostra condotta futura verso Dupont. Non vi solleciterò di restar qui più a lungo che non vi piaccia; ma astenendomi adesso dall'oppormi alla vostra partenza, reclamo dalla vostra amicizia qualche visita per l'avvenire.» Emilia ringraziollo di tante prove d'affetto, e promise di seguire i suoi consigli, uno solo eccettuato, assicurandolo del piacere con cui profitterebbe del suo grazioso invito, allorchè Dupont non fosse più al castello. Villefort, sorridendo di questa condizione, riprese: «Vi acconsento, il monastero è qui vicino; mia figlia ed io potremo venire spesso a vedervi. Se però qualche volta ci permettessimo di associare un compagno alla nostra passeggiata, ce lo perdonereste voi?» Emilia parve afflitta, e non rispose. «Ebbene,» soggiunse il conte, «non ne parliamo più; vi domando perdono d'essermi spinto troppo oltre. Vi supplico di credere che il mio unico scopo è un vero interesse per la vostra felicità e per quella del mio buon amico.» La fanciulla scrisse alla badessa, e partì la sera del giorno seguente. Dupont la vide partire con rammarico; ma il conte cercò incoraggiarlo colla speranza che col tempo essa gli sarebbe stata più favorevole. Emilia fu contentissima di trovarsi nel placido ritiro del chiostro, ove la badessa le rinnovò le maggiori prove di materna bontà, avvalorate dall'amicizia veramente fraterna delle altre monache. Sapevano esse di già l'avvenimento straordinario del castello, e la stessa sera, dopo cena, pregarono Emilia di raccontarne i dettagli; essa lo fece con circospezione, estendendosi assai poco sulla scomparsa di Lodovico. Tutte le ascoltanti convennero unanimemente a darle una causa soprannaturale. «Fu creduto per molto tempo,» disse una monaca chiamata suor Francesca, «che il castello fosse frequentato dagli spiriti, e rimasi assai sorpresa quando seppi che il conte aveva la temerità di venire ad abitarlo. Credo che l'antico proprietario avesse qualche peccato da espiare. Speriamo che le virtù dell'attual possessore possano preservarlo dal castigo riserbato al primo, se realmente era reo. --E di qual delitto lo sospettano?» disse una certa Feydeau, educanda. --Preghiamo per l'anima sua,» rispose una monaca, la quale fin allora non avea aperto bocca. «Se fu reo, il suo castigo quaggiù bastò ad espiarne la colpa.» Eravi nell'accento di tai detti un misto di serio e di singolarità che colpì Emilia. L'educanda ripetè l'inchiesta senza badare alle parole della monaca. «Non oso dire qual fu il suo delitto,» ripigliò suor Francesca. «Intesi racconti strani a proposito del marchese di Villeroy. Dicono, tra altri, che dopo la morte della moglie partì da Blangy, e non vi tornò più. A quell'epoca io non era qui, e non posso dir nulla di preciso; la marchesa era morta già da molto tempo, e la maggior parte delle nostre suore non potrebbe dirne di più. --Io lo potrei,» ripigliò la monaca che avea già parlato, e che si chiamava suor Agnese. --Voi sapete dunque,» disse l'educanda, «le circostanze che vi fanno giudicare s'egli fosse colpevole o no, e qual delitto gli venisse imputato? --Sì,» rispose suor Agnese; «ma chi potrebbe mai indagare i miei pensieri? Chi oserà mescolarsi ne' miei segreti? Dio solo è il suo giudice, ed egli è già al cospetto di quel giudice terribile. --Vi domandava soltanto la vostra opinione, se questo discorso vi spiace, lo cambieremo subito. --Spiacevole!» rispose la monaca con affettazione. «Noi parliamo a caso, senza pesare il valore delle parole. Spiacevole! è un'espressione miserabile. Io vado a pregare Iddio.» Ed alzatasi sospirando, se ne andò. «Che significa ciò?» chiese Emilia. --Non è straordinario,» rispose suor Francesca; «ella è spesso così. La sua ragione è alterata; vaneggia. --Povera donna!» soggiunse Emilia; «pregherò Dio per lei. --Le vostre preci in tal caso si uniranno alle nostre, giacchè ne ha bisogno. --Signora,» disse la Feydeau, «fatemi la grazia di dirmi la vostra opinione sul marchese di Villeroy. Lo strano avvenimento del castello ha tanto eccitato la mia curiosità, che mi rende ardita a tal segno: qual è dunque il delitto che gli viene imputato? --Non si può,» rispose la badessa con aria grave, «non si può avventurare veruna proposizione sopra un soggetto così delicato. Quanto al castigo di cui parla suor Agnese, non so che ne abbia sofferto alcuno, ed avrà voluto di certo alludere al crudele rimordimento di coscienza. Guardatevi bene, figliuole, di provare questo terribile castigo, ch'è il purgatorio della nostra vita. La marchesa è stata un modello di virtù e rassegnazione, ed il chiostro istesso non avrebbe arrossito d'imitarla. La nostra chiesa ha ricevuto la di lei spoglia mortale, e la sua anima è volata senza dubbio in grembo al Creatore. Andiamo, figliuole, a pregare per gl'infelici peccatori.» Ella si alzò, e la seguirono tutte alla cappella. CAPITOLO XLVI Villefort ricevè alfine una lettera dell'avvocato di Aix, che incoraggiava Emilia ad affrettare le sue istanze pel ricupero dei beni della zia. Poco dopo ricevè un simile avviso per parte di Quesnel; ma il soccorso della legge non pareva più necessario, giacchè la sola persona che avesse potuto opporsi non esisteva più. Un amico di Quesnel, che risiedeva a Venezia, aveagli mandato la relazione della morte di Montoni, processato con Orsino, come supposto complice dell'assassinio del nobile veneziano. Orsino, trovato reo, fu giustiziato; Montoni ed i suoi compagni, riconosciuti innocenti di quel delitto, furono tutti rilasciati tranne il primo. Il senato vide in lui un uomo pericolosissimo, e, per diversi motivi, fu ritenuto in carcere. Vi morì in modo molto segreto e sospettossi che il veleno troncasse i suoi giorni. La persona dalla quale Quesnel aveva ricevuto la notizia, meritava tutta la fede. Egli diceva dunque a Emilia che bastava reclamare i beni della zia per andarne al possesso, aggiungendo l'avrebbe aiutata a non trascurar veruna formalità. L'affitto della valle volgea al suo termine, per cui la consigliava di recarsi a Tolosa. L'aumento del patrimonio d'Emilia aveva risvegliato in Quesnel un'improvvisa tenerezza per la nipote, e pareva avere più rispetto per una ricca fanciulla, di quel che non avesse sentito compassione per un'orfanella povera e senza amici. Il piacere provato da Emilia a tale notizia, fu mitigato dall'idea che colui, pel quale aveva desiderato tanto di essere nell'agiatezza, non era più degno di lei. Nonpertanto ringraziò il cielo del benefizio inaspettato, e scrisse a Quesnel che sarebbe stata a Tolosa pel tempo indicato. Quando Villefort andò al convento in compagnia di Bianca per far leggere ad Emilia il consulto dell'avvocato, fu istruito delle informazioni di Quesnel, e ne felicitò sinceramente la fanciulla. Tornò quindi a riparlare delle sue inquietudini sulla sorte di Lodovico; e disse che, volendo far cessare tutte le ciarle e le paure, aveva l'intenzione decisa di passare una notte intiera nell'appartamento del nord. Emilia seriamente allarmata, unì le sue preghiere a quelle di Bianca per distoglierlo da tale progetto. «Che cos'ho io da temere?» rispos'egli; «non credo aver a combattere nemici soprannaturali, e quanto agli attacchi umani, sarò parato a riceverli; d'altronde, vi prometto di non vegliar solo. Mio figlio mi terrà compagnia; e se stanotte non isparirò come Lodovico, domani saprete il risultato della mia avventura.» Il conte e Bianca, congedatisi poco dopo da Emilia, tornarono al castello. La sera, dopo cena, Villefort s'incamminò con Enrico all'appartamento del nord, accompagnato dal barone, da Dupont e da alcuni domestici, che gli augurarono la buona notte alla porta. Tutto era in quelle stanze nel medesimo stato come dopo la sparizione di Lodovico. Essi furon costretti ad accendere il fuoco da sè, poichè nessuno si era arrischiato a venire fin là. Esaminarono scrupolosamente la camera e l'oratorio, e sedettero vicino al fuoco. Deposero le spade sul tavolino, e parlarono a lungo di varie cose. Enrico era spesso distratto e taciturno, e fissava tratto tratto un occhio diffidente e curioso sulle parti oscure della camera. Il conte cessò a poco a poco di parlare, e, per sottrarsi a' pensieri che l'assalivano, si mise a leggere un volume di Tacito, ond'erasi prudentemente munito. CAPITOLO XLVII Il barone di Santa-Fè, inquieto per l'amico, non avendo potuto chiuder occhio in tutta notte, erasi alzato di buonissima ora. Andando per notizie passò vicino al gabinetto del conte, ed udì camminare: bussò, e venne lo stesso Villefort ad aprirgli: lieto di vederlo sano e salvo, il barone non ebbe tempo di osservarne la fisonomia straordinariamente grave; le sue risposte riservate però ne lo resero ben presto accorto. Il conte affettando di sorridere, rispose evasivamente alle di lui interrogazioni; ma il barone divenne serio e così pressante, che Villefort, preso allora un tuono deciso di gravità, gli disse: «Amico caro, non mi domandate nulla di più, ve ne scongiuro. Vi supplico inoltre di tacere su tutto ciò che la mia condotta avvenire potrà avere di sorprendente. Non ho difficoltà a dirvi che sono infelice, e che il mio esperimento non mi fece trovare Lodovico. Scusate la mia riserva sugl'incidenti di stanotte. --Ma dov'è Enrico?» disse il barone, sorpreso e sconcertato dal rifiuto. --È nelle sue stanze; mi farete il piacere a non interrogarlo. Potete esser certo che il motivo che m'impone silenzio verso un amico di trent'anni, non può derivare da un caso ordinario. La mia riserva, in questo momento, non deve farvi dubitare nè della stima, nè dell'amicizia mia.» Troncato così il discorso, scesero per la colazione. Il conte mosse incontro alla sua famiglia con aria allegra: si schermì dalle molteplici interrogazioni con risposte scherzose, ed assicurò, ridendo, l'appartamento del nord non essere poi tanto da paventarsi, se lui e suo figlio n'erano usciti sani e salvi. Enrico fu però meno felice ne' suoi sforzi per dissimulare; la sua faccia portava ancora l'impronta del terrore. Era muto e pensieroso, e quando voleva rispondere, celiando, alle pressanti dimande della Bearn, si vedeva bene il suo brio non esser naturale. Dopo pranzo, il conte, a tenore della sua promessa, andò a trovare Emilia, la quale fu sorpresa di trovare ne' suoi discorsi sugli appartamenti del nord un misto di motteggio e riservatezza. Non disse però nulla dell'avventura notturna; e quand'essa ardì favellargliene, e chiedergli se si fosse accorto che gli spiriti frequentassero l'appartamento, si fece serio e rispose sorridendo: «Cara Emilia, non vi guastate il cervello con simili idee che v'insegnerebbero a trovar uno spettro in tutte le stanze oscure. Ma credetemi,» soggiunse con un lungo sospiro, «i morti non appariscono per soggetti frivoli, nè all'unico scopo di spaventare i paurosi.» Tacque, pensò alquanto, indi ripigliò: «Ma via, non parliamone più.» E s'accomiatò poco dopo. La fanciulla andò a raggiungere le monache, e restò sorpresa nel sentire come sapessero già l'avventura. Ammiravano esse l'intrepidità del conte a passar la notte nell'istesso appartamento ov'era sparito Lodovico, Emilia non considerava con qual rapidità circola una notizia superstiziosa. Le monache l'avevano saputa dal giardiniere, ed i loro sguardi dopo la scomparsa di Lodovico, stavano sempre fissi sul castello di Blangy. Emilia ascoltava tacendo tutte le loro dissertazioni sulla condotta del conte. La maggior parte la condannarono come temeraria e presuntuosa. Suor Francesca sosteneva che il conte aveva mostrato tutta la bravura di un'anima grande e virtuosa. Non erasi macchiato di verun delitto, e non poteva temere lo spirito maligno, avendo diritti alla protezione di colui che comanda ai cattivi e protegge l'innocenza. «I colpevoli non possono reclamare questa protezione,» disse suor Agnese sospirando e fissati gli occhi in Emilia, la prese per la mano dicendole: «Voi siete giovine, siete innocente, ma avete passioni in cuore... veri serpenti. Essi dormono ora: guardate che non si sveglino perchè vi ferirebbero a morte.» La fanciulla, colpita da tali parole, e dal modo con cui venivano pronunziate, non potè trattener le lacrime. «Ah! è dunque vero!» sclamò allora suor Agnese con tenerezza; «così giovine, ed essere infelice! Noi siamo adunque sorelle? Esistono dunque teneri rapporti fra i colpevoli?» Quindi, con occhi smarriti: «No, non c'è più riposo! non più pace! non più speranza. Le ho gustate per l'addietro; allora poteva piangere. La mia sorte è decisa. --C'è speranza per tutti quelli che si pentono e si correggono,» disse suor Francesca. --Per tutti, fuorchè per me,» replicò suor Agnese. «Ma la testa mi bolle, credo esser malata. Oh! perchè non posso cancellare il passato dalla memoria! Quelle ombre che sorgono come furie per tormentarmi, le veggo sempre in sogno; quando mi sveglio mi stanno dinanzi! Ed ora le vedo là, là...» Restò qualche tempo nell'atteggiamento dell'orrore: i di lei sguardi erravano per la camera, come se avessero seguito qualche oggetto. Una monaca la prese dolcemente per la mano onde condurla fuori. Suor Agnese si calmò, mise un sospiro, e disse: «Esse sono sparite, sì, sono sparite. Ho la febbre, e non so quel ch'io dica. Talvolta mi trovo in questo stato, ma presto passa. Fra poco starò meglio. Addio, care sorelle; vo' ritirarmi in cella; sovvengavi di me nelle vostre orazioni.» Appena fu uscita, suor Francesca vedendo l'emozione di Emilia, le disse: «Non vi sorprenda. La nostra sorella ha spesso la testa alterata, sebbene io non l'abbia mai veduta in un delirio così grande come oggi, ma spero che la solitudine e l'orazione la calmeranno. --La sua coscienza pareva oppressa,» disse Emilia; «sapete voi per qual motivo sia ridotta in uno stato così deplorabile? --Si,» rispose suor Francesca; poi soggiunse sottovoce: «In questo momento non posso dirvi nulla. Se volete saperne qualcosa, venite a trovarmi in cella dopo cena. Ma rammentatevi che a mezzanotte io devo andare al mattutino; venite dunque o prima, o dopo.» Emilia promise di esser puntuale; sopraggiunse la badessa, e non si parlò più dell'infelice suor Agnese. Il conte tornando al castello, trovò Dupont in un trasporto di disperazione, cagionatogli dal suo amore per Emilia; amore nato in lui da troppo tempo ond'esser vinto facilmente. Egli avea conosciuta la fanciulla in Guascogna; il di lui padre, cui erasi confidato, trovando ch'essa non era abbastanza ricca, lo dissuase dal pensare a cercarla in isposa. Finchè visse suo padre, gli fu obbediente, ma non potendo vincere la sua passione, cercava di addolcirla visitando i luoghi frequentati da Emilia, ed in ispecie la peschiera. Una volta o due aveale manifestato i suoi sentimenti in versi, ma giammai palesato il suo nome per non trasgredire agli ordini paterni. Colà aveva cantato quella canzone patetica, di cui Emilia era stata tanto sorpresa, e vi aveva trovato a caso quel ritratto che servì ad alimentare una passione troppo fatale al suo riposo. Abbracciata la carriera militare, scese a guerreggiare in Italia; intanto suo padre morì, ed egli aveva riacquistata la libertà quando l'unico oggetto che poteva rendergliela preziosa non poteva più corrispondergli. Si è veduto in qual modo ritrovasse Emilia, e come l'avesse aiutata a fuggire. Si è veduto finalmente a qual debole speranza appoggiasse il suo amore, e l'inutilità di tutti i di lui sforzi per vincerlo. Il conte procurò consolarlo collo zelo dell'amicizia, lusingandolo che forse la pazienza e la perseveranza potrebbero un giorno cattivargli l'affetto di Emilia. Appena le monache si furono ritirate, la fanciulla, recatasi da suor Francesca, la trovò inginocchiata dinanzi ad un crocifisso; appena la vide, le fece segno di entrare, ed Emilia aspettò in silenzio ch'essa finisse la sua orazione, allora la monaca si alzò, e postasi a sedere sul letticciuolo, così cominciò: «La vostra curiosità, sorella cara, vi ha resa esatta, ma non c'è nulla di notevole nell'istoria di suor Agnese. Non ho voluto parlare di lei in presenza delle altre, perchè non mi garba che conoscano il suo delitto. --La vostra confidenza mi onora,» disse Emilia, «ma io non ne abuserò. --Suor Agnese,» soggiunse la monaca, «è d'una famiglia nobile; la dignità della sua fisonomia ve lo avrà forse già fatto sospettare; ma non voglio disonorare il suo nome rivelandolo. L'amore fu cagione delle sue follie e del suo delitto. Fu amata da un gentiluomo poco ricco, e il di lei padre, da quanto mi fu detto, avendola maritata ad un signore ch'ella odiava, accelerò la sua perdita: obliò i suoi doveri e la virtù, e profanò i voti del matrimonio; questo delitto fu scoperto, ed il marito l'avrebbe sacrificata alla sua vendetta, se il di lei padre non avesse trovato il mezzo di sottrarla al suo potere. Non ho mai potuto scoprire in qual modo potè riuscirvi. La chiuse in questo convento, e la decise a prendere il velo. Si fece spargere la voce ch'essa era morta; il padre, per salvar la figlia, concorse a confermare questa notizia, e fece credere perfino al marito ch'era stata vittima del suo geloso furore. Parmi che quest'istoria vi sorprenda, e per vero non è comune, ma non è però senz'esempio. Ora sapete tutto; aggiungerò soltanto che il contrasto nel cuore di Agnese fra l'amore, i rimorsi ed il sentimento dei doveri claustrali, cagionò alla perfine il disordine delle sue idee. In principio era alteratissima; prese in seguito una malinconia abituale, ma da qualche tempo cade in accessi di delirio più forti e frequenti del solito.» Emilia fu commossa da quest'istoria, che le parve aver molta analogia con quella della marchesa di Villeroy, e sparse qualche lacrima sugli infortunii d'entrambe. «È strano,» soggiunse ella, «ma vi sono momenti in cui credo rammentarmi la sua figura; io non ho per certo veduta mai suor Agnese prima di entrare in questo convento; bisogna che abbia visto in qualche parte una persona che le somigli, eppure non ne ho nessuna memoria.» E rimase sovrappensieri. Quando suonò mezzanotte, congedossi e tornò nella sua camera. Per molti giorni consecutivi, Emilia non vide nè il conte, nè alcuno della sua famiglia; quand'egli comparve, essa notò con pena l'eccesso della sua agitazione. «Non ne posso più,» rispos'egli alle di lei premurose interrogazioni; «voglio assentarmi per qualche tempo, onde ricuperare un poco di tranquillità. Mia figlia ed io accompagneremo il barone di Santa-Fè al di lui castello, situato alle falde dei Pirenei in Guascogna. Ho pensato, cara Emilia, che se voi andaste alla vostra terra della valle si potrebbe fare insieme parte del viaggio, ed io sarei lietissimo di potervi scortare fin là.» Essa lo ringraziò, facendogli conoscere il dispiacere di non poter godere della sua compagnia, essendo obbligata di trasferirsi prima a Tolosa. «Allorchè sarete dal barone,» soggiunse, «vi troverete poco distante da' miei beni. Mi lusingo pertanto che non ripartirete di colà senza venire a trovarmi, credendo inutile dirvi qual piacere io proverò a ricevervi in compagnia di Bianca. --Ne son convinto appieno,» rispose Villefort; «ed approfitterò molto volentieri delle vostre gentili profferte.» E dopo i soliti complimenti, se ne partì. Pochi giorni dopo, Emilia ricevè una lettera di Quesnel che l'avvisava di esser già a Tolosa, che la terra della valle era libera, e la pregava d'affrettarsi, perchè i suoi affari lo chiamavano in Guascogna. Essa non esitò più; andò a fare i saluti al conte, che non era ancora partito, e si mise in viaggio per Tolosa, in compagnia dell'infelice Annetta, e d'un fido servo della famiglia del conte. CAPITOLO XLVIII Emilia compì il viaggio felicemente. Avvicinandosi a Tolosa, d'onde era partita colla zia, riflettè sul tristo fine di lei, la quale, senza la sua imprudenza, avrebbe potuto vivere ancora felice in quella città. Anche Montoni le si presentava spesso al pensiero; parevale di vederlo ne' dì de' suoi trionfi, ardito, intraprendente, altiero, vendicativo; ed ora ecco che, scorsi pochi mesi, non aveva più il potere, nè la volontà di nuocerle, nè esisteva nemmen più; i di lui giorni erano svaniti come ombra fugace... Giunta a Tolosa, scese al palazzo di sua zia, ora divenuto suo, ed invece d'incontrarvi Quesnel, vi trovò una sua lettera, colla quale, oltre a parecchie istruzioni circa i di lei beni, l'informava essere stato obbligato di partire due giorni prima per un affare importante. Il poco interesse che Quesnel mostrava di rivederla, non occupò a lungo i di lei pensieri, i quali si volsero alle persone vedute in quel palazzo, e sopratutto all'imprudente ed infelice signora Montoni; essa aveva fatta colazione secolei la mattina della sua partenza per l'Italia. Il salotto in cui ritrovavasi, rammentavale più che mai tutto quel che aveva sofferto allora, e le belle speranze di cui pascevasi a quell'epoca la zia. Affacciandosi alla finestra del giardino, vide il viale in cui la vigilia del suo viaggio erasi separata da Valancourt. La di lui ansietà, il premuroso interesse dimostrato per la sua felicità, le pressanti sollecitazioni fattele, affinchè non si abbandonasse all'autorità di Montoni, e la sincerità della sua tenerezza, tutto tornavale in mente. Le parve quasi impossibile che Valancourt si fosse reso indegno di lei, dubitava di tutti i rapporti, e perfino delle di lui proprie parole, confermanti quelle di Villefort. Oppressa dalle idee destatele da quel viale, si ritirò dalla finestra, e buttossi in una poltrona inabissata nel più vivo dolore. Annetta, entrando di lì a poco con qualche rinfresco, la trasse dai tristi pensieri. Dal dì dopo, serie occupazioni la divagarono dalla sua malinconia; desiderava partir presto da Tolosa per recarsi alla valle: prese informazione dello stato de' suoi possessi, e finì di regolarsi dietro le istruzioni di Quesnel. Abbisognò d'un grande sforzo per interessarsi in simili oggetti, ma se ne trovò ben compensata, e si convinse ognor più che la continua occupazione è il miglior rimedio contro la tristezza. Tutta