I misteri del castello d'Udolfo, vol. 4

By Ann Ward Radcliffe

Project Gutenberg's I misteri del castello d'Udolfo, vol. 4,
by Ann Radcliffe

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Title: I misteri del castello d'Udolfo, vol. 4

Author: Ann Radcliffe

Release Date: September 20, 2010 [EBook #33784]

Language: Italian


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DEL CASTELLO D'UDOLFO, VOL. 4 ***




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              I MISTERI
                  DEL
          CASTELLO D'UDOLFO


                  DI
            ANNA RADCLIFFE


               VOL. IV

                MILANO
           _Oreste Ferrario_

      Sotterranei Galleria Nuova,
  via Silvio Pellico, 6, scala n. 18
          e Santa Margherita




  [Illustrazione: FUNERALI DELLA SIGNORA MONTONI.

  I lineamenti feroci, le bizzarre fogge di quegli scherani...

  _Cap. XXVIII_]




CAPITOLO XXXVIII


Bianca, che intanto trovavasi sola, non vedea l'ora di riveder la
nuova amica, per dividere seco lei il piacere dello spettacolo della
natura. Non aveva più nessuno cui esprimere l'ammirazione e comunicare
le sue idee. Il conte, accortosi del di lei dispiacere, fece ricordare
ad Emilia la visita promessa, ma il silenzio prolungato di Valancourt
inquietava tanto la fanciulla, che fuggiva la società, ed avrebbe
voluto differire il momento di riunirvisi fin quando non fosse calmata
la sua ansietà. I Villefort la sollecitarono però così vivamente, che
non potendo spiegare il motivo che l'attaccava alla solitudine, temè
il suo rifiuto non avesse l'aria del capriccio, ed offendesse quegli
amici dei quali voleva conservare la stima. Ritornò dunque al castello
di Blangy; l'amicizia del conte la incoraggì a parlargli della sua
posizione relativamente ai beni della zia ed a consultarlo sul modo di
rivendicarli: non eravi dubbio che la legge non fosse in suo favore.
Il conte la consigliò di occuparsene, e le offrì perfino di scrivere
ad un avvocato di Aix per averne il parere. L'offerta venne accettata;
le garbatezze che riceveva giornalmente in quella casa, l'avrebbero
resa ancora felice, se avesse potuto esser certa che Valancourt stava
bene e l'amava sempre. Aveva già passata più d'una settimana al
castello senza riceverne notizie; sapeva benissimo che se Valancourt
non fosse stato dal fratello, era molto dubbio che la sua lettera
pervenisse, ed intanto l'inquietudine, il timore che non poteva
vincere turbavano continuamente il di lei riposo. Le passavano per
l'idea i tanti casi, che potevano essere divenuti possibili dopo la
sua cattività nel castello di Udolfo; talvolta era colta da tanto
timore, o che Valancourt non esistesse più, o che non esistesse più
per lei, che la compagnia istessa di Bianca le diveniva
insopportabile. Passava ore intiere sola nella sua stanza, quando le
occupazioni della famiglia le permettevano di farlo senza inciviltà.

In uno di questi momenti di solitudine, aprì una cassettina contenente
le lettere di Valancourt, e qualcuno dei disegni fatti in Toscana; ma
questi ultimi oggetti l'interessavano poco. Cercava in quelle lettere
il piacere di rammentarsi una tenerezza, che aveva formato tutta la
sua consolazione, ed avevale fatto qualche volta obliare ogni affanno;
ma esse non producevano più l'istesso effetto, aumentando invece le
sue angoscie. Pensava, aver forse Valancourt potuto cedere alla forza
del tempo e della lontananza. Oppressa da tai dolorosi pensieri,
appoggiò la testa sulle mani, lasciando libero sfogo alle lacrime. In
quel momento, Dorotea entrò per avvertirla che il pranzo sarebbe stato
anticipato di un'ora. Sussultò Emilia, ed affrettossi a raccogliere le
carte; ma la vecchia notò le sue lagrime e la sua agitazione.

«Ah! signorina,» esclamò essa, «nella vostra fresca età avete anche
voi affanni?»

Emilia si sforzò di sorridere, ma non poteva parlare.

«Oimè! cara fanciulla, quando avrete i miei anni, non piangerete per
inezie. Certo non dovete affliggervi per qualcosa di serio?

--No, Dorotea,» rispose Emilia, «nulla d'importante.»

Dorotea, chinatasi per raccogliere qualcosa, esclamò improvvisamente;
«Cielo! che vedo?» Cominciò a tremare, e si abbandonò su d'una sedia.

--Cosa avete veduto?» disse Emilia guardandosi intorno.

--È ella stessa,» disse Dorotea, «è lei precisamente com'era poco
tempo innanzi la sua morte... Questo ritratto, oh Dio! dove l'avete
trovato? È la mia cara padrona, è lei stessa!» E gettò sul tavolino la
miniatura trovata da Emilia tra le carte che il padre le aveva
ordinato di bruciare; era lo stesso ritratto, sul quale l'aveva una
volta veduto piangere. Rammentandosi a tal proposito le circostanze
della sua condotta, che l'avevano tanto sorpresa, l'emozione di Emilia
fu tale, che non ebbe la forza d'interrogare Dorotea: tremava delle
risposte che avrebbe potuto riceverne, e potè appena domandarle s'era
certa che quello fosse il ritratto della marchesa.

«Ah! signorina,» rispose la vecchia, «come mi avrebbe colpito in
questo modo, se non fosse l'effigie della mia padrona! O cielo,»
soggiunse quindi riprendendo la miniatura, «ecco i suoi begli occhi
azzurri, e quello sguardo così affabile e lusinghiero! Ecco la sua
espressione, quando aveva pianto sola per qualche tempo! Ecco
quell'aria di pazienza e rassegnazione, che mi squarciava il cuore e
me la faceva adorare!

--Dorotea,» disse Emilia, «io prendo per la vostra afflizione un
interesse maggiore che non potete supporre. Vi domando di non negarvi
a soddisfar la mia curiosità, che non è frivola.»

Sì dicendo, ella rammentossi delle carte, fra le quali aveva trovato
il ritratto, e si convinse quasi che fossero relative alla marchesa di
Villeroy. Ma la supposizione le fece nascere uno scrupolo. Temeva che
fosse precisamente il segreto che suo padre aveva voluto nasconderle,
e pareale di mancare al suo dovere cercando di penetrarlo. Qualunque
fosse la sua curiosità sul destino della marchesa, è probabile che vi
avrebbe resistito tuttavia, se fosse stata certa che quelle terribili
parole rimastele impresse appartenessero all'istoria di quella dama, o
che le particolarità che poteva confidarle Dorotea potessero entrare
nel divieto di suo padre. Ma ciò che sapeva Dorotea poteano saperlo
molti altri, e non era presumibile che Sant'Aubert avesse il progetto
di nascondere alla sua figlia ciò ch'essa poteva sapere in altra
guisa. Emilia ne concluse che se quelle carte erano relative alla
marchesa, non versavano su d'un oggetto che Dorotea potesse spiegarle;
per cui, bandito ogni scrupolo, cominciò ad interrogarla.

«Ah! signorina,» disse la vecchia, «la è un'istoria dolorosa, ed ora
non posso raccontarvela; ma che dico? Non ve ne parlerò mai. Son molti
anni ch'è accaduta, questa disgrazia, e non ho mai più parlato della
signora marchesa se non con mio marito. Egli stava in questa casa come
me, e sapeva soltanto da me certi dettagli che gli altri ignoravano.
Io assisteva la padrona nell'ultima sua malattia, e ne seppi più che
non il marchese istesso. Santa donna, quanto era paziente! Quand'essa
morì, credetti morir con lei.

--Dorotea,» la interruppe Emilia, «potete esser certa che quanto mi
dite non uscirà mai dalla mia bocca. Vi ripeto che ho ragioni per
cercar schiarimenti in proposito, e m'impegno coi più sacri giuramenti
a non rivelar mai i vostri segreti.» Dorotea parve commossa dalle
parole di lei; la guardò tacendo, e poi soggiunse: «Mia bella
signorina, la vostra fisonomia mi parla a vantaggio vostro. Voi
somigliate tanto alla mia cara padrona, che mi par di vedermela
innanzi agli occhi. Se foste sua figlia, non potreste rammentarmela
meglio di così. Ma l'ora del pranzo si avvicina, e voi dovete andare
ad unirvi alla famiglia che vi attende.

--Promettetemi prima di aderire alla mia domanda,» disse Emilia.

--E voi, signorina, spero che mi direte in qual modo quel ritratto è
caduto nelle vostre mani, ed i motivi della vostra curiosità a
proposito della mia padrona.

--No, Dorotea,» replicò Emilia ravvedendosi. «Ho ancor io ragioni
particolari per tacere, almeno fin quando non ne sappia qualcosa di
più. Ricordatevi che non vi prometto nulla, e se volete compiacervi di
contentar la mia curiosità, non dovete farlo coll'idea ch'io possa
soddisfare la vostra. Ciò ch'io non voglio rivelare, non interessa me
sola, altrimenti avrei meno riguardo a parlarne, e voi non potete
narrarmi quanto desidero, se non confidando nel mio onore.

--Ebbene, madamigella,» disse Dorotea, dopo averla per qualche tempo
fissata, «voi mostrate tanto interesse; quel ritratto, e la vostra
fisonomia in particolare, mi fanno pensare che potete sì realmente
prenderne, ch'io vi confiderò cose non mai dette ad altri tranne a mio
marito, sebbene molti ne abbiano sospettata una parte. Vi descriverò
la morte della marchesa, e vi dirò le mie idee in proposito. Ma
promettetemi per tutti i santi...»

Emilia, interrompendola, le promise solennemente di non rivelar mai,
senza suo consenso, quanto le avrebbe detto.

«Odo la campana che chiama a pranzo,» disse la vecchia, «io non posso
più trattenermi.

--Quando potrò dunque rivedervi?»

Dorotea riflettè, e riprese:

«Per non dar sospetto, verrò da voi allorchè tutti dormiranno.

--Benissimo, ricordatevi di non mancare.

--Sì, sì, me ne rammenterò. Ma temo di non poter venire stanotte,
essendovi il ballo della vendemmia, e quando cominciano non ismettono
fino a giorno. Io soglio assistervi, e non voglio mancarci...»

Emilia affrettossi a scendere. La sera, il conte e la sua famiglia,
eccettuate la contessa e la Bearn, andarono a passeggiare onde
partecipare alla gioia dei contadini. La festa si faceva in un'aia
intorno alla quale erano appesi lumi agli alberi, da cui pendeva a
festoni l'uva matura. Sotto una pergola vedeansi imbandite tavole
copiosamente provviste di pane, vino, frutta e cacio. I suonatori,
seduti appiè degli alberi, parevano partecipare dell'allegria prodotta
dai loro strumenti. Un fanciullo suonava il cembalo e ballava solo, e
co' suoi gesti, veramente ridicoli, raddoppiava le risa ed il brio di
quella festa campestre.

Il conte gioiva di que' piaceri cui aveva contribuito la sua
liberalità. Bianca prese parte al ballo con un gentiluomo del
vicinato. Dupont venuto a visitare il conte a tenore della sua
promessa, desiderava danzare con Emilia, ma ella era troppo trista,
per prender parte a tanto brio. Questa festa le rammentava quella
dell'anno precedente, gli ultimi momenti del padre, ed il caso
terribile che l'aveva troncata. Piena di tali rimembranze, si
allontanò insensibilmente, internandosi nel bosco; i suoni addolciti
dalla musica tempravano la sua malinconia; la luna diffondea
attraverso le foglie una luce misteriosa; immersa ne' pensieri, senza
accorgersi della distanza si ritrovò nel viale, in cui la notte
dell'arrivo di suo padre colà, Michele aveva procurato di trovargli un
asilo. Il viale era sempre deserto e selvaggio come allora.

Considerando il luogo, si rammentò le emozioni ivi sofferte allo
scorgere la figura ch'erasi dileguata fra gli alberi, ed ebbe qualche
paura; tornò tosto indietro, in quella udì un rumor di passi, e fu
raggiunta da una persona, che riconobbe per Enrico, il quale le
manifestò qualche sorpresa di trovarla così lontana: essa gli disse
che il piacere di passeggiare al chiaro della luna l'aveva fatta
involontariamente inoltrare in quel viale. D'improvviso, udì
un'esclamazione d'un uomo che seguiva Enrico a poca distanza, e le
parve riconoscere Valancourt; era lui stesso. L'incontro fu quale si
può immaginarlo tra due persone sì care l'una all'altra, e separate
per tanto tempo. Nell'ebbrezza del momento, Emilia obliò tutti i suoi
affanni: Valancourt stesso pareva obliare che esistessero nel mondo
altri fuor di lei, ed Enrico, attonito, li considerava in silenzio.

Valancourt le fece tante interrogazioni in una volta, che non ebbe
tempo di rispondergli. Seppe che la sua lettera eragli stata mandata a
Parigi, mentre partiva per la Guascogna; e che finalmente avendola
ricevuta era volato in Linguadoca. Giunto al monastero, d'onde ella
aveva datata la sua lettera, con molto suo dispiacere trovò le porte
chiuse per esser già notte. Credendo di non poter vedere Emilia se non
il giorno dopo, tornava al suo alloggio, quando incontrò Enrico, da
lui conosciuto a Parigi, e per caso infine si trovò presso colei che
non si lusingava di vedere se non la domane.




CAPITOLO XXXIX


Emilia, Valancourt e Enrico tornarono insieme alla festa; quest'ultimo
presentò Valancourt al conte; Emilia credette accorgersi che questi
non lo riceveva coll'ordinaria cordialità, quantunque paresse che si
fossero già veduti. Fu invitato a godere i divertimenti della sera:
quand'ebbe fatti i debiti complimenti al conte, andò a sedere accanto
ad Emilia, e potè parlarle senza riserbo. I lumi appesi agli alberi
permisero alla fanciulla di considerare quel volto, di cui nella sua
assenza aveva procurato di rammentarsi tutti i lineamenti, e vide con
pena che non era più l'istesso. Brillava come pel passato, di spirito
e di fuoco, ma aveva perduto molto di quella semplicità, ed un poco
anche di quella franca bontà, che ne formava il carattere principale:
era sempre però una fisonomia interessante. Emilia credeva travedere
in lui un misto d'inquietudine e di malinconia. Egli cadeva talvolta
in un'astrazione passeggera, e sembrava sforzarsi d'uscirne; tal altra
guardava fiso la fanciulla, ed una specie di fremito pareva agitare la
di lui anima. Ritrovava in Emilia la stessa bontà e beltà semplice che
l'aveva sedotto allorchè la conobbe. Le guance erano un po'
impallidite, ma la di lei dolce fisonomia, sebbene alquanto
malinconica, la rendeva sempre più interessante.

Gli raccontò le più importanti circostanze di quanto erale accaduto
dopo la di lei partenza di Francia. La pietà e lo sdegno penetravano a
vicenda, Valancourt al racconto delle atrocità di Montoni. Più di una
volta, mentr'essa parlava, egli alzossi dalla sedia e passeggiò
agitato. Non parlò se non dei mali da lei sofferti, nelle poche parole
che potè dirigerle, non intese ciò ch'ella gli disse, quantunque con
chiarezza, del sacrifizio necessario dei beni della sua zia, e della
poca speranza di ricuperarli. Il giovane che pareva agitato da qualche
affanno segreto, la lasciò bruscamente; quando tornò, ella si accorse
che aveva pianto, e lo pregò di rimettersi. «Le mie pene sono finite,»
gli disse Emilia, «io sono sfuggita alla tirannia di Montoni. Vi
ritrovo sano, lasciate adunque ch'io vi veda anche felice.»

Valancourt, più agitato che mai, rispose: «Io sono indegno di voi,
Emilia, sono indegno di voi.» Tali parole, e più ancora l'espressione
colla quale vennero pronunziate, afflissero vivamente Emilia. «Non mi
guardate così,» le diss'egli stringendole la mano, «deh! non mi
guardate così!

--Vi vorrei chiedere,» gli diss'ella con voce affettuosa e commossa,
«di spiegarvi chiaramente; ma mi accorgo che in questo momento tal
domanda vi affliggerebbe: parliamo di tutt'altro: domani forse sarete
più tranquillo. Voi eravate una volta ammiratore della natura; vi
rammentate il nostro viaggio dei Pirenei?

--E posso obliarlo? Fu quella l'epoca più felice della mia vita:
allora io amava con entusiasmo tutto ciò ch'era veramente buono e
grande. Promettetemi Emilia di non dimenticarlo mai, ed io sarò
tranquillo.

--La mia condotta dipenderà dalla vostra,» disse Emilia, «ma possiamo
essere ascoltati. Viene appunto madamigella Bianca; andiamole
incontro.»

I due amanti, raggiunta Bianca, recaronsi dal conte, e si misero a
tavola sotto una pergola, ove sedevano i più venerandi vassalli, e
tutti stettero allegri, tranne Emilia e Valancourt. Quando il conte
tornò al castello, non invitò questi a seguirlo; egli prese dunque
congedo da Emilia, e partì. La fanciulla, tornando in camera, pensò a
lungo alla condotta di Valancourt ed all'accoglienza fattagli dal
conte, ed in mezzo a queste riflessioni, obliò Dorotea. La mattina era
già inoltrata quando se ne ricordò, e pensando giustamente che la
buona vecchia non sarebbe venuta, pensò a riposare.