la giornata la consacrò agli affari; s'informò degli abitanti più poveri dei dintorni, e distribuì loro soccorsi copiosi. Andata a passeggiare in giardino, si diresse verso il padiglione dov'erasi abboccata con Valancourt. Il desiderio di rivedere un luogo in cui era stata felice, vinse in lei l'estrema ripugnanza di rinnovare la sua ambascia entrandovi; ne spinse l'uscio: le finestre erano chiuse. Una sedia stava presso al terrazzino, come se vi avesse seduto qualcuno di recente. Il silenzio e la solitudine del luogo secondavano in quel momento le sue malinconiche disposizioni. Postasi a sedere presso una finestra, si rammentò la scena dell'abboccamento avuto quivi coll'amante. In quel luogo aveva passati seco lui i più bei momenti, quando la zia favoriva i loro progetti. «Come è mai possibile,» sclamò Emilia, «che un cuore così sensibile abbia potuto darsi in preda al vizio!» Si alzò, e volendo sfuggire alle chimere d'una felicità che non esisteva più, tornò verso casa. Traversando il viale, vide da lungi una persona passeggiare lentamente sotto gli alberi. Il crepuscolo non le permise di distinguere chi fosse: credè da principio che fosse un servitore, ma nell'avanzarsi egli volse la testa, e le parve riconoscere Valancourt; ma tosto sparve nel boschetto. Emilia, cogli occhi fissi al punto dove era sparito, restò immobile e tremante. Infine, fattasi animo, rientrò in casa, e temendo di lasciar conoscere la sua alterazione, si astenne dal chiedere chi fosse andato in giardino. Quando fu sola, si rammentò la figura veduta; era sparita così presto, che non aveva potuto distinguer nulla; pure quell'improvvisa partenza le faceva credere che fosse Valancourt. Passò quella sera nell'incertezza e nei continui sforzi che faceva per cancellarlo dalla memoria. Vani tentativi: essa era agitata da mille contrari affetti; temeva al tempo istesso che fosse lui, oppure un'illusione. Voleva persuadersi che non desiderava più di rivedere Valancourt, ed il suo cuore con altrettanta costanza contraddiceva la ragione. Passò una settimana prima d'arrischiarsi nuovamente a passeggiare in giardino. Infine, non volendo esporsi sola, si fece accompagnare da Annetta, la quale, dopo un lungo silenzio, le disse: «Signora Emilia, perchè mai siete così afflitta? Parrebbe quasi che voi sapeste che cosa è accaduto. --Cos'è accaduto?» rispose Emilia con voce tremante. --La scorsa notte v'era un ladro nel giardino. --Un ladro!» sclamò Emilia con vivacità. --Così suppongo; chè altrimenti chi poteva essere? --Dove l'hai tu veduto, Annetta?» rispose Emilia guardandosi attorno. --Non l'ho veduto io, ma Giovanni il giardiniere. Era mezzanotte: Giovanni traversava il cortile per andarsene a dormire, allorchè vide una figura nel viale in faccia alla porta d'ingresso; indovinò chi era, ed andò a prendere lo schioppo. --Lo schioppo! --Sì, signora. Tornò nel cortile per osservarlo meglio; lo vide avanzare lentamente nel viale e guardare attento il castello. Vedendo che il ladro entrava nel cortile, Giovanni credè bene allora domandargli chi fosse e cosa volesse, ma colui non rispose e tornò indietro. Giovanni allora gli sparò addosso. Gran Dio! Voi impallidite! Quell'uomo non fu ucciso, ve ne assicuro; o almeno i suoi compagni l'hanno portato via. Giovanni, di buon mattino, andò a cercare il di lui cadavere, e non lo trovò; non vide altro che una striscia di sangue; la seguì per iscuoprire da qual parte erano usciti, ma essa si perdeva sull'erba, e...» Emilia svenne, e sarebbe caduta in terra se Annetta non l'avesse sostenuta, ed appoggiata ad un sedile di pietra. Allorchè, dopo un lungo deliquio, Emilia ebbe ripreso l'uso dei sensi, si fece condurre al suo appartamento, non volendo udir altro per timore di riconoscere che l'incognito era Valancourt. Allorchè si credè abbastanza forte per sentir Giovanni, lo mandò a cercare; egli non potè dare nessuno schiarimento. Essa gli fece forti rimproveri per aver tirato a palla, ed ordinò di fare esatte ricerche per iscoprire chi fosse il ferito, ma indarno. Più essa vi riflettea, e più convincevasi che fosse Valancourt. Alfine l'inquietudine le cagionò un'ardentissima febbre, che l'obbligò a letto per qualche giorno. La sua indisposizione e gli affari avevano già prolungato il di lei soggiorno a Tolosa al di là del tempo prefisso. La sua presenza ormai era necessaria alla valle: ricevè una lettera da Bianca, nella quale l'informava che il conte e lei, essendo tuttavia presso il barone di Santa-Fè, si proponevano al loro ritorno di andare a trovarla al di lei castello, se vi fosse stata, aggiungendo che le avrebbero fatta questa visita colla speranza di ricondurla a Blangy. Emilia, rispose all'amica che fra pochi giorni sarebbe stata alla valle; fece in fretta i preparativi di viaggio, e partì sforzandosi di credere che se fosse accaduto qualche sinistro a Valancourt, ne sarebbe stata in qualche modo informata. CAPITOLO XLIX Il dì dopo, Emilia arrivò al suo castello della valle verso il tramonto. Alla malinconia inspiratale dal luogo già abitato da' suoi genitori, e dove aveva passato anni felici, si unì tosto un tenero infinito piacere. Il tempo aveva smussato i dardi del suo dolore, ed allora rivedeva con compiacenza tutto ciò che rinnovavale la memoria de' suoi cari; le pareva che respirassero ancora in tutti quei luoghi ove li aveva veduti, e sentiva che la valle era per lei il più delizioso soggiorno. La prima stanza che visitò fu la sua libreria, ove, seduta sulla poltrona del padre, riflettè con rassegnazione al quadro del passato. Poco dopo il suo arrivo ricevè la visita del venerabile Barreaux, che venne con premura ad accogliere l'unica figlia del suo rispettabile vicino, in una casa troppo lungamente derelitta. La presenza del vecchio amico fu di grande conforto per Emilia; la loro conversazione fu per amendue interessante, e si comunicarono reciprocamente le circostanze principali di quanto era accaduto. La mattina di poi, la giovine andò a passeggiare nel giardino gustando con tenera avidità il piacere di vagare sotto quegli alberi, piantati dal diletto genitore, ciascuno dei quali le ne rammentava la bontà i discorsi, il sorriso. Prima sua cura fu d'informarsi della vecchia Teresa, stata crudelmente licenziata da Quesnel senza veruna pensione, quando affittò quei beni. Avendo saputo ch'ella viveva in una casuccia poco lontana, vi andò subito, e fu lieta di trovarla sana ed allegra; essa si occupava a potar viti, ed appena la povera vecchia riconobbe Emilia, le saltò al collo, gridando: «Ah! mia cara padroncina, io credeva di non rivedervi più; ma ora son contenta. Sono stata maltrattata assai; non aspettava certo nella mia età di essere scacciata in tal guisa.» Entrate nell'abituro rustico, ma decentissimo, Emilia si congratulava seco lei di averla trovata in quell'abitazione passabilmente bella nella sua sventura. Teresa la ringraziò colle lagrime agli occhi. «Sì, signora,» le disse, «è anche troppo bella per me, grazie all'amico caritatevole che mi ha strappato dalla miseria. Voi eravate troppo lontana per aiutarmi: egli mi ha messa qui, ed io credeva quasi... ma non parliamone più. --Chi è dunque quest'ottimo amico? chiunque ei sia diverrà anche il mio. --Ah! signora padrona, egli mi ha proibito di palesare la sua buon'azione, e perciò non posso nominarvelo. Ma come siete cambiata dacchè non vi ho veduta! Siete pallida e magra! Ma, a proposito, che fa adesso quel caro signor Valancourt? Sta bene?» Emilia, agitatissima, non le rispose; Teresa continuò: «Dio lo ricolmi di benedizioni! Mia cara padrona, di grazia, non siate meco così riservata; credete voi ch'io non sappia ch'egli vi ama? Quando foste partita, veniva sempre al castello. Com'era afflitto! Voleva entrare in tutte le stanze, qualche volta stava a sedere colle braccia incrociate sul petto, senza dir verbo, tutto pensieroso. A un tratto si scuoteva e mi parlava di voi! e con che fuoco, con qual passione! Io lo amava appunto per questo... Quando poi il signor Quesnel ebbe affittato il castello, io credeva che il cavaliere impazzisse dal dolore. --Teresa,» disse Emilia con serietà, «non mi nominate più il cavaliere. --Non nominarvelo più! e per qual ragione! Io amo il cavaliere quasi quanto voi. --Potrebbe anche darsi che spendeste male il vostro amore,» soggiunse Emilia cercando di nascondere le lacrime; «ma, checchè ne sia, noi non ci rivedremo mai più. --Gran Dio, che ascolto! Il mio amore non può esser più giusto. È lo stesso signor Valancourt che mi regalò questa casa, e sorresse la mia vecchiaia dal momento che il signor Quesnel mi bandì da casa vostra. --Il cavalier Valancourt?» disse Emilia tutta tremante. --Sì, signora, lui appunto, sebbene gli abbia promesso di non nominarlo. Fu egli che mi comprò questa casetta, e mi diè il denaro necessario per istabilirmivi. Ordinò inoltre al fattore di suo fratello di pagarmi regolarmente trenta franchi al mese. Ora, giudicate, signora padrona, se posso dirne male? Temo solo che la sua generosità abbia oltrepassato le sue forze; sono ormai tre mesi che non ricevo nulla. Ma non piangete, signorina; mi lusingo che non sarete meco in collera per avervi raccontato i benefizi del cavaliere? --In collera!» sclamò Emilia, e versava lagrime in copia. «Quanto tempo è che non l'avete veduto? --Oimè! non ne ho più avuta notizia dacchè egli partì improvvisamente per la Linguadoca; veniva allora da Parigi, e, come vi diceva poc'anzi, son tre mesi che il fattore non mi manda la mia pensione. Comincio a temere che gli sia accaduta qualche disgrazia. Se non fossi così lontana da Estuvière, e potessi camminare, sarei già andata ad informarmi di lui.» L'ansietà d'Emilia era divenuta insopportabile; essa non poteva convenientemente mandare dal fratello di Valancourt; ma pregò Teresa di far partire, a nome suo però, un espresso per informarsi dal fattore sul destino del cavaliere. Si fece promettere dalla vecchia di non nominarla mai in questo affare, e di non parlarne neppure al giovane. Teresa trovò subito il mezzo di contentar la padrona. Emilia le diè qualche denaro, e tornò al castello più afflitta che mai: non poteva persuadersi che un cuore benefico come quello di Valancourt si fosse lordato di vizi, e sentivasi commossa dalla sua prova di bontà per la povera Teresa. CAPITOLO L Nell'intervallo, il conte di Villefort e Bianca avevano passato quindici giorni nel castello del barone di Santa-Fè. Avevan fatte molte gite ne' Pirenei ed ammiratene le bellezze. Il conte erasi separato dagli amici con dispiacere, quantunque dovessero in breve formare una sola famiglia, essendosi stabilito, che il giovane Santa-Fè, il quale l'accompagnava in Guascogna, avrebbe sposato Bianca appena giunti a Blangy. La strada che andava alla valle era nella parte più alpestre de' Pirenei ed impraticabile alle carrozze. Il conte noleggiò muli per sè e per tutto il suo seguito; prese due guide bene armate e pratiche di quelle montagne, le quali vantavansi di conoscere tutti i sentieri, non che la posizione delle scarse capanne di pastori, presso le quali dovevano passare. Il conte partì di buon'ora coll'intenzione di passar la notte in un'osteriuccia a mezza strada dalla valle, di cui avevangli parlato le guide, e dove solevan riposare i mulattieri spagnuoli. Dopo una giornata d'ammirazione e di fatiche, i viaggiatori trovaronsi in una valle coperta di boschi, e circondata da alture scoscese. Avevano già percorse molte leghe senza incontrare una sola abitazione, e udendo solo tratto tratto i campanelli degli armenti, quando intesero da lontano una musica bizzarra, e videro sopra un'eminenza un gruppo di montanari che ballavano allegramente. Il conte si fermò per godere di quella festa campestre. Erano contadini spagnuoli e francesi che abitavano in un villaggio poco distante. Villefort sospirava pensando che le grazie ed i piaceri innocenti fiorivano nella solitudine, rifuggendo dalle città incivilite. Il sole aveva già percorsa metà della sua carriera, ed i viaggiatori, riflettendo che non avevan tempo da perdere, si rimisero in cammino. Strada facendo, Bianca osservava in silenzio quelle solitudini, sentiva il lene stormir degli abeti, ed a misura che il sole scendeva all'occaso, sentivasi colta da insolita malinconia. Domandò al padre, quanto fosse ancor distante l'osteria, e se la strada era sicura di notte. Il conte ripetè alle guide la prima di queste due domande: n'ebbe risposta ambigua; e soggiunsero che se la notte si avanzava, sarebbe stato meglio fermarsi, finchè sorgesse la luna. «Ma adesso non si può forse viaggiare con sicurezza?» disse il conte. Le guide l'assicurarono che non eravi nessun pericolo, ed andarono innanzi. Bianca, tranquillata da tale risposta, si compiaceva ad osservare i progressi della notte. Il giovine Santa-Fè, la cui immaginazione, scevra da timore, vedeva in ogni cosa oggetti d'ammirazione, faceva osservare a Bianca i punti di vista più interessanti. La notte diveniva più cupa, e negre nubi ne raddoppiavano l'oscurità; le guide proposero di aspettare il sorger della luna, aggiungendo che il tempo minacciava. Guardando intorno per trovare un ricovero, scorsero un oggetto sulla punta d'una rupe. La curiosità li spinse ad andar a veder cosa fosse, e quando furono a poca distanza scorsero una gran croce piantata colà a mo' di monumento per attestare ch'eravi stato commesso un omicidio. L'oscurità non permise di leggerne l'iscrizione; ma le guide si rammentarono allora esservi stata eretta in memoria del conte Beliard, stato ucciso da una banda di malfattori che infestavano i Pirenei qualche anno addietro. Bianca fremè all'udir raccontare alcune orribili particolarità sul destino delle sventurato conte. Una delle guide le narrava con voce sommessa, come se i suoi propri accenti gli facessero paura. Mentre i viaggiatori ascoltavano quel racconto cominciò a lampeggiare, laonde ripartirono tosto in traccia di qualche ricovero. Tornati sulla strada, le guide si misero a narrare molte istorie di rapine, e d'assassinii commessi in quei luoghi medesimi, aggiungendo molte ciarle e millanterie sul loro coraggio, e sul modo maraviglioso con cui n'erano sfuggiti. La guida meglio armata cavò dalla cintura una delle sue quattro pistole, e giurò che quell'arme aveva purgata la terra in quell'istesso anno da tre assassini. Sguainò quindi uno stile lunghissimo, accingendosi a raccontare le prodezze in cui aveva figurato; ma Santa-Fè, accortosi che cotesto racconto affliggeva Bianca, cercò d'interromperlo. Infine, minacciando il tempo ognor più, rifugiaronsi in una grotta che scorsero appiè dei dirupi al chiaror de' baleni. Una guida accese un buon fuoco, e quella fiamma, insieme al riposo, fu di gran sollievo ai viaggiatori. I servi del conte trassero fuori alcune provvigioni, ed imbandirono una buona cena. Dopo essersi rifocillati, Santa-Fè ascese la rupe dirimpetto. Tutto era tenebre, e nulla turbava in quel punto il silenzio notturno, meno il mormorio del vento, il rimbombo lontano dei tuoni e le voci della carovana. Il giovine osservava il quadro che formavano i viaggiatori sotto la grotta. La figura elegante di Bianca contrastava colla maestà del conte, assiso accanto a lei sopra una pietra. Gli abiti grotteschi e le figure spiccate delle guide e dei servi situati in fondo alla grotta, producevano un bellissimo effetto. La luce della fiamma faceva parer pallida la faccia dei circostanti, e scintillare le armi, imporporando al contrario le foglie d'un castagno gigantesco, che ombreggiava la grotta, e questa tinta si confondeva gradatamente coll'oscurità del resto della scena. La luna spuntò alfine ad oriente; e mentre Santa-Fè contemplava con ammirazione il suo disco atraverso le nubi, fu scosso dalle voci delle guide che lo chiamavano. Tornò subito alla grotta, e la di lui presenza calmò Bianca ed il conte, inquieti per la sua assenza. La burrasca che cominciava ad imperversare li obbligò a trattenersi colà. Il conte in mezzo alla figlia ed a Santa-Fè, procurava distrarre la prima, parlandole dei fatti celebri avvenuti in que' monti. D'improvviso, udirono latrare un cane. I viaggiatori ascoltarono con qualche speranza; il vento soffiava forte, e le guide parvero non dubitar più, a quel segno, di essere vicini all'osteria che cercavano. Il conte allora si decise a proseguire il suo cammino. I viaggiatori, diretti dai latrati del cane, costeggiarono nuovamente il precipizio, preceduti da una torcia a vento, che le guide avevano per mero caso. Si udiva il cane ora più, ora meno; talvolta cessava, e le guide cercavano dirigersi verso quella parte. Tutt'a un tratto il fracasso, spaventoso d'una cascata giunse al loro orecchio, e trovaronsi in faccia ad un burrone. Bianca scese dalla mula; il conte e Santa-Fè fecero altrettanto, le guide andarono in traccia di un ponte che potesse condurli dalla parte opposta, dove chiaro appariva trovarsi il cane; e confessarono alfine che avevano smarrita la strada. Trovarono da ultimo un passaggio pericolosissimo formato da due grossi abeti con rami d'albero e terra sopra. Tutta la comitiva fremeva all'idea di traversare un ponte di quella sorta. I mulattieri nondimeno si disposero a passare con le loro bestie. Bianca, tremante sull'orlo del torrente, ascoltava il mormorio dell'acqua, che a quel debolissimo chiaro di luna si vedeva precipitare dalle rupi in mezzo ad abeti d'altezza smisurata, e inabissarsi quindi in un'immensa voragine. Le povere mule traversarono il ponte colla precauzione lor dettata dall'istinto naturale. Quell'unica torcia, di cui fino a quel momento non era stato conosciuto il prezzo, fu pe' viaggiatori un tesoro inestimabile. Bianca, fattasi coraggio, preceduta dall'amante, ed appoggiata al braccio del padre, all'incerta luce della torcia, toccò finalmente l'opposta riva. Nell'avanzarsi, le montagne si ristringevano, non formando più che una gola angustissima, in fondo alla quale scorreva con fragore il torrente. I viaggiatori intanto si consolavano nell'udire del continuo abbaiare il cane, che forse vegliava all'ingresso di qualche capanna. Guardando attorno, videro in distanza scintillare un lume a considerevole altezza. Si vedeva esso e si perdeva a misura che i rami degli alberi ne intercettavano o ne scoprivano i raggi. I mulattieri chiamarono ad alta voce, ma nessuno rispose. Finalmente, credendo di non poter essere intesi a quella distanza, spararono una pistola. Il rumore dell'esplosione, ripetuto dagli echi, fu la sola risposta, cui successe assoluto silenzio. Il lume però si vedeva più distintamente. Poco dopo udirono un suono confuso di voci. I mulattieri rinnovarono le loro grida; ma le voci tacquero, ed il lume sparì. Bianca soccombeva quasi all'inquietudine ed alla stanchezza. Il conte e Santa-Fè andavano incoraggiandola, allorchè distinsero una torre dalla parte ov'erasi veduto il lume. Villefort, alla di lei situazione ed a qualche altra circostanza, non dubitò più non fosse una torre d'osservazione, e persuaso che il lume venisse di là, procurò di rianimare la figlia colla prospettiva dell'imminente riposo in un luogo fortificato, ancorchè senza comodi. «Nei Pirenei fu fabbricato un gran numero di queste torri,» disse il conte, procurando distrarre l'attenzione di Bianca. «Il metodo che s'impiega per avvisare dell'avvicinarsi del nemico come voi sapete, è di accendere un gran fuoco in cima di esse. Gli antichi forti e le torri che difendono i passi più importanti son custoditi con molta cura. Alcune vennero abbandonate, e son divenute per lo più l'abitazione pacifica di qualche cacciatore o pastore. Dopo una giornata faticosa, la sera, accompagnati dai loro fedeli cani, tornano presso un buon fuoco a gustare il frutto della caccia, od a contare gli armenti. Qualche volta servono anche d'asilo ai contrabbandieri, i quali fanno un immenso commercio in queste montagne; talvolta si spediscono truppe per distruggerli. Il coraggio disperato di questi avventurieri li fa affrontare impavidamente i soldati; ma non sono mai i primi ad attaccare, quando possono farne a meno. I militari poi, i quali non ignorano che, in simili scaramucce, il pericolo è certo, e la gloria molto dubbia, non si danno gran premura di combatterli. Ma ecco la torre che cerchiamo.» Bianca, osservando attentamente, si vide appiè di una rupe sulla quale sorgea la torre. Non vi si scorgeva alcun lume: i cani non latravano più, e le guide cominciarono a dubitare di essersi nuovamente ingannate. Al fioco chiaror della luna, quasi sempre coperta dalle nubi, riconobbero che quell'edifizio aveva un'estensione maggiore d'una semplice torre d'osservazione. Tutta la difficoltà dunque consisteva allora nel salire lassù, nè si vedeva nessuna traccia di strada. Le guide presero la torcia per iscuoprirne il sentiero. Il conte, Bianca e Santa-Fè restarono appiè della rupe, e gli uomini deliberarono in segreto, se, trovandone anche la strada, la prudenza, permetteva d'entrare in un edifizio che poteva anche essere un covo d'assassini. Rifletterono nondimeno che il loro seguito era numeroso e ben armato, e calcolando il pericolo di passar la notte a cielo scoperto, esposti alla pioggia ed alla burrasca, risolsero cercare ad ogni costo di farsi ricevere. Un grido delle guide fissò la loro attenzione. Un servo tornò ad annunciare la scoperta della strada; si affrettarono dunque raggiungerle salendo un angusto sentiero in mezzo ai cespugli ed ai rovi. Dopo molta fatica, ed anche con pericolo, giunsero sullo spianato. Alcune torri rovinate, circondate da un grosso muro, si offersero ai loro sguardi. L'esteriore di quell'edifizio annunziava un totale abbandono; ma il conte, conservando tutta la sua prudenza, disse sottovoce: «Camminate piano finchè abbiamo esaminato questi luoghi.» Si trovarono tosto in faccia ad un'immensa porta rovinata. Dopo qualche incertezza penetrarono in un recinto dove sorgea il fabbricato. Riconobbero allora che non era un semplice posto, ma un'antica fortezza abbandonata, di stile gotico; le sue torri erano enormi e le fortificazioni in proporzione. L'imponenza dell'edifizio risaltava ancor più per la rovina e la degradazione dei muri quasi distrutti, e pel disordine delle macerie sparse qua e là nell'immenso recinto solitario e coperto d'erbe selvatiche. Nel cortile d'ingresso un'annosa querce giganteggiava. La fortezza era stata importantissima: essa dominava il vallone, poteva arrestare il nemico e difendersi con facilità. Il conte, esaminandola attentamente, restò sorpreso di vederla negletta. Tanto abbandono e tanta solitudine gl'inspiravano malinconia. Mentre continuava le sue osservazioni, gli parve di distinguer voci nell'interno. Considerò la facciata, e non vide alcun lume. Fatti alcuni passi, udì latrare un cane, e parvegli riconoscer quello la cui voce li aveva guidati fin là, non si poteva più dunque dubitare che il luogo non fosse abitato; ma il conte, titubante, consultossi di nuovo con Santa-Fè. Dopo un secondo esame, le ragioni che li avevano decisi in principio, gli parvero convincentissime per tentar di passare la notte al coperto. Bussarono dunque al portone: i cani ricominciarono ad abbaiare, ma nessuno rispose: tornarono a batter più forte, ed allora udirono un mormorio di voci lontane; pareva adunque che gli abitanti di quel luogo avessero udito battere, e le precauzioni che prendevano per rispondere, ne fecero concepire un'opinione favorevole. «Io credo che siano cacciatori,» disse il conte, «i quali abbiano cercato come noi un asilo in queste mura: sembra che temano in noi de' veri banditi: convien dunque rassicurarli. Noi siamo amici,» gridò ad alta voce, «e cerchiamo asilo per istanotte.» Allora udì camminare, ed una voce dimandò: «Chi va là?» «Amici,» rispose il conte; «aprite, e saprete tutto.» Fu tirato il catenaccio, si presentò sulla porta un uomo col lume in mano, vestito ed armato come un cacciatore, e disse: «Che cercate ad ora sì tarda?» Il conte rispose che aveva smarrita la strada, e che, se caso mai non potessero accordargli ricovero per poche ore, lo pregava ad insegnargli la via dell'abitazione o capanna più vicina. «Conoscete poco le nostre montagne,» rispose colui; «non se ne trova se non a qualche lega distante: io non posso insegnarvene la strada; e giacchè c'è la luna, cercatela da per voi.» Sì dicendo, accingevasi a chiuder la porta, quando parlò un'altra voce, ed il conte vide un altro lume, ed un uomo alla ferriata d'una finestra di sopra al portone. «Restate, amici,» disse questi; «vi siete smarriti, e senza dubbio siete cacciatori come noi.» Allora gli fu aperta la porta: alcuni uomini si presentarono all'ingresso dicendo al conte che entrasse ed invitandolo a passar la notte nella loro abitazione. Gli fecero un'accoglienza cortese, e gli offrirono di divider seco la loro cena già preparata. Il conte li osservava attentamente, e benchè circospetto, ed anche sospettoso, la stanchezza, il timore della tempesta, e sopra tutto la sicurezza che inspiravagli il suo numeroso corteggio, l'indussero ad accettar l'offerta. Fece entrar la sua gente, e furono condotti tutti insieme in un'immensa sala, illuminata in parte da un gran fuoco, intorno al quale stavano seduti due uomini in abito da cacciatore, che facevano arrostire carne sulla graticola, con alcuni cani accovacciati ai loro piedi. In mezzo alla sala eravi una gran tavola. Quando il conte si avvicinò, coloro si alzarono, ed i cani ricominciarono a latrare, ma, ad un cenno dei padroni, tornarono al loro posto. Bianca osservava minutamente quella sala oscura e spaziosa, quegli uomini, e suo padre che sorrideva. «Ecco,» disse il conte, «un buon fuoco adattatissimo per l'ospitalità; la fiamma fa piacere dopo aver viaggiato molto per questi deserti selvaggi. I vostri cani sembrano stanchi: avete fatta una buona caccia? --Secondo il solito,» rispose uno di coloro; «noi torniamo quasi sempre carichi di cacciagione. --Son cacciatori come noi,» disse uno di quelli che avevano introdotto il conte; «eransi smarriti, ed io li accolsi dicendo che c'era posto per tutti. --È vero, è vero,» rispose il suo compagno. --V'ingannate, amico,» disse il conte; «noi siamo viaggiatori. Trattateci però come cacciatori, che ne saremo contenti, e sapremo ricompensare la vostra cortese accoglienza. --Sedete dunque,» rispose un altro. «Giacomo, metti legna sul fuoco: mi pare che l'arrosto sia all'ordine. Dà una sedia a questa signorina: di grazia, assaggiate la nostra acquavite, ch'è di Barcellona, e di prima qualità.» Bianca sorrise con timidezza, e non voleva accettarla, ma suo padre la prevenne prendendo egli stesso il bicchiere. Santa-Fè, seduto vicino a lei, stringendole la mano, la incoraggi con un'occhiata; ma ella occupavasi d'un uomo che taciturno vicino al fuoco, fissava costantemente Santa-Fè. «Voi fate una vita deliziosa,» disse il conte; «la vita del cacciatore è piacevole e salubre, ed il riposo è più caro allorchè succede alla stanchezza. --Sì,» rispose uno degli ospiti, «la nostra vita è piacevolissima, ma solamente nella stagione d'estate e d'autunno; nell'inverno, questi luoghi sono orribili, e non si può fare veruna caccia. --È una vita libera ed amena,» soggiunse il conte; «passerei volentieri un mese con voi. --A proposito,» disse Giacomo, «non mi rammentava che abbiamo tordi; Pietro, va a prenderli; li cuoceremo per questi tre signori.» Il conte fece alcune interrogazioni sul loro modo di cacciare, ed ascoltava attento e con molta compiacenza i loro curiosi dettagli, quando si udì il suono d'un corno. Bianca guardò il padre: ma egli continuava il suo discorso, quantunque girasse spesso gli occhi verso la porta con qualche inquietudine. «Sono i nostri compagni,» disse negligentemente uno di quegli uomini. Comparvero di lì a poco due altri col moschetto in ispalla e le pistole alla cintura. «Ebbene, fratelli, avete fatto buona caccia? Se portate nulla, non avrete da cena. --Chi diavolo son costoro?» dissero essi in cattivo spagnuolo, accennando il conte ed il suo seguito. «Sono Spagnuoli o Francesi? Dove li avete incontrati? --Son loro che hanno incontrato noi,» disse Giacomo in francese, «e l'incontro è gradevolissimo. Il cavaliere e la sua comitiva s'erano smarriti in queste montagne, e ci hanno chiesto di passar la notte nel forte.» Gli altri non risposero nulla, e cavarono da una bisaccia una gran provvisione di uccelli: quindi lasciarono cascare in terra la bisaccia, che risuonò facendo conoscere che conteneva una quantità non indifferente di monete. Il conte allora, insospettito, considerò colui che la portava. Era un uomo grande e robusto, di faccia audace, ed invece di un abito da cacciatore, vestiva una divisa militare logora; i suoi sandali laceri erano affibbiati sulle gambe nude e nerborute; portava in testa una specie di berretto di cuoio somigliante molto ad un antico elmo romano. Il conte alla perfino abbassò gli occhi, e restò muto e pensieroso. Nel rialzarli, vide in un canto della sala l'uomo che non cessava di guardare Santa-Fè, il quale parlava con Bianca e non gli badava. Poco dopo, vide quell'istesso uomo battere sulla spalla del soldato, egualmente attento ad osservare Santa-Fè; egli, vedendo che il conte lo guardava, volse gli occhi altrove, ma Villefort concepì qualche diffidenza, che però non volle esternare, e facendo ogni sforzo per sorridere, si mise a parlar con Bianca. Poco dopo rialzò gli occhi, ma il soldato ed il suo compagno erano scomparsi. Colui che si chiamava Pietro ritornò quasi nell'istesso momento dicendo: «Il fuoco è acceso, e gli uccelli son pelati. Ceneremo in un'altra stanza più piccola ma più calda di questa.» Tutti i compagni applaudirono, ed invitarono gli ospiti a seguirli. Bianca parve afflitta di cotesto cambiamento, e se ne stava al suo posto. Santa-Fè guardò il conte, il quale dichiarò che avrebbe preferito di non uscir dalla sala. I cacciatori però reiterarono le loro istanze con tanta cortesia, che Villefort, malgrado i suoi dubbi e temendo di manifestarli, acconsentì finalmente ai loro inviti. Gli anditi lunghi e rovinati pei quali li fecero passare lo spaventarono; ma il rumoreggiar del tuono, che aveva già cominciato a farsi udire, non permetteva più di uscire da quel luogo a notte così avanzata, ed il conte temeva di provocare i suoi conduttori, lasciando travedere la sua diffidenza. I cacciatori lo precedevano. Il conte e Santa-Fè, desiderando amicarseli, affettando famigliarità, portavano una sedia per ciascheduno, e Bianca li seguiva lentamente. Il di lei abito si attaccò ad un chiodo d'un uscio, e fu costretta a fermarsi per liberarsene. Il conte, che parlava con Santa Fè, non se ne accorse, e svoltando essi da un'altra parte dietro i cacciatori, Bianca restò sola in perfetta oscurità. Chiamò il padre; ma la burrasca aumentava, e lo scroscio dei fulmini impedì loro di udirla. Appena ebbe staccato l'abito dal chiodo, seguitò con celerità il cammino per dove credeva fossero andati. Un lume che vide da lontano la confermò in quest'idea. Si avanzò verso una porta aperta, credendo trovare la stanza ove dovevano cenare. Sentì alcune voci, e s'arrestò a qualche distanza per assicurarsi di non essersi ingannata. Al debole chiarore d'una lampada vide quattro uomini intorno ad una tavola, i quali sembravan tener consiglio, e riconobbe fra loro colui che aveva fissato Santa-Fè con tanta attenzione: egli parlava con veemenza, benchè sottovoce. Un altro pareva contraddirlo, rispondendo con piglio imperioso. Bianca, inquieta di non trovarsi vicina nè al padre, nè a Santa-Fè e spaventata dall'aspetto di coloro, stava per allontanarsi, allorchè udì dire ad uno di coloro: «Non litighiamo più. Seguite il mio consiglio, e svanirà ogni pericolo. Assicuratevi di quei due; il resto è una preda facilissima.» Bianca allarmata da queste parole, volle sentire qualche cosa di più. «Non si guadagnerebbe nulla col resto,» disse un altro; «io non son mai di parere di versare il sangue, quando si può risparmiarlo. Sbrigatevi di quei due, e il nostro affare è fatto; gli altri potranno andarsene. --Oibò!» disse il primo, bestemmiando orribilmente; «andrebbero a dire ciò che abbiamo fatto dei loro padroni, verrebbero le truppe reali, e ci trarrebbero al supplizio. Bravo! tu dai sempre di buoni consigli; ma io però mi rammento il giorno di san Tommaso dell'anno scorso.» Bianca fremè d'orrore. Il suo primo sentimento fu quello di fuggire, ma pensò che, ascoltando ancora, avrebbe forse potuto esser a tutti di qualche utilità, ed intese il dialogo seguente: «E perchè non ammazzarli tutti? --Giuraddio! La nostra vita è cara più della loro; se non li ammazziamo, ci faranno impiccare. --Sì, sì,» gridarono tutti. --Commettere un omicidio è il mezzo più sicuro per iscansare la ruota,» disse il primo brigante. --Dove diavolo sono andati stasera gli altri nostri compagni?» disse un altro con impazienza; «se erano qui, a quest'ora la faccenda era già spicciata. Non potremo far il colpo stanotte, perchè il seguito è più numeroso di noi. Appena farà giorno vorranno partire; e come impedirlo senza impiegar la forza? --Ho formato un bel piano,» disse un altro. «Se possiamo sbrigare cheti cheti i due padroni, tutto il resto ci darà poca pena. --È un piano maraviglioso,» rispose un altro ironicamente. «Se io posso fuggire di prigione, sarò certamente in libertà! Come vuoi far tu a sbrigarli cheti cheti? --Col veleno,» rispose colui. --Ben pensato!» disse un'altra voce; «così la mia vendetta sarà pienamente soddisfatta con una morte più lenta. Un'altra volta i signori baroni impareranno a non irritarla. --Ho riconosciuto subito il figlio, appena l'ho veduto,» disse uno, che Bianca riconobbe per l'individuo che fissava Santa-Fè; «ma non mi rammento più la fisonomia di suo padre. --Potete dire tutto quello che volete,» soggiunse un altro, «ma io scommetterei che quello non è il barone. Lo conosco bene quanto voi, giacchè io era uno di quelli che l'attaccarono coi nostri bravi colleghi che son periti. --Che! forse non c'era anch'io?» disse il primo. «Vi assicuro che è il barone. Ma cosa importa che sia o non sia lui? Dovremo perciò lasciarci sfuggire questo bottino? non ci capitano tanto spesso sì fatte avventure. Quando si arrischia la ruota per frodare una pezza di raso, rompendosi il collo attraverso precipizi; quando svaligiamo un infelice viaggiatore, o qualche contrabbandiere nostro collega, che c'indennizzano appena della polvere che ci costano, ci lasceremo noi scappare questa ricca preda? Hanno seco denari ed oggetti di valore... --Non è per questo, non è per questo,» disse il terzo; «prenderemo quel che troveremo. Ma, se è il barone, voglio dargli un colpo di più, in onore dei nostri bravi compagni che fece andare al patibolo. --Sì, ciarlate quanto volete, io vi ripeto che il barone è di statura più alta. --Maledette le vostre liti,» disse il secondo; «dovremo noi lasciarli partire sì o no? Ecco ciò che dobbiamo decidere. Se perdiamo ancora tempo, sospetteranno il nostro progetto, e se ne andranno subito. Siano pure quel che si vogliono, mi sembrano ricchi; hanno tanti servitori! Avete osservato il brillante che aveva il conte? ma ora lo ha nascosto, essendosi accorto ch'io lo guardavo. --Sì, è bellissimo, e quel ritratto che pende al collo della giovine, contornato di diamanti? --Convien dunque pensare ad assicurarsene,» dissero gli altri; «li avveleneremo; ma ricordiamoci che il loro seguito è composto di nove o dieci persone bene armate. Noi siamo in sei soli. Potremo attaccarne dieci a forza aperta? Diamo intanto il veleno, e poi penseremo al resto. --Io vi consiglierò un altro mezzo più sicuro,» disse uno di coloro impazientemente; «sentite.» Bianca, che ascoltava tal diverbio con orribile ambascia, non potè sentir più nulla, perchè coloro si parlarono sottovoce. La speranza di salvare il padre, Santa-Fè e tutto il seguito, se poteva raggiungerli subito, le somministrò all'improvviso forza novella, e si diresse di volo verso il corridoio. Il terrore e l'oscurità cospirarono allora contro di lei. Appena ebbe fatto qualche passo, urtò in un gradino, all'ingresso del corridoio, e cadde al suolo. I masnadieri si riscossero a tal rumore, e precipitaronsi immediatamente fuori per assicurarsi se ci fosse qualcuno che ascoltasse i loro discorsi. Bianca li vide avvicinarsi, e prima che potesse alzarsi, la presero per un braccio, la trascinarono nella stanza e le sue strida non servirono che a ricevere le più spaventose minacce. Consultarono su quel che dovevan fare di lei. «Procuriamo prima di sapere ciò ch'essa ha inteso,» disse uno di loro. «Da quanto tempo eravate nel corridoio? Ed a far che?» le chiese colui. --Assicuriamoci intanto di questo ritratto,» disse un altro, avvicinandosi a Bianca. «Bella signorina, con vostro permesso, questo gioiello è mio: datemelo, o ve lo prendo.» Bianca, chiedendo misericordia, gli diè il medaglione, ed intanto un altro ladro l'interrogava con fiero cipiglio. La sua confusione ed il suo spavento spiegavano troppo chiaramente quel che la sua lingua non ardiva confessare. I briganti si guardarono con aria significante, e due di essi ritiraronsi in un canto, come per deliberare. «Giur'al cielo! Sono brillanti di molto valore,» disse colui che guardava il medaglione; «anche il ritratto è bello: senza dubbio sarà quello di vostro marito, signora, che m'immagino debba essere il giovine cavaliere ch'era in vostra compagnia.» Bianca, smarrita e disperata, lo scongiurava di aver pietà di lei: gli diè la sua borsa, e gli promise di tacere, se la riconduceva ai suoi compagni di viaggio; sorrideva egli ironicamente alle di lei parole, allorchè un rumore lontano fissò la di lui attenzione. Mentre ascoltava, afferrolla pel braccio con violenza, quasi temendo ch'ella volesse fuggire. Bianca gridò aiuto. Il rumore, avvicinandosi, scosse i banditi dalla loro irresolutezza. «Siamo traditi,» dissero essi; «ma potrebbe darsi che fossero i nostri colleghi di ritorno dalla scorreria: in tal caso l'affare è fatto: ascoltiamo meglio.» Una scarica in lontananza confermò la loro supposizione; ma il primo rumore si avvicinava sempre più: si udiva uno strepito d'armi, il fracasso di una zuffa, e qualche gemito che partiva dal fondo del corridoio. I briganti allora prepararono le armi: fu suonato un corno al di fuori; tre di essi lasciarono Bianca in custodia del quarto, ed uscirono a precipizio. Intanto che Bianca, tremante e confusa, implorava pietà, riconobbe la voce di Santa-Fè, il quale comparve tutto coperto di sangue ed inseguito da alcuni banditi. Bianca non vide, non sentì più nulla, e cadde svenuta nelle braccia di chi la teneva. Appena riacquistò l'uso de' sensi, riconobbe, all'incerta luce che vacillava intorno a lei, d'esser sempre nella medesima stanza. Restò alcun momento nell'incertezza e nello stupore. Un sordo gemito vicino a lei la fece memore di Santa-Fè, e dello stato in cui l'aveva veduto; allora alzandosi, si avanzò dalla parte d'onde veniva il sospiro. Non tardò molto a riconoscere, in un corpo steso sul pavimento, Santa-Fè pallido e sfigurato, che non poteva parlare. Aveva gli occhi chiusi, ed una delle sue mani, ch'ella prese nell'ambascia della disperazione, era bagnata di freddo sudore. Lo chiamò per nome, e gridò aiuto; qualcuno s'avvicina, un uomo entra: non era il conte; ma qual fu la di lei sorpresa, quando, supplicandolo di soccorrere Santa-Fè, riconobbe Lodovico! Ebbe egli appena tempo di riconoscerla; si occupò subito delle ferite del cavaliere, e giudicando che l'immensa perdita del sangue cagionava probabilmente la sua debolezza, corse a cercare acqua per lavargli le ferite e fasciargliele alla meglio. Appena egli fu uscito, Bianca udì camminare, e vide entrare Villefort con una torcia nella mano sinistra, e la spada insanguinata nella destra, che, tutto anelante, chiamava impazientemente la figlia. Al suono di questa voce ben nota essa volò nelle di lui braccia. Il conte, lasciando cadere la spada, la strinse al seno con indicibil trasporto di gioia e stupore: le domandò di Santa-Fè, e lo vide per terra dando qualche segno di vita. Lodovico tornò di lì a poco ben provvisto d'acqua e di acquavite; gli applicò l'una alla bocca e l'altra alle tempie, e Bianca lo vide finalmente aprir gli occhi, domandando subito di lei. La gioia ch'essa provò in quel momento, fu subito sturbata da una nuova inquietudine: Lodovico dichiarò che bisognava senza ritardo trasportare il cavaliere. «I banditi che sono di fuori erano aspettati, e se perdiamo tempo ci troveranno qui. Sanno benissimo che il suono del corno, ad un'ora così strana, è sempre il segnale d'un estremo pericolo, e l'eco di questi monti ne porta la voce a molta distanza. Li ho veduti tornare in consimili casi dalle falde del Melicante. Avete voi appostata una vedetta all'ingresso del forte? --No,» disse il conte, «la mia gente è dispersa, e non so dove sia. Lodovico, va tosto a riunirla, ma abbi cura di te stesso, e ascolta se senti i muli.» Lodovico uscì immediatamente, ed il conte riflettè al modo di trasportar Santa-Fè, il quale non avrebbe potuto sopportare il moto d'una mula, quand'anche fosse stato in grado di reggersi in sella. Mentre il conte raccontava come i banditi fossero stati rinchiusi nella torre, Bianca osservò che era ferito anch'esso nel braccio sinistro; egli le rispose, sorridendo, quella ferita esser leggerissima. I servi, tranne due che furon lasciati alla porta della fortezza, comparvero allora tutti, preceduti da Lodovico. «Mi pare, signore,» diss'egli, «di sentir venire de' muli dal fondo della valle, ma il mormorio del torrente m'impedisce di accertarmene; ho portato meco l'occorrente pel trasporto del signor cavaliere.» Mostrò allora una gran pelle d'orso attaccata a due pertiche che formava una comoda lettiga, di cui si servivano i banditi per trasportare i loro feriti. Lodovico la spiegò, vi adattò sopra alcune pelli di capra per renderla più morbida, fasciò le ferite del cavaliere, ed avendovelo posato dolcemente, le due guide, prendendo le quattro estremità delle pertiche sulle spalle, s'incamminarono per andarsene insieme ai servitori del conte, alcuni dei quali erano stati leggermente feriti. Passando per la sala, udirono da lontano un tumulto orribile: Bianca ne fu molto allarmata. «Non temete,» disse Lodovico, «son tutti quei birbanti chiusi nella torre. --Mi sembra che atterrino la porta,» disse il conte. --È impossibile, signore,» rispose Lodovico, «perchè la porta è di ferro. Noi non abbiamo nulla da temere: intanto io andrò avanti per osservar meglio se mai si ode o non si vede nulla.» Tutti lo seguirono; dopo essere stati alcun poco in ascolto, non udirono altro che il mormorio del torrente, ed una fresca brezzolina che agitava i rami dell'antica quercia nel cortile. I viaggiatori videro allora con estremo piacere che cominciava a spuntar il giorno, e Lodovico, alla testa della comitiva, la fece scendere nella valle per un sentiero opposto a quello pel quale erano venuti colà. «Evitiamo la strada,» diss'egli, «che hanno preso i banditi stamattina.» I viaggiatori si trovarono ben presto in una strettissima valle: l'alba imbianchiva gradatamente i monti, e scopriva verdi praticelli che ricoprivan le falde delle rupi, sulle quali sorgevano le querce ed i lecci; la tempesta era cessata; l'aria del mattino e la vista di quella verzura, ancor più fresca per la pioggia della notte, rianimarono gli spiriti abbattuti della comitiva. Il sole sorse di lì a poco, e tutte le piante rosseggiarono in breve de' suoi raggi dorati; un resto di nebbia aggiravasi ancora in fondo alla valle, ma il vento la cacciava, ed a poco a poco il sole la fece sparir tutta. Dopo aver percorso una lega di cammino, Santa-Fè si querelò dell'eccessiva debolezza: sostarono per ristorarlo, e lasciar riposare i portatori. Lodovico si era munito, prima di partire, di qualche bottiglia di vino di Spagna, e ne distribuì a