La sera seguente, il conte incontrò a caso Emilia in un viale del
giardino. Parlarono della festa, ed il discorso cadde su Valancourt.

«Quel giovine ha talento,» disse Villefort. «Lo conoscete voi da un
pezzo?

--Da un anno circa.

--Mi fu presentato a Parigi, ed in principio ne fui contentissimo.» E
si fermò.

Emilia tremava, desiderava saperne di più, e temeva di far conoscere
l'interesse che vi prendeva.

«Posso io domandarvi,» soggiunse egli poscia, «da quanto tempo vedete
il signor Valancourt?

--Posso io domandarvi, o signore, il motivo di questa interrogazione?»
diss'ella; «e vi risponderò immediatamente.

--Sicuro io vi dirò i miei motivi. È chiaro che Valancourt vi ama, e
fin qui non vi è nulla di straordinario, chè tutti quelli che vi
vedono fanno altrettanto. Non ve lo dico per complimento, parlo con
sincerità; ciò ch'io temo è ch'egli non sia amante preferito e
corrisposto.

--Perchè lo temete voi, signore?» disse Emilia, cercando nascondere
l'emozione.

--Perchè temo non ne sia degno.»

Emilia, agitatissima, lo pregò di spiegarsi meglio.

«Lo farò,» ripigliò egli, «se voi sarete convinta che solo l'interesse
ch'io prendo per voi, mi ha indotto a parlarvene... Io mi trovo in una
posizione delicata, ma il desiderio di esservi utile deve vincere
tutto il resto. Volete voi aver la compiacenza d'informarmi in qual
modo conosceste il signor Valancourt?»

Emilia raccontò brevemente come l'avesse incontrato, e pregò poscia il
conte di spiegarsi.

«Il cavaliere e mio figlio,» le disse egli, «fecero amicizia nella
casa di un loro compagno, ove l'incontrai io stesso. L'invitai a
venire in casa mia: allora ignorava le sue relazioni con una specie di
uomini, rifiuto della società, che vivono della risorsa del giuoco, e
passano la vita nelle dissolutezze. Io conosceva soltanto qualche
parente del cavaliere, e riguardava questo motivo come sufficiente per
riceverlo in casa mia. Ma mi accorgo che voi soffrite... troncherò
questo discorso.

--No, signore,» gli disse Emilia; «vi supplico di continuare.

--In breve seppi,» soggiunse il conte, «che le sue relazioni l'avevano
trascinato in una vita di dissipazione da cui pareva non aver nè il
potere, nè la volontà di ritirarsi. Perdè al giuoco grosse somme;
questo vizio divenne per lui una vera passione, e si rovinò. Ne parlai
con interesse ai di lui parenti, i quali mi assicurarono che le loro
ammonizioni essendo state inutili, erano stanchi di farne. Seppi in
seguito che pe' suoi talenti era stato iniziato nei segreti della
professione del giuoco, e che aveva avuta la sua parte in certi
ignominiosi profitti.

--È impossibile,» sclamò Emilia; «ma perdonatemi, signore, non so quel
che mi dico; perdonate al mio dolore: io credo, e debbo credere che
foste male informato: il cavaliere ha senza dubbio nemici che hanno
esagerato questi rapporti.

--Vorrei crederlo, ma nol posso; mi son deciso a parlarvene soltanto
per l'interesse che prendo alla vostra felicità, e dietro mia piena
convinzione.»

Emilia taceva, e rammentavasi le parole di Valancourt, che avevano
scoperto tanti rimorsi, è sembravano confermare i detti del conte; non
aveva però il coraggio di convincersene, ed il suo cuore era oppresso
dall'angoscia. Dopo una lunga pausa Villefort soggiunse:

«Mi accorgo dei vostri dubbi, e li trovo naturali; è giusto ch'io vi
dia la prova di quanto ho detto, eppure nol posso senza esporre
qualcuno a me sommamente caro.

--Cosa temete, signore?» disse Emilia; «se posso prevenirlo;
affidatevi al mio onore.

--Mi affido senza dubbio all'onor vostro, ma posso io fidarmi
egualmente del vostro coraggio? Credete voi di poter resistere alle
preghiere di un amante corrisposto, che, nel suo dolore, vorrà sapere
il nome di chi lo priva della sua felicità?

--Non sarò esposta a questa tentazione, signore,» disse Emilia, con
nobile fierezza, pur reprimendo a stento le lagrime; «non potrei
continuare ad amare una persona che non posso più stimare, e perciò vi
do la mia parola d'onore.

--Vi dirò dunque tutto; la convinzione è necessaria alla vostra futura
pace, e la mia intiera confidenza è il solo mezzo per procurarvela.
Enrico, il figlio mio, è stato troppo spesso testimone della cattiva
condotta del cavaliere: vi fu quasi trascinato anche lui, e si
abbandonò a mille stravaganze; ma riuscii a preservarlo dalla
perdizione. Giudicate ora, signora Emilia, se un padre, a cui
l'esempio del cavaliere ha quasi traviato l'unico figlio, non abbia un
titolo bastante per avvertire quelli ch'egli stima, di non affidare la
loro felicità in tali mani. Ho veduto io stesso il cavaliere impegnato
nel giuoco con tai persone, che fremo al solo rammentarle; se ne
dubitate ancora potete informarvi meglio da mio figlio.

--Non dubito, o signore, dei fatti dei quali foste testimone, o che
affermate,» disse Emilia, soccombendo al suo dolore; «il cavaliere si
sarà forse abbandonato ad eccessi nei quali non cadrà più; se aveste
conosciuto la purità dei suoi primi principii, potreste scusare la mia
attuale incredulità.

--Aimè! quanto è difficile il credere ciò che ci affligge! ma non
voglio consolarvi con false speranze... Noi sappiamo tutti quale
attrattiva abbia la passione del giuoco, e quanto sia difficile il
vincerla. Il cavaliere si correggerebbe forse per un certo tempo, ma
tornerebbe ben presto a ricadere nella funesta sua inclinazione. Temo
la forza dell'abitudine, temo anzi che il suo cuore sia già corrotto.
E perchè dovrei nascondervelo? Il giuoco non è il suo unico vizio;
pare ch'egli abbia preso il gusto di tutti i piaceri vergognosi.»

Qui il conte ammutolì; Emilia, addolorata, sentendosi quasi mancare,
aspettava ciò che aveva ancora da dirle. Villefort, visibilmente
agitato, continuò: «Sarebbe una delicatezza crudele se persistessi a
tacerlo; per due volte, le stravaganze del cavaliere lo trassero nelle
carceri di Parigi, d'onde è uscito, a quanto mi fu accertato da
persone degne di fede, la mercè d'una certa contessa notissima, e
colla quale viveva tuttavia quand'io partii da Parigi.»

E cessò di parlare; guardando Emilia, si accorse che cadeva svenuta, e
s'affrettò a soccorrerla. Passò qualche tempo prima ch'ella potesse
riaversi: allora si trovò fra le braccia, non già del conte ma di
Valancourt, il quale l'osservava con occhio smarrito, volgendole la
parola con voce tremante. Al suono di quella voce tanto nota, Emilia
aprì gli occhi, ma li rinchiuse tosto, e svenne di nuovo.

Il conte, con un'occhiata severa, fe' segno al giovane di
allontanarsi. Questi non fece che sospirare e chiamare Emilia
presentandole acqua. Il conte ripetè il suo gesto, e l'accompagnò con
qualche parola; Valancourt rispose con uno sguardo risentito, ricusò
di abbandonare il suo posto, finchè Emilia non fosse rinvenuta, e non
permise ad alcuno di avvicinarsele; ma nell'istante parve che la sua
coscienza l'informasse del soggetto dell'abboccamento del conte e di
Emilia: i suoi occhi si accesero di sdegno, che fu tosto represso
dall'espressione d'un profondo dolore: il conte, osservandolo, fu
mosso a pietà più che ad ira. Emilia, ripreso l'uso dei sensi, si mise
a piangere amaramente, ma facendosi coraggio ringraziò il conte ed
Enrico, con cui Valancourt era entrato nel parco, e s'avviò al
castello, senza dir nulla a quest'ultimo. Colpito nel cuore da tal
condotta, egli esclamò: «Gran Dio! In qual modo ho io meritato questo
trattamento? Che vi hanno detto per cambiarvi a tal punto?» Emilia,
senza rispondere, ma sempre più commossa, raddoppiava il passo.

«Accordatemi pochi minuti di colloquio,» le diss'egli avanzandosi al
di lei fianco, «ve ne scongiuro: io sono infelice.»

Quantunque avesse parlato sottovoce, il conte lo intese, e replicò che
Emilia era troppo indisposta, onde poter parlare con alcuno, ma che
ardiva accertare ch'ella avrebbe veduto il signor Valancourt il dì
seguente se fosse stata meglio. Il giovane arrossì, guardò Villefort
con fierezza, quindi Emilia con espressione di dolorosa sorpresa, poi
raccogliendosi alquanto, soggiunse:

«Ebbene, verrò, signora; approfitterò del _permesso del signor
conte_.»

E fatto un leggiero inchino, si allontanò.

Appena rientrata nel suo appartamento, Emilia fu agitata da mille
pensieri rammentandosi il racconto di Villefort. Talora credea che
avessero falsamente accusato Valancourt, parendole impossibile che
quel carattere sì franco e leale avesse potuto avvilirsi e cadere sì
basso. Tal altra dubitava perfino della buona fede del conte,
supponendolo spinto da motivi segreti a rompere la sua relazione con
Valancourt; ma, riflettendoci, respingeva di poi siffatto pensiero. In
ogni modo sentiva il peso della sua sventura. In mezzo al tumulto de'
contrari affetti, si rammentò la semplicità dimostrata da Valancourt
la sera precedente. Se avesse potuto dar ascolto al cuore, ne avrebbe
sperato bene. Non poteva risolversi ad allontanarsi da lui per sempre,
prima di avere acquistata una prova più convincente della sua cattiva
condotta.

Infine deliberò di tornare al convento per passarvi due o tre giorni.
Nello stato in cui si trovava, la società le diveniva insopportabile.
Sperava che la solitudine del chiostro e la bontà della badessa
l'aiuterebbero a riprendere qualche impero su sè medesima, ed a
sostenere lo scioglimento che pur troppo prevedeva. Le pareva che
sarebbe stata meno afflitta se Valancourt fosse morto, o s'egli avesse
sposato qualche rivale. Ciò che la riduceva alla disperazione, era il
vedere l'amante disonorato e coperto d'obbrobrio, costringendola così
a strapparsi dal cuore un'immagine sì lungamente adorata.

Le triste riflessioni vennero interrotte da un biglietto di
Valancourt, il quale, dipingendo il disordine dell'anima sua, la
scongiurava di riceverlo quella sera medesima, anzichè la mattina.
Provò essa tanta agitazione, che non ebbe la forza di rispondere:
desiderava vederlo, per uscire da quello stato d'incertezza. Recatasi
dal conte, gli domandò consiglio. Villefort le rispose che, se credeva
avere forza bastante da sopportare questa scena, credeva utile ad
ambedue di accelerarla.

La fanciulla rispose all'amante che acconsentiva a vederlo, e procurò
in seguito di raccogliere le forze ed il coraggio di cui aveva tanto
bisogno per sostenere un colloquio che doveva distruggere le sue più
dolci e care speranze.




CAPITOLO XL


Allorchè vennero ad avvertire Emilia che Villefort desiderava vederla,
s'immaginò che vi fosse Valancourt. Nell'avvicinarsi al gabinetto del
conte, la sua emozione divenne sì forte, che, non osando mostrarsi, si
trattenne in sala per riaversi. Rimessasi alquanto, entrò, e trovò
Valancourt seduto presso il conte. Si alzarono ambidue, e quest'ultimo
si ritirò.

Emilia stava cogli occhi bassi, non potendo parlare, e respirando
appena. Valancourt le sedette vicino; sospirava, e taceva. Finalmente,
con voce tremante disse: «Desiderai vedervi stasera per uscire almeno
dall'orribile incertezza in cui mi piombò il vostro cambiamento.
Alcune parole del conte mi hanno spiegato qualcosa. Mi accorgo che ho
nemici, invidiosi della mia felicità, accaniti a distruggerla; e
m'accorgo parimente che il tempo e la lontananza indebolirono i vostri
sentimenti per me.»

Queste ultime parole furono pronunziate colla massima commozione, ed
Emilia non potè rispondere.

«Quale incontro è il nostro?» esclamò Valancourt alzandosi, e
camminando a gran passi per la stanza; «quale incontro, dopo una sì
lunga e barbara separazione!» Tornò a sedere, poi soggiunse: «Emilia
crudele, voi non mi parlate?» Si coprì la faccia come per nascondere
l'agitazione, e prese la mano di lei, che non seppe ritirarla. Essa
non potè trattenere le lacrime: tutta la sua tenerezza tornò. Il
giovane se ne accorse, un raggio di speranza gli surse nell'anima.

«E che! voi mi compiangete?» diss'egli; «voi mi amate ancora! Siete
sempre la mia Emilia! Soffrite ch'io creda alle vostre lacrime.

--Sì, vi compiango, ma debbo io amarvi? Credete voi di essere tuttavia
quel medesimo stimabile Valancourt ch'io amava pel passato?

--Che voi amavate pel passato?» sclamò egli. «L'istesso, l'istesso...»
Si fermò un istante per la gran commozione, e continuò dolorosamente:
«No, non sono più lo stesso, io son perduto: non son più degno di
voi.» E si coprì di nuovo la faccia. Emilia era troppo colpita da una
confessione tanto sincera per poter rispondere. Lottava contro il suo
cuore, e sentiva il pericolo di fidar troppo nella sua risoluzione in
presenza dell'amante. Le premea di por fine ad un colloquio sì penoso
per entrambi. Ma, quando pensava che probabilmente sarebbe stato
l'ultimo, mancavale ogni coraggio per non sentire più che il dolore e
la tenerezza.

Valancourt intanto, divorato dai rimorsi e dall'affanno, non aveva
forza, nè volontà di esprimersi. Sembrava appena sensibile alla
presenza di Emilia, e non faceva che piangere.

«Risparmiatemi,» gli disse la fanciulla, «il dispiacere di riparlare
dei dettagli della vostra condotta, che mi obbligano a troncare la
nostra relazione; bisogna separarci, ed io or vi vedo per l'ultima
volta.

--No,» esclamò Valancourt, «il vostro cuore non può essere d'accordo
col labbro; non potete pensare a respingermi per sempre da voi.

--Bisogna separarci,» ripetè Emilia, «e per sempre; la vostra condotta
ce ne impone la necessità.

--È la decisione del conte, ma non la vostra; ed io saprò con qual
diritto egli si frappone tra noi.» Ed alzatosi, percorrea a passi
precipitosi la camera.

--Disingannatevi,» disse Emilia non meno commossa. «La decisione è
mia, il mio riposo lo esige.

--Il vostro riposo esige che noi ci separiamo per sempre!» sclamò
Valancourt. «È vero ch'io sono decaduto dalla mia propria stima: ma
come avreste potuto rinunziare così presto a me, se non aveste già
cessato di amarmi, o se non aveste ceduto alle suggestioni d'un
altro?... No, Emilia, voi non vi acconsentirete, se mi amate ancora, e
troverete la vostra felicità nel conservare la mia.

--Come potrei essere scusabile,» rispos'ella, «se io vi affidassi il
riposo della mia vita? Come potreste consigliarmelo, se vi fossi cara?

--Se mi foste cara? è egli possibile che dubitiate dell'amor mio? Ma
sì, avete ragione di dubitarne, poichè io son meno disposto all'orrore
di separarmi da voi, che a quello d'avvolgermi nella mia rovina. Sì,
son rovinato, e rovinato senza risorsa; sono oppresso dai debiti, e
non so come pagarli.»

Sì dicendo, gli occhi di lui erano smarriti e pieni di disperazione.
Emilia fu costretta di ammirare la sua franchezza, e parve essere per
qualche minuto in lotta con sè medesima.

«Io non prolungherò,» diss'ella alfine, «un abboccamento il cui esito
non può essere felice. Valancourt, addio.

--No, voi non partirete,» gridò egli imperiosamente, «non mi lascerete
così prima che l'animo mio abbia raccolta la forza necessaria per
sopportare la mia perdita.»

Emilia, spaventata dal suo disperato dolore, gli disse con dolcezza:

«Riconosceste voi stesso la necessità di separarci; se volete farmi
vedere che mi amate, perchè opporvi?

--Io era uno stolto quando vi confessava... Emilia, è troppo: voi non
v'ingannate sulle mie colpe, ma il conte è la barriera, e non sarà a
lungo l'ostacolo della mia felicità.

--Ora voi parlate veramente da stolto: il conte non è vostro nemico,
Valancourt; gli è mio amico, e questa sola considerazione dovrebbe
bastare per farvelo riguardare come vostro.

--Vostro amico!» disse vivamente Valancourt; «da quanto tempo è egli
tale, per farvi obliare così presto l'amante? È egli vostro amico
colui che vi suggerì di preferire Dupont? Dupont, che voi dite avervi
ricondotta dall'Italia? Dupont, ch'io dico avermi rapito il vostro
cuore? Ma io non ho diritto d'interrogarvi. Siete padrona di voi
stessa; ma quel Dupont non trionferà a lungo della mia sciagura.»

Emilia, più spaventata che mai dal furore di Valancourt, gli disse:

«In nome del cielo, siate ragionevole; calmatevi; Dupont non è vostro
rivale, ed il conte non è suo difensore; voi non avete altri nemici
che voi stesso, e mi convinco sempre più che non siete quel Valancourt
che ho amato tanto.»

Egli non rispose; coi gomiti appoggiati sul tavolino, stava
silenzioso. Emilia era muta e tremante, e non osava lasciarlo.

«Infelice!» esclamò egli poco dopo; «io non posso lagnarmi senza
accusarmi! Perchè fui io trascinato a Parigi? Perchè non seppi
difendermi dalle seduzioni che dovevano rendermi disprezzabile per
sempre?» Voltosi quindi vêr lei, le prese la mano, e le disse
affettuosamente: «Emilia, potete voi sopportare l'idea della nostra
separazione? Potete voi abbandonare un cuore che vi ama come il mio?
Un cuore che, malgrado i suoi errori, apparterrà a voi sola?» La
fanciulla non rispondeva se non colle lacrime. «Io non aveva,»
soggiunse egli, «un solo pensiero che volessi nascondervi non un
piacere, nè un desiderio, ai quali voi non poteste prender parte.
Queste virtù potrebbero appartenermi tuttora, se la vostra tenerezza,
che le aveva alimentate, non fosse cambiata senza rimedio; ma voi non
mi amate più: quelle ore felici passate insieme si presenterebbero
alla vostra immaginazione, e non potreste pensarvi con indifferenza.
Non vi affliggerò oltre, ma prima ch'io parta, permettetemi di
ripetervi, che qualunque possa essere il mio destino ed i miei
patimenti, non cesserò mai d'amarvi teneramente. Io parto, Emilia, vi
lascio per sempre.»

La di lui voce s'indebolì, e cadde sulla sedia nel massimo
abbattimento. Emilia non poteva nè uscire, nè dirgli addio. Tutte le
di lui follie erano quasi cancellate dal suo spirito, e non sentiva
più che dolore e pietà.

«Ditemi almeno,» disse Valancourt, «che mi vedrete un'altra volta.» Il
cuore di lei fu in certa qual guisa sollevato da tale preghiera. Si
sforzò di persuadersi che non doveva negargliela; ma provava nondimeno
qualche imbarazzo pensando ch'era in casa del conte, il quale avrebbe
potuto offendersi del ritorno di Valancourt; finì ad acconsentirvi a
patto che non avrebbe considerato il conte come nemico, nè Dupont come
rivale; allora egli partì talmente consolato dalle ultime parole di
lei, che perdè il primiero sentimento della sua disgrazia.

Emilia tornò in camera per ricomporsi e nascondere le orme delle
lacrime: ella ebbe però difficoltà a calmarsi, non potendo bandire la
rimembranza di quest'ultima scena, nè l'idea di rivedere Valancourt,
giacchè quest'ultimo abboccamento sembravale dover essere più
terribile del precedente. Il giovane le aveva fatta grand'impressione,
malgrado quanto aveva saputo. Pareale impossibile ch'egli avesse
potuto depravarsi al punto che le si voleva far credere, ed avrebbe
ceduto forse alle lusinghiere persuasioni del suo cuore, senza la
prudenza di Villefort, il quale le rappresentò il pericolo della sua
situazione, e la poca speranza che poteva offrire un nodo la cui
felicità doveva consistere nel ristabilimento d'un patrimonio
scialacquato, e nell'obblìo delle più viziose abitudini; e' fu perciò
afflittissimo, ch'ella avesse condisceso ad un secondo colloquio.

Quella notte Emilia non potè chiuder occhio.

Valancourt intanto era in preda all'angosce della disperazione. La
vista di Emilia aveva rinnovata l'antica fiamma, indebolita solo
leggermente dall'assenza e dalle distrazioni d'una vita tumultuosa.
Allorchè, ricevendo la sua lettera era partito per la Linguadoca,
sapeva pur troppo che le sue follie l'aveano rovinato, nè pensava di
nasconderlo all'amante; si affliggeva solo del ritardo che la sua
condotta potrebbe cagionare al loro matrimonio, nè prevedeva come tale
informazione avrebbe potuto indurla a rompere ogni loro legame.
Oppresso all'idea di questa eterna separazione, lacerato dai rimorsi,
attendeva il secondo abboccamento in uno stato quasi di delirio; ma
sperava però sempre di ottenere a forza di preghiere qualche mutamento
nella di lei risoluzione.

La mattina le fece domandare a che ora avrebbe potuto riceverlo:
quand'essa ricevè il biglietto, era col conte, che approfittò del
nuovo pretesto per riparlarle di Valancourt. Vedeva la disperazione
della giovine amica, e temeva che il coraggio l'abbandonasse. Emilia
rispose al biglietto, ed il conte ritornò sul proposito dell'ultima
conversazione. Egli parve temere le tentazioni di Valancourt, e le
disgrazie alle quali si esporrebbe per l'avvenire, se non resisteva ad
un dispiacere presente e passaggiero: queste ripetute ammonizioni
potevano sole premunirla contro gli effetti della sua affezione, ed
ella risolse di seguire i di lui consigli.

Giunse alfine l'ora dell'abboccamento: Emilia si presentò sostenuta
nel contegno, ma Valancourt, troppo agitato, restò qualche minuto
senza poter parlare; le sue prime frasi furono preghiere, lamenti,
rimproveri contro sè medesimo; in seguito le disse: «Emilia, vi ho
amata, e vi amo più di me stesso; son rovinato per colpa mia, ma
intanto non posso negare ch'io preferissi trascinarvi in un'unione
infelice, anzichè soffrire, perdendovi il castigo che merito... Io
sono un infelice, ma non voglio più esser un vile; non cercherò più di
smovervi dalla vostra risoluzione colle istanze d'una passione
egoista. Io rinunzio a voi, Emilia, e cercherò di consolarmi, pensando
che, se sono disgraziato, voi potete almeno esser felice. Non ho, è
vero, il merito del sacrifizio, e non avrei mai avuta la forza di
farvi libera, se la vostra prudenza non l'avesse esigiuto.»

La fanciulla procurava di rattenere le lagrime, e stava per dirgli:
«Voi parlate ora come facevate una volta.» Ma restò in silenzio.

«Perdonatemi, Emilia,» ripigliò egli, «tutte le inquietudini che vi ho
cagionate. Pensate talvolta al povero Valancourt, e ricordatevi, che
la di lui sola consolazione sarà di sapere che le sue follie non vi
resero infelice.»

Le lagrime sgorgarono in copia dagli occhi di Emilia, la quale si
sforzò di farsi coraggio e por fine ad un colloquio che aumentava la
loro comune afflizione. Valancourt la vide piangere mentre si alzava;
fece un nuovo sforzo per contenere i propri sentimenti, e calmare
quelli di Emilia.

«La rimembranza di questo doloroso momento,» le diss'egli, «sarà in
futuro la mia salvaguardia. L'esempio e la tentazione non potranno più
sedurmi. La memoria di quel pianto che versate per me, mi darà la
forza di superare ogni pericolo.»

Emilia, alquanto consolata da tale assicurazione, rispose:

«Noi ci separiamo per sempre; ma se la mia felicità vi è cara,
ricordatevi ognora che nulla vi potrà maggiormente contribuirvi colla
certezza che voi riacquistaste la vostra propria stima.»

Valancourt le prese la mano, aveva gli occhi lagrimosi, e l'addio che
voleva pronunziare veniva soffocato dai singulti. Dopo qualche
momento, Emilia, tutta commossa, disse:

«Addio, Valancourt, possiate essere eternamente felice! Addio,» ripetè
nuovamente volendo ritirare la mano; ma egli la teneva stretta fra le
sue, e la bagnava di lacrime. «Perchè prolungare questi momenti?»
continuò ella, con voce inarticolata; «essi son troppo penosi per noi.

--Troppo, sì, troppo, davvero,» sclamò Valancourt, lasciandole la
mano, e abbandonandosi sulla sedia, celossi la faccia. Dopo un lungo
intervallo, durante il quale Emilia piangeva amaramente e Valancourt
lottava contro il suo dolore, egli si alzò di nuovo, e prendendo un
accento più fermo, disse: «Io vi affliggo, ma l'ambascia che provo
dev'essere la mia scusa. Addio, Emilia, voi sarete sempre l'unico
oggetto della mia tenerezza. Pensate qualche volta all'infelice
Valancourt, almeno per compassione, se non per istima, giacchè cosa
sarebbe per me il mondo intiero senza di voi e senza la vostra stima?
Cara Emilia, addio per sempre.»

Le baciò la mano, la guardò per l'ultima volta e fuggì
precipitosamente.

Emilia restò nell'atteggiamento in cui l'aveva lasciata, col cuore
così oppresso, che poteva appena respirare; udì il rumore dei di lui
passi indebolirsi mano mano. Fu scossa da tale stato dalla voce della
contessa che parlava in giardino. Allora versò lagrime che la
sollevarono, e così, ripreso vigore, ebbe la forza di recarsi alla sua
camera.




CAPITOLO XLI


Torniamo a Montoni, la cui sorpresa e rabbia per la fuga di Emilia
fecero tosto luogo ad interessi più urgenti. Le sue depredazioni
eransi talmente moltiplicate, che il senato di Venezia, malgrado la
sua debolezza e l'utilità, che all'occasione avrebbe potuto ritrarre
da Montoni, non volle sopportarle più a lungo. Fu decretato pertanto
di distruggere le di lui forze e punire il suo brigandaggio. Un grosso
stuolo di milizie accingevasi a marciare contro il castello di Udolfo.
Un giovane ufficiale, animato contro Montoni dal risentimento di
qualche ingiuria particolare, o fors'anco dal desiderio di
distinguersi, chiese udienza al ministro che dirigeva quest'impresa.
Gli rappresentò che Udolfo era un forte situato in un luogo troppo
formidabile per essere preso d'assalto. Un corpo di truppe non poteva
avvicinarvisi senza che Montoni ne fosse avvertito. L'onore della
repubblica si opponeva al piano d'assediare quel castello con un
esercito regolare. Bastava un pugno di gente risoluta, ed era
probabilissimo d'incontrare ed attaccare Montoni ed i suoi fuori delle
mura, ovvero avvicinandosi al castello colla cautela compatibile con
pochi soldati, sarebbe stato facile trar vantaggio da qualche
tradimento o negligenza, per penetrare d'improvviso nell'interno.

Il piano, seriamente meditato, fu affidato allo stesso ufficiale che
l'aveva concepito. Dapprincipio egli usò l'astuzia; si accampò nei
dintorni di Udolfo e procurò guadagnarsi l'assistenza de' vari
condottieri. Non ne trovò neppur uno che non fosse pronto a tradire un
padrone imperioso, per assicurarsi così il perdono del senato.
Informatosi del numero delle truppe di Montoni, seppe che i suoi
ultimi successi le avevano aumentate d'assai. Non iscoraggitosi per
questo, appiccò intelligenze nell'interno della piazza, che gli
procurarono la parola d'ordine, e mescolatosi colla sua gente ai
seguaci di Montoni, potè introdursi nel castello e sorprenderlo,
mentre un altro stuolo de' suoi, dopo una lieve resistenza, faceva
cedere le armi alla guarnigione. Tra le persone prese con Montoni,
trovavasi Orsino: avendo saputo, dopo l'inutile sforzo fatto per
rapire Emilia, che quello scellerato aveva raggiunto Montoni ad
Udolfo, Morano ne aveva avvertito il senato. Il desiderio di prendere
quest'uomo, autore dell'assassinio d'un senatore, fu uno dei motivi
che fecero accelerare l'impresa, il cui successo riuscì gradito tanto,
che, malgrado i sospetti politici e l'accusa segreta di Montoni, il
conte Morano fu rimesso in libertà. La celerità e facilità di questa
spedizione prevennero il chiasso e le dicerie, sicchè Emilia, in
Linguadoca, ignorò la disfatta e l'umiliazione del suo crudele
persecutore.

Il di lei spirito era sì oppresso da tanti affanni, che verun sforzo
della sua ragione, valea a superarne l'effetto. Villefort non
risparmiava alcun mezzo per consolarla. L'invitava spesso a
passeggiare con lui e colla figlia, e tenevale acconci discorsi
sperando sradicare gradatamente il soggetto del suo dolore e
risvegliare in lei nuove idee. Emilia, vedendo in lui un vero amico,
il protettore della sua gioventù, lo prese ad amare con affetto
figliale.

Il di lei cuore si apriva con Bianca come con una sorella. La bontà e
semplicità di questa fanciulla compensavala abbastanza della
privazione di qualche vantaggio più lusinghiero. Passò qualche tempo
prima che Emilia potesse distrarsi tanto dal pensiero di Valancourt,
per ascoltare l'istoria promessale dalla vecchia Dorotea, la quale in
fine, premurosa di narrargliela, glie ne fece sovvenire, e Emilia
l'aspettò l'istessa sera.

Infatti, dopo mezzanotte, giunse Dorotea, e dopo pochi minuti di
riposo cominciò così il suo racconto: «Sono ormai venti anni che la
signora marchesa arrivò in questo castello. Quanto era bella allorchè
entrò nella sala ov'eravamo riuniti per riceverla! Quanto sembrava
felice il signore marchese! Chi l'avrebbe potuto indovinare! Ma che
dico? Signora Emilia, mi parve che la marchesa fosse un poco afflitta.
Lo dissi a mio marito, ed egli mi rispose che sbagliava: non glie ne
parlai più, e tenni per me le mie osservazioni. La signora marchesa
aveva all'incirca la vostra età, e, come l'ho spesso notato, vi
somigliava moltissimo. Il signor marchese diede feste splendide, e
pranzi così magnifici, che da quel tempo il castello non fu mai così
brillante. Io allora era giovine ed allegra quanto chicchessia. Mi
rammento che ballava con Filippo il cantiniere; era vestita in gran
gala. Vi giuro che faceva la mia figura. Il signor marchese allora mi
osservava. Ah! egli era pur allora il bravo signore. Chi avrebbe
potuto mai supporre che lui...

--Ma la marchesa cosa faceva?» interruppe Emilia.

--Ah! sì, è vero. La marchesa mi pareva che non fosse felice. Io la
sorpresi una volta a piangere. Allorchè mi vide, si asciugò gli occhi
sforzandosi di ridere. Non osai domandarle che avesse, ma la seconda
volta che la trovai in quello stato, glie ne chiesi il motivo, e parve
offendersene. Non le dissi più nulla, ma però indovinai qualcosa.
Pareva che il padre l'avesse costretta a sposare il marchese per le
sue ricchezze. Essa amava un altro signore, grandemente invaghito di
lei. M'immaginai dunque che si affliggesse d'averlo perduto, ma però
non me ne ha parlato mai. La mia padrona procurava di nascondere le
sue lacrime al marito. Io la vedeva spesso dopo i suoi trasporti di
dolore, prendere un'aria tranquilla quand'egli entrava. Il mio padrone
divenne d'improvviso pensieroso e severo colla moglie, la quale se ne
afflisse, senza però lagnarsene mai. Allora parve disposta a tornare
di buon umore, ma il marchese era così salvatico, e le rispondeva con
tanta durezza, che fuggiva piangendo nella sua stanza. Io ascoltava
tutto nell'anticamera. Povera signora! qualche volta credeva che il
marchese fosse geloso: la mia padrona, benchè ammirata da tutti, era
troppo onesta per meritare il più lieve sospetto. Fra tutti i
cavalieri che frequentavano il castello eravene uno che mi pareva
fatto per lei. Egli era così gentile, così galante! Ho osservato
sempre che, quando veniva in casa il signor marchese era più
malcontento del solito, e la padrona più pensierosa. Mi venne allora
in idea che fosse quello il gentiluomo amante e riamato da lei, ma non
ho potuto mai assicurarmene.

--Quale era il nome di quel cavaliere?» disse Emilia.

--Non posso dirvelo, signorina, perchè non conviene. Una persona morta
poco tempo fa mi ha assicurato che la marchesa non era in buona regola
la moglie del marchese, avendo ella prima sposato segretamente il
cavaliere che amava. Non ardì confessarlo al padre, uomo brutale, ma
non è verosimile, ed io non l'ho mai creduto. Come vi diceva, il
marchese era quasi fuori di sè, allorchè quel cavaliere veniva qui. Il
trattamento che faceva del continuo alla moglie la rese alfine
infelicissima. Non voleva più che vedesse alcuno, e la costringeva a
vivere affatto isolata. Io l'ho sempre servita: vedeva i suoi
patimenti, ma ella non se ne doleva mai. Dopo un anno di questa vita,
la padrona si ammalò: credei da principio che il suo male derivasse
dagli affanni; ma, ohimè! temo molto che quella malattia non avesse un
motivo più terribile.