tutta la carovana; ma Santa-Fè non potè risentirne che un sollievo momentaneo. Una febbre ardentissima acquistò nuova forza per l'uso di questa bibita; egli non poteva nascondere i suoi orribili patimenti, nè astenersi dall'esprimere il desiderio impaziente di giungere all'osteria, in cui avevano prefisso di passar la notte precedente. Mentre riposavano tutti all'ombra degli abeti, il conte pregò Lodovico di spiegargli brevemente in qual modo fosse sparito dall'appartamento del nord, come avesse potuto cadere nelle mani di quei banditi, e contribuito in una maniera così prodigiosa a salvarlo colla sua famiglia. Il conte gli attribuiva giustamente la loro salvezza. Lodovico accingevasi ad obbedirlo, ma un colpo di pistola sparato nella strada già da essi percorsa cagionando nuovi timori, obbligò i viaggiatori a rimettersi in cammino. CAPITOLO LI Emilia intanto provava la massima inquietudine sul destino di Valancourt. Teresa trovò finalmente una persona fidata da spedire al fattore, la quale s'impegnò di tornare il giorno dopo, e Emilia promise di trovarsi alla capanna di Teresa, che, divenuta zoppa, non poteva uscir di casa. Verso sera Emilia s'incamminò sola a quella parte con tetri presentimenti. L'ora già avanzata accresceva la sua malinconia. Era la fine dell'autunno; una densa nebbia nascondeva in parte la cima dei monti, e il vento freddo, che soffiava nei faggi, copriva la via delle ultime foglie ingiallite. La loro caduta, presagio della fine dell'anno, era l'immagine della desolazione del suo cuore, e sembrava predirle la morte di Valancourt: ne provò un presentimento sì forte, che fu più volte sul punto di tornare addietro. Non aveva forza bastante per andare incontro a cotest'orribile certezza; ma lottò contro la sua emozione e continuò ad avanzare. Camminava mesta, ed i suoi occhi seguitavano il movimento delle masse vaporose che stendevansi all'orizzonte; considerava le fuggitive rondinelle, le quali, in balìa all'agitazione de' venti, ora scomparendo tra le nubi, ora aleggiando in atmosfere più tranquille, sembravano rappresentarle le afflizioni e le vicende, ond'essa era stata vittima. Aveva subìto i capricci della fortuna ed i turbini della sventura; aveva avuto qualche corto istante di calma. Ma come dare il nome di calma a ciò che non era se non la sospensione del dolore? Sfuggita ormai ai più crudeli pericoli, indipendente da' suoi tiranni, trovavasi padrona di una sostanza ragguardevole; avrebbe potuto con ragione aspettarsi di gustare la felicità; ma essa n'era più lungi che mai: sarebbesi accusata di debolezza e d'ingratitudine, se avesse sofferto che il sentimento dei beni che possedeva fosse soffocato da quello d'un solo infortunio, se questo però non avesse colpito che lei sola. Ma essa piangeva per Valancourt, e se anche egli vivesse, le lacrime della pietà si univano a quelle del rammarico, afflittissima che un uomo come lui fosse caduto nel vizio, e quindi nella miseria. La ragione e l'umanità reclamavano assieme le lacrime dell'amicizia, ed il suo coraggio non poteva separarle ancor da quelle dell'amore. Nel momento attuale però non la tormentava la certezza dei torti di Valancourt, bensì il timore della di lui morte; le pareva, per così dire, di essere la causa innocente di questa disgrazia. La sua inquietudine aumentava ad ogni passo, e quando vide da lontano la capanna, le mancò il coraggio di avvicinarsi e sedette sur un banco nel sentiero. Il vento che susurrava tra le frondi pareva alla sua rattristata immaginazione recar suoni queruli; ed anche negl'intervalli di calma credea udire ancora dolorosi accenti. Prestando maggior attenzione, si convinse dell'error suo, e le tenebre, divenute più folte per la prossima caduta del dì, l'avvertirono d'allontanarsi, e con passo vacillante giunse alla capanna. Traverso i vetri si vedea scintillare un buon fuoco, e Teresa, avendo veduto venire Emilia, stava sulla porta ad aspettarla. «La sera è fredda assai, signorina,» le disse ella. «Vuol piovere, ed ho creduto che un buon fuoco non dovesse spiacervi. Sedete dunque vicino a me.» Emilia la ringraziò della sua attenzione, e guardandola in volto, fu colpita dalla sua tristezza. Si gettò sulla sedia, incapace di parlare, e la di lei fisonomia esprimeva tanta disperazione, che Teresa ne comprese il motivo, eppure taceva. «Ah!» sclamò finalmente Emilia; «è inutile che me lo diciate. Il vostro silenzio, i vostri sguardi parlano abbastanza; egli è morto. --Oimè! mia cara padrona,» rispose Teresa colle lacrime agli occhi, «questo mondo è pieno di affanni. I ricchi ne hanno la lor dose come i poveri; ma procuriamo di sopportare in pace il carico che ci manda il cielo. --Egli è dunque morto?» interruppe Emilia. «Ah! Valancourt è morto! --Orribil giorno! Io ne temo,» soggiunse Teresa. --Lo temete soltanto?» --Sì, signorina, lo temo. Nè il fattore, nè verun'altra persona ha sentito più parlare di lui a Estuvière, dacchè è partito per la Linguadoca. Suo fratello ne è afflittissimo. Egli dice che scrive sempre esattamente, ma che non ha ricevuto veruna lettera da lui dopo la sua partenza: doveva esser già di ritorno da tre settimane: non ha scritto, non è tornato, e si teme che gli sia accaduta qualche disgrazia. Oimè! io non credeva di viver tanto da dover piangere la sua morte. Io son vecchia, e poteva morire senza dispiacere; mentre lui...» Emilia, quasi moribonda, chiese un po' d'acqua: Teresa, spaventata, affrettossi a soccorrerla, e mentre le porgeva l'acqua, continuò: «Cara signorina, non vi affliggete tanto; il cavaliere può essere sano e salvo. Speriamo! --Oh! no, non posso sperare,» disse Emilia. «Io so circostanze che mi piombano anzi nella disperazione; ma or mi sento meglio, e posso ascoltarvi: dettagliatemi tutto quel che avete saputo. --Aspettate d'esservi rimessa, signorina; mi sembra che stiate sì male! --Oh! no, Teresa, ditemi tutto intanto che posso ascoltarvi, ditemi tutto, ve ne scongiuro. --Ebbene,» rispose Teresa, «vi acconsento. Il fattore ha detto pochissimo. Riccardo pretende ch'egli parlasse con molto riserbo del signor Valancourt. Quel ch'egli ha saputo, gli fu confidato da Gabriello, uno dei servitori del conte, che disse essergli stato confidato da un amico del suo padrone. Dice dunque che Gabriello e tutti i servitori erano in gran pena pel signor Valancourt; ch'esso era un giovine così buono così amabile, e che lo amavano tutti come loro fratello; che non comandava imperiosamente, come tanti altri signori; che perciò era molto rispettato, e che la servitù l'obbediva volentieri al primo cenno per paura di spiacergli. Il signor conte stava in gran pena pel cavaliere, quantunque fosse andato in collera con lui ultimamente. Gabriello dice aver saputo che il signor Valancourt aveva fatte pazzie a Parigi; che aveva spesi molti denari, ed era stato perfino messo in prigione. Che il signor conte ricusava di liberarnelo, pretendendo ch'egli meritasse un tal castigo. Appena il vecchio Gregorio il cantiniere ne fu informato, fece fare un bastone a punta ferrata per andar a piedi a Parigi a trovare il padroncino; quando furono avvertiti che il signor Valancourt era di ritorno. Oh! qual gioia al suo arrivo! egli era però molto cambiato. Il conte lo ricevè freddamente, ed era afflitto. Il cavaliere partì immediatamente per la Linguadoca; e da quel momento, disse Gabriello, non se n'è saputo più nulla.» Teresa tacque; Emilia sospirava, nè ardiva sollevar gli occhi da terra. Dopo una lunghissima pausa, sclamò: «Oh! Valancourt, tu sei perduto, e perduto per sempre. E son io, son io che ti diedi la morte.» Quelle parole, quegli accenti disperati allarmarono la povera Teresa, la quale temè che quel colpo terribile non avesse alterata la ragione di Emilia. «Mia cara padrona, calmatevi,» diss'ella; «non dite di queste cose: è impossibile che voi abbiate potuto uccidere il signor Valancourt.» Emilia non le rispose che con un gran sospiro. «O mia cara signorina,» ripigliò Teresa, «il cuore mi si spezza vedendovi in tale stato, cogli sguardi fissi, pallida in volto, e sì afflitta. Mi spaventa il vedervi così.» Emilia non apriva bocca, e non parea udir nulla. «E d'altra parte, madamigella,» soggiunse la vecchia, «il signor Valancourt può essere sano ed allegro, malgrado quanto sappiam noi.» A tal nome, la fanciulla alzò gli occhi e guardolla con occhi smarriti, come se avesse cercato di capirla. «Sì, cara padroncina,» ripigliò Teresa ingannandosi sulla di lei intenzione, «il signor Valancourt può essere sano ed allegro.» Alla ripetizione di quest'ultime parole, Emilia ne comprese il senso; ma invece di produrre l'effetto che ne aspettava Teresa, parvero soltanto raddoppiare il suo dolore: si alzò bruscamente, e percorse la cameretta a veloci passi, battendo palma a palma e singhiozzando. Mentre passeggiava così il suono dolce e sostenuto d'un oboè o flauto si mescolò alla bufera. La sua dolcezza colpì Emilia; sostò tutta attenta: i suoni recati dal vento si perdettero in una raffica più forte; ma il loro accento querulo le commosse il cuore, ed ella si strusse in lagrime. «Oh!» sclamò Teresa, tergendo le lagrime; «è Riccardo il figlio del vicino che suona il suo strumento; è una musica malinconica.» Emilia continuava a piangere. «Egli suona spesso alla sera,» continuò la vecchia, «e fa ballare la gioventù. Ma, signorina, non piangete così. Venite qui vicino al fuoco che, fa freddo, e bevete un bicchier di vino per ristorarvi.» Ed accomodatale una sedia al camino, andò a cavar dalla credenza un fiasco. «Questo non è un vino ordinario,» soggiunse; «è del migliore di Linguadoca, e l'ultimo de' sei fiaschi che mi regalò il signor Valancourt quando partì per Parigi. Io non lo bevo mai senza pensare a lui, e alle sue parole piene di bontà nell'atto di consegnarmelo. _Teresa_, mi diss'egli, _voi non siete più giovine; tratto tratto dovreste bere un bicchier di vino. Io ve ne manderò qualche altro fiasco, e bevendolo ricordatevi di me, vostro amico_. Sì, furon queste le sue parole: _Di me, vostro amico!_» Emilia continuava a camminar per la stanza, senza badare alle parole di Teresa, la quale continuò: «Mi son sempre ricordata di lui; povero giovine! Egli mi donò questo ricetto e sostenne la mia vecchiaia. Ah! se è vero che sia morto, sarà in paradiso col mio rispettabile padrone.» Qui si mise a piangere, e depose il fiasco. Il suo dolore rinnovò quello di Emilia, che si avvicinò a lei, e guardolla attentamente come oppressa dalla riflessione ch'essa piangeva per Valancourt. La buona vecchia però, asciugando le lagrime, si fece coraggio, e le disse: «Per carità non v'affliggete di più; prendete, di grazia, un sorso di questo vino. Gustatelo per l'amor del signor Valancourt, che me lo ha regalato, come vi dissi.» La mano d'Emilia, che aveva preso il bicchiere, tremò, e sparse il liquore nel ritirarlo dalle labbra. «Per l'amore di chi?» sclamò ella; «chi vi ha dato questo vino? --Il signor Valancourt, cara padroncina; sapea io che vi farebbe piacere; è l'ultimo mio fiasco.» La fanciulla depose il bicchiere sulla tavola, proruppe nuovamente in un dirotto pianto, e Teresa, sconcertata e dolente, procurò di consolarla. Emilia le fe' cenno colla mano, che desiderava restar sola, e pianse sempre più forte. Un lieve colpo battuto alla porta non permise alla vecchia di lasciarla al momento. Emilia la pregò di non aprire a nessuno; ma pensando poi che poteva essere Filippo, il suo servitore, procurò di tergere il pianto, e Teresa andò ad aprire. La voce ch'ella intese attirò tutta la di lei attenzione: tese l'orecchio, volse gli occhi verso la porta, una persona comparve, e la fiamma del fuoco le fe' riconoscere... Valancourt!... Nel vederlo, si scosse da capo a piedi, tremò, e perdendo l'uso dei sensi non vide più nulla. Un grido di Teresa annunziò che anche lei aveva riconosciuto il giovane. L'oscurità, sul primo momento, non aveale permesso di distinguerlo. Egli cessò di occuparsi di lei, vedendo cadere una persona dalla sedia vicino al fuoco. Volò a soccorrerla, e s'avvide di sostenere Emilia. La commozione che provò per l'inaspettato incontro, ritrovando colei da cui si credeva diviso per sempre, tenendola pallida e svenuta fra le sue braccia, è più facile ad immaginare che a descrivere! Sarà egualmente facile figurarsi ciò che provò Emilia, allorchè riaprendo gli occhi, rivide Valancourt. L'espressione inquieta colla quale la considerava, si cambiò tosto in un misto di gioia e tenerezza. Allorchè i suoi occhi s'incontrarono in quelli di lei, e che la vide in procinto di rinvenire, potè esclamare appena: _Emilia!_ ma essa, volgendo altrove gli sguardi, fece un debole sforzo per ritirare la mano. Nei primi momenti che succedettero alle angosce dolorose, cagionate dall'idea della sua morte, Emilia obbliò tutti i falli dell'amante: lo rivide qual era nel momento in cui meritava il suo amore, ne risentì altro che gioia e tenerezza; ma oimè! fu un'illusione passaggiera! Le di lei riflessioni s'innalzarono nuovamente, come tante nubi sull'orizzonte, ad oscurare l'immagine lusinghiera che inebriava il suo cuore. Rivide allora Valancourt degradato in faccia alla società, indegno ormai della sua stima e tenerezza. Le mancò la forza, ritirò la mano, e si volse dalla parte opposta per nascondere il suo dolore. Il giovane, più agitato ed imbarazzato di lei, se ne stava muto e dolente. Il sentimento di quanto doveva a sè stessa, trattenne le sue lagrime, e le insegnò a dissimulare parte della gioia e del dolore, che facevano il più fiero contrasto nel fondo del suo cuore. Si alzò, ringraziollo della sua attenzione, salutò Teresa, e volle andarsene. Valancourt, svegliato come da un sogno, la supplicò umilmente di accordargli un momento d'attenzione. Il cuore d'Emilia perorava forte in favor suo; ma ebbe il coraggio di resistere, e non badando neppure alle suppliche di Teresa, che la pregava di non esporsi sola in tempo di notte, aveva già aperta la porta; ma la pioggia dirotta l'obbligò a rientrare. Muta, interdetta, tornò vicino al fuoco. Valancourt, inquieto, turbato, camminava a gran passi per la stanza, come se avesse temuto e desiderato di parlare. Teresa esprimeva senza ritegno la gioia e la sorpresa che le cagionava il suo arrivo. «Oh! mio caro benefattore,» diceva essa, «io non sono mai stata così contenta come in questo punto. Poco fa eravamo immerse ambedue nella massima afflizione per causa vostra; credendo che foste morto, parlavamo di voi, e piangevamo insieme; in quella appunto bussaste alla porta: la mia cara padrona versava calde lagrime.» Emilia guardò Teresa in atto di disapprovazione; ma, prima ch'ella potesse parlargli, Valancourt, incapace di contenersi ulteriormente, esclamò: «Mia Emilia, vi son io dunque tuttavia caro? Voi mi onorate d'un pensiero, d'una lagrima! O cielo! Voi piangete, anche adesso piangete! --Signore,» disse Emilia, procurando di frenare il pianto, «Teresa ha ben ragione di ricordarsi di voi con gratitudine. Ella era afflittissima di non aver avuto vostre notizie: permettetemi che vi ringrazi anch'io di tutte le bontà di cui la colmaste. Ora son tornata, e spetta a me di averne cura. --Emilia,» le disse Valancourt, non sapendo più contenersi, «così accogliete voi colui che già una volta volevate onorare della vostra mano, colui che vi ha amata tanto, e che tanto ha sofferto per voi? Ma che potrò io allegare in mia difesa? Perdonatemi, signora, perdonatemi, non so più quel che mi dica: non ho più diritto ai vostri pensieri: ho perduto tutti i miei titoli alla vostra stima e al vostro amore. Sì, ma non oblierò mai d'averli posseduti un tempo; la certezza di averli perduti, forma ora la mia più crudele disperazione, il mio maggior tormento. --Ah! mio caro signore,» disse Teresa prevedendo la risposta di Emilia, «voi parlate di aver già posseduto i suoi affetti... Anche adesso, sì, anche adesso, la mia padrona vi preferisce al mondo intiero, quantunque non voglia confessarlo. --Ciò è veramente insopportabile,» disse Emilia. «Teresa, voi non sapete che cosa vi dite. Signore, se avete qualche riguardo, alla mia tranquillità, spero non vorrete prolungare questo momento doloroso. --Io la rispetto troppo per turbarla volontariamente,» rispose Valancourt, il cui orgoglio lottava allora colla tenerezza; «non mi renderò volontariamente importuno. Vi aveva chiesto qualche istante d'attenzione, ma a che mi gioverebbe? Raccontandovi i miei affanni, non farei che avvilirmi vie maggiormente, senza eccitare la vostra pietà. Sappiate però, Emilia, che fui, e sono ben disgraziato!» La sua voce vacillante divenne allora l'accento del dolore. Volse uno sguardo disperato alla giovine, e s'accinse a partire. «Come!» soggiunse Teresa, «volete uscire con questa pioggia! No, no, il mio caro benefattore non deve allontanarsi in questo momento. Mio Dio! Quanto son pazzi i grandi di respingere così la loro felicità! Se foste povera gente, a quest'ora sarebbe già tutto finito. Parlare d'indegnità, dire che non vi amate più, quando in tutta la provincia non vi son due cuori più teneri o, a dir meglio, due persone che si amino tanto come voi due!» Emilia, oppressa da inesprimibile ambascia, si alzò e disse: «Non piove più, voglio andarmene. --Restate, Emilia, restate, signorina,» rispose Valancourt, armandosi di tutta la sua risoluzione, «non vi affliggerò vie più colla mia presenza. Perdonatemi se non ho obbedito più presto. Se lo potete, compiangete colui che vi perde, e perde così ogni speranza di riposo. Possiate esser felice, sebbene io rimarrò eternamente infelice, possiate essere felice quant'io ve lo desidero con tutto il cuore.» Gli mancò la voce a queste ultime parole, impallidì, gettò su di lei uno sguardo di tenerezza e dolore inesprimibili, e fuggì precipitosamente. «Caro signore! Mio benefattore!» gridò Teresa seguendolo alla porta. «Signor Valancourt! Come piove! Che notte burrascosa per lasciarlo andar via! egli morrà sicuramente dal dolore e dall'affanno. Cara signora Emilia, quanto siete incostante! poco fa piangevate la sua morte, ed ora lo scacciate così barbaramente!» La fanciulla non rispose, e non udiva quel che diceva colei. Assorta nel suo dolore e nelle sue riflessioni, restava seduta cogli occhi fissi sul fuoco, e l'imagine del giovane presente al pensiero. «Il signor Valancourt è molto cambiato, signora; com'è dimagrato! come afflitto! Eppoi ha il braccio fasciato.» Emilia alzò gli occhi; non aveva osservata quest'ultima circostanza. Non dubitò più allora che Valancourt non fosse stato ferito dal giardiniere. A tal convinzione tutta la sua pietà si riaccese, e si rimproverò d'averlo lasciato partire con un tempo così cattivo. Poco dopo vennero a prenderla in carrozza. Emilia sgridò Teresa per le cose irriflessive dette al Valancourt, le ordinò espressamente di non fare mai più certi discorsi, e se ne tornò al castello pensierosa ed afflitta. Valancourt, intanto, era rientrato nell'osteria del villaggio, ove aveva preso alloggio pochi momenti soltanto prima d'andare a visitar Teresa. Veniva a Tolosa e recavasi al castello del conte di Duverney. Non eravi più tornato dopo la sua separazione da Emilia a Blangy. Era rimasto qualche tempo nelle vicinanze d'un luogo ove abitava l'oggetto più caro al suo cuore. V'erano momenti in cui il dolore e la disperazione lo stringevano a ricomparire innanzi ad Emilia, e rinnovare le istanze a dispetto delle sue sciagure. Una nobil fierezza però, la tenerezza del suo amore, che non poteva acconsentire ad avvolgerla nei suoi infortuni, avevano finalmente trionfato della passione. Ritornando in Guascogna, era passato da Tolosa, e vi si trovava allorchè vi giunse Emilia. Andava a nascondere ed alimentare la sua dolorosa mestizia in quel medesimo giardino nel quale aveva passato presso di lei momenti così felici. Volendo aver la consolazione di rivederla ancor una volta, e ritrovarsi vicino a lei, passeggiava una sera nel parco, quando il giardiniere, prendendolo per un ladro, gli tirò una schioppettata, e lo ferì in un braccio. Questo caso l'aveva trattenuto a Tolosa per farsi curare: là, senza premura per sè medesimo, senza riguardi pe' parenti, la cui fredda accoglienza al suo ritorno da Parigi l'aveva scoraggito, non aveva informato nessuno della sua situazione. Ritrovandosi in istato di viaggiare, tornava ad Estuvière, passando per la valle; sperava di aver colà notizie d'Emilia; voleva trovarsi vicino a lei; desiderava anche informarsene dalla vecchia Teresa, e credeva in fine, che, nella di lui assenza, l'avrebbero privata della sua pensione. Tutti questi motivi lo avevano dunque condotto alla capanna di Teresa dove aveva incontrato Emilia. Quella conferenza inaspettata avevagli dimostrato a un tempo tutta la tenerezza dell'amore di Emilia, e tutta la fermezza della di lei risoluzione. La sua disperazione erasi rinnovata con maggior forza, e non eravi considerazione bastante per acquietarlo. L'immagine di Emilia, la di lei voce ed i suoi sguardi, si presentavano incessantemente alla di lui fantasia, e qualunque sentimento era bandito dal suo cuore, eccettuato la disperazione e l'amore. Un'ora prima della mezzanotte ritornò da Teresa per sentir parlar di Emilia e trovarsi ancora nel luogo già da lei occupato. La gioia che provò ed espresse quella povera vecchia, si cangiò presto in tristezza, allorchè ebbe osservato i di lui sguardi smarriti e la profonda malinconia che l'opprimeva. Dopo avere ascoltato attentamente tutto quel ch'essa poteva dirgli intorno ad Emilia, le regalò tutto il denaro che aveva indosso, quantunque ella si ostinasse a ricusarlo, e l'assicurasse che la sua padrona aveva provveduto ai di lei bisogni. Le consegnò anche un anello di valore, incaricandola espressamente di presentarlo a Emilia. La faceva pregare d'accordargli quest'ultimo favore di conservarlo per amor suo, e rammentarsi qualche volta, nel guardarlo, dell'infelice Valancourt che glielo inviava. Teresa pianse nel riceverlo, ma più per tenerezza, che per l'effetto di alcun presentimento. Prima ch'ella potesse rispondere, Valancourt era già partito; corse sulla porta a chiamarlo, supplicandolo di tornare indietro, ma non n'ebbe alcuna risposta, e non lo vide più. CAPITOLO LII La mattina di poi, Emilia, nel gabinetto contiguo alla biblioteca, rifletteva alla scena della sera precedente, allorquando Annetta entrò anelante, ed abbandonossi senza fiato su d'una sedia. Passarono alcuni minuti prima che potesse rispondere alle interrogazioni di Emilia; finalmente esclamò: «Ho veduto la sua ombra, signorina, sì, ho veduto la sua ombra! --Che vuoi tu dire?» disse Emilia con impazienza. --Egli è uscito dal cortile, mentr'io traversava il salotto. --Ma di chi parli?» ripetè Emilia; «chi è uscito dal cortile? --Era vestito come lo vidi le centinaia di volte. Ah! chi l'avrebbe mai creduto?» Emilia, annoiata da quelle ciarle insipide, si accingeva a rimproverarle la sua ridicola credulità, quando un servo venne a dirle che un forestiero chiedeva di parlarle. Emilia, immaginandosi allora che il forestiere fosse Valancourt, rispose essere occupata, e non voler veder nessuno. Il servo tornò subito dopo dicendo che il forestiere aveva cose importantissime da comunicarle. Annetta, rimasta fin allora muta e stupefatta, si scosse, e sclamò: «Sì, è Lodovico! sì, è Lodovico.» E corse fuor dal gabinetto. Emilia ordinò al servitore di seguirla, e, se era realmente Lodovico, di farlo entrare sul momento. Poco dopo, comparve l'Italiano accompagnato da Annetta, a cui l'allegrezza faceva obliare tutte le convenienze, e non voleva parlar altro che lei. Emilia esternò la sua sorpresa e soddisfazione nel vederlo. La sua prima emozione crebbe allorchè aprì le lettere del conte di Villefort e Bianca, che l'informavano della loro avventura e della situazione loro in un'osteria alle falde de' Pirenei, ov'erano stati trattenuti dallo stato di Santa-Fè e dall'indisposizione di Bianca. Quest'ultima aggiungeva che il barone era arrivato, che avrebbe ricondotto il figlio al suo castello, finchè fosse guarito dalle sue ferite, e ch'essa con suo padre continuerebbero il viaggio per la Linguadoca, e sarebbero passati dalla valle, proponendosi di esservi il giorno seguente. Essa pregava Emilia di trovarsi alle sue nozze, e d'accompagnarli al castello di Blangy; lasciava poi a Lodovico la cura di raccontare egli stesso le sue avventure. Emilia, sebben premurosa di conoscere in qual modo fosse sparito dall'appartamento del nord, nondimeno volle sospendere questa soddisfazione finchè non si fosse rifocillato, ed avesse parlato a lungo colla sua Annetta, la cui gioia non sarebbe stata così stravagante se fosse risorto dalla tomba. Emilia, intanto, rileggeva le lettere de' suoi amici. L'espressione della stima e dell'affetto loro, era in quel momento un vero balsamo nel suo povero cuore piagato. La sua tristezza, i suoi affanni, avevano acquistato nell'ultimo colloquio una nuova amarezza. L'invito di recarsi a Blangy era fatto dal conte e dalla figlia colle più tenere espressioni. Anche la contessa ne la sollecitava. L'occasione n'era sì importante per l'amica sua, che Emilia non potea ricusarvisi. Avrebbe desiderato non abbandonare le placide ombre della sua dimora, ma sentiva la sconvenienza di restarvi sola mentre Valancourt trattenevasi ancora nelle vicinanze, oltrechè rifletteva che la società e la varietà degli oggetti sarebbero riuscite a tranquillare il suo spirito meglio della solitudine. Quando Lodovico ritornò nel gabinetto, lo pregò di raccontarle dettagliatamente le sue avventure, e spiegarle per qual caso abitasse co' banditi in mezzo ai quali lo aveva trovato il conte. Egli obbedì. Annetta, la quale, in mezzo alle sue tante ciarle, non aveva avuto il tempo di parlargliene, si accinse ad ascoltare con ardente curiosità. Ricordò prima alla padroncina e l'incredulità da lei dimostrata ad Udolfo a proposito degli spiriti, e la propria saggezza credendovi invece sì forte. Emilia arrossì suo malgrado pensando alla fede prestata ultimamente; notò soltanto che se l'avventura di Lodovico avesse potuto giustificare la superstizione d'Annetta, e' non sarebbe là a narrargliela. Il giovane sorrise, inchinossi e cominciò in questi termini: «Vi rammenterete, o signora, che il signor conte ed il signor Enrico m'accompagnarono nell'appartamento del nord. Per tutto il tempo che vi rimasero non si presentò nulla di allarmante: appena furono partiti, accesi un buon fuoco nella camera, e sedetti presso al camino; aveva portato un libro per distrarmi, e confesso che tratto tratto io guardava qua e là con un sentimento simile alla paura. Molte volte, quando il vento soffiava con violenza, scuotendo le finestre, m'immaginai di udire rumori molto strani; anzi una volta o due mi alzai, ed osservando da per tutto non vidi altro che le grottesche figure dei parati, le quali pareva mi facessero boccacce. Passai così più di un'ora, e poi mi parve udir rumore, esaminai di nuovo la camera, e non vedendo nulla, ripresi il libro. Quando l'istoria fu finita, mi assopii. D'improvviso fui svegliato dal rumore che aveva già inteso; esso pareva venire dalla parte del letto. Io non so se l'istoria che aveva letta mi avesse alterata la fantasia, o se mi venissero in mente tutte le ciarle che si facevano su quell'appartamento; ma so bene che, guardando il letto, mi parve vedere la faccia d'un uomo fra le cortine.» A tai parole, Emilia fremè e divenne inquieta ricordandosi lo spettacolo veduto colà da lei e dalla vecchia Dorotea. «Vi confesso, signorina,» continuò Lodovico, «che mi si agghiacciò il cuore. Il medesimo rumore risvegliò di nuovo la mia attenzione: distinsi lo scricchiolio d'una chiave che girava in una serratura, e quel che mi sorprendeva di più era il non vedere alcuna porta d'onde potesse provenire quel suono. Un istante dopo il cortinaggio del letto fu alzato lentamente, e comparve una persona: essa usciva da una porticina nel muro. Restò un momento nella medesima attitudine, col resto del volto nascosto dal lembo della tappezzeria, cosicchè non vedeasi altro che i suoi occhi. Quando sollevò il capo, vidi di dietro a lei la figura d'un altro uomo, che guardava per disopra le spalle del primo. Non so come andasse la faccenda: la mia spada era sul tavolino, ma non ebbi la presenza di spirito d'impugnarla: restai zitto e cheto a considerarli cogli occhi mezzo chiusi, affinchè mi credessero addormentato. Suppongo che realmente ne fossero persuasi; li udii concertarsi, e restarono in quella posizione per lo spazio di circa un minuto; allora credetti vedere altre teste nell'apertura della porta, ed intesi parlar più forte. --Questa porticina mi sorprende;» interruppe Emilia; «mi fu detto che il conte avea fatto levar tutte le cortine ed esaminar le pareti, credendo che celassero qualche andito pel quale fosse partito. --Non mi par tanto straordinario, signorina, che quell'usciuolo abbia potuto sfuggire agli sguardi; esso è praticato in una parete sottile che sembra far parte del muro esteriore, per cui quand'anco il signor conte l'avesse osservato, non avrebbe badato ad una porta colla quale nessun passaggio parea dovesse comunicare. Fatto sta che il passaggio era nella grossezza del muro. Ma, per tornare agli uomini ch'io distingueva confusamente nello sfondo della porticina, ei non mi lasciarono a lungo in sospeso; precipitaronsi nella camera e mi circondarono: io aveva presa la spada, ma che poteva fare un uomo contro quattro? Fui ben presto disarmato; mi legarono le braccia, e postomi un bavaglio in bocca, mi trascinarono nell'andito. Prima di partire però lasciarono la mia spada sul tavolino, _per soccorrere_, dicevano essi, _coloro che venissero al par di me, a combattere gli spiriti_. Mi fecero traversare parecchi corridoi strettissimi formati nella grossezza del muro, e dopo avere sceso molti gradini, giungemmo ad una vôlta sotto il castello. Aprirono un uscio di pietra, ch'io credeva far parte del muro; percorremmo un lunghissimo passaggio scavato nel masso; un'altra porta ci condusse ad un sotterraneo, e finalmente, dopo qualche intervallo, mi trovai sul lido del mare appiè delle rupi stesse, sulle quali sorge il castello: trovammo una barca che aspettava quei birbanti; mi vi trascinarono, e andammo a bordo d'un piccolo bastimento ancorato a poca distanza. Quando fui là dentro, due de' miei compagni restarono con me; gli altri ricondussero la barca, ed il bastimento si mise alla vela. Compresi allora il significato di tutto ciò, e che cosa facessero quella gente al castello. Sbarcammo al Rossiglione: dopo qualche giorno, i loro compagni vennero dalle montagne, e mi condussero nel forte in cui mi trovava quando giunse il signor conte. Avean cura d'invigilarmi, ed anzi m'aveano bendati gli occhi per condurmivi; ma anche senza questa precauzione, credo mi sarebbe stato assai difficile ritrovar la strada per quell'aspra contrada. Appena fui colà, mi tenevano come un prigioniero: non poteva mai uscire senza due o tre de' miei compagni, ed era sì stanco della vita, che andava studiando il modo di terminare la mia miserabile esistenza. --Ma però vi lasciavan parlare,» disse Annetta; «non vi mettevan più il bavaglio. Non capisco perchè eravate sì stanco di vivere, senza parlare della probabilità che avevate di rivedermi.» Lodovico sorrise, siccome anche Emilia, la quale gli domandò per qual motivo quegli uomini l'avessero rapito. «Mi accorsi tosto,» ripigliò egli, «che coloro erano pirati, i quali da molti anni nascondevano il loro bottino nei sotterranei del castello, che, essendo vicino al mare, conveniva perfettamente ai loro disegni. Onde non essere scoperti avevano adoperato ogni mezzo per far credere che il castello era frequentato dagli spiriti e dalle ombre, ed avendo scoperto la via segreta, la quale conduceva all'appartamento del nord, che dopo la morte della marchesa stava sempre chiuso, non fu lor difficile riuscirvi. La custode e suo marito, le uniche persone che abitassero nel castello, spaventati oltremodo dagli strani rumori che udivano, ricusarono di soggiornarvi più a lungo. Allora tutto il paese credè facilmente che il castello fosse abitato da' folletti, tanto più che la marchesa era morta in una maniera molto strana, e che il marchese da quel punto non eravi più tornato. --Ma,» disse Emilia, «perchè mai que' pirati non si contentavano della cava, e perchè stimavan necessario deporre i loro furti nel castello? --La cava, madamigella, stava aperta a tutti,» ripigliò il giovane, «ed i loro tesori sarebbero stati in breve scoperti. Ne' sotterranei invece erano sicuri, finchè il castello incutesse terrore. E' parve che i pirati vi recassero a mezzanotte le prese fatte per mare, e ve le tenessero, finchè potessero venderle vantaggiosamente. Erano essi intimamente collegati co' contrabbandieri e banditi che vivono ne' Pirenei, e vi fanno un traffico inesprimibile. Io restai dunque con questa banda di malandrini fino all'arrivo del signor conte. Non oblierò giammai la pena che sentii nel vederlo; quasi lo tenni perduto. Io sapeva che se mi faceva conoscere, i banditi avrebbero scoperto il suo nome, e probabilmente ci avrebbero ammazzati, tutti, per impedire ch'egli scoprisse il loro segreto, come proprietario di Blangy. Evitai la vista del signor conte, e invigilai sui briganti, risoluto, se progettassero qualche violenza, di mostrarmi, e combattere per la vita del mio padrone. Non tardai a sentir macchinare una trama infernale; si trattava di una strage generale. Mi arrischiai a farmi conoscere alla gente del conte; narrai quanto si progettava, e ci concertammo insieme. Il signor conte, allarmato per l'assenza della figlia, domandò dove fosse. I banditi non lo soddisfecero. Il mio padrone e Santa-Fè divennero furiosi. Pensando allora ch'era tempo di mostrarci, ci lanciammo nella stanza ov'era preparata la cena, gridando: _Tradimento! Signor conte difendetevi._ Il conte ed il cavaliere sguainarono la spada sul momento; la zuffa fu ostinata, ma in fine noi restammo vincitori, come avrete sentito nella lettera del mio padrone. --È un'avventura singolare,» disse Emilia; «certamente, Lodovico, la vostra prudenza ed intrepidezza meritano molti elogi. Vi sono però varie circostanze relative all'appartamento del nord, ch'io non comprendo ancora, e che voi forse sarete in grado di decifrarmi. Avete mai udito raccontare dai banditi i pretesi prodigi che operavano in quel luogo? --No, signorina,» rispose Lodovico; «non li intesi parlarne mai: una volta sola li udii ridere della vecchia custode, che quasi quasi stette per sorprendere uno dei pirati. Fu dopo l'arrivo del conte, e colui che fece la burla ne ridea a crepapelle.» Emilia arrossì, e pregò Lodovico di raccontargli dettagliatamente quanto sapeva. «Ebbene,» diss'egli, «una notte che colui trovavasi nella camera da letto, udì gente nel salotto contiguo, e credendo non aver il tempo d'alzare il parato ed aprir la porta, si nascose nel letto, e vi restò per qualche tempo, credo io, molto intimorito. --Come lo foste voi,» interruppe Annetta, «quando aveste l'ardire di passarvi la notte. --Sì,» rispose Lodovico, «appunto così. La custode si avvicinò al letto con un'altra donna. Temendo allora di essere scoperto, pensò che il solo mezzo per salvarsi fosse quello di far loro paura. Alzò dunque leggermente il trapunto; ma il suo piano non riuscì, se non quando ebbe mostrata la testa; allora esse fuggirono, ci diss'egli, come se avessero veduto il diavolo, ed il birbante se ne andò tranquillamente.» Emilia non potè trattenersi dal ridere a questa spiegazione. Comprese l'incidente che l'aveva tanto impaurita, e fu sorpresa di averne sofferto tanto; ma considerò quindi, che appena lo spirito cede alla debolezza della superstizione, qualunque inezia basta a fare la massima impressione. Rammentandosi però la musica misteriosa che si sentiva verso mezzanotte al castello di Blangy, domandò a Lodovico se per caso ne avesse saputo nulla, ma egli non potè darne veruna spiegazione. «So per altro, signorina,» aggiunse, «che i pirati non vi hanno parte; so che ne ridono, e dicono che il diavolo è senza dubbio alleato con loro. --Scommetterei che hanno ragione,» disse Annetta sempre con volto ilare. «Ho sempre creduto che lui e gli spiriti fossero gli abitanti di quell'appartamento; vedete dunque, signorina, che non m'ingannava. --Non si può negare che lo spirito maligno non v'abbia una estrema influenza,» disse Emilia sorridendo: «ma stupisco che i pirati persistessero nella loro condotta; dopo l'arrivo del conte, egli è certo che prima o poi dovevano essere scoperti. --Ho motivo di credere,» rispose Lodovico, «ch'essi non contassero seguitare che il tempo necessario per mettere in salvo i loro tesori. Pare che se ne occupassero subito dopo l'arrivo del conte; ma non potevano lavorare che poche ore della notte, e quando mi presero, la vôlta era già mezzo vuota. Conveniva loro d'altronde di confermare tutte le superstizioni relative all'appartamento, nel quale ebbero la maggior premura di lasciar tutto al suo posto per meglio mantener l'errore. Spesso, celiando fra loro, si figuravano la costernazione degli abitanti di Blangy per la mia scomparsa. A datare da quel momento si credettero padroni assoluti del castello. Seppi però che una notte, malgrado le loro precauzioni, si scopersero quasi da sè. Andavano, secondo il solito, a ripetere i sordi gemiti che facevano tanta paura alle serve. Mentre stavano per aprire, udirono voci nella camera da letto; il signor conte mi disse che vi stava lui stesso col signor Enrico: udirono ambidue strani lamenti, opera senza dubbio dei malandrini, fedeli al loro disegno di spargere il terrore. Il signor conte mi confessò di aver provato una sensazione maggiore della sorpresa: ma siccome il riposo della famiglia esigeva il silenzio, si guardarono bene dal farne parola ad alcuno.» Emilia, rammentandosi allora il cambiamento del conte, dopo aver passata la notte in quel luogo misterioso, ne riconobbe il motivo. Non fece nuove interrogazioni a Lodovico, lo mandò a riposare, e diede le disposizioni necessarie per ricevere i suoi amici. La sera, Teresa quantunque zoppa, venne a portarle l'anello di Valancourt. Emilia s'intenerì nel vederlo, ma la rimproverò d'averlo ricevuto, e ricusò d'accettarlo, malgrado il tristo piacere ch'essa ne avrebbe avuto. Valancourt lo portava in tempi più felici. Teresa pregò, supplicò, le rappresentò l'abbattimento in cui era il cavaliere quando le consegnò l'anello, le ripetè ciò ch'ei le aveva ordinato di dire. Emilia, non potendo nascondere il dolore che le cagionava quel racconto, proruppe in dirotto pianto. «O Dio! Mia cara padroncina,» disse Teresa, «perchè piangete? Vi conosco fin dall'infanzia, vi amo come mia figlia, e vorrei vedervi felice. È vero che conosco il signor Valancourt da poco tempo; ma ho però forti ragioni per amarlo come mio figlio! Io so benissimo che vi amate scambievolmente! Perchè dunque piangere?» Emilia le fe' segno di tacere, ma essa continuò: «Vi somigliate amendue per ispirito e carattere; se foste maritati, sareste la coppia più felice. Chi impedisce il vostro matrimonio? Dio buono! Dio mio! Come mai si può veder gente che sfuggono la loro felicità, piangono e si disperano quasi non dipendesse da loro l'esser contenti, e come se gli affanni ed il pianto valessero più del riposo e della pace! La scienza è certo una bella cosa, ma se non rende più saggi di così, preferisco di non saper mai nulla.» L'età ed i lunghi servigi di Teresa le accordavano il diritto di dire il suo parere; non per tanto Emilia l'interruppe, e quantunque riconoscesse la giustizia delle di lei osservazioni, non volle spiegarsi. Si limitò a dirle che questo discorso l'affliggeva; che, per regolare la sua condotta, aveva motivi che non poteva spiegarle, e che bisognava restituir l'anello al cavaliere, dicendogli com'essa non potesse accettarlo. Le disse in seguito, che se faceva caso della sua stima ed amicizia, non doveva più incaricarsi di veruna ambasciata di Valancourt. Teresa ne fu commossa, e tentò insistere, ma il malcontento esternato dalla fisonomia della padroncina, le impedì di proseguire, e partì afflitta e maravigliata. Per sollevare in qualche modo l'affanno e l'oppressione sua, Emilia si occupò dei preparativi del viaggio. Annetta, che la aiutava, parlava incessantemente del ritorno di Lodovico colla più tenera effusione. Emilia pensò che avrebbe potuto anticipare la loro felicità, e decise che, se Lodovico era costante quanto la semplice e buona cameriera, le avrebbe dato una buona dote, e li avrebbe impiegati in qualche parte de' suoi beni. Queste considerazioni la fecero pensare alla porzione di patrimonio, dal di lei padre venduta a Quesnel. Desiderava ricomprarla, perchè Sant'Aubert aveva dimostrato sovente il maggior rincrescimento che la dimora principale de' suoi avi fosse passata in mani straniere. Quel luogo, d'altronde, l'aveva veduta nascere, ed era la culla de' suoi primi anni. Poco le caleva de' beni di Tolosa, e si propose di venderli per riacquistare il patrimonio avito, se Quesnel acconsentisse a disfarsene. Tale accomodamento non le pareva impossibile, dacchè egli s'occupava di stabilirsi in Italia. CAPITOLO LIII Il giorno dipoi, l'arrivo de' suoi amici rianimò l'afflittissima Emilia. La valle fu nuovamente l'asilo d'un'amabile società. La sua indisposizione e lo spavento avuto, toglievano a Bianca qualcosa della sua vivacità, ma ella conservava però un'ingenua semplicità, che la rendeva ancor più interessante. La trista avventura de' Pirenei faceva desiderare impazientemente al conte di tornare al suo castello. Dopo una settimana, Emilia si preparò a seguire i di lei ospiti in Linguadoca, ed affidò a Teresa la cura della casa nella sua assenza. La vigilia della partenza, la buona vecchia le riportò l'anello di Valancourt, scongiurandola, colle lagrime agli occhi, di accettarlo. Non aveva più veduto il cavaliere, nè più udito parlar di lui dal momento che glie l'aveva consegnato. Sì dicendo esternava in volto maggior inquietudine che non volesse manifestarne. Emilia represse la sua, e pensando ch'era per certo tornato dal fratello, persistè nel rifiuto, e raccomandò a Teresa di conservarlo, finchè rivedesse Valancourt. Il giorno seguente partirono tutti dal castello della valle, e giunsero l'indomani a Blangy. La contessa, Enrico e Dupont, che Emilia fu sorpresa di trovare colà, li ricevettero con indicibil trasporti di gioia. La fanciulla si afflisse molto nel vedere che il conte alimentava sempre le speranze dell'amico. La sera del secondo giorno, Villefort le parlò nuovamente delle offerte di Dupont: l'estrema dolcezza di Emilia nell'ascoltarlo lo ingannò sullo stato del di lei cuore; credè egli che Valancourt fosse quasi dimenticato, e ch'ella potesse avere favorevoli disposizioni per Dupont. Allorchè la di lei risposta l'ebbe convinto del suo errore, il suo zelo per assicurare la felicità di due persone che stimava cotanto lo spinse a farle conoscere che, per un affetto male impiegato, avvelenava i più bei giorni della vita. Vedendo il di lei silenzio e l'abbattimento della sua fisonomia, il conte finì per dirle: «Non insisterò di più, ma son convinto appieno che non rigetterete sempre un uomo tanto stimabile come il signor Dupont.» Le risparmiò la pena di rispondere, e s'allontanò subito. Emilia continuò a passeggiare, affliggendosi che il conte non desistesse da un progetto da lei sempre respinto. Perduta nelle sue tristi riflessioni, si trovò insensibilmente al bosco che circondava il convento di Santa Chiara, alla vista delle cui torri, accortasi allora quanto si fosse allontanata, risolse di prolungare un po' più la passeggiata, e d'andare ad informarsi della badessa e delle monache sue amiche. Entrò nel parlatorio, e non avendovi trovato nessuno, suppose che fossero tutte in chiesa; finalmente giunse una monaca cercando la badessa con