--Più terribile!» sclamò Emilia; «ed in qual modo?

--Io ne dubito molto; vi furono circostanze strane davvero, ma vi
dirò solo ciò che accadde. Il signor marchese...

--Zitto! Dorotea.»

La vecchia mutò colore. Ascoltarono tuttaddue attentamente, e udirono
cantare.

«Mi pare di aver già sentita questa voce,» disse Emilia.

--L'ho intesa spesso anch'io, e sempre precisamente a quest'ora,»
disse Dorotea con gravità. «Se gli spiriti possono cantare, certo
questa musica non può venire che da loro.»

A misura che la musica si avvicinava, Emilia la riconobbe per
l'istessa già intesa all'epoca della morte del padre. La custode
soggiunse:

«Mi pare d'avervi già detto, signorina, che cominciai a sentire questa
musica poco dopo la morte della mia cara padrona.

--Zitto,» disse Emilia, «apriamo la finestra ed ascoltiamo.» Ma la
musica si allontanò insensibilmente, e tutto rientrò nel silenzio. Il
paese intiero era avvolto nelle tenebre, e lasciava scorgere solo
indistintamente qualche parte del giardino.

Emilia, appoggiata alla finestra, considerava quel tenebrore con
rispettoso silenzio, ed alzava gli occhi al cielo adorando i decreti
del Supremo Fattore. Dorotea allora continuò con voce sommessa:

«Vi diceva adunque, signorina, che mi rammentava della prima sera in
cui intesi questa musica: ciò avvenne una notte poco dopo la morte
della mia cara padrona. Non so per qual motivo non era andata ancora a
dormire, e pensava dolorosamente alla marchesa, ed alla trista scena
ond'era stata testimone. Tutto era tranquillo, e la mia camera era
lontana da quelle degli altri domestici; in quella solitudine, e colla
fantasia piena di tristi idee, mi trovava isolata, e bramava udire
qualche rumore, giacchè sapete che quando si ode movimento, non si ha
tanta paura. Io mi asteneva perfino dal girare gli occhi per la
camera, temendo sempre di vedere la faccia moribonda della mia povera
padrona, che mi stava presente: quando d'improvviso intesi una dolce
armonia, la quale pareva essere sotto la mia finestra; non ebbi la
forza di alzarmi, ma credei fosse la voce della marchesa, e piansi di
tenerezza. Da quella notte, intesi spesso quest'armonia, la quale però
era cessata da qualche mese, ma ora è tornata di nuovo.

--È strano,» disse Emilia, «che non siasi ancora scoperto il cantore.

--Oh! signora, se fosse una persona naturale, si conoscerebbe da molto
tempo; ma chi può avere il coraggio di correr dietro ad uno spirito? E
quand'anco avesse tal coraggio, cosa si scoprirebbe? Gli spiriti, come
sapete, possono prender la figura che vogliono: ora son qui, ora son
là, e poco dopo sono cento miglia distanti.

--Di grazia, riprendiamo l'istoria della marchesa,» disse Emilia;
«informatemi del genere della sua morte.

--Sì, signora... Il marchese divenne sempre più burbero, e la signora
peggiorava tutti i giorni. Una notte vennero a chiamarmi; corsi da
lei, e fui spaventata dallo stato in cui la trovai. Qual cambiamento!
Mi guardò in modo da muovere a compassione i sassi. Mi pregò di
chiamar il marchese, che non si era fatto vedere per tutto il giorno,
avendo cose segrete da comunicargli. Venne; parve afflittissimo di
vederla così malata, e parlò poco. La mia padrona gli disse che si
sentiva moribonda, e desiderava parlargli senza testimoni; io uscii, e
non mi dimenticherò mai l'occhiata che mi lanciò in quel momento.
Allorchè rientrai, dissi al padrone di mandar a chiamare un medico,
immaginando che il dolore gl'impedisse di pensarvi; la signora rispose
ch'era troppo tardi: ma egli pareva non crederle, e riguardare la sua
malattia come leggera. Di lì a poco cadde in terribili convulsioni;
urlava orrendamente. Il marchese fece partire un uomo a cavallo per
cercar il medico. Io restai presso la marchesa, procurando di
sollevarla. In un intervallo molto doloroso mandò a cercar di nuovo il
padrone: egli venne, ed io voleva ritirarmi, ma ella desiderò che non
m'allontanassi. Oh! io non mi scorderò mai quella scena. Il marchese
perdeva quasi la ragione; ma la signora gli parlava con tanta bontà, e
si dava tanta pena per consolarlo, che se mai egli avesse avuto
qualche sospetto, doveva cancellarlo in quel momento. Sembrava
oppresso dalla rimembranza de' suoi maltrattamenti, ed ella ne fu
tanto commossa, che svenne fra le mie braccia. Io feci subito uscire
il marchese, il quale corse nel suo gabinetto, e si gettò per terra,
non volendo più veder nessuno. Quando la signora fu alquanto rimessa,
chiese sue nuove, e disse in seguito che il di lui dolore l'affliggeva
troppo, e che bisognava lasciarla morire in pace. Spirò nelle mie
braccia colla dolcezza d'un angelo, giacchè la crisi violenta era già
passata.»

Dorotea versò un torrente di lagrime. Emilia pianse con lei,
intenerita dalla bontà della marchesa, e dalla rassegnazione colla
quale aveva sofferto.

«Il medico giunse,» continuò Dorotea, «ma troppo tardi. Parve
stupefatto nel vedere il cadavere della mia padrona, la cui faccia era
divenuta livida e nera. Fece uscire tutti, e mi volse singolari
domande a proposito della marchesa e della sua malattia. Scuoteva la
testa alle mie risposte, e pareva giudicare sinistramente. Io lo
compresi pur troppo, ma non comunicai le mie congetture se non a mio
marito, che mi raccomandò di tacere: alcuni altri domestici ebbero
però gli stessi sospetti che circolarono nel vicinato. Allorchè il
marchese seppe che la signora era morta, si rinchiuse nel suo
appartamento, e non volle vedere che il medico. Restarono insieme più
di un'ora, e il dottore non mi parlò più della marchesa, la quale fu
sepolta nella chiesa del convento. Tutti i vassalli assistettero
piangendo al suo funerale, perchè era molto caritatevole. Quanto al
signor marchese, io non ho mai veduto un'afflizione come la sua, e
talvolta nell'eccesso del dolore perdeva l'uso dei sensi. Non restò
molto tempo nel castello, e partì pel suo reggimento. Poco dopo, tutti
furono congedati, tranne mio marito e me, nè l'ho riveduto mai più.

--La morte della marchesa pare straordinaria!» disse Emilia,
desiderando saperne qualcosa di più.

--Sì, signora, fu straordinaria. Vi dico tutto ciò che ho veduto, e
voi potete indovinar quel che ne penso; non posso dir altro per non
diffondere ciarle che potrebbero offendere il signor conte.

--Avete ragione; sapete voi dove sia morto il marchese?

--Nell'Alsazia, a quanto credo,» rispose Dorotea. «Mi rallegrai molto
quando seppi che arrivava il signor conte. Questo luogo è stato lunga
pezza in una trista desolazione. Noi vi udimmo rumori straordinari,
poco dopo la morte della padrona, ed io, con mio marito, ci ritirammo
in una casuccia poco lontana. Adesso, signora Emilia, che vi ho
raccontato questa tragica istoria, vi rammenterò la vostra promessa di
non lasciarne traspirar nulla ad alcuno.

--Sarò fedele alla mia parola,» rispose Emilia; «ciò che mi narraste
m'interessa assai più di quanto potete supporre. Vorrei solo pregarvi
di nominarmi il cavaliere che, secondo voi, s'interessava tanto per la
marchesa.»

Dorotea negò assolutamente di acconsentirvi, e tornò a parlare della
somiglianza di lei colla marchesa.

--«Vi è un altro ritratto di questa,» soggiunse, «ed è in una delle
stanze chiuse. Fu fatto prima del suo matrimonio, e voi le somigliate
assaissimo.»

La fanciulla mostrò desiderio di vederlo, e Dorotea rispose che non
aveva coraggio di entrare in quell'appartamento. Emilia le rammentò
che, il dì innanzi, il conte aveva parlato di farlo aprire. La custode
convenne allora d'andarlo prima a vedere con lei.

La notte era molto avanzata, e Emilia troppo commossa dal racconto
inteso per visitare così tardi quel luogo. Pregò dunque la vecchia di
tornare la notte seguente. Oltre il desiderio di vedere il ritratto,
sentiva un'ansiosa curiosità di visitare la camera ov'era morta la
marchesa, e che, secondo Dorotea, era rimasta nel primiero stato. La
commozione che le cagionava l'aspettativa di una tale scena, era
allora conforme allo stato del di lei spirito. Oppressa dal
cambiamento della sua sorte, gli oggetti piacevoli aumentavano la sua
malinconia in vece di dissiparla; forse aveva torto di piangere sì
amaramente un infortunio inevitabile; ma veruno sforzo della ragione
valeva a lasciarle scorgere con indifferenza l'avvilimento di colui
che aveva già stimato ed amato con tanto trasporto.

Dorotea promise di tornare la notte seguente colle chiavi
dell'appartamento, e si ritirò.

Emilia restò alla finestra, meditando tristamente sul destino
dell'infelice marchesa, ed aspettando ansiosa il ritorno della musica
notturna. La calma non fu turbata se non dallo stormir delle frondi
agitate da lieve brezzolina. La campana del convento suonò mattutino,
e Emilia se ne andò a letto cercando nel sonno l'oblio della dolorosa
storia della marchesa di Villeroy.




CAPITOLO XLII


La notte seguente, all'istessa ora circa, Dorotea venne a prendere
Emilia e portò le chiavi dell'appartamento della marchesa, che si
trovava dalla parte opposta, al nord. Dovevano passare vicino alle
stanze della servitù, e Dorotea desiderava sfuggire alle loro
osservazioni. Volle dunque aspettare un'altra mezz'ora ond'assicurarsi
che tutti i servitori dormissero. Era quasi un'ora dopo mezzanotte
allorchè si misero in cammino. Dorotea andava innanzi e portava il
lume; ma il suo braccio, indebolito dal timore e dalla vecchiaia,
tremava sì forte, che Emilia, presa ella stessa la lucerna, s'offrì a
sostenere i di lei passi mal sicuri. Bisognava scendere lo scalone,
traversare gran parte del castello, e salire l'altro situato al nord.
Non incontrarono nulla che alterasse vie maggiormente la loro agitata
fantasia, e giunte in cima alla scala Dorotea mise la chiave nella
serratura. «Ah!» diss'ella sforzandosi di girarla; «è chiusa da tanto
tempo, che forse la ruggine non ci permetterà di aprirla.» Emilia
però, più destra di lei, girò la chiave, aprì la porta, ed entrarono
in una stanza antica e spaziosa.

«Dio buono!» disse Dorotea nell'entrare; «l'ultima volta che son
passata da questa porta, io seguiva la salma della mia povera
padrona!»

Traversarono una fila di stanze, e giunsero in un salotto adorno
ancora con magnificenza.

«Riposiamo qui un momento,» disse Dorotea; «quella è la porta della
camera, in cui è morta la padrona. Ah! signorina, perchè mi avete
fatto venir qua?»

Emilia, vedendo la povera vecchia in uno stato compassionevole, la
fece sedere e procurò di tranquillarla.

«Come la vista di questo appartamento mi richiama alla memoria
l'immagine del tempo passato! Mi pare che fosse ieri.»

--Zitto! qual rumore è questo?» disse Emilia.

Dorotea, spaventata, guardò per tutta la camera; ascoltarono ma non
intesero nulla. La vecchia allora riprese il soggetto del suo dolore:
«Questo salotto era, al tempo della signora, la più bella stanza del
castello. Era mobiliato all'ultimo gusto. Tutti questi mobili vennero
da Parigi; quei grandi specchi sono di Venezia. Questi arazzi erano in
ispecie ammirati da tutti; rappresentano essi un'istoria che si trova
in un libro, di cui ora non mi ricordo il nome.»

Emilia si alzò per esaminarli. Alcuni versi in provenzale, in fondo ai
medesimi, le fecero riconoscere la storia di Coriolano.

Dorotea essendosi alquanto rimessa, aprì finalmente la porta fatale.
Entrarono in una camera cupa e spaziosa. La custode si abbandonò tosto
su d'una sedia esalando profondi sospiri, e ardiva appena alzar gli
occhi. Emilia osservò il letto ove dicevasi morta la marchesa. Era
parato di damasco verde. Un gran panno di velluto nero lo cuopriva
fino a terra. Mentre la fanciulla, col lume in mano, girava intorno
alla camera: «Dio buono!» esclamò Dorotea; «mi par di veder la mia
padrona distesa su quel letto, come la vidi per l'ultima volta. Ah!»
soggiunse ella piangendo ed appoggiandosi al letto; «io era qui quella
notte terribile: le teneva la mano; intesi le sue ultime parole, vidi
tutti i suoi patimenti, e spirò fra le mie braccia.

--Non vi abbandonate a queste funeste rimembranze,» disse Emilia;
«usciamo e mostratemi il ritratto di cui mi parlate.

--Egli è nel gabinetto,» rispose Dorotea, mostrandole un uscio.
L'aprì, ed entrarono ambedue nel gabinetto della marchesa.

«Aimè! eccola là,» disse la custode, additando un quadro. «Ecco
com'era allorchè giunse qui. Vedete bene ch'era fresca quanto voi.»

Mentr'ella continuava a smaniarsi, Emilia osservava attenta il
ritratto, che somigliava moltissimo alla miniatura trovata fra le
carte di Sant'Aubert: eravi soltanto una piccola differenza
nell'espressione della fisonomia, e le parve riconoscere nel quadro
un'ombra di quella malinconia pensierosa che caratterizzava sì forte
il ritratto in miniatura.

«Vi prego, signorina,» disse Dorotea, «di situarvi presso questo
quadro, affinchè io possa confrontarvi.»

Emilia la compiacque, e la vecchia rinnovò gli atti di sorpresa sulla
di lei somiglianza. La fanciulla tornò a guardare, e le parve d'aver
veduta in qualche parte una persona simigliante al ritratto; ma non
potè rammentarselo bene. In quel gabinetto eranvi tuttavia molte cose
d'uso della defunta, un abito, una sottana, un cappello, scarpe e
guanti gettati là sul tavolino, come se li avesse cavati poco prima:
eravi inoltre un gran velo nero ricamato; Emilia lo prese in mano per
esaminarlo, ma si avvide tosto che cadeva in pezzi per vetustà; lo
depose, e scorrendo il gabinetto, tutti gli oggetti le pareano parlar
della marchesa.

Rientrata nella camera, Emilia volle vedere di nuovo il letto;
osservando la punta bianca del guanciale che usciva di sotto al
velluto nero, le parve scorgere un movimento. Senz'aprir bocca prese
il braccio di Dorotea, la quale, sorpresa dall'azione e dal terrore di
lei, rivolse gli occhi verso il letto, e vide il velluto sollevarsi ed
abbassarsi; Emilia volle fuggire, ma la vecchia, cogli occhi fissi sul
letto, le disse: «E il vento, signorina; abbiamo lasciato tutte le
porte aperte. Vedete come l'aria agita anche il lume; è il vento
sicuramente.»

Appena ebbe detto così, il panno si agitò con maggior violenza.
Emilia, vergognandosi del suo timore, si riavvicina al letto, volendo
assicurarsi se il vento solo le avesse impaurite: osserva
attentamente, il velluto si agita ancora, si solleva e lascia
vedere... una figura umana. Misero entrambe un grido spaventoso, e
lasciando le porte aperte, fuggirono a precipizio. Allorchè giunsero
alla scala, Dorotea aprì una camera, in cui dormivano due serve, e
cadde svenuta sul letto. Emilia, abbandonata dalla sua solita presenza
di spirito, fece un debole sforzo per nascondere alle donne stupefatte
la vera cagione del suo terrore. Dorotea, riavendosi, si sforzò di
ridere del suo timore; ma quelle serve, giustamente allarmate, non
poterono risolversi a passare il resto della notte in vicinanza del
terribile appartamento.

La custode condusse Emilia alle sue stanze, ove parlarono con più
calma del caso strano. Quest'ultima avrebbe quasi dubitato di quella
visione, se la vecchia non glie ne avesse attestata la realtà. Le
domandò dunque se era ben sicura che qualcuno non si fosse introdotto
segretamente colà: essa le rispose che le chiavi non erano mai uscite
dalle sue mani, e facendo spesso la ronda, aveva più volte esaminata
quella porta, e trovatala sempre chiusa.

«È dunque impossibile,» soggiunse ella, «che nessuno siasi introdotto
in quelle stanze, e quando avessero potuto farlo, com'è probabile che
abbiano scelto d'andar a dormire in un luogo così freddo e solitario!»