aria d'impazienza, senza osservare Emilia. Ella si fece conoscere, ed intese che stavano pregando per l'anima di suor Agnese, la quale aveva languito per molto tempo, ed in quel momento era moribonda. La monaca le fece il dettaglio dei patimenti di suor Agnese, e le orribili convulsioni da essa patite. Era ricaduta in uno stato tale di disperazione, che nè le sue proprie orazioni, alle quali si univano quelle di tutta la comunità, nè le assicurazioni del confessore, non potevano calmarla, e lasciarle gustare un solo istante di quiete. Emilia ascoltò tutto col massimo interesse; si rammentava lo smarrimento notato sovente nella fisonomia di suor Agnese, non meno che il racconto di suor Francesca, e la di lei pietà diveniva maggiore. Era già tardi; Emilia non potè nè vederla, nè andar a pregare per lei in quel punto; incaricò la monaca de' suoi complimenti per tutta la comunità, e se ne tornò al castello, pensando tristamente alla misera agonizzante. CAPITOLO LIV La sera del giorno dopo, Emilia, volendo saper le nuove di suor Agnese e rivedere le amiche, persuase Bianca di tenerle compagnia fino al monastero, alla cui porta videro una carrozza co' cavalli bagnati di sudore, lo che indicava essere giunti da pochi minuti. Regnava il più cupo silenzio nel cortile e nei chiostri ch'esse traversarono. Arrivando nel salone, furono informate da una monaca che suor Agnese viveva ancora in perfetto sentore, ma che sicuramente sarebbe morta nel corso della notte. Nel parlatorio, parecchie educande vennero a salutarla e a discorrere con lei. Di lì a poco sopraggiunse la badessa, ed espresse la massima soddisfazione nel rivedere Emilia; le sue maniere però avevano una singolar gravità, ed era di mesto umore. «La nostra casa,» diss'ella dopo i primi complimenti, «è veramente una casa di duolo. Una delle nostre sorelle paga in questo momento il tributo alla natura; voi non ignorate senza dubbio che la nostra povera Agnese è moribonda. La morte ci presenta una grande ed importante lezione; sappiamo profittarne, ed impariamo a prepararci al cambiamento che ci attende. Voi siete giovane, mia cara Emilia, e potete acquistare l'inapprezzabile pace della coscienza. Conservatela in gioventù, affinchè divenga un giorno il vostro conforto. Invano avremo fatto qualche buon'azione nell'età provetta, se i nostri primi anni saranno stati macchiati da qualche delitto. Gli ultimi giorni di Agnese sono stati esemplari. Possano dunque espiare le colpe della sua gioventù! I di lei patimenti attuali sono troppo terribili; ma speriamo che le assicureranno il riposo eterno. L'ho lasciata col suo confessore, e con un signore cui desiderava ardentemente di vedere, e ch'è arrivato or ora da Parigi: ardisco lusingarmi che l'aiuteranno a riacquistare la calma, della quale il suo spirito ha tanto bisogno. Durante la sua malattia, essa vi ha rammentata talvolta. Potrebbe darsi ch'ella provasse qualche consolazione nel vedervi. Quando sarà sola andremo a trovarla, se ne avrete il coraggio. Queste scene straziano il cuore, lo confesso; ma è bene abituarvisi, poichè sono molto salutari per l'anima, e ci preparano a quanto dobbiamo soffrire.» Emilia divenne grave e pensierosa; questo discorso le rammentava le massime del suo buon padre, e sentì il bisogno di piangere nuovamente sulla di lui tomba. Nell'intervallo del silenzio che susseguì le parole della badessa, le tornarono in memoria alcune minute circostanze de' suoi ultimi momenti: la commozione da lui mostrata udendo d'esser vicino al castello di Blangy, la domanda di essere sepolto in un certo luogo del monastero, e l'ordine così positivo di bruciar quelle carte senza leggerle. Si rammentò inoltre le parole orribili e misteriose del manoscritto lette involontariamente, e cui non si ricordava mai senza una penosa curiosità sul senso che potevano avere e sul divieto del padre. Era nonostante contentissima d'avere obbedito ciecamente. La badessa non disse altro, essendo tanto commossa dal soggetto trattato che non poteva proseguire, e stavano tutte in silenzio per l'egual motivo. La meditazione generale fu poco stante interrotta dall'arrivo di un forestiere. Era esso il signor Bonnac, che usciva in quel punto dalla cella d'Agnese. Pareva assai turbato; ma Emilia credè notare nelle sue espressioni più orrore che dolore. Trasse in disparte la badessa e le parlò per qualche minuto: ella parve star molto attenta: parlava con riflessione e cautela, e mostrava grande interesse. Dopo ch'egli ebbe finito, salutò tutti rispettosamente, e si ritirò. La badessa propose ad Emilia di andare nella camera di suor Agnese; essa vi acconsentì con qualche ripugnanza, e Bianca restò colle educande. Alla porta della camera, trovarono il confessore, il quale, al loro accostarsi, alzò il capo, ed Emilia riconobbe lo stesso che aveva assistito suo padre; ma egli era astratto, e passò senza osservarla. Entrate nella cella, trovarono suor Agnese distesa sopra una stuoia; presso di lei eravi un'altra monaca. Era essa così cambiata, che Emilia avrebbe difficilmente potuto riconoscerla, se non fosse stata avvertita. La sua fisonomia era tetra ed orribile; gli occhi, infossati e velati, stavan fissi sopra un crocifisso che stringevasi al petto; era così assorta, che da principio non vide nè la badessa, nè Emilia. Finalmente, voltando gli occhi grevi, li fissò con orrore sopra Emilia, sclamando: «Ah! questa visione mi perseguita fino all'ultimo respiro.» Emilia indietreggiò spaventata guardando la badessa, che le fece cenno di non temere, e poi disse a suor Agnese: «Figliuola, questa giovine che vi ho condotta è madamigella Sant'Aubert: mi lusingava che l'avreste veduta con piacere.» Agnese non rispose nulla, e considerando Emilia con orribile smarrimento, sclamò: «È dessa. Ah! ell'ha negli sguardi quelle attrattive, che fecero la mia perdita. Che volete? Che cercate? Una riparazione? L'avrete; anzi l'avete già avuta. Quanti anni sono scorsi dacchè non vi ho veduta? Il mio delitto è di ieri; soltanto invecchiai sotto il di lui peso; e voi siete sempre giovine, sempre bella! Bella come all'epoca in cui mi costringeste a quell'esecrabile delitto... Oh! se potessi obliarlo!... Ma a che servirebbe?... Io lo commisi!» Emilia, estremamente commossa, voleva ritirarsi. La badessa la prese per mano, la incoraggì, e la pregò di aspettare che suor Agnese fosse più tranquilla. Procurò di calmarla, ma la delirante non l'ascoltava, e guardando sempre Emilia, continuò: «A che servono dunque tanti anni d'orazione e di pentimento? No, essi non bastano a lavar la macchia dell'omicidio, sì dell'omicidio. Dov'è egli? dov'è? Guardate, guardate là! s'aggira per questa camera. Perchè venite a turbarmi in questo momento?» ripigliò Agnese, i cui occhi percorrevano lo spazio. «Non son io dunque abbastanza punita? Deh! per pietà, non mi guardate con occhio così severo. Oh cielo! ancora! è dessa! è dessa! Perchè mi guardate con tanta pietà? perchè sorridete? Sorridere a me! Ma qual gemito! udiste?...» Suor Agnese ricadde, e parve spirare, Emilia, non potendo reggersi s'appoggiò al letto; la badessa e l'assistente s'affrettarono a soccorrere la derelitta. Emilia voleva parlarle. «Zitto,» disse la badessa, «il delirio è finito essa sta alquanto meglio. --Sorella, è un pezzo che si trova in questo stato? --Eran parecchie settimane che non aveva avuto un accesso così violento,» rispose la monaca; «ma l'arrivo di quel gentiluomo, che desiderava tanto di vedere, l'ha agitata forte. --Sì,» ripigliò la badessa, «ed ecco per certo la causa del delirio; quando starà meglio, la lasceremo quieta.» Emilia acconsentì volentieri; ma benchè fosse di poca utilità, non volle ritirarsi fin quando potè credere d'essere di qualche aiuto. Quando suor Agnese ebbe ripresi i sensi, guardò ancora Emilia, ma senza smarrimento, e con una profonda espressione di dolore; passarono alcuni minuti prima che potesse parlare, poi disse debolmente: «La somiglianza è maravigliosa! è più che immaginazione riscaldata! Ditemi, ve ne scongiuro, se, malgrado il nome di Sant'Aubert, che voi portate, non siete figlia della marchesa. --Di qual marchesa?» rispose Emilia attonita. La calma delle maniere d'Agnese le aveva fatto credere al ritorno della sua ragione. La badessa le diè un'occhiata d'intelligenza, ma essa ripetè la domanda. «Di qual marchesa?» sclamò Agnese; «io ne conosco una sola: la marchesa di Villeroy.» Emilia, rammentandosi la commozione di suo padre, allorchè gli fu nominata questa dama, e la domanda da lui fatta di esser sepolto presso le tombe de' Villeroy, provò un estremo interesse, e pregò suor Agnese di spiegare i motivi di tale interrogazione. La badessa avrebbe voluto fare uscire Emilia, la quale, troppo interessata, reiterò la domanda con calore. «Portatemi la mia cassetta, sorella,» disse Agnese, «e vi svelerò tutto. Guardatevi in quello specchio, e lo saprete; voi siete certo sua figlia; altrimenti come spiegare una somiglianza così perfetta?» La monaca le portò la cassetta; suor Agnese gliela fece aprire, e ne cavò una miniatura, che Emilia riconobbe esattamente somigliante a quella da lei trovata nelle carte di suo padre. Agnese stese la mano per pigliarla, la contemplò qualche tempo in silenzio, poi alzò gli occhi al cielo, e recitò sottovoce un'orazione; quand'ebbe finito, restituì il ritratto ad Emilia. «Tenetelo,» le disse, «ve lo dono, e credo che ne abbiate diritto; la vostra somiglianza mi ha colpito sovente, ma fino a questo momento non aveva turbata tanto la mia coscienza. Ma restate, sorella,» soggiunse, vedendo che l'infermiera volea partire, «non portate via la cassetta; essa contiene un altro ritratto.» Emilia tremava per l'ansietà, e la badessa volea trascinarla via. «Agnese torna a delirare, le disse; «osservate come vaneggia! Ne' suoi accessi, essa non è più in sentore, e si accusa, come vedete, de' più orribili misfatti.» La giovane per altro credette scorgere in quel delirio tutt'altro che follia. Il nome della marchesa, il suo ritratto aveano per lei bastante interesse, e risolse di procurarsi maggiori schiarimenti. La monaca portò indietro la cassetta. Agnese calcò una molla, e scoperto un altro ritratto, lo mostrò dicendo: «Ecco una lezione per la vanità; guardate questo ritratto, ed osservate se c'è qualche rapporto fra quello ch'io sono e quello che sono stata.» Emilia s'affrettò a prenderlo; è impossibile descrivere la sorpresa ed il terrore di lei, allorchè riconobbe in esso la perfettissima somiglianza con quello della signora Laurentini, che aveva veduto al castello di Udolfo: di quella dama sparita in modo così misterioso, e che si sospettava fatta perire da Montoni. Muta e attonita, la giovine guardava alternamente il ritratto e la monaca moribonda, cercando invano una somiglianza che allora non esisteva più. «Perchè quegli sguardi severi?» disse suor Agnese, non comprendendo la sorpresa di Emilia. --Ho già veduta questa figura,» disse infine la giovine; «è egli realmente il vostro ritratto? --Or potete domandarlo,» rispose Agnese; «ma vi accerto che un tempo era somigliantissimo. Guardatemi attenta e vedete l'effetto del delitto!... Allora io era innocente, e le mie sciagurate passioni dormivano ancora. Sorella mia,» soggiunse gravemente, e prendendo nella sua mano fredda ed umida una mano di Emilia, che fremette a quel tocco, «sorella mia, guardatevi bene dal primo movimento delle passioni! Guardatevi dal primo! Se non si arresta il loro corso, esso è rapido; la loro forza non conosce alcun freno: desse ci trascinano ciecamente a delitti, che non possono venir cancellati da lunghi anni di preghiere e di penitenza. È tale l'impero d'una passione, che domina tutte le altre, e s'impadronisce di tutte le vie del cuore; è una furia che ci rende insensibili alla pietà e alla coscienza, e quando il suo scopo è compiuto, furia sempre più spietata e crudele, ci abbandona per nostro tormento a tutti quei sentimenti che aveva sospesi, ma non soffocati, ai supplizi della coscienza, del rimorso e della disperazione. Ci svegliamo come da un sogno: siamo circondati da un nuovo mondo attoniti e spaventati; ma il delitto è commesso. Il potere riunito del cielo e della terra non può annientarlo, ed i fantasmi ci perseguitano. Cosa sono le ricchezze, la salute e la grandezza, in confronto dell'inestimabil vantaggio di una coscienza pura, in confronto della salute dell'anima? Cosa sono gli affanni della povertà, del disprezzo e della miseria, in confronto dell'angoscia d'una coscienza in preda ai rimorsi? Oh! quanto tempo è scorso da che ho perduto la pace dell'innocenza. Ho gustato ciò che chiamavasi dolcezza della vendetta; ma quanto è passaggiera! Ella spira col di lei oggetto. Rammentatevene, sorella mia, le passioni sono il germe del vizio, come quello della virtù; ambedue possono essere il risultato: ciò dipende dalla maniera di governarle, e guai a coloro che non hanno mai imparato quest'arte tanto necessaria. --Sventurato colui,» disse la badessa, «che conosce male la nostra santa religione!» Emilia ascoltava Agnese in silenzio e con rispetto: considerava la miniatura, e si accertava della somiglianza del ritratto con quello veduto a Udolfo. «Questa figura non mi è ignota,» diss'ella per far ispiegare la monaca. --Voi v'ingannate,» rispose suor Agnese, «e non l'avete mai certamente veduta. --No,» soggiunse Emilia; «ma ho veduto la sua perfetta somiglianza. --È impossibile,» disse suor Agnese, che ora potremo chiamare la signora Laurentini. --Era nel castello di Udolfo,» continuò Emilia, guardandola fiso. --Di Udolfo!» esclamò la signora Laurentini «di Udolfo in Italia? --Precisamente,» rispose Emilia. --Allora voi mi conoscete, e siete la figlia della marchesa.» Emilia stupefatta da quella positiva asserzione, rispose: «Io son figlia di Sant'Aubert, e la dama che voi nominate mi è affatto estranea. --Voi lo credete?» rispose la Laurentini. Emilia le domandò per qual motivo pensasse il contrario. «La vostra somiglianza,» disse la monaca. «È noto che la marchesa era molto affezionata ad un gentiluomo di Guascogna, quando sposò il marchese per obbedire a suo padre. Donna infelice!» Emilia, rammentandosi l'eccessiva commozione di Sant'Aubert al nome della marchesa, avrebbe provato allora un sentimento ben diverso dalla sorpresa, se avesse conosciuto meno la probità del padre. Il rispetto che aveva per lui non le permise di fermarsi alla supposizione che le insinuava la Laurentini; la sua curiosità però crebbe a dismisura, e la scongiurò di spiegarsi più chiaramente. «Non mi sollecitate a tal proposito,» rispose la monaca; «è troppo terribile per me: potessi cancellarlo per sempre dalla memoria!» Sospirò profondamente, e chiese alla giovine in qual modo avesse saputo il suo nome. «Dal ritratto che vidi ad Udolfo e dalla somiglianza di questa miniatura. --Voi dunque siete stata nel castello di Udolfo?» disse la monaca con estrema emozione. «Quali scene mi rammenta quel luogo! Scene di felicità, di patimenti e d'orrore!» In quel punto, il terribile spettacolo veduto da Emilia in una camera del castello le tornò alla memoria; guardando la signora Laurentini, si rammentò le ultime parole di lei, che la macchia d'un assassinio non poteva esser lavata da molti anni d'orazione e di penitenza, e si vide costretta di attribuirle a tutt'altra causa che al delirio: provò un orrore inesprimibile sembrandole di vedere un'omicida... ed infatti, tutta la condotta della Laurentini confermava questa supposizione; Emilia si perdè in un abisso di congetture, e non sapendo in qual modo chiarire simili dubbi, disse soltanto con parole tronche: «La vostra improvvisa partenza da Udolfo...» La monaca sospirò. «Tutte le voci che corrono,» continuò Emilia... «la camera di ponente... quel velo di lutto... l'oggetto ch'esso cuopre, quando i misfatti son compiuti...» La monaca sclamò: «Come! ancora?» E cercando di sollevarsi, gli smarriti suoi sguardi parean discernere un oggetto. «Risorgere dalla tomba! Come! sangue e sangue sempre... Non ci fu sangue; tu non puoi dirlo... Oh! non sorridere, non sorridere con quel piglio pietoso...» La Laurentini cadde in convulsioni: Emilia, incapace di reggere più a lungo ad una tale scena, fuggì dalla camera, ed andò a raggiungere Bianca e le educande ch'erano nel parlatorio. Le si affollarono tutte intorno, e spaventate dal terrore che ella manifestava, le fecero mille domande. Essa evitò di rispondervi, aggiungendo solo che suor Agnese era in agonia. Un quarto d'ora dopo furono informate che stava un poco meglio. La badessa comparve di lì a poco, e pregò Emilia di tornar da lei il giorno dipoi, giacchè aveva una cosa di qualche importanza da comunicarle. La giovane glielo promise, e se ne tornò al castello con Bianca. Cammin facendo, videro Dupont che parlava col forestiero veduto al monastero. Allorchè furono ad essi vicino, il forestiero si congedò, ed egli tornò al castello. Villefort, udendo nominare Bonnac, disse che lo conosceva da lunga pezza; seppe il tristo oggetto del suo viaggio, ed avendo inteso ch'era alloggiato in un'osteria del paese poco distante, pregò l'amico di andar a cercarlo perchè venisse ad abitare al castello. Dupont vi si prestò con piacere; Bonnac accettò l'invito. Il conte colle sue attenzioni ed Enrico col suo brio fecero di tutto per dissipar la tristezza che sembrava opprimere il loro nuovo ospite. Bonnac era un uffiziale al servizio francese, dell'età di circa cinquant'anni, alto di statura, di nobile portamento, affabile di maniere, e di fisonomia interessantissima. Il di lui volto, che pareva essere stato bello, portava un'impronta malinconica che sembrava provenire da lunghi affanni, anzichè da disposizione naturale. Si separarono subito dopo cena. Quando Emilia si fu ritirata nella sua camera, le scene di cui era stata testimone se le presentarono nuovamente con orribile energia. Aver trovato in una monaca moribonda la signora Laurentini! Colei che, in vece d'essere stata vittima di Montoni, sembrava anzi rea ella stessa d'un delitto abominevole! Ciò era per lei un gran soggetto di sorpresa e di meditazione. I discorsi fatti sul matrimonio della marchesa, e tutte le sue interrogazioni sulla nascita di Emilia, erano proprie ad ispirare a chiunque sorpresa ed interesse. L'istoria di suor Agnese, raccontata da suor Francesca, diveniva evidentemente falsa; ma qual potesse essere stato il motivo per cui era stata immaginata, Emilia non sapeva indovinarlo. Quanto poi eccitava maggiormente la di lei curiosità, era la relazione che la marchesa di Villeroy poteva aver avuto col di lei padre. La dolorosa sorpresa dimostrata da Sant'Aubert nell'udirne pronunziare il nome, la domanda da lui fatta d'essere sepolto vicino a lei, e il ritratto di quella dama trovato fra le sue carte, provavano esservi stato qualche rapporto fra loro. Talvolta Emilia pensava che il padre potesse essere stato l'amante preferito dalla marchesa, quando fu costretta di sposare Villeroy; ma non poteva persuadersi ch'egli avesse conservata la sua passione dopo quel matrimonio. Non dubitava però quasi più che le carte, di cui suo padre avevale ordinata la distruzione, non fossero relative alla marchesa, e se fosse stata meno certa dei rigidi principii di Sant'Aubert, avrebbe creduto che il mistero della sua nascita fosse andato sepolto colle ceneri di quei manoscritti. Queste riflessioni l'occuparono gran parte della notte; il sonno le rappresentava del continuo la monaca moribonda, e si svegliò piena d'idee lugubri. Alla mattina, si sentì troppo indisposta per andare a trovar la badessa, e verso mezzogiorno seppe che suor Agnese aveva pagato il tributo alla natura. Bonnac ne ricevè la nuova con dispiacere, ma Emilia osservò ch'egli sembrava meno afflitto del giorno precedente: questa morte senza dubbio l'affliggeva meno della confessione statagli fatta. Comunque fosse, egli era fors'anco un po' consolato pe' legati statigli fatti. La di lui famiglia era numerosa; le stravaganze d'un suo figliuolo l'avevano piombato in un abisso d'affanni, e gettato perfino in carcere. Il dolore che gli cagionava la condotta sconsiderata di questo figlio, le spese e la rovina che ne fu la conseguenza, avevangli dato quell'impressione di tristezza notata da Emilia. Raccontò dettagliatamente a Dupont tutte le sue disgrazie. Egli era stato per molti mesi in prigione a Parigi, senza speranza, per così dire, di uscirne, e trovandosi privo dei conforti della moglie, che, in una provincia lontana, tentava invano di muovere gli amici in suo favore. Infine essa andò a trovarlo: ottenne di entrare nel carcere, ma il cambiamento sensibilissimo in cui gli affanni e la prigionia avevano piombato il suo marito, l'accorò a segno, che ammalò gravemente. «La nostra situazione,» continuò Bonnac, «commosse tutti quelli che n'erano stati testimoni. Un amico generoso, allora mio compagno di sventura, ottenne di lì a poco la libertà, ed il primo uso che ne fece, fu quello di tentare la mia. Vi riuscì; la somma enorme ond'io era debitore fu pagata, e quando volli esprimere la mia gratitudine al mio benefattore, egli era già lungi da me. Io dubito molto che la sua generosità abbia cagionata la sua perdita, e sia ricaduto egli stesso in quei ferri, dai quali mi ha liberato. Per quante ricerche ne abbia fatte, non ho mai potuto saper nulla del suo destino. Amabile ed infelice Valancourt! --Valancourt!» sclamò Dupont, «di qual famiglia? --Valancourt dei conti Duverney,» rispose Bonnac. È impossibile descrivere l'emozione di Dupont quando scoprì nel rivale il benefattore del suo amico. Dopo il primo moto di sorpresa, dissipò le inquietudini di Bonnac, facendogli sapere che Valancourt era in libertà, e trovavasi in Linguadoca. La sua passione per Emilia lo strinse in seguito a fare alcune domande sulla condotta del suo rivale a Parigi. Bonnac ne pareva bene informato; le di lui risposte lo convinsero appieno che Valancourt era stato calunniato, e per quanto doloroso fosse