Emilia le fece osservare che la loro gita notturna poteva essere stata
spiata; che forse qualcuno, per burla, le aveva seguite
coll'intenzione di far loro paura, e che, mentre esaminavano il
gabinetto, erasi nascosto nel letto. Dorotea convenne da principio che
la cosa era possibile, ma si rammentò quindi che, entrando, aveva per
precauzione levata la chiave della prima porta, e chiusala di dentro.
Non eravi dunque potuto penetrare alcuno, e Dorotea affermò che il
fantasma veduto non aveva nulla d'umano, ed era una spaventevole
apparizione.

Emilia era molto commossa; di qualunque natura fosse
quell'apparizione, umana o soprannaturale, il destino della marchesa
era una verità incontrastabile. L'inesplicabile incidente accaduto nel
luogo istesso dov'era morta, incusse ad Emilia un timore
superstizioso. Scongiurò Dorotea di non parlare di quel caso a
chicchessia, perchè il conte non fosse importunato da rapporti che
avrebbero potuto spargere l'allarme in tutta la casa.

La vecchia acconsentì, ma si rammentò allora che l'appartamento era
rimasto aperto, e non si sentì il coraggio di tornar sola a chiuderlo.
Emilia, vincendo i suoi timori, le offrì di accompagnarla sino in
fondo alla scala, ed ivi aspettarla. Rianimata da tale compiacenza,
Dorotea andò nel modo proposto, e si contentò di chiuder la prima
porta e poi raggiungere Emilia. Avanzandosi lungo l'andito che
conduceva nella sala, udirono sospiri e lamenti che sembravano venire
dal salone medesimo. Emilia ascoltò attenta, e riconobbe subito la
voce di Annetta, che, spaventata dal racconto fattole dalle due serve,
e non credendosi sicura che vicino alla padrona, andava a rifugiarsi
da lei. Emilia cercò indarno di tranquillarla; ebbe pietà del suo
spavento, ed acconsentì a lasciarla dormire nella sua camera.




CAPITOLO XLIII


Gli ordini precisi dati ad Annetta da Emilia, di tacere, cioè,
sull'occorso, non produssero verun effetto. Il soggetto del di lei
terrore aveva sparso un allarme così vivo tra la servitù, che tutti
affermavano allora di aver sentito nel castello i rumori più
straordinari. Il conte ne fu ben presto informato, e gli disser che
la parte del nord era indubbitatamente frequentata dagli spiriti. Ne
rise in principio, e mise la cosa in ridicolo, ma accorgendosi quindi
che produceva confusione nel castello, proibì di parlarne sotto pena
di castigo. L'arrivo di qualche amico lo distrasse intieramente, ed i
suoi medesimi servi non avean tempo di parlare di quest'affare se non
dopo aver cenato. Riuniti allora nel tinello, raccontavano del
continuo istorie di morti, di maghi, di spiriti e d'ombre fino al
punto che non ardivano più alzar gli occhi, tremavano tutti al più
piccolo rumore, e ricusavano di andar soli in qualunque luogo della
casa.

Annetta si distingueva raccontando non solo i prodigi, ond'era stata
testimone, ma anche tutto ciò che aveva immaginato nel recinto del
castello di Udolfo. Non obliava la strana scomparsa della signora
Laurentini, che faceva una forte impressione sull'animo degli
ascoltanti. Annetta avrebbe anche chiacchierato de' sospetti concepiti
su Montoni, se il prudente Lodovico, allora al servizio di Villefort,
non l'avesse sempre a tal punto interrotta.

Tra i forestieri venuti a visitare il conte nel suo castello, eranvi
il barone di Santa-Fè suo amico, e il di lui figlio, cavaliere
amabilissimo e sensibile. Egli aveva conosciuto Bianca a Parigi l'anno
precedente, e concepita per lei una vera passione. L'antica amicizia
del conte per suo padre, e le reciproche convenienze di cotesto
parentado, aveanlo fatto internamente desiderare al conte. Ma trovando
la figlia ancor troppo giovine per fissare la scelta della sua vita, e
volendo d'altronde provar la costanza del cavaliere, aveva differito
di approvare quest'unione, senza però toglierne la speranza. Or il
giovine veniva col barone suo padre a reclamare il premio della sua
perseveranza; il conte acconsentì, e Bianca non vi si oppose.

Il castello, così bene abitato, divenne ridente e magnifico. Il
casino sulla riva del mare era spessissimo visitato da tutta la
compagnia, che vi cenava quasi sempre quando permettevalo il tempo, e
la sera finiva regolarmente con un'accademia di musica. Il conte e la
contessa erano buoni filarmonici. Enrico, il giovine Santa-Fè, Bianca
ed Emilia avevano tutti bella voce, ed il gusto suppliva alla mancanza
del metodo. Parecchi suonatori di corni e strumenti a fiato, posti nel
bosco, rispondevano con soavi armonie a quella che partiva dal casino.

In ogni altro tempo quei luoghi sarebbero stati deliziosi per Emilia,
ma troppo oppressa allora dalla sua malinconia, trovava che nessun
divertimento poteva riuscire a distrarla, e spesso l'interessantissima
melodia di quelle accademie accresceva invece la sua tristezza.
Preferiva perciò di passeggiar sola ne' boschi circostanti. La calma
che vi regnava influiva sul suo cuore, e non tornava al castello se
non costrettavi dall'assoluta oscurità. Una sera vi si trattenne più
del solito: assisa su d'un masso, vide la luna sorgere sull'orizzonte
a poco a poco, e rivestir successivamente della sua debole luce il
mare, il castello ed il convento di Santa Chiara poco distante.
Pensierosa, contemplava e meditava, quando d'improvviso una voce e la
musica, già udita a mezzanotte, venne a colpirle l'orecchio. Il
sentimento che provò fu un misto di sorpresa e terrore, considerando
il suo isolamento. La musica si avvicinò; si sarebbe alzata per
fuggire, ma i suoni parevan venire dalla parte per cui doveva passare,
e tutta tremante ristette ad aspettar gli eventi; d'improvviso la
musica cessò, e vide uscir dal bosco e passare una figura molto vicino
a lei, ma così ratto, e l'emozione di lei fu si grande, che non
distinse quasi nulla. Finalmente tornò al castello, risoluta di non
venir più sola e così tardi in quel luogo.

Questo leggiero avvenimento produsse grand'impressione sul di lei
spirito. Rientrata in camera, si rammentò sì bene l'altra circostanza
spaventosa di cui era stata testimone pochi di prima, che appena ebbe
coraggio di restar sola. Vegliò a lungo, ma nessun rumore venendo a
rinnovare i suoi timori, andò a letto per cercar di gustare un po' di
riposo.

Fu breve però; un chiasso spaventoso e singolare parve sorgere dal
corridoio: s'udirono gemiti distinti; un corpo pesante urtò l'uscio
che fu scosso dalla violenza del colpo: essa chiamò per sapere che
fosse: non le fu risposto, ma ad intervalli udiva cupi gemiti. Il
terrore la privò sulle prime della favella; ma quando intese strepito
di passi nella galleria, gridò più forte. I passi fermaronsi al di lei
uscio; ella distinse la voce di alcune fantesche, che pareano troppo
occupate per poter risponderle. Annetta entrò a prender acqua, ed
Emilia seppe allora come una donna fosse svenuta; la fece portare in
camera per prestarle soccorso. Quando colei ebbe ricuperato i sensi,
affermò che, salendo le scale per andar a dormire, aveva visto un
fantasma sul secondo ripiano. Essa tenea la lampada abbasso a motivo
dei gradini rovinati; sollevando gli occhi, scorse lo spettro, il
quale dapprima immobile in un cantuccio, erasi poscia cacciato sulla
scala, scomparendo alla porta dell'appartamento visitato ultimamente
da Emilia. Un suono lugubre era susseguito a questo prodigio.

La fante tornò a scendere e correndo spaventata, era andata a cadere
con un grido dinanzi all'uscio d'Emilia.

«Il diavolo senza dubbio,» disse Dorotea, accorsa al chiasso, «ha
preso una chiave di quell'appartamento; non può essere altri; ho
chiusa la porta io stessa.»

La fanciulla sgridò la donna dolcemente, e cercò di farla vergognare
del suo spavento. La fante persistè a sostenere d'aver visto una vera
apparizione. Tutte le altre donne accompagnaronla alla di lei stanza,
tranne Dorotea, che Emilia trattenne seco. La vecchia, tutta paurosa,
narrolle antiche circostanze in appoggio del caso occorso. Di tal
novero era una consimile apparizione da lei vista nel medesimo sito;
tal rimembranza aveala fatta esitare prima di salir la scala, ed avea
accresciuta la di lei ripugnanza ad aprir l'appartamento del nord.
Emilia s'astenne dall'esternare la sua opinione intorno a ciò; ma
ascoltò attentamente la ciarliera, e ne risentì vie maggiore
inquietudine.

Da quella notte il terrore de' servi crebbe al punto, che gran parte
di essi risolse d'accommiatarsi. Se il conte prestava fede ai loro
timori, aveva cura di dissimularlo, e volendo prevenire
gl'inconvenienti che lo minacciavano, impiegava il ridicolo ed i
ragionamenti per distruggere quei timori e quegli spaventi
soprannaturali. Nondimeno, la paura aveva reso tutti gli spiriti
ribelli alla ragione. Lodovico scelse quel momento per provare al
conte il suo coraggio e la riconoscenza pe' di lui buoni trattamenti.
Si offrì di passare una notte nella parte del castello, cui
pretendevano abitata dagli spiriti, ch'egli assicurava di non temere;
e se fosse comparso qualche essere vivente, disse che avrebbe fatto
vedere che nol temea egualmente.

Il conte riflettè alla proposta; i domestici che lo udirono si
guardarono l'un l'altro muti per la sorpresa e la paura. Annetta,
spaventata per Lodovico, impiegò lagrime e preghiere per dissuaderlo
da tale disegno.

«Tu sei un bravo giovane,» disse il conte sorridendo; «pensa bene alla
tua impresa prima di accingerviti, ma se vi persisti, accetto la tua
offerta, e la tua intrepidezza sarà generosamente ricompensata.

--Eccellenza,» rispose Lodovico, «io non desidero ricompense, ma la
vostra approvazione. Vostra eccellenza ha già avuto molta bontà per
me. Desidero soltanto aver qualche arme per difendermi in caso di
bisogno.

--Una spada non potrà difenderti contro gli spiriti,» disse
ironicamente il conte, guardando i servi; «essi non temono nè porte,
nè catenacci: un fantasma, voi lo sapete, passa tanto dal buco d'una
serratura, come da una porta aperta.

--Datemi una spada, signor conte,» disse Lodovico, «ed io m'incarico
di cacciare nel mar Rosso tutti gli spiriti che volessero attaccarmi.

--Ebbene,» rispose il conte, «avrai una spada, e di più una buona
cena. I tuoi camerati avranno forse il coraggio di restare ancora per
istanotte nel castello: certo è che almeno per questa notte il tuo
ardire attirerà su di te tutti i malefizi dello spettro.»

Una estrema curiosità contrastò allora colla paura nello spirito degli
uditori, i quali risolsero d'aspettare l'esito della temeraria impresa
del loro collega.




CAPITOLO XLIV


Il conte avea ordinato che l'appartamento del nord fosse aperto e
preparato, ma Dorotea, rammentandosi quanto ci aveva veduto, non ebbe
coraggio di obbedire: nessuno dei servitori volle prestarvisi, ed esso
restò chiuso fino al momento in cui Lodovico doveva entrarvi, momento
aspettato da tutti con impazienza.

Dopo cena, il giovane seguì il conte nel suo gabinetto, e vi rimasero
quasi mezz'ora; nell'uscire, il conte gli consegnò una spada. «Questa
ha servito nelle guerre mortali,» diss'egli ridendo; «tu ne farai
senza dubbio uso onorevole in una mischia affatto spirituale; e
domattina sentirò con piacere che non resta più un solo fantasma nel
castello.»

Lodovico ricevè la spada con un saluto rispettoso, e rispose: «Sarete
obbedito, signor conte, e m'impegno da ora in avanti che veruno
spettro non turbi ulteriormente il riposo di questa dimora.»

Recaronsi nel salotto, ove gli ospiti del conte aspettavano per
accompagnarlo all'appartamento del nord. Dorotea consegnò le chiavi a
Lodovico, e s'incamminò a quella volta in compagnia della maggior
parte degli abitanti. Giunti a' piè della scala, parecchi servitori,
impauriti, non vollero andar più innanzi, e gli altri la salirono sino
al pianerottolo. Lodovico mise la chiave nella serratura, ed intanto
tutti lo guardavano con tanta curiosità, come se fosse occupato di
qualche operazione magica; e siccome egli non era pratico di quella
serratura, Dorotea l'aprì pian piano; ma quando i di lei sguardi
ebbero penetrato nell'interno oscuro della stanza, mise un grido e si
ritirò. A questo segnale d'allarme, la maggior parte degli spettatori
fuggirono a precipizio giù per la scala; il conte, Enrico e Lodovico,
rimasti soli, entrarono nell'appartamento; Lodovico teneva in mano la
spada nuda, il conte portava una lampada, ed Enrico un paniere pieno
di provvisioni pel bravo avventuriere. Traversando quella fila di
stanze, il conte restò sorpreso del loro stato rovinoso, ed ordinò al
servo di dire il giorno dopo a Dorotea, d'aprire tutte quelle
finestre, volendo far restaurare quel magnifico appartamento; indi gli
chiese dove facesse conto di stabilirsi.

«Dicono esserci un letto in una stanza; è là che voglio dormire, se
per caso mi sentissi stanco di vegliare.»

Giunti alla camera indicata, v'entrarono tutti: il conte fu colpito
nel vederne l'aspetto funebre; accostossi al letto commosso, e
trovandolo coperto col panno di velluto nero, sclamò: «Che cosa
significa ciò?--Mi fu detto che la marchesa di Villeroy è morta in
questo luogo stesso, e vi giacque sino all'ora del seppellimento. Quel
velluto ricopriva per certo il feretro.»

Il conte non rispose nulla, ma divenne pensieroso; voltossi quindi
verso Lodovico, gli domandò con serietà se realmente avrebbe coraggio
di restar lì solo tutta la notte. «Se hai paura,» soggiunse, «non
arrossire di confessarmelo; io saprò scioglierti dal tuo impegno senza
esporti ai sarcasmi degli altri.»

L'orgoglio e qualche poco di paura parevan tenere perplessa l'anima di
Lodovico. Finalmente l'orgoglio trionfò e rispose:

«No, signore, no, finirò l'impresa che ho cominciata, e sono commosso
della vostra attenzione. Accenderò un bel fuoco nel camino, e spero
passare bene il tempo colle provvisioni del paniere.

--Benissimo, ma come farai a difenderti dalla noia, se tu non potessi
dormire?

--Quando sarò stanco, eccellenza, non avrò paura di dormire; ma in
tutti i casi ho meco un libro che mi divertirà.

--Spero che non sarai sturbato; ma se nel corso della notte tu potessi
concepire qualche serio timore, vieni a trovarmi nel mio appartamento.
Confido troppo nel tuo giudizio e coraggio, per temere che tu possa
spaventarti per qualche frivolezza. Domani io t'avrò l'obbligo d'un
servigio importante. Si aprirà l'appartamento, e tutta la servitù sarà
convinta della sua stoltezza. Buona notte, Lodovico; vieni a trovarmi
di buon'ora, e ricordati ciò che ti ho detto.

--Sì, signore, me ne rammenterò. Buona notte, eccellenza; permettete
che vi faccia lume.»

Accompagnò il conte ed Enrico fino all'ultima porta, e siccome qualche
servitore, nel fuggire, aveva lasciato un lume sul pianerottolo, il
contino lo prese, e augurò la buona notte a Lodovico, il quale rispose
con molto rispetto, e chiuse la porta. Cammin facendo per tornare
nella camera da letto, esaminò con iscrupolosa cura tutte le stanze
per le quali doveva passare, temendo vi si potesse essere nascosto
qualcuno per ispaventarlo. Non vi trovò nessuno. Lasciò aperti tutti
gli usci, e giunse nel salone, la cui muta oscurità lo fece gelare.
Voltandosi indietro a guardare la lunga fila di stanze percorse, nel
procedere innanzi scorse un lume e la propria figura riflettuti in uno
specchio; rabbrividì. Altri oggetti pingeansivi oscuramente; non si
fermò a considerarli; avanzandosi ratto nella camera da letto, vide la
porta dell'oratorio. L'aprì, tutto era tranquillo. Colpito alla vista
del ritratto della defunta, lo considerò lungo tempo con sorpresa ed
ammirazione. Esaminato quindi il luogo, rientrò in camera, ed accese
un buon fuoco, la cui vivida fiamma rianimò il di lui spirito, che
cominciava a indebolirsi per l'oscurità e pel silenzio. Non si sentiva
allora se non il vento soffiare attraverso le finestre, prese una
sedia trascinò un tavolino presso al fuoco, cavò una bottiglia di vino
con alcune provvisioni dal paniere, e cominciò a mangiare. Allorchè
ebbe cenato, pose la spada sul tavolino, e non essendo disposto a
dormire, trasse di tasca il libro ond'aveva parlato. Era una raccolta
di antiche novelle provenzali. Attizzò il fuoco, smoccolò la lampada,
e si mise a leggere. La novella che scelse attirò in breve tutta la
sua attenzione........