il suo sacrifizio, formò il progetto di riunire Emilia all'amante, non parendogli ora più indegno dei sentimenti ch'essa serbava per lui. Bonnac raccontò che Valancourt, entrando nel gran mondo, era caduto nei lacci statigli tesi dal vizio e dall'impudenza; passava tutto il tempo fra una marchesa dissoluta ed il giuoco, ove l'ingordigia e l'avarizia de' suoi compagni avevano saputo trascinarlo. Aveva perduto somme vistose colla speranza di riguadagnarne piccole, ed erano appunto queste le perdite delle quali Villefort e Enrico erano stati sovente testimoni. Il conte suo fratello, irritato da tale condotta, ricusò di fargli rimesse rilevanti per soddisfare ai suoi debiti. Valancourt fu dunque imprigionato ad istanza de' creditori, ed il fratello ve lo lasciò per qualche tempo, sperando che un tal castigo avrebbe corretto i suoi costumi, tanto più non avendo avuto il tempo materiale per abituarsi radicalmente al vizio ed alla dissolutezza. Nell'ozio del carcere, Valancourt ebbe campo di riflettere, e si pentì. La memoria di Emilia, indebolita dalle sue dissipazioni ma sempre presente al suo cuore, si rianimò con tutte le grazie dell'innocenza e della bellezza; sembravagli lo rimproverasse di sacrificare la sua felicità ed i suoi talenti ad occupazioni vergognose e detestabili. Le sue passioni erano vive, ma il cuore non era corrotto; l'abitudine non l'aveva stretto nelle catene del vizio, e dopo molti sforzi e lunghi patimenti spezzò i lacci della seduzione. Liberato finalmente per cura del conte suo fratello, e impietosito dalla scena commovente dei coniugi Bonnac, ond'era stato testimonio, il primo uso che fece della sua libertà fu al tempo istesso un esempio d'umanità e di temerità; arrischiò, in una casa da giuoco, quasi tutto il denaro mandatogli dal fratello, coll'unica speranza di restituire ai voti della sua famiglia l'amico infelice lasciato in prigione. La fortuna lo favorì, ma colse tal momento per fare il voto solenne di non ceder mai più alle allettative di quel vizio rovinoso. Dopo aver ridonato il venerabile Bonnac alla sua riconoscente famiglia, Valancourt era ripartito per Estuvière. Nell'entusiasmo suo di aver reso la felicità a quell'infelice, obliò i propri mali. Si avvide però ben presto di aver perduta tutta la sua sostanza, senza della quale non poteva mai lusingarsi di sposare Emilia. La vita, senza di lei, gli pareva insopportabile. La sua bontà e delicatezza, e la semplicità del suo cuore, ne rendevano la bellezza vie più incantevole. L'esperienza avevagli insegnato ad apprezzare le qualità che aveva sempre ammirate, ma che il contrasto del mondo facevagli allora adorare. Queste riflessioni accrebbero i suoi rimorsi ed il suo rammarico. Cadde in un abbattimento, che non potè essere distratto neppure dalla presenza di Emilia, e si conobbe indegno di lei. In alcun tempo però Valancourt non aveva subìto l'ignominia della liberalità della marchesa di Campoforte, come aveva creduto Villefort, nè partecipato mai alle astuzie colpevoli de' giuocatori. Questi rapporti erano stati fatti da coloro che si compiaciono di avvilire l'infelice. Il conte avevali avuti da una persona distinta, e l'imprudenza di Valancourt era bastata per confermarli. Emilia non glie ne aveva parlato particolarmente, e per conseguenza non aveva potuto giustificarsi; ed allorquando le confessò che non meritava più la sua stima, non avrebbe mai creduto di appoggiare egli stesso un'infame calunnia. L'errore era stato reciproco, e non erasi presentata fino allora l'occasione di rettificarlo. Quando Bonnac ebbe spiegata la condotta di un amico generoso, ma giovine ed imprudente, Dupont, severo, ma giusto, decise tosto che bisognava disingannare il conte e rinunziare ad Emilia. Un sacrificio come quello che faceva allora il suo amore, meritava una nobile ricompensa; e se Bonnac avesse potuto obliare il benefico Valancourt, avrebbe desiderato che Emilia accettasse la mano di Dupont. Appena il conte ebbe riconosciuto il suo errore, fu afflittissimo delle conseguenze della sua credulità. I dettagli di Bonnac sulla condotta del suo benefattore a Parigi lo convinsero che Valancourt aveva ceduto agli artifizi del libertinaggio, più per l'occasione di trovarsi co' compagni, che per inclinazione al vizio. Incantato dell'umanità generosa, quantunque temeraria, che mostrava il suo procedere verso Bonnac, ne obliò i falli passaggieri, e riprese per lui quella stima che avevagli inspirata la sua prima conoscenza. La più lieve soddisfazione che potesse accordare a Valancourt, era quella di procurargli il modo di spiegarsi con Emilia. Gli scrisse dunque immediatamente, pregandolo di perdonargli un'offesa involontaria, e l'invitò a recarsi subito a Blangy. La delicatezza del conte lo fece astenere dall'informare Emilia di questa lettera, e siffatta precauzione preservò la fanciulla da un affanno ancor più terribile di quello avesse creduto il conte, ignorando egli i sintomi della disperazione di Valancourt. CAPITOLO LV Alcune circostanze singolari distrassero Emilia dalle sue inquietudini, eccitando in lei sorpresa pari ad orrore. Pochi giorni dopo la morte della signora Laurentini, fu aperto il testamento di quella dama in presenza della superiora del convento e di Bonnac. Un terzo de' suoi beni era stato lasciato al parente più prossimo della marchesa di Villeroy, e questo legato riguardava Emilia. La badessa conosceva da molto tempo il segreto della sua famiglia; ma Sant'Aubert, ch'erasi fatto conoscere al religioso che avevalo assistito, aveva prescritto che questo segreto restasse celato sempre alla sua figlia. I discorsi però sfuggiti alla signora Laurentini, e la strana confessione da lei fatta nei suoi ultimi momenti, fecero creder necessario alla badessa di parlare alla sua giovane amica d'un soggetto che poteva illuminarla. Per questo motivo adunque avrebbe voluto vederla il giorno seguente a quello in cui era stata a visitare suor Agnese. L'indisposizione di Emilia avevale impedito di recarsi al monastero, ma dopo l'apertura del testamento, essendo andata a Santa Chiara, venne informata di molti dettagli che l'afflissero molto. Siccome poi il racconto fatto dalla badessa sopprimeva varie particolarità che possono interessare il lettore, e che l'istoria della monaca è legata con quella della marchesa, ometteremo la conversazione del parlatorio, e daremo qui un ristretto della storia della defunta. =Storia della signora Laurentini di Udolfo.= Era essa figlia unica ed erede dell'antica famiglia di Udolfo nel territorio di Venezia. Il primo infortunio della sua vita, e la vera sorgente di tutte le di lei sciagure fu che i suoi genitori, i quali avrebbero dovuto moderare la violenza delle sue passioni, ed insegnarle a regolarle, non fecero che fomentarle con una colpevole indulgenza. Amavano in lei i propri sentimenti. Lodavano sgridavano, la figlia non secondo una tenerezza ragionevole, ma dietro la loro inclinazione. L'educazione non fu per essa che un misto di debolezza e di pertinacia che l'irritò. I consigli che le venivano dati divennero altrettante contese, in cui il rispetto figliale e l'amor paterno erano egualmente dimenticati. Ma siccome quest'amor paterno era sempre più forte, e si disarmava più facilmente, la figlia credeva aver vinto, e lo sforzo che facevano per moderare le sue passioni lor somministrava sempre nuova forza. La morte de' genitori la lasciò padrona di sè medesima nell'età tanto pericolosa della gioventù e della bellezza. Amava il gran mondo, s'inebbriava del veleno della lode, e sprezzava la pubblica opinione quando contraddiceva a' suoi gusti. Il di lei spirito era vivo e brillante; aveva tutti i talenti, tutte le attrattive che formano la grand'arte di sedurre. La sua condotta fu quale potevano farlo presagire la debolezza de' suoi principii e la forza delle sue passioni. Nel numero infinito de' suoi adoratori, vi fu il marchese di Villeroy. Viaggiando in Italia, la vide a Venezia, e se ne innamorò. Anch'essa fu colpita dalla bella figura, dalle grazie e dalle qualità del marchese, il più amabile de' gentiluomini francesi. Seppe nascondere i pericoli del suo carattere, le macchie della sua condotta, e il marchese chiese la di lei mano. Prima della conclusione delle sue nozze andò al castello di Udolfo, ove il marchese la seguì. Là, meno riservata e prudente forse di quello fosse stata fino allora, diè luogo all'amante di formar qualche dubbio sulla convenienza nel nodo che stava per istringere. Un'informazione più esatta lo convinse del suo errore, e colei che doveva esser sua moglie, divenne la sua concubina. Dopo aver passato alcune settimane a Udolfo, fu d'improvviso richiamato in Francia: partì con ripugnanza, e col cuore pieno della sua bella, colla quale però aveva saputo differire la conclusione del matrimonio. Per incoraggirla a sopportare tale separazione, le diè parola di tornare a celebrar le nozze appena i suoi affari glielo avessero permesso. Consolata da tale assicurazione, la signora Laurentini lo lasciò partire. Poco dopo, Montoni, suo parente, venne a Udolfo, e le rinnovò proposte da lei già respinte, che rigettò nuovamente. I suoi pensieri eran tutti rivolti al marchese di Villeroy. Provava per lui tutto il delirio d'un amore costante, fomentato dalla solitudine in cui erasi confinata. Aveva perduto il gusto de' piaceri e della società, e la sua unica consolazione consisteva nel contemplare e bagnar di lacrime un ritratto del marchese. Visitava i luoghi testimoni della loro felicità, e sollevavasi il cuore scrivendogli del continuo lettere affettuosissime. Contava i giorni, e le ore, i minuti che dovevano scorrere prima dell'epoca probabile del suo ritorno. Questo periodo immaginario finì; le settimane che susseguirono, divennero per lei d'un peso insopportabile. La di lei fantasia occupata in una sola idea, si disordinò. Il suo cuore era dedito ad un solo oggetto, e quando credè averlo perduto, la vita le divenne odiosa. Scorsero parecchi mesi senza ch'ella ricevesse una sola parola del marchese. Passava i giorni intieri fra i trasporti di una passione furiosa ed il cupo languore della più nera disperazione. Isolata da tutto, e da tutti, si chiudeva in casa settimane intiere senza parlare ad altri che alla sua confidente. Scriveva lettere, rileggeva quelle ricevute una volta dal marchese, piangeva sul di lui ritratto, e parlavagli del continuo, ora per rimproverarlo, ora per baciarlo con fervore. Finalmente, si sparse la voce nel castello che il marchese si fosse maritato in Francia. Straziata dall'amore, dalla gelosia e dallo sdegno, prese il partito di andar segretamente in quel paese, e vendicarsi, se il fatto era vero. Comunicò alla sola sua confidente il progetto formato, e l'indusse a seguirla. Prese tutte le sue gioie, e quelle raccolte nelle successive eredità di vari membri della famiglia, ch'erano d'immenso valore; e partita segretamente in compagnia d'una sola cameriera, andò a Livorno, ove s'imbarcò per la Francia. Al suo arrivo in Linguadoca, venne a sapere che il marchese di Villeroy era già ammogliato da qualche tempo. La disperazione alterò la sua ragione. Formava ed abbandonava contemporaneamente l'orribile progetto di pugnalare il marchese, la di lui sposa e sè medesima. Decise finalmente di presentarsegli, rimproverargli la sua condotta, ed uccidersi alla sua presenza. Ma quando l'ebbe riveduto, quand'ebbe ritrovato il costante oggetto de' suoi pensieri e della sua tenerezza, il risentimento cedè all'amore: le mancò il coraggio; il conflitto di tanti affetti contrari la rese tremante, e cadde svenuta ai suoi piedi. Il marchese non potè resistere alla prova di tanta bellezza e sensibilità; tutta l'energia di un primo sentimento si risvegliò; la ragione, ma non l'indifferenza, aveva combattuto la sua passione. L'onore non avevagli permesso di sposar la Laurentini; aveva cercato di vincersi; aveva cercato una compagna, per la quale non aveva che stima, considerazione ed un ragionevole affetto. Ma la dolcezza e le virtù di quella donna adorabile non poterono consolarlo di un'indifferenza, ch'essa cercava indarno nascondere. Egli sospettava da qualche tempo che il di lei cuore fosse impegnato ad un altro, allorchè la Laurentini giunse in Linguadoca. Questa donna artifiziosa conobbe in breve tutto l'impero ripreso su di lui. Calmata da tale scoperta, si determinò a vivere, e moltiplicare gli artifizi per ridurre il marchese all'esecrabile misfatto cui credeva necessario per assicurare la sua felicità. Perseverò nel suo progetto con profonda dissimulazione ed imperturbabile pazienza. Riuscì a staccare intieramente il marchese dalla consorte. La sua dolcezza, bontà e freddezza, così opposte alle maniere insinuanti, alla voluttà inesprimibile d'una Veneziana, cessarono ben tosto di piacergli. La Laurentini ne profittò per destare nel di lui cuore la gelosia dell'orgoglio, non potendo più risentir quello dell'amore: giunse perfino a designargli la persona per la quale affermava che la marchesa lo tradisse, dopo avergli strappato il giuramento, che il rivale non sarebbe stato mai l'oggetto della sua vendetta, nella persuasione, che, restringendola così da una parte, avrebbe preso dall'altra maggior violenza ed atrocità. Pensò che così il marchese si sarebbe determinato più facilmente all'atto orribile che diveniva indispensabile a' suoi disegni, e doveva annichilare l'unico ostacolo che sembrava impedire la di lei felicità. L'innocente marchesa osservava con estremo dolore il cambiamento del marito verso di lei. Alla sua presenza, egli era pensieroso e riservato. La di lui condotta diveniva sempre più austera ed aspra: la lasciava struggere in lacrime, e per ore intiere essa piangeva sulla di lui freddezza, facendo sempre nuovi progetti per riguadagnarne l'affetto. La di lui condotta l'affliggeva tanto più in quanto che aveva sposato il marchese unicamente per obbedienza: ne aveva amato un altro, col quale sarebbe stata al certo felice; ma aveva saputo sacrificare la passione ai doveri coniugali. La Laurentini, la quale non tardò a scoprirlo, ne approfittò sagacemente. Suggerì al marchese tante prove apparenti sull'infedeltà della moglie, che, nell'eccesso del furore e del risentimento per l'oltraggio che credeva aver ricevuto, pronunciò il decreto fatale della sua morte. Le fu dato un lento veleno, e quell'infelice morì vittima d'un'astuta gelosia e d'una colpevole debolezza. Il trionfo della Laurentini fu di breve durata. Quel momento, ch'essa aveva riguardato come il colmo di tutti i suoi voti, divenne il principio di un supplizio che la tormentò fino alla morte. La sete della vendetta, prima motrice della sua atrocità, fu spenta appena soddisfatta, e lasciolla in preda alla pietà e ad inutili rimorsi. Gli anni di felicità ch'erasi ripromessa col marchese di Villeroy ne sarebbero stati indubbiamente avvelenati; ma anch'egli trovò il rimorso nel compimento della sua vendetta e la sua complice gli divenne odiosa. Tutto ciò che gli era sembrato una convinzione, parvegli allora svanire come un sogno; e fu oltremodo sorpreso, dopo che la moglie ebbe subìto il suo supplizio, di non trovare alcuna prova del delitto pel quale l'aveva condannata. Al sapere ch'ella era in fin di vita, sentì d'improvviso la persuasione della sua innocenza, la quale gli venne confermata dall'assicurazione solenne ch'essa gliene diede in punto di morte. Nel primo orrore del rimorso e della disperazione, voleva darsi da per sè nelle mani della giustizia con colei che l'aveva piombato nell'abisso del delitto. Dopo questa crisi violenta, cambiò risoluzione: vide una volta sola la Laurentini, ma per maledirla come l'autrice detestabile di tanto misfatto. Le dichiarò che non la risparmiava se non perchè consacrasse i giorni all'orazione e alla penitenza. Oppressa dal disprezzo e dall'odio d'un uomo, pel quale erasi resa tanto colpevole; sovrappresa d'orrore per l'inutile delitto, di cui si era macchiata, la Laurentini rinunziò al mondo, e, vittima orribile d'una passione sfrenata, prese il velo nel convento di Santa Chiara. Il marchese partì dal castello di Blangy, nè vi tornò più. Procurò di spegnere i rimorsi nel tumulto della guerra e nelle dissipazioni della capitale; ma i suoi sforzi furono vani. Gli pareva d'esser sempre circondato da una nube impenetrabile; i suoi più intimi amici non valsero a consolarlo, e infine morì fra tormenti quasi eguali a quelli della Laurentini. Il medico che aveva osservato lo stato della marchesa dopo la sua morte, era stato indotto a tacere a furia di regali. I sospetti di qualche domestico si limitarono ad una voce vaga. Se questa voce giungesse al padre della marchesa, o se la mancanza di prove lo impedisse di accusarlo, è egualmente incerto. È indubitato però che la di lei perdita rincrebbe a tutta la famiglia, e specialmente a Sant'Aubert suo fratello, tal essendo il grado di parentela esistente tra la marchesa ed il padre di Emilia: egli sospettò il genere della sua morte, e scrisse immediatamente al marchese, da cui ricevè parecchie lettere, le quali, insieme a quelle della marchesa, che confidava al fratello il motivo della sua sventura, componevano le carte che Sant'Aubert aveva ordinato di bruciare. L'interesse, il riposo di Emilia aveangli fatto desiderare ch'ella ignorasse questa tragica istoria. L'afflizione cagionatagli dalla morte prematura d'una sorella da lui tanto amata, avevagli impedito di pronunziarne mai il nome, se non alla defunta consorte. Temendo specialmente la viva sensibilità di Emilia, le aveva lasciato ignorare affatto l'istoria ed il nome della marchesa, non che la parentela esistente tra loro, ed aveva prescritto il medesimo silenzio alla signora Cheron sua sorella, che l'aveva rigorosamente osservato. Era sur alcune lettere della marchesa che, partendo dalla valle, Emilia vide piangere il padre; era al di lei ritratto ch'egli aveva fatto sì teneri baci. Una morte sì crudele può spiegare l'emozione cui dimostrò quando Voisin la nominò a lui dinanzi. Egli volle esser sepolto presso al mausoleo de' Villeroy, ove giaceano le ceneri di sua sorella. Il marito di questa essendo morto nella Francia settentrionale, ve l'avean sepolto colà. Il confessore, il quale assistè Sant'Aubert al letto di morte, lo riconobbe pel fratello della defunta marchesa. Per tenerezza verso Emilia, Sant'Aubert scongiurollo di celarle siffatta circostanza, e fe' chiedere la medesima grazia alla badessa, raccomandandole la figlia. La Laurentini, arrivando in Francia, aveva scrupolosamente celato il suo nome. Entrando in convento, per meglio nascondere la sua vera storia, aveva ella stessa fatta circolare quella stata raccontata da suor Francesca. La badessa non era nel monastero quando fece professione, e non conoscea tutta la verità. I crudeli rimorsi che opprimevano la rea, la disperazione d'un amore deluso, e la passione che conservava pel marchese, aveanle alterata la fantasia. Dopo le prime crisi, una cupa malinconia s'impadronì di lei, e fu di rado sino alla morte interrotta da accessi violenti di delirio. Per vari anni il di lei solo piacere fu quello di passeggiare la notte pei boschi; portava seco un liuto, e s'accompagnava sovente colla sua bella voce cantando le più squisite ariette italiane coll'energico sentimento che occupava costantemente il suo cuore. Il medico che la curava, raccomandò alla badessa di tollerare questo capriccio, come l'unico mezzo di calmarla. Soffrivano adunque che la notte errasse pe' boschi, accompagnata dalla sola donna che fosse venuta seco da Udolfo; ma siccome un tale permesso alterava la regola del monastero, fu tenuto segreto; e quella musica misteriosa, unita a tante altre circostanze, fece credere che il castello di Blangy ed i suoi dintorni fossero frequentati dagli spiriti. Avanti che la sua ragione si alterasse, e prima di prendere il velo, aveva fatto testamento. Oltre un lascito importante al monastero, essa divideva il resto de' suoi beni, che le sue gioie rendevano ragguardevoli, tra un'Italiana sua parente, sposa di Bonnac, ed il parente più prossimo della marchesa di Villeroy. Emilia era la parente più prossima di questa dama, e la condotta misteriosa di suo padre venne giustificata in tal guisa. La somiglianza d'Emilia colla sventurata sua zia era stata spesso osservata dalla Laurentini; ma fu specialmente all'ora della sua morte, nel momento stesso in cui la sua coscienza mostravale del continuo la marchesa, che siffatta somiglianza la colpì, e che, nel suo delirio, credette vedere la marchesa in persona. Ardì affermare, ricuperando i sensi, che Emilia doveva esser la figlia di quella dama. N'era convinta; sapeva che la sua rivale, sposando il marchese, gli preferiva un altro, e non dubitava che una passione sfrenata non avesse, come la sua, trascinata la marchesa a qualche fallo. Intanto il delitto che, per un malinteso, Emilia supponeva essere stato commesso dalla signora Laurentini in Udolfo, non aveva mai avuto luogo. Emilia era stata ingannata dalla vista orribile del quadro coperto da un velo nero, onde si parlò negli scorsi capitoli, e che aveale fatto attribuire i rimorsi della monaca ad un omicidio accaduto in quel castello. Quel velo nascondeva un oggetto che la riempì di orrore; sollevandolo, invece di un quadro, vide nello sfondo una figura umana, i cui lineamenti sfigurati avevano il pallore della morte. Era coperta da un lenzuolo, e distesa in una specie di tomba. Ciò che rendeva tal vista ancor più spaventosa, era che quella figura parea esser già in preda ai vermi, e che le mani ed il volto ne lasciavano vedere le orme. È facile immaginare, che un oggetto tanto schifoso non si dovea guardar due volte. Emilia, quando lo vide, lasciò cadere il velo, e se ne allontanò spaventata, nè tornovvi più. Se avesse avuto il coraggio di osservarla più attentamente, l'orrore e lo spavento suo si sarebbero dissipati, perchè avrebbe riconosciuto che quella figura era di cera. Questo