Il conte frattanto era tornato nel tinello ove tutti l'aspettavano.
Ciascuno era fuggito al grido penetrante di Dorotea, e gli fecero
mille domande sullo stato dell'appartamento. Il conte li beffò per
quella fuga precipitata e la superstiziosa loro debolezza.

Quando la compagnia si fu separata, il conte si ritirò nel suo
quartiere. La rimembranza delle scene onde la casa era stata il
teatro, l'affannava singolarmente. Alla fine fu scosso da' suoi
pensieri dal suono d'una musica che intese vicino alla finestra.

«Cos'è quest'armonia?» diss'egli al suo cameriere; «chi suona e canta
a quest'ora sì tarda?»

Pietro rispose, quella musica aggirarsi spesso intorno al castello
verso mezzanotte, e credere averla udita anch'egli altre volte.

«Che bella voce!» soggiunse il conte; «che suono melodioso è mai
questo! sembra qualcosa di sovrumano. Ma ora si allontana...»

E fatto cenno al servo di ritirarsi, stette assorto un pezzo in
dubbiosi pensieri.

Lodovico intanto, nella sua camera isolata, sentiva tratto tratto il
rumore lontano di una porta che si chiudeva. L'orologio del salone, da
cui era molto distante, suonò dodici colpi. «È mezzanotte,» diss'egli,
e guardò per la camera. Il fuoco era quasi spento; l'alimentò con
nuove legna, bevve un buon bicchier di vino, e avvicinandosi sempre
più al caminetto, procurò di esser sordo al rumorio del vento che
fischiava da tutte le parti. Infine, per resistere alla malinconia che
gradatamente s'impadroniva di lui, riprese la sua lettura.

Dopo qualche tempo, depose il libro avendo sonno; accomodatosi alla
meglio sulla sedia, si addormentò. Gli parve vedere in sogno la
camera, ove si trovava realmente; due o tre volte si svegliò dal sonno
leggero, sembrandogli scorgere la faccia d'un uomo appoggiata alla sua
sedia. Quest'idea fece su di lui tanta impressione, che, alzando gli
occhi, gli parve quasi di vederne altri che si fissassero nei suoi. Si
alzò e andò a fare una visita scrupolosa della camera, prima di
convincersi appieno non esservi nessuno dietro la sedia.




CAPITOLO XLV


Il conte dormì pochissimo, si alzò di buon'ora, e premuroso di parlar
con Lodovico, corse all'appartamento del nord. La prima porta era
chiusa di dentro, e fu perciò costretto a batter forte, ma nè i suoi
colpi, nè la sua voce vennero ascoltati. Considerando la distanza che
separava quella porta dalla camera da letto, credè che Lodovico,
stanco di vegliare, si fosse profondamente addormentato. Poco sorpreso
adunque di non ricevere veruna risposta, si ritirò e andò a
passeggiare pe' boschi.

Il tempo era oscuro; i fiochi raggi del sole combattevano i vapori che
sorgevano dal mare, ricoprendo la cima degli alberi dalle frondi
gialleggianti per la stagione autunnale. La bufera era calmata, ma
l'onde, sempre commosse, muggivano tuttora.

Emilia erasi egualmente alzata di buon'ora, ed aveva diretto i passi
verso il promontorio alpestre dal quale scoprivasi l'Oceano. Gli
avvenimenti del castello occupavano il suo spirito, e Valancourt
formava eziandio l'oggetto de' suoi tristi pensieri; non poteva
esserle ancora indifferente. La sua ragione le rimproverava sempre una
tenerezza che sopravviveva nel suo cuore alla stima; rammentavasi
l'espressione de' suoi sguardi allorchè l'avea abbandonato, l'accento
con cui le disse addio, e se qualche caso aumentava l'energia de' suoi
pensieri, struggevasi in amare lacrime. Giunta all'antica torre, si
riposò su di un gradino mezzo rovinato, osservando le onde che
venivano lentamente a frangersi sulla riva, cospargendo gli scogli
dalla bianca loro spuma. Il monotono loro fragore, e le grige nubi che
velavano il cielo, rendeano la scena più misteriosa ed analoga allo
stato del suo cuore. Tale stato le divenne troppo penoso; si alzò, e
traversando una parte delle ruine, guardando a caso su d'un muro vide
alcune parole malamente scolpite colla punta d'un coltello; le
esaminò, e riconobbe il carattere di Valancourt: le lesse tremando.

Chiaro dunque appariva che Valancourt aveva visitato quella torre, ed
era anzi probabile che fosse stato nella notte precedente ch'era stata
burrascosa, e quei versi descrivevano un naufragio: inoltre parea che
non avesse abbandonato quelle rovine se non da poco tempo, chè il sole
essendo sorto allora, non poteva avere scolpiti quei caratteri
all'oscuro. Era dunque probabilissimo che Valancourt fosse nelle
vicinanze.

Mentre tutte queste idee si presentavano con rapidità
all'immaginazione di Emilia, tante emozioni la combatterono, che ne fu
quasi oppressa; ma ebbe la prudenza di sfuggire un incontro pericoloso
alla sua virtù, e s'incamminò in fretta alla volta del castello.
Ricordandosi allora della musica già sentita e della figura passatale
così vicino quella sera, fu quasi tentata di credere nella sua
agitazione che fosse lo stesso Valancourt. Fatti pochi passi, incontrò
il conte, che per distrarla dall'afflizione in cui la vide, le fece
conoscere la risposta dell'avvocato di Aix, suo amico, a proposito
della cessione dei beni della signora Montoni.

Ritornati al castello, Emilia si ritirò nella sua camera, ed il conte
andò all'appartamento del nord. La porta n'era peranco chiusa. Il
conte chiamò forte Lodovico, senza ricevere risposta. Sorpreso di tale
silenzio, cominciò a temere non fosse accaduta qualche disgrazia
all'infelice, o che la paura di qualche oggetto immaginario l'avesse
fatto svenire. Cercò alcuni servitori, ai quali chiese se avessero
veduto Lodovico, ma tutti risposero che, dalla sera precedente,
nessuno erasi più avvicinato all'appartamento del nord.

«Egli dorme profondamente,» disse il conte, «è così lontano dalla
porta d'ingresso, che non può sentire; bisognerà gettarla a terra.
Prendete una leva e seguitemi.»

I servi rimasero muti e confusi; nessuno si movea. Dorotea parlò di
un'altra porta che dalla galleria dello scalone metteva
nell'anticamera del salotto, ed era per conseguenza assai più vicina
alla camera da letto. Il conte vi andò, ma tutti i suoi sforzi furono
inutili; per cui la fece atterrare. Esso entrò pel primo; Enrico lo
seguì co' più coraggiosi, e gli altri aspettarono sulla scala. Regnava
in quel luogo il più cupo silenzio. Entrato nel salotto, il conte
chiamò Lodovico, ma, non ricevendo risposta, aprì egli stesso, ed
entrò. Il silenzio assoluto regnante colà confermò i suoi timori;
Enrico fece aprire le imposte d'una finestra, ma Lodovico non fu
trovato, malgrado le più esatte ricerche nell'oratorio, nel letto, ed
in tutte le altre stanze. Tutte le porte che comunicavano al di fuori,
erano chiuse internamente come pure tutte le finestre. Lo stupore del
conte fu inesprimibile; rientrò nella camera, ove tutto era al suo
luogo. La spada stava sul tavolino, colla lucerna, un libro ed un
mezzo bicchier di vino. Accanto al caminetto eravi il paniere con un
resto di provvisioni, e legna col fuoco spento. Il conte parlava poco,
ma il di lui silenzio esprimeva molto. Pareva che Lodovico avesse
dovuto fuggire per qualche uscio segreto ed ignoto. Il conte non
poteva risolversi ad ammettere una causa soprannaturale; e poi, quando
anche vi fosse, quest'uscio segreto, come spiegare i motivi della sua
fuga?

Villefort aiutò egli stesso a staccare il parato di tutte le stanze,
per iscuoprire se nascondeva qualche apertura, ma tutto indarno. Egli
si ritirò dunque dopo aver chiuso il salotto, e messasene la chiave in
tasca. Diede ordini pressanti perchè si cercasse Lodovico fino ne'
dintorni, e si ritirò con Enrico nel suo gabinetto, ove restarono
un'ora circa. Qualunque fosse stato il soggetto della loro conferenza,
Enrico da allora perdè tutto il brio, e diveniva grave e riservato
allorchè trattavasi il soggetto che allarmava tutta la famiglia. La
paura dei servi crebbe al punto che la maggior parte di essi partì
immediatamente, e gli altri restarono finchè il conte non li avesse
surrogati. Le ricerche più esatte sul destino di Lodovico furono
inutili. Dopo molti giorni d'indagini, la povera Annetta si abbandonò
alla disperazione, e la sorpresa generale fu al colmo.

Emilia, il cui spirito era stato vivamente commosso dalla strana fine
della marchesa, e dalla misteriosa relazione ch'essa immaginava aver
esistito fra lei e Sant'Aubert, era colpita in ispecie da un caso sì
straordinario. Era inoltre afflittissima della perdita di Lodovico, la
cui probità, fedeltà ed i servigi meritavano tutta la sua stima e
riconoscenza. Desiderava trovarsi nella placida solitudine del suo
convento; ma tutte le volte che ne parlava al conte, questi ne la
dissuadea teneramente; ella sentiva per lui l'affetto, l'ammirazione
ed il rispetto di una figlia; e Dorotea consentì alfine ch'ella
l'informasse dell'apparizione da loro veduta nella camera da letto
della marchesa. In tutt'altro momento avrebbe sorriso della di lei
relazione, ma allora ascoltolla sul serio, ed allorchè ebbe finito, le
raccomandò il più scrupoloso segreto. «Qualunque possa essere la causa
di questi avvenimenti singolari,» disse il conte, «il tempo solo può
spiegargli. Io veglierò con cura su quanto accadrà nel castello, ed
impiegherò ogni mezzo per iscuoprire il destino di Lodovico. Intanto
usiamo prudenza e circospezione. Andrò io stesso a passare una notte
intiera in quell'appartamento, ma fintantochè ne determini l'istante,
voglio che l'ignorino tutti.» La vecchia Dorotea gli raccontò allora
le particolarità della morte della marchesa, che cagionarongli alta
sorpresa.

La settimana seguente, tutti gli ospiti del conte partirono,
eccettuato il barone, suo figlio ed Emilia. Quest'ultima ebbe
l'imbarazzo di un'altra visita del signor Dupont, che la fece
risolvere a tornar subito al convento. La gioia manifestata da
quell'uomo appassionato nel rivederla, la persuase come non avesse
rinunziato alla speranza di farla sua, Emilia però fu seco lui molto
riservata. Il conte lo ricevè con piacere, glielo presentò sorridendo,
e parve ritrarre buon augurio dall'impaccio in cui la vedea.

Dupont però lo comprese meglio, perdè d'improvviso ogni brio, e
ricadde nel languore e nello scoraggiamento.

Il giorno seguente, nondimeno, spiò l'occasione di spiegare il motivo
della sua visita, e rinnovò la domanda. Questa dichiarazione fu
ricevuta da Emilia con visibile dispiacere: procurò di addolcirgli la
pena d'un secondo rifiuto, coll'assicurazione reiterata della sua
stima e amicizia. Più persuasa che mai dell'inconvenienza d'un più
lungo soggiorno nel castello, andò subito ad informare il conte della
sua volontà di tornare al convento.

«Cara Emilia,» le diss'egli, «vedo con dispiacere che incoraggite le
illusioni pur troppo comuni ai giovani cuori: il vostro ha ricevuto un
colpo violento, e credete non doverne guarir più. Cercate di
respingere queste idee; scacciate le illusioni, e svegliatevi al
sentimento del pericolo.»

Emilia sorrise forzatamente, e rispose: «So che cosa volete dire, o
signore, e son preparata a rispondervi. Sento che il mio cuore non
proverà mai un secondo affetto, e perderei la speranza di ricuperare
ancora la pace e la tranquillità, se mi lasciassi trascinare a nuovi
impegni.

--So bene che voi sentite tutto questo, ma so eziandio che il tempo
indebolirà tale sentimento; io posso parlarvene in proposito, e so
compatire i vostri affanni, chè conosco per esperienza cosa vuol dire
amare e piangere l'oggetto amato,» soggiunse commosso assai;
«giudicate dunque s'io debbo premunir voi contro i terribili effetti
di un'inclinazione, che può influire su tutta la vita, e abbreviare
quegli anni che avrebbero potuto esser felici. Il signor Dupont è uomo
amabile e sensibile; vi adora da lungo tempo, la sua famiglia e le
sue sostanze non son suscettibili d'alcuna obiezione. Or è superfluo
aggiungere ch'io credo il signor Dupont capace di fare la vostra
felicità. Non piangete, mia cara Emilia,» continuò il conte,
prendendole una mano; «io non voglio indurvi a sforzi violenti per
domare i vostri affetti, ma pregarvi solo a star lontana da tutte le
occasioni, che possono rammentarvi gli oggetti della vostra tristezza,
pensando qualche volta all'infelice Dupont, senza condannarlo a quello
stato di disperazione da cui bramerei veder guarita voi stessa.

--Ah! signore,» disse Emilia, versando un torrente di lacrime, «non
vorrei che i vostri voti a tal proposito ingannassero il signor
Dupont, colla speranza ch'io possa accordargli la mia mano. Se
consulto il cuore, ciò non accadrà mai, ed io posso sopportar tutto
fuorchè l'idea che possa mai cambiar di pensiero.

--Soffrite ch'io mi faccia interprete del vostro cuore,» ripigliò il
conte con un sorriso; «se mi fate l'onore di seguire i miei consigli
sul resto, vi perdonerò l'incredulità sulla vostra condotta futura
verso Dupont. Non vi solleciterò di restar qui più a lungo che non vi
piaccia; ma astenendomi adesso dall'oppormi alla vostra partenza,
reclamo dalla vostra amicizia qualche visita per l'avvenire.»

Emilia ringraziollo di tante prove d'affetto, e promise di seguire i
suoi consigli, uno solo eccettuato, assicurandolo del piacere con cui
profitterebbe del suo grazioso invito, allorchè Dupont non fosse più
al castello.

Villefort, sorridendo di questa condizione, riprese: «Vi acconsento,
il monastero è qui vicino; mia figlia ed io potremo venire spesso a
vedervi. Se però qualche volta ci permettessimo di associare un
compagno alla nostra passeggiata, ce lo perdonereste voi?»

Emilia parve afflitta, e non rispose.

«Ebbene,» soggiunse il conte, «non ne parliamo più; vi domando perdono
d'essermi spinto troppo oltre. Vi supplico di credere che il mio unico
scopo è un vero interesse per la vostra felicità e per quella del mio
buon amico.»

La fanciulla scrisse alla badessa, e partì la sera del giorno
seguente. Dupont la vide partire con rammarico; ma il conte cercò
incoraggiarlo colla speranza che col tempo essa gli sarebbe stata più
favorevole.

Emilia fu contentissima di trovarsi nel placido ritiro del chiostro,
ove la badessa le rinnovò le maggiori prove di materna bontà,
avvalorate dall'amicizia veramente fraterna delle altre monache.
Sapevano esse di già l'avvenimento straordinario del castello, e la
stessa sera, dopo cena, pregarono Emilia di raccontarne i dettagli;
essa lo fece con circospezione, estendendosi assai poco sulla
scomparsa di Lodovico. Tutte le ascoltanti convennero unanimemente a
darle una causa soprannaturale.

«Fu creduto per molto tempo,» disse una monaca chiamata suor
Francesca, «che il castello fosse frequentato dagli spiriti, e rimasi
assai sorpresa quando seppi che il conte aveva la temerità di venire
ad abitarlo. Credo che l'antico proprietario avesse qualche peccato da
espiare. Speriamo che le virtù dell'attual possessore possano
preservarlo dal castigo riserbato al primo, se realmente era reo.

--E di qual delitto lo sospettano?» disse una certa Feydeau, educanda.

--Preghiamo per l'anima sua,» rispose una monaca, la quale fin allora
non avea aperto bocca. «Se fu reo, il suo castigo quaggiù bastò ad
espiarne la colpa.»

Eravi nell'accento di tai detti un misto di serio e di singolarità che
colpì Emilia. L'educanda ripetè l'inchiesta senza badare alle parole
della monaca.

«Non oso dire qual fu il suo delitto,» ripigliò suor Francesca.
«Intesi racconti strani a proposito del marchese di Villeroy. Dicono,
tra altri, che dopo la morte della moglie partì da Blangy, e non vi
tornò più. A quell'epoca io non era qui, e non posso dir nulla di
preciso; la marchesa era morta già da molto tempo, e la maggior parte
delle nostre suore non potrebbe dirne di più.

--Io lo potrei,» ripigliò la monaca che avea già parlato, e che si
chiamava suor Agnese.

--Voi sapete dunque,» disse l'educanda, «le circostanze che vi fanno
giudicare s'egli fosse colpevole o no, e qual delitto gli venisse
imputato?

--Sì,» rispose suor Agnese; «ma chi potrebbe mai indagare i miei
pensieri? Chi oserà mescolarsi ne' miei segreti? Dio solo è il suo
giudice, ed egli è già al cospetto di quel giudice terribile.

--Vi domandava soltanto la vostra opinione, se questo discorso vi
spiace, lo cambieremo subito.

--Spiacevole!» rispose la monaca con affettazione. «Noi parliamo a
caso, senza pesare il valore delle parole. Spiacevole! è
un'espressione miserabile. Io vado a pregare Iddio.»

Ed alzatasi sospirando, se ne andò.

«Che significa ciò?» chiese Emilia.

--Non è straordinario,» rispose suor Francesca; «ella è spesso così. La
sua ragione è alterata; vaneggia.

--Povera donna!» soggiunse Emilia; «pregherò Dio per lei.

--Le vostre preci in tal caso si uniranno alle nostre, giacchè ne ha
bisogno.

--Signora,» disse la Feydeau, «fatemi la grazia di dirmi la vostra
opinione sul marchese di Villeroy. Lo strano avvenimento del castello
ha tanto eccitato la mia curiosità, che mi rende ardita a tal segno:
qual è dunque il delitto che gli viene imputato?

--Non si può,» rispose la badessa con aria grave, «non si può
avventurare veruna proposizione sopra un soggetto così delicato.
Quanto al castigo di cui parla suor Agnese, non so che ne abbia
sofferto alcuno, ed avrà voluto di certo alludere al crudele
rimordimento di coscienza. Guardatevi bene, figliuole, di provare
questo terribile castigo, ch'è il purgatorio della nostra vita. La
marchesa è stata un modello di virtù e rassegnazione, ed il chiostro
istesso non avrebbe arrossito d'imitarla. La nostra chiesa ha ricevuto
la di lei spoglia mortale, e la sua anima è volata senza dubbio in
grembo al Creatore. Andiamo, figliuole, a pregare per gl'infelici
peccatori.»

Ella si alzò, e la seguirono tutte alla cappella.




CAPITOLO XLVI


Villefort ricevè alfine una lettera dell'avvocato di Aix, che
incoraggiava Emilia ad affrettare le sue istanze pel ricupero dei beni
della zia. Poco dopo ricevè un simile avviso per parte di Quesnel; ma
il soccorso della legge non pareva più necessario, giacchè la sola
persona che avesse potuto opporsi non esisteva più. Un amico di
Quesnel, che risiedeva a Venezia, aveagli mandato la relazione della
morte di Montoni, processato con Orsino, come supposto complice
dell'assassinio del nobile veneziano. Orsino, trovato reo, fu
giustiziato; Montoni ed i suoi compagni, riconosciuti innocenti di
quel delitto, furono tutti rilasciati tranne il primo. Il senato vide
in lui un uomo pericolosissimo, e, per diversi motivi, fu ritenuto in
carcere. Vi morì in modo molto segreto e sospettossi che il veleno
troncasse i suoi giorni. La persona dalla quale Quesnel aveva ricevuto
la notizia, meritava tutta la fede. Egli diceva dunque a Emilia che
bastava reclamare i beni della zia per andarne al possesso,
aggiungendo l'avrebbe aiutata a non trascurar veruna formalità.
L'affitto della valle volgea al suo termine, per cui la consigliava di
recarsi a Tolosa.

L'aumento del patrimonio d'Emilia aveva risvegliato in Quesnel
un'improvvisa tenerezza per la nipote, e pareva avere più rispetto per
una ricca fanciulla, di quel che non avesse sentito compassione per
un'orfanella povera e senza amici.

Il piacere provato da Emilia a tale notizia, fu mitigato dall'idea che
colui, pel quale aveva desiderato tanto di essere nell'agiatezza, non
era più degno di lei. Nonpertanto ringraziò il cielo del benefizio
inaspettato, e scrisse a Quesnel che sarebbe stata a Tolosa pel tempo
indicato.

Quando Villefort andò al convento in compagnia di Bianca per far
leggere ad Emilia il consulto dell'avvocato, fu istruito delle
informazioni di Quesnel, e ne felicitò sinceramente la fanciulla.
Tornò quindi a riparlare delle sue inquietudini sulla sorte di
Lodovico; e disse che, volendo far cessare tutte le ciarle e
le paure, aveva l'intenzione decisa di passare una notte intiera
nell'appartamento del nord. Emilia seriamente allarmata, unì le sue
preghiere a quelle di Bianca per distoglierlo da tale progetto.

«Che cos'ho io da temere?» rispos'egli; «non credo aver a combattere
nemici soprannaturali, e quanto agli attacchi umani, sarò parato a
riceverli; d'altronde, vi prometto di non vegliar solo. Mio figlio mi
terrà compagnia; e se stanotte non isparirò come Lodovico, domani
saprete il risultato della mia avventura.»

Il conte e Bianca, congedatisi poco dopo da Emilia, tornarono al
castello.

La sera, dopo cena, Villefort s'incamminò con Enrico all'appartamento
del nord, accompagnato dal barone, da Dupont e da alcuni domestici,
che gli augurarono la buona notte alla porta. Tutto era in quelle
stanze nel medesimo stato come dopo la sparizione di Lodovico. Essi
furon costretti ad accendere il fuoco da sè, poichè nessuno si era
arrischiato a venire fin là. Esaminarono scrupolosamente la camera e
l'oratorio, e sedettero vicino al fuoco. Deposero le spade sul
tavolino, e parlarono a lungo di varie cose. Enrico era spesso
distratto e taciturno, e fissava tratto tratto un occhio diffidente e
curioso sulle parti oscure della camera. Il conte cessò a poco a poco
di parlare, e, per sottrarsi a' pensieri che l'assalivano, si mise a
leggere un volume di Tacito, ond'erasi prudentemente munito.




CAPITOLO XLVII


Il barone di Santa-Fè, inquieto per l'amico, non avendo potuto chiuder
occhio in tutta notte, erasi alzato di buonissima ora. Andando per
notizie passò vicino al gabinetto del conte, ed udì camminare: bussò,
e venne lo stesso Villefort ad aprirgli: lieto di vederlo sano e
salvo, il barone non ebbe tempo di osservarne la fisonomia
straordinariamente grave; le sue risposte riservate però ne lo resero
ben presto accorto. Il conte affettando di sorridere, rispose
evasivamente alle di lui interrogazioni; ma il barone divenne serio e
così pressante, che Villefort, preso allora un tuono deciso di
gravità, gli disse:

«Amico caro, non mi domandate nulla di più, ve ne scongiuro. Vi
supplico inoltre di tacere su tutto ciò che la mia condotta avvenire
potrà avere di sorprendente. Non ho difficoltà a dirvi che sono
infelice, e che il mio esperimento non mi fece trovare Lodovico.
Scusate la mia riserva sugl'incidenti di stanotte.

--Ma dov'è Enrico?» disse il barone, sorpreso e sconcertato dal
rifiuto.

--È nelle sue stanze; mi farete il piacere a non interrogarlo. Potete
esser certo che il motivo che m'impone silenzio verso un amico di
trent'anni, non può derivare da un caso ordinario. La mia riserva, in
questo momento, non deve farvi dubitare nè della stima, nè
dell'amicizia mia.»

Troncato così il discorso, scesero per la colazione. Il conte mosse
incontro alla sua famiglia con aria allegra: si schermì dalle
molteplici interrogazioni con risposte scherzose, ed assicurò,
ridendo, l'appartamento del nord non essere poi tanto da paventarsi,
se lui e suo figlio n'erano usciti sani e salvi.

Enrico fu però meno felice ne' suoi sforzi per dissimulare; la sua
faccia portava ancora l'impronta del terrore. Era muto e pensieroso, e
quando voleva rispondere, celiando, alle pressanti dimande della
Bearn, si vedeva bene il suo brio non esser naturale.

Dopo pranzo, il conte, a tenore della sua promessa, andò a trovare
Emilia, la quale fu sorpresa di trovare ne' suoi discorsi sugli
appartamenti del nord un misto di motteggio e riservatezza. Non disse
però nulla dell'avventura notturna; e quand'essa ardì favellargliene,
e chiedergli se si fosse accorto che gli spiriti frequentassero
l'appartamento, si fece serio e rispose sorridendo:

«Cara Emilia, non vi guastate il cervello con simili idee che
v'insegnerebbero a trovar uno spettro in tutte le stanze oscure. Ma
credetemi,» soggiunse con un lungo sospiro, «i morti non appariscono
per soggetti frivoli, nè all'unico scopo di spaventare i paurosi.»
Tacque, pensò alquanto, indi ripigliò: «Ma via, non parliamone più.»

E s'accomiatò poco dopo. La fanciulla andò a raggiungere le monache, e
restò sorpresa nel sentire come sapessero già l'avventura. Ammiravano
esse l'intrepidità del conte a passar la notte nell'istesso
appartamento ov'era sparito Lodovico, Emilia non considerava con qual
rapidità circola una notizia superstiziosa. Le monache l'avevano
saputa dal giardiniere, ed i loro sguardi dopo la scomparsa di
Lodovico, stavano sempre fissi sul castello di Blangy.

Emilia ascoltava tacendo tutte le loro dissertazioni sulla condotta
del conte. La maggior parte la condannarono come temeraria e
presuntuosa. Suor Francesca sosteneva che il conte aveva mostrato
tutta la bravura di un'anima grande e virtuosa. Non erasi macchiato di
verun delitto, e non poteva temere lo spirito maligno, avendo diritti
alla protezione di colui che comanda ai cattivi e protegge
l'innocenza.

«I colpevoli non possono reclamare questa protezione,» disse suor
Agnese sospirando e fissati gli occhi in Emilia, la prese per la mano
dicendole: «Voi siete giovine, siete innocente, ma avete passioni in
cuore... veri serpenti. Essi dormono ora: guardate che non si sveglino
perchè vi ferirebbero a morte.»

La fanciulla, colpita da tali parole, e dal modo con cui venivano
pronunziate, non potè trattener le lacrime.

«Ah! è dunque vero!» sclamò allora suor Agnese con tenerezza; «così
giovine, ed essere infelice! Noi siamo adunque sorelle? Esistono
dunque teneri rapporti fra i colpevoli?» Quindi, con occhi smarriti:
«No, non c'è più riposo! non più pace! non più speranza. Le ho gustate
per l'addietro; allora poteva piangere. La mia sorte è decisa.

--C'è speranza per tutti quelli che si pentono e si correggono,» disse
suor Francesca.

--Per tutti, fuorchè per me,» replicò suor Agnese. «Ma la testa mi
bolle, credo esser malata. Oh! perchè non posso cancellare il passato
dalla memoria! Quelle ombre che sorgono come furie per tormentarmi, le
veggo sempre in sogno; quando mi sveglio mi stanno dinanzi! Ed ora le
vedo là, là...»

Restò qualche tempo nell'atteggiamento dell'orrore: i di lei sguardi
erravano per la camera, come se avessero seguito qualche oggetto. Una
monaca la prese dolcemente per la mano onde condurla fuori. Suor
Agnese si calmò, mise un sospiro, e disse:

«Esse sono sparite, sì, sono sparite. Ho la febbre, e non so quel
ch'io dica. Talvolta mi trovo in questo stato, ma presto passa. Fra
poco starò meglio. Addio, care sorelle; vo' ritirarmi in cella;
sovvengavi di me nelle vostre orazioni.»

Appena fu uscita, suor Francesca vedendo l'emozione di Emilia, le
disse:

«Non vi sorprenda. La nostra sorella ha spesso la testa alterata,
sebbene io non l'abbia mai veduta in un delirio così grande come oggi,
ma spero che la solitudine e l'orazione la calmeranno.

--La sua coscienza pareva oppressa,» disse Emilia; «sapete voi per
qual motivo sia ridotta in uno stato così deplorabile?

--Si,» rispose suor Francesca; poi soggiunse sottovoce: «In questo
momento non posso dirvi nulla. Se volete saperne qualcosa, venite a
trovarmi in cella dopo cena. Ma rammentatevi che a mezzanotte io devo
andare al mattutino; venite dunque o prima, o dopo.»

Emilia promise di esser puntuale; sopraggiunse la badessa, e non si
parlò più dell'infelice suor Agnese.

Il conte tornando al castello, trovò Dupont in un trasporto di
disperazione, cagionatogli dal suo amore per Emilia; amore nato in lui
da troppo tempo ond'esser vinto facilmente. Egli avea conosciuta la
fanciulla in Guascogna; il di lui padre, cui erasi confidato, trovando
ch'essa non era abbastanza ricca, lo dissuase dal pensare a cercarla
in isposa. Finchè visse suo padre, gli fu obbediente, ma non potendo
vincere la sua passione, cercava di addolcirla visitando i luoghi
frequentati da Emilia, ed in ispecie la peschiera. Una volta o due
aveale manifestato i suoi sentimenti in versi, ma giammai palesato il
suo nome per non trasgredire agli ordini paterni. Colà aveva cantato
quella canzone patetica, di cui Emilia era stata tanto sorpresa, e vi
aveva trovato a caso quel ritratto che servì ad alimentare una
passione troppo fatale al suo riposo. Abbracciata la carriera
militare, scese a guerreggiare in Italia; intanto suo padre morì, ed
egli aveva riacquistata la libertà quando l'unico oggetto che poteva
rendergliela preziosa non poteva più corrispondergli. Si è veduto in
qual modo ritrovasse Emilia, e come l'avesse aiutata a fuggire. Si è
veduto finalmente a qual debole speranza appoggiasse il suo amore, e
l'inutilità di tutti i di lui sforzi per vincerlo. Il conte procurò
consolarlo collo zelo dell'amicizia, lusingandolo che forse la
pazienza e la perseveranza potrebbero un giorno cattivargli l'affetto
di Emilia.

Appena le monache si furono ritirate, la fanciulla, recatasi da suor
Francesca, la trovò inginocchiata dinanzi ad un crocifisso; appena la
vide, le fece segno di entrare, ed Emilia aspettò in silenzio ch'essa
finisse la sua orazione, allora la monaca si alzò, e postasi a sedere
sul letticciuolo, così cominciò:

«La vostra curiosità, sorella cara, vi ha resa esatta, ma non c'è
nulla di notevole nell'istoria di suor Agnese. Non ho voluto parlare
di lei in presenza delle altre, perchè non mi garba che conoscano il
suo delitto.

--La vostra confidenza mi onora,» disse Emilia, «ma io non ne abuserò.

--Suor Agnese,» soggiunse la monaca, «è d'una famiglia nobile; la
dignità della sua fisonomia ve lo avrà forse già fatto sospettare; ma
non voglio disonorare il suo nome rivelandolo. L'amore fu cagione
delle sue follie e del suo delitto. Fu amata da un gentiluomo poco
ricco, e il di lei padre, da quanto mi fu detto, avendola maritata ad
un signore ch'ella odiava, accelerò la sua perdita: obliò i suoi
doveri e la virtù, e profanò i voti del matrimonio; questo delitto fu
scoperto, ed il marito l'avrebbe sacrificata alla sua vendetta, se il
di lei padre non avesse trovato il mezzo di sottrarla al suo potere.
Non ho mai potuto scoprire in qual modo potè riuscirvi. La chiuse in
questo convento, e la decise a prendere il velo. Si fece spargere la
voce ch'essa era morta; il padre, per salvar la figlia, concorse a
confermare questa notizia, e fece credere perfino al marito ch'era
stata vittima del suo geloso furore. Parmi che quest'istoria vi
sorprenda, e per vero non è comune, ma non è però senz'esempio. Ora
sapete tutto; aggiungerò soltanto che il contrasto nel cuore di Agnese
fra l'amore, i rimorsi ed il sentimento dei doveri claustrali, cagionò
alla perfine il disordine delle sue idee. In principio era
alteratissima; prese in seguito una malinconia abituale, ma da qualche
tempo cade in accessi di delirio più forti e frequenti del solito.»

Emilia fu commossa da quest'istoria, che le parve aver molta analogia
con quella della marchesa di Villeroy, e sparse qualche lacrima sugli
infortunii d'entrambe. «È strano,» soggiunse ella, «ma vi sono momenti
in cui credo rammentarmi la sua figura; io non ho per certo veduta mai
suor Agnese prima di entrare in questo convento; bisogna che abbia
visto in qualche parte una persona che le somigli, eppure non ne ho
nessuna memoria.» E rimase sovrappensieri. Quando suonò mezzanotte,
congedossi e tornò nella sua camera.

Per molti giorni consecutivi, Emilia non vide nè il conte, nè alcuno
della sua famiglia; quand'egli comparve, essa notò con pena l'eccesso
della sua agitazione.

«Non ne posso più,» rispos'egli alle di lei premurose interrogazioni;
«voglio assentarmi per qualche tempo, onde ricuperare un poco di
tranquillità. Mia figlia ed io accompagneremo il barone di Santa-Fè al
di lui castello, situato alle falde dei Pirenei in Guascogna. Ho
pensato, cara Emilia, che se voi andaste alla vostra terra della valle
si potrebbe fare insieme parte del viaggio, ed io sarei lietissimo di
potervi scortare fin là.»