fatto, sebbene straordinario, non è però senza qualch'esempio negli annali della dura servitù in cui la superstizione monastica ha sovente piombato il genere umano. Un membro della casa di Udolfo aveva offeso in qualche punto le prerogative della Chiesa, e fu condannato a contemplare due ore per giorno l'immagine in cera di un cadavere. Questa penitenza, che doveva servire a rammentargli una sorte inevitabile, aveva per iscopo di reprimere nel signore di Udolfo un orgoglio di cui quello di Roma era offeso. Non solo egli subì esattamente la sua penitenza, ma nel suo testamento, prescrisse la conservazione di quella figura, mettendo a tal prezzo la proprietà del dominio, e riguardando come utilissima l'umiliante moralità che insegnava il finto cadavere, l'avea fatto incorniciare nel muro del suo appartamento, ma nessuno degli eredi però volle imitarne la penitenza. L'immagine era così naturale, che non è da stupirsi se Emilia la credè un corpo umano. Aveva udito raccontare la strana scomparsa della padrona del castello, e il carattere di Montoni autorizzava in lei il sospetto che il cadavere fosse quello della signora Laurentini assassinata dallo stesso suo parente. Venendo a conoscere che la marchesa di Villeroy era sorella di Sant'Aubert, Emilia si sentì combattuta da contrari affetti. In mezzo alla mestizia cagionatale della morte prematura dell'infelice, si sentì alleviata dalle penose congetture in cui l'avea gettata la temeraria asserzione della Laurentini sulla di lei nascita e sull'onore de' suoi parenti. La sua fiducia ne' principii del padre non permetteale guari d'immaginare ch'egli avesse mancato alla delicatezza. Ripugnava a credersi figlia di tutt'altra che di colei ch'ella avea sempre amata e rispettata come sua madre; avrebbe stentato molto a crederlo; ma la di lei somiglianza colla defunta marchesa, la condotta di Dorotea, le asserzioni della Laurentini, il misterioso affetto di Sant'Aubert aveanle ispirati dubbi che la sua ragione non poteano nè distruggere, nè confermare; ella se ne trovava così sbarazzata, e la condotta del padre si spiegava. Il suo cuore non era più oppresso che dalla sventura d'una parente amabile, e per la terribile lezione data dalla monaca moribonda. Troppa indulgenza per le sue prime passioni, avean trascinata grado grado la signora Laurentini ad un delitto il cui solo nome in gioventù l'avrebbe al certo fatta fremere d'orrore; delitto di cui lunghi anni di penitenza non avean potuto cancellar la memoria, nè alleviare la di lei coscienza. CAPITOLO LVI Dopo le ultime scoperte, Emilia fu trattata dal conte e dalla sua famiglia come una parente della casa Villeroy, e ricevuta, se era possibile, anche con maggiore amicizia. Il conte, inquieto e sorpreso di non ricevere alcuna risposta da Valancourt, s'applaudiva della sua prudenza. Emilia non partecipava a paure di cui ignorava il motivo; ma quando la vedeva soccombere al peso del suo errore crudele, aveva bisogno di tutta la sua risoluzione per privarla d'un sollievo momentaneo e dissimular seco lei. Le nozze di Bianca si avvicinavano, attirando la sua attenzione e le sue cure. Si aspettava di giorno in giorno il cavaliere Santa-Fè, e tutto il castello si occupava dei più brillanti preparativi. Emilia voleva prender parte all'allegrezza che circondavala, ma lo tentava invano; preoccupata di quanto avea saputo, ed inquieta soprammodo della sorte di Valancourt si raffigurava lo stato in cui era quando diè l'anello a Teresa: essa credea riconoscervi l'espressione della disperazione, e quando considerava dove questo stato avrebbe potuto spingerlo, il cuore le sanguinava di dolore e spavento. I dubbi da lei formati sulla salute e sull'esistenza sua, l'obbligo in cui era di conservar questi dubbi sino al di lei ritorno alla valle, pareale insopportabile. Eranvi momenti in cui nulla valea a contenerla. Essa sottraevasi inosservata da casa, andando a cercare la calma nelle profonde solitudini de' boschi che contornavano la spiaggia. Il fragor delle onde spumanti, il sordo stormir delle foreste, s'accordavano collo stato dell'anima sua: sedeva sopra una rupe o sulle rovine della vecchia torre; osservava verso sera la sfumatura de' colori nelle nubi; vedea svolversi i tetri veli del crepuscolo. La candida cresta dell'onde, eternamente sospinte al lido, distinguevasi appena sull'oscura superficie dell'acque. Talvolta essa ripetea i versi incisi dall'amante in que' luoghi; poi, troppo addolorata pe' dispiaceri che le rinnovavano, cercava distrarsi. Una sera che col liuto errava a caso sul lido favorito, entrò nella torre. Salita una scala a lumaca, trovossi in una stanza meno rovinata del resto. Di là spesse fiate ella aveva ammirato la vasta prospettiva offertale dal mare e dalla terra: il sole tramontava da quella parte de' Pirenei che divide la Linguadoca dal Rossiglione; ella si mise ad una finestra munita di ferriate: i boschi e le onde sotto a lei conservavano ancora le tinte rossicce del tramonto. Accordato il liuto, vi unì il suono della voce, e cantò una di quelle romanze semplici e campestri tanto predilette da Valancourt. Il tempo era sì queto e sereno, che appena la brezza vespertina increspava la superficie dell'acqua o gonfiava leggermente la vela indorata ancora agli ultimi rai del dì. I colpi misurati de' remi di qualche battello sturbavan soli il riposo ed il silenzio. La tenera melodia del liuto finiva d'immerger la fanciulla in dolce malinconia; essa ripetè le antiche canzoni, e le memorie in lei destate diventando ognor più tenere, le sue lagrime caddero sul liuto, e non potè proseguire. Il sole era scomparso dietro le vette de' monti, e le loro cime più alte non ne ricevevan più la luce; Emilia, trattenendosi ancora nella torre, vi si abbandonava a' suoi pensieri. Udendo camminare, sussultò, e guardando abbasso, riconobbe Bonnac. Ricadde nella meditazione, e dopo alcuni momenti, ripreso il liuto, cantò la sua aria favorita. Tornò ad udir rumore di passi; ascoltò: salivan la scala della torre. L'oscurità ispirolle qualche paura; i passi eran veloci e leggeri; la porta s'aprì ed il debole crepuscolo le celò sulle prime i lineamenti d'una persona che entrava; ma Emilia potea ingannarsi al suono della voce? era quella di Valancourt. La fanciulla, la quale non aveala mai intesa senza emozione, turbata da sorpresa e piacere a un tempo, appena se l'ebbe visto a' piedi, fu per venir meno. Tanti contrari affetti agitavanle il cuore, che a stento udiva quella voce, i cui teneri e timidi accenti cercavan riassicurarla. Valancourt, vedendola in tale stato, si rimproverava l'eccesso d'impazienza che l'aveva spinto a sorprenderla così. Appena giunto al castello di Blangy, non aveva potuto aspettare il ritorno del conte, ch'era fuori al passeggio, e correndone in cerca, nel passar presso la torre, avea riconosciuta la voce d'Emilia, ed era salito subito. Quand'essa fu rinvenuta, respinse le attenzioni di Valancourt, e gli domandò, con aria di malcontento, qual fosse il soggetto della sua visita. «Ah! Emilia,» disse Valancourt, «queste parole, questo disprezzo... Gran Dio! Mi sono illuso. Allorchè mi privaste della vostra stima, voi avete dunque cessato di amarmi? --Sì, signore,» rispos'ella, sforzandosi di parer tranquilla; «se faceste caso della mia stima, non mi avreste data questa nuova occasione di affanno.» La fisonomia del giovane si alterò visibilmente, e l'ansietà del dubbio cedè alla sorpresa e allo scoraggiamento. Tacque alcun poco, poi disse: «M'avevano lusingato di un'accoglienza molto diversa! È dunque vero, o Emilia, che ho perduto per sempre il vostro affetto? Debbo io dunque credere che la vostra stima non può essermi mai restituita, e che il vostro amore non può rinascere? Il conte ha meditato dunque questa crudeltà che mi dà una seconda volta la morte?» L'accento con cui si esprimeva allarmò e sorprese molto Emilia. Tremante d'impazienza, gli disse che si spiegasse più chiaro. «E perchè una spiegazione? Ignorate voi,» rispose Valancourt, «quanto la mia condotta fu calunniata? Ignorate voi che le azioni di cui mi credeste colpevole... E come poteste, o Emilia, degradarmi fino a questo punto nella vostra opinione?... Che queste azioni, le disprezzo e le abborro quanto voi? Ignorate voi che il conte ha scoperte le falsità che mi privavano dell'unico bene che mi sia caro al mondo; che mi ha invitato egli medesimo a venire a giustificarmi presso di voi? Lo ignorate voi, o son io ancora il trastullo d'una falsa speranza?» Il silenzio di Emilia parea confermare questo timore; il giovane, nell'oscurità, non poteva distinguere la sorpresa e la gioia che la rendevano quasi immobile, incapace di parlare, un profondo sospiro parve sollevarla, e disse finalmente: «Valancourt! Io ignorava tutto quel che mi avete detto. L'emozione ch'io sento n'è la prova. Io non poteva stimarvi più, ma non aveva ancora potuto riuscire a dimenticarvi. --Qual felicità mi recan le vostre parole! Vi son dunque caro ancora, o mia Emilia? --È forse necessario che io ve lo dica? Questo è il primo momento di gioia dopo la vostra partenza, e m'indennizza di tutto quello che ho sofferto.» Valancourt sospirava, non poteva rispondere, bagnava di baci e lagrime le mani di lei, ed il suo pianto esprimeva assai meglio di qualunque più tenero linguaggio. La fanciulla, riavutasi alquanto, propose di tornar al castello. Allora, e per la prima volta, ricordossi che il conte avea invitato Valancourt a giustificarsi appo lei, e che nessuna spiegazione era avvenuta. Ma, a questa sola idea, il suo cuore respinse la possibilità che Valancourt fosse stato reo. I suoi sguardi, la voce, i modi erano il pegno della sua nobile e costante sincerità. Ella abbandonossi dunque senza ritegno al sentimento di una gioia non mai provata fin allora. Nè Emilia, nè il giovane seppero come fossero tornati al castello: se un potere magico ve li avesse trasportati, forse ne avrebbero meglio notato il movimento; erano nel vestibolo prima d'accorgersi che esistesse qualcuno al mondo. Il conte venne loro incontro con tutta la franchezza e l'affabilità del suo carattere; accolse cordialmente Valancourt, e lo pregò di perdonargli la sua ingiustizia. Poco dopo Bonnac raggiunse quel gruppo felice, e Valancourt ed esso si abbracciarono con reciproca e tenera soddisfazione. Dopo i primi complimenti, il conte ebbe una lunga conferenza col giovane, il quale si giustificò appieno. Confessò così ingenuamente i suoi torti, e ne mostrò tanto rammarico, che il conte ne concepì le più liete speranze. Valancourt era dotato delle più eminenti qualità: l'esperienza gli aveva insegnato a detestare tutte le follie che l'avevano sviato qualche momento; ed il conte, persuaso ch'esso avrebbe menato vita onesta, gli confidò alfine senza scrupolo la felicità della parente cui amava come sua figlia. Le rese conto in due parole del soggetto del loro colloquio; Emilia aveva già saputo tutto ciò che Valancourt aveva fatto per Bonnac, e versava in quel momento copiose lacrime di piacere e di tenerezza. Il colloquio del conte Villefort finì a dileguare tutti i suoi dubbi, ed ella restituì senza tema la sua stima e l'amor suo a colui che aveva saputo inspirarglieli. L'arrivo del cavaliere di Santa-Fè, guarito dalle sue ferite, finì di spargere il brio e l'allegrezza in tutti gli abitanti del castello. Il povero Dupont volle scansar di gettare, colla sua presenza, qualche ombra di tristezza su tutta quella felice comitiva. Appena fu certo che Valancourt non era indegno di Emilia, pensò sul serio a guarire dalla sua passione, e partì. La di lui condotta, ben compresa dalla fanciulla, le ispirò pietà ed ammirazione insieme. Quando Annetta seppe l'arrivo di Valancourt, Lodovico durò gran fatica a trattenerla; voleva correre nella sala ad esprimere tutta la sua gioia, assicurando che dopo il ritorno del suo caro Lodovico non aveva provato mai tanta consolazione. Le nozze di Bianca e di Emilia furon celebrate nel medesimo giorno a Blangy con tutta la magnificenza. Le feste furono splendidissime: la sala grande era stata ornata d'un nuovo parato rappresentante Carlo Magno co' suoi dodici pari. Si vedevano i fieri Saraceni che si avanzavano in battaglia, e tutti gl'incanti ed il potere magico di Merlino. Le sontuose bandiere de' Villeroy, sepolte a lungo nella polvere, sventolarono di nuovo sulle torri gotiche del castello. La musica rimbombava da tutte le parti. Annetta ammirava tutte quelle feste, considerava la magnificenza degli abbigliamenti, le ricche livree dei servitori, i mobili di velluto ricamati in oro, ascoltava i lieti canti che facevan echeggiar le vôlte, e credevasi trasportata in un palazzo di geni e di fate. La vecchia Dorotea sospirava, e diceva che l'aspetto attuale del castello le rammentava tuttavia la sua gioventù. Dopo aver per qualche giorno fatto l'ornamento delle feste, Emilia e Valancourt si congedarono dai loro buoni amici, e tornarono alla valle. Furono ricevuti dalla buona e fida Teresa con gioia sincera. Le fresche ombre di quel luogo favorito parvero offrir loro gratamente le più care memorie. Percorrendo que' luoghi, soggiorno per tanto tempo de' suoi diletti genitori, Emilia mostrava con tenerezza allo sposo i luoghi ove solevan riposare, e la sua felicità pareale più dolce, pensando che entrambi l'avrebbero abbellita d'un sorriso. Valancourt la condusse al platano ove per la prima volta avea ardito favellarle d'amore. La memoria de' dispiaceri sofferti poscia, delle sventure, de' pericoli susseguiti a quell'incontro, aumentò il sentimento dell'attuale loro felicità. Sotto quelle sacre ombre, dedicate per sempre alla memoria di Sant'Aubert, giuraronsi scambievolmente di cercar di rendersene degni, imitando la di lui dolce benevolenza: ricordandosi che ogni specie di superiorità impone doveri a chi ne fruisce; offrendo a' loro simili, oltre le consolazioni ed i benefizi che la prosperità deve ogni giorno all'infortunio, l'esempio d'una vita passata nella gratitudine verso Dio, e la costante occupazione d'essere utile all'umanità. Poco dopo il loro ritorno alla valle, il fratello di Valancourt venne a felicitarlo sul di lui matrimonio, ed a rendere omaggio ad Emilia. Fu talmente contento di lei, e della ridente prospettiva che questo matrimonio offriva a Valancourt, che tosto gli donò la metà de' suoi averi, e siccome non aveva figli, gli assicurò tutta la sua eredità. I beni di Tolosa furono venduti. Emilia ricomprò da Quesnel il patrimonio avito; dotò Annetta, che si maritò a Lodovico, e impiegolli ambidue a Epourville. Valancourt e lei stessa preferivano gli ombrosi luoghi della valle ad ogni altra residenza, e vi fissarono stabile dimora; ma tutti gli anni, per rispetto alla memoria di Sant'Aubert, andavano a passar qualche mese nell'abitazione ove era stato allevato. Emilia pregò lo sposo di permetterle che donasse a Bonnac il legato ricevuto dalla signora Laurentini, e ciò le venne accordato col massimo piacere. Il castello di Udolfo toccava egualmente alla sposa di Bonnac, come più prossima parente della Laurentini; e cotesta famiglia, lungamente infelice, gustò di nuovo l'abbondanza e la pace. Oh! quanto sarebbe dolce il parlar a lungo della felicità de' due sposi! dire con qual gioia, dopo aver sofferto l'oppressione de' malvagi e lo sprezzo de' fiacchi, furono alfine restituiti l'uno all'altro; con qual piacere ritrovarono i diletti luoghi della patria! Quanto sarebbe dolce narrare, come, rientrati nella via che adduce più sicuramente alla felicità, tenendo ognora alla perfezione dell'intelletto, fruirono delle dolcezze d'una società illuminata, de' piaceri d'una beneficenza attiva, e come i boschetti della valle ritornarono il soggiorno della saviezza ed il tempio della domestica felicità! Possa almeno aver giovato il dimostrare, che il vizio può talvolta affliggere la virtù, ma che il suo potere è passeggiero, e certo il suo castigo, mentre, se la virtù è oppressa dall'ingiustizia, appoggiata però alla pazienza, trionfa infine di qualunque infortunio! E se la debole mano che scrisse questi eventi ha potuto sollevar un momento il cuor mesto degli afflitti; se colla sua morale consolante ha potuto insegnar loro a sopportarne il peso con rassegnazione, i suoi umili sforzi non saranno stati vani, e l'autore avrà ottenuto la sua ricompensa. FINE DEL QUARTO ED ULTIMO VOLUME. Milano 1875--Tip. Ditta Wilmant. NOTA DEL TRASCRITTORE La presente edizione del libro è una traduzione abbreviata e priva di quasi tutte le parti in poesia. La versione originale completa in inglese è disponibile su Project Gutenberg: The mysteries of Udolpho (http://www.gutenberg.org/etext/3268). Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annnotazione minimi errori tipografici. In particolare, l'uso di trattini e virgolette per introdurre il discorso diretto, molto irregolare e incoerente, è stato per quanto possibile regolarizzato. I seguenti refusi sono stati corretti [tra parentesi il testo originale]: P. 7 - maggiore che non potete supporre [suporre]. 18 - la sua relazione [ralazione] con Valancourt 22 - e le disse affettuosamente [affettuosomente] 25 - mi darà la forza [forza la] di superare 31 - con rispettoso [ripettoso] silenzio 46 - Mi fu detto che la marchesa di Villeroy [Valleroy] 78 - ed a qualche altra circostanza [ciscostanza] 80 - udito battere, e le precauzioni [precauazioni] 83 - del cacciatore è piacevole e salubre [solubre] 90 - Avete voi appostata una vedetta [vendetta] 96 - con molto riserbo del signor Valancourt [Valencurt] 103 - aveva passato [passate] presso di lei momenti 131 - la conversazione del parlatorio [palatorio] End of the Project Gutenberg EBook of I misteri del castello d'Udolfo, vol. 4, by Ann Radcliffe *** END OF THIS PROJECT GUTENBERG EBOOK I MISTERI DEL CASTELLO D'UDOLFO, VOL. 4 *** ***** This file should be named 33784-8.txt or 33784-8.zip ***** This and all associated files of various formats will be found in: http://www.gutenberg.org/3/3/7/8/33784/ Produced by Carlo Traverso, Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (This file was produced from images generously made available by Biblioteca Sormani - Milano) Updated editions will replace the previous one--the old editions will be renamed. 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It exists because of the efforts of hundreds of volunteers and donations from people in all walks of life. Volunteers and financial support to provide volunteers with the assistance they need, are critical to reaching Project Gutenberg-tm's goals and ensuring that the Project Gutenberg-tm collection will remain freely available for generations to come. In 2001, the Project Gutenberg Literary Archive Foundation was created to provide a secure and permanent future for Project Gutenberg-tm and future generations. To learn more about the Project Gutenberg Literary Archive Foundation and how your efforts and donations can help, see Sections 3 and 4 and the Foundation web page at http://www.pglaf.org. Section 3. Information about the Project Gutenberg Literary Archive Foundation The Project Gutenberg Literary Archive Foundation is a non profit 501(c)(3) educational corporation organized under the laws of the state of Mississippi and granted tax exempt status by the Internal Revenue Service. The Foundation's EIN or federal tax identification number is 64-6221541. Its 501(c)(3) letter is posted at http://pglaf.org/fundraising. Contributions to the Project Gutenberg Literary Archive Foundation are tax deductible to the full extent permitted by U.S. federal laws and your state's laws. The Foundation's principal office is located at 4557 Melan Dr. S. Fairbanks, AK, 99712., but its volunteers and employees are scattered throughout numerous locations. Its business office is located at 809 North 1500 West, Salt Lake City, UT 84116, (801) 596-1887, email [email protected]. Email contact links and up to date contact information can be found at the Foundation's web site and official page at http://pglaf.org For additional contact information: Dr. Gregory B. Newby Chief Executive and Director [email protected] Section 4. Information about Donations to the Project Gutenberg Literary Archive Foundation Project Gutenberg-tm depends upon and cannot survive without wide spread public support and donations to carry out its mission of increasing the number of public domain and licensed works that can be freely distributed in machine readable form accessible by the widest array of equipment including outdated equipment. Many small donations ($1 to $5,000) are particularly important to maintaining tax exempt status with the IRS. The Foundation is committed to complying with the laws regulating charities and charitable donations in all 50 states of the United States. Compliance requirements are not uniform and it takes a considerable effort, much paperwork and many fees to meet and keep up with these requirements. We do not solicit donations in locations where we have not received written confirmation of compliance. 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Hart is the originator of the Project Gutenberg-tm concept of a library of electronic works that could be freely shared with anyone. For thirty years, he produced and distributed Project Gutenberg-tm eBooks with only a loose network of volunteer support. Project Gutenberg-tm eBooks are often created from several printed editions, all of which are confirmed as Public Domain in the U.S. unless a copyright notice is included. Thus, we do not necessarily keep eBooks in compliance with any particular paper edition. Most people start at our Web site which has the main PG search facility: http://www.gutenberg.org This Web site includes information about Project Gutenberg-tm, including how to make donations to the Project Gutenberg Literary Archive Foundation, how to help produce our new eBooks, and how to subscribe to our email newsletter to hear about new eBooks.