Essa lo ringraziò, facendogli conoscere il dispiacere di non poter
godere della sua compagnia, essendo obbligata di trasferirsi prima a
Tolosa. «Allorchè sarete dal barone,» soggiunse, «vi troverete poco
distante da' miei beni. Mi lusingo pertanto che non ripartirete di
colà senza venire a trovarmi, credendo inutile dirvi qual piacere io
proverò a ricevervi in compagnia di Bianca.

--Ne son convinto appieno,» rispose Villefort; «ed approfitterò molto
volentieri delle vostre gentili profferte.»

E dopo i soliti complimenti, se ne partì.

Pochi giorni dopo, Emilia ricevè una lettera di Quesnel che l'avvisava
di esser già a Tolosa, che la terra della valle era libera, e la
pregava d'affrettarsi, perchè i suoi affari lo chiamavano in
Guascogna. Essa non esitò più; andò a fare i saluti al conte, che non
era ancora partito, e si mise in viaggio per Tolosa, in compagnia
dell'infelice Annetta, e d'un fido servo della famiglia del conte.




CAPITOLO XLVIII


Emilia compì il viaggio felicemente. Avvicinandosi a Tolosa, d'onde
era partita colla zia, riflettè sul tristo fine di lei, la quale,
senza la sua imprudenza, avrebbe potuto vivere ancora felice in quella
città. Anche Montoni le si presentava spesso al pensiero; parevale di
vederlo ne' dì de' suoi trionfi, ardito, intraprendente, altiero,
vendicativo; ed ora ecco che, scorsi pochi mesi, non aveva più il
potere, nè la volontà di nuocerle, nè esisteva nemmen più; i di lui
giorni erano svaniti come ombra fugace...

Giunta a Tolosa, scese al palazzo di sua zia, ora divenuto suo, ed
invece d'incontrarvi Quesnel, vi trovò una sua lettera, colla quale,
oltre a parecchie istruzioni circa i di lei beni, l'informava essere
stato obbligato di partire due giorni prima per un affare importante.
Il poco interesse che Quesnel mostrava di rivederla, non occupò a
lungo i di lei pensieri, i quali si volsero alle persone vedute in
quel palazzo, e sopratutto all'imprudente ed infelice signora Montoni;
essa aveva fatta colazione secolei la mattina della sua partenza per
l'Italia. Il salotto in cui ritrovavasi, rammentavale più che mai
tutto quel che aveva sofferto allora, e le belle speranze di cui
pascevasi a quell'epoca la zia. Affacciandosi alla finestra del
giardino, vide il viale in cui la vigilia del suo viaggio erasi
separata da Valancourt. La di lui ansietà, il premuroso interesse
dimostrato per la sua felicità, le pressanti sollecitazioni fattele,
affinchè non si abbandonasse all'autorità di Montoni, e la sincerità
della sua tenerezza, tutto tornavale in mente. Le parve quasi
impossibile che Valancourt si fosse reso indegno di lei, dubitava di
tutti i rapporti, e perfino delle di lui proprie parole, confermanti
quelle di Villefort. Oppressa dalle idee destatele da quel viale, si
ritirò dalla finestra, e buttossi in una poltrona inabissata nel più
vivo dolore. Annetta, entrando di lì a poco con qualche rinfresco, la
trasse dai tristi pensieri.

Dal dì dopo, serie occupazioni la divagarono dalla sua malinconia;
desiderava partir presto da Tolosa per recarsi alla valle: prese
informazione dello stato de' suoi possessi, e finì di regolarsi
dietro le istruzioni di Quesnel. Abbisognò d'un grande sforzo per
interessarsi in simili oggetti, ma se ne trovò ben compensata, e si
convinse ognor più che la continua occupazione è il miglior rimedio
contro la tristezza. Tutta la giornata la consacrò agli affari;
s'informò degli abitanti più poveri dei dintorni, e distribuì loro
soccorsi copiosi. Andata a passeggiare in giardino, si diresse verso
il padiglione dov'erasi abboccata con Valancourt. Il desiderio di
rivedere un luogo in cui era stata felice, vinse in lei l'estrema
ripugnanza di rinnovare la sua ambascia entrandovi; ne spinse l'uscio:
le finestre erano chiuse. Una sedia stava presso al terrazzino, come
se vi avesse seduto qualcuno di recente. Il silenzio e la solitudine
del luogo secondavano in quel momento le sue malinconiche
disposizioni. Postasi a sedere presso una finestra, si rammentò la
scena dell'abboccamento avuto quivi coll'amante. In quel luogo aveva
passati seco lui i più bei momenti, quando la zia favoriva i loro
progetti. «Come è mai possibile,» sclamò Emilia, «che un cuore così
sensibile abbia potuto darsi in preda al vizio!» Si alzò, e volendo
sfuggire alle chimere d'una felicità che non esisteva più, tornò verso
casa. Traversando il viale, vide da lungi una persona passeggiare
lentamente sotto gli alberi. Il crepuscolo non le permise di
distinguere chi fosse: credè da principio che fosse un servitore, ma
nell'avanzarsi egli volse la testa, e le parve riconoscere Valancourt;
ma tosto sparve nel boschetto. Emilia, cogli occhi fissi al punto dove
era sparito, restò immobile e tremante. Infine, fattasi animo, rientrò
in casa, e temendo di lasciar conoscere la sua alterazione, si astenne
dal chiedere chi fosse andato in giardino. Quando fu sola, si rammentò
la figura veduta; era sparita così presto, che non aveva potuto
distinguer nulla; pure quell'improvvisa partenza le faceva credere che
fosse Valancourt. Passò quella sera nell'incertezza e nei continui
sforzi che faceva per cancellarlo dalla memoria. Vani tentativi: essa
era agitata da mille contrari affetti; temeva al tempo istesso che
fosse lui, oppure un'illusione. Voleva persuadersi che non desiderava
più di rivedere Valancourt, ed il suo cuore con altrettanta costanza
contraddiceva la ragione.

Passò una settimana prima d'arrischiarsi nuovamente a passeggiare in
giardino. Infine, non volendo esporsi sola, si fece accompagnare da
Annetta, la quale, dopo un lungo silenzio, le disse:

«Signora Emilia, perchè mai siete così afflitta? Parrebbe quasi che
voi sapeste che cosa è accaduto.

--Cos'è accaduto?» rispose Emilia con voce tremante.

--La scorsa notte v'era un ladro nel giardino.

--Un ladro!» sclamò Emilia con vivacità.

--Così suppongo; chè altrimenti chi poteva essere?

--Dove l'hai tu veduto, Annetta?» rispose Emilia guardandosi attorno.

--Non l'ho veduto io, ma Giovanni il giardiniere. Era mezzanotte:
Giovanni traversava il cortile per andarsene a dormire, allorchè vide
una figura nel viale in faccia alla porta d'ingresso; indovinò chi
era, ed andò a prendere lo schioppo.

--Lo schioppo!

--Sì, signora. Tornò nel cortile per osservarlo meglio; lo vide
avanzare lentamente nel viale e guardare attento il castello. Vedendo
che il ladro entrava nel cortile, Giovanni credè bene allora
domandargli chi fosse e cosa volesse, ma colui non rispose e tornò
indietro. Giovanni allora gli sparò addosso. Gran Dio! Voi
impallidite! Quell'uomo non fu ucciso, ve ne assicuro; o almeno i suoi
compagni l'hanno portato via. Giovanni, di buon mattino, andò a
cercare il di lui cadavere, e non lo trovò; non vide altro che una
striscia di sangue; la seguì per iscuoprire da qual parte erano
usciti, ma essa si perdeva sull'erba, e...»

Emilia svenne, e sarebbe caduta in terra se Annetta non l'avesse
sostenuta, ed appoggiata ad un sedile di pietra. Allorchè, dopo un
lungo deliquio, Emilia ebbe ripreso l'uso dei sensi, si fece condurre
al suo appartamento, non volendo udir altro per timore di riconoscere
che l'incognito era Valancourt.

Allorchè si credè abbastanza forte per sentir Giovanni, lo mandò a
cercare; egli non potè dare nessuno schiarimento. Essa gli fece forti
rimproveri per aver tirato a palla, ed ordinò di fare esatte ricerche
per iscoprire chi fosse il ferito, ma indarno. Più essa vi riflettea,
e più convincevasi che fosse Valancourt. Alfine l'inquietudine le
cagionò un'ardentissima febbre, che l'obbligò a letto per qualche
giorno.

La sua indisposizione e gli affari avevano già prolungato il di lei
soggiorno a Tolosa al di là del tempo prefisso. La sua presenza ormai
era necessaria alla valle: ricevè una lettera da Bianca, nella quale
l'informava che il conte e lei, essendo tuttavia presso il barone di
Santa-Fè, si proponevano al loro ritorno di andare a trovarla al di
lei castello, se vi fosse stata, aggiungendo che le avrebbero fatta
questa visita colla speranza di ricondurla a Blangy.

Emilia, rispose all'amica che fra pochi giorni sarebbe stata alla
valle; fece in fretta i preparativi di viaggio, e partì sforzandosi di
credere che se fosse accaduto qualche sinistro a Valancourt, ne
sarebbe stata in qualche modo informata.




CAPITOLO XLIX


Il dì dopo, Emilia arrivò al suo castello della valle verso il
tramonto. Alla malinconia inspiratale dal luogo già abitato da' suoi
genitori, e dove aveva passato anni felici, si unì tosto un tenero
infinito piacere. Il tempo aveva smussato i dardi del suo dolore, ed
allora rivedeva con compiacenza tutto ciò che rinnovavale la memoria
de' suoi cari; le pareva che respirassero ancora in tutti quei luoghi
ove li aveva veduti, e sentiva che la valle era per lei il più
delizioso soggiorno. La prima stanza che visitò fu la sua libreria,
ove, seduta sulla poltrona del padre, riflettè con rassegnazione al
quadro del passato.

Poco dopo il suo arrivo ricevè la visita del venerabile Barreaux, che
venne con premura ad accogliere l'unica figlia del suo rispettabile
vicino, in una casa troppo lungamente derelitta. La presenza del
vecchio amico fu di grande conforto per Emilia; la loro conversazione
fu per amendue interessante, e si comunicarono reciprocamente le
circostanze principali di quanto era accaduto. La mattina di poi, la
giovine andò a passeggiare nel giardino gustando con tenera avidità il
piacere di vagare sotto quegli alberi, piantati dal diletto genitore,
ciascuno dei quali le ne rammentava la bontà i discorsi, il sorriso.
Prima sua cura fu d'informarsi della vecchia Teresa, stata crudelmente
licenziata da Quesnel senza veruna pensione, quando affittò quei beni.
Avendo saputo ch'ella viveva in una casuccia poco lontana, vi andò
subito, e fu lieta di trovarla sana ed allegra; essa si occupava a
potar viti, ed appena la povera vecchia riconobbe Emilia, le saltò al
collo, gridando:

«Ah! mia cara padroncina, io credeva di non rivedervi più; ma ora son
contenta. Sono stata maltrattata assai; non aspettava certo nella mia
età di essere scacciata in tal guisa.»

Entrate nell'abituro rustico, ma decentissimo, Emilia si congratulava
seco lei di averla trovata in quell'abitazione passabilmente bella
nella sua sventura. Teresa la ringraziò colle lagrime agli occhi.

«Sì, signora,» le disse, «è anche troppo bella per me, grazie
all'amico caritatevole che mi ha strappato dalla miseria. Voi eravate
troppo lontana per aiutarmi: egli mi ha messa qui, ed io credeva
quasi... ma non parliamone più.

--Chi è dunque quest'ottimo amico? chiunque ei sia diverrà anche il
mio.

--Ah! signora padrona, egli mi ha proibito di palesare la sua
buon'azione, e perciò non posso nominarvelo. Ma come siete cambiata
dacchè non vi ho veduta! Siete pallida e magra! Ma, a proposito, che
fa adesso quel caro signor Valancourt? Sta bene?»

Emilia, agitatissima, non le rispose; Teresa continuò:

«Dio lo ricolmi di benedizioni! Mia cara padrona, di grazia, non siate
meco così riservata; credete voi ch'io non sappia ch'egli vi ama?
Quando foste partita, veniva sempre al castello. Com'era afflitto!
Voleva entrare in tutte le stanze, qualche volta stava a sedere colle
braccia incrociate sul petto, senza dir verbo, tutto pensieroso. A un
tratto si scuoteva e mi parlava di voi! e con che fuoco, con qual
passione! Io lo amava appunto per questo... Quando poi il signor
Quesnel ebbe affittato il castello, io credeva che il cavaliere
impazzisse dal dolore.

--Teresa,» disse Emilia con serietà, «non mi nominate più il
cavaliere.

--Non nominarvelo più! e per qual ragione! Io amo il cavaliere quasi
quanto voi.

--Potrebbe anche darsi che spendeste male il vostro amore,» soggiunse
Emilia cercando di nascondere le lacrime; «ma, checchè ne sia, noi non
ci rivedremo mai più.

--Gran Dio, che ascolto! Il mio amore non può esser più giusto. È lo
stesso signor Valancourt che mi regalò questa casa, e sorresse la mia
vecchiaia dal momento che il signor Quesnel mi bandì da casa vostra.

--Il cavalier Valancourt?» disse Emilia tutta tremante.

--Sì, signora, lui appunto, sebbene gli abbia promesso di non
nominarlo. Fu egli che mi comprò questa casetta, e mi diè il denaro
necessario per istabilirmivi. Ordinò inoltre al fattore di suo
fratello di pagarmi regolarmente trenta franchi al mese. Ora,
giudicate, signora padrona, se posso dirne male? Temo solo che la sua
generosità abbia oltrepassato le sue forze; sono ormai tre mesi che
non ricevo nulla. Ma non piangete, signorina; mi lusingo che non
sarete meco in collera per avervi raccontato i benefizi del cavaliere?

--In collera!» sclamò Emilia, e versava lagrime in copia. «Quanto
tempo è che non l'avete veduto?

--Oimè! non ne ho più avuta notizia dacchè egli partì improvvisamente
per la Linguadoca; veniva allora da Parigi, e, come vi diceva
poc'anzi, son tre mesi che il fattore non mi manda la mia pensione.
Comincio a temere che gli sia accaduta qualche disgrazia. Se non fossi
così lontana da Estuvière, e potessi camminare, sarei già andata ad
informarmi di lui.»

L'ansietà d'Emilia era divenuta insopportabile; essa non poteva
convenientemente mandare dal fratello di Valancourt; ma pregò Teresa
di far partire, a nome suo però, un espresso per informarsi dal
fattore sul destino del cavaliere. Si fece promettere dalla vecchia di
non nominarla mai in questo affare, e di non parlarne neppure al
giovane. Teresa trovò subito il mezzo di contentar la padrona. Emilia
le diè qualche denaro, e tornò al castello più afflitta che mai: non
poteva persuadersi che un cuore benefico come quello di Valancourt si
fosse lordato di vizi, e sentivasi commossa dalla sua prova di bontà
per la povera Teresa.




CAPITOLO L


Nell'intervallo, il conte di Villefort e Bianca avevano passato
quindici giorni nel castello del barone di Santa-Fè. Avevan fatte
molte gite ne' Pirenei ed ammiratene le bellezze. Il conte erasi
separato dagli amici con dispiacere, quantunque dovessero in breve
formare una sola famiglia, essendosi stabilito, che il giovane
Santa-Fè, il quale l'accompagnava in Guascogna, avrebbe sposato Bianca
appena giunti a Blangy. La strada che andava alla valle era nella
parte più alpestre de' Pirenei ed impraticabile alle carrozze. Il
conte noleggiò muli per sè e per tutto il suo seguito; prese due guide
bene armate e pratiche di quelle montagne, le quali vantavansi di
conoscere tutti i sentieri, non che la posizione delle scarse capanne
di pastori, presso le quali dovevano passare.

Il conte partì di buon'ora coll'intenzione di passar la notte in
un'osteriuccia a mezza strada dalla valle, di cui avevangli parlato le
guide, e dove solevan riposare i mulattieri spagnuoli.

Dopo una giornata d'ammirazione e di fatiche, i viaggiatori trovaronsi
in una valle coperta di boschi, e circondata da alture scoscese.
Avevano già percorse molte leghe senza incontrare una sola abitazione,
e udendo solo tratto tratto i campanelli degli armenti, quando
intesero da lontano una musica bizzarra, e videro sopra un'eminenza un
gruppo di montanari che ballavano allegramente. Il conte si fermò per
godere di quella festa campestre. Erano contadini spagnuoli e francesi
che abitavano in un villaggio poco distante. Villefort sospirava
pensando che le grazie ed i piaceri innocenti fiorivano nella
solitudine, rifuggendo dalle città incivilite. Il sole aveva già
percorsa metà della sua carriera, ed i viaggiatori, riflettendo che
non avevan tempo da perdere, si rimisero in cammino.

Strada facendo, Bianca osservava in silenzio quelle solitudini,
sentiva il lene stormir degli abeti, ed a misura che il sole scendeva
all'occaso, sentivasi colta da insolita malinconia. Domandò al padre,
quanto fosse ancor distante l'osteria, e se la strada era sicura di
notte. Il conte ripetè alle guide la prima di queste due domande:
n'ebbe risposta ambigua; e soggiunsero che se la notte si avanzava,
sarebbe stato meglio fermarsi, finchè sorgesse la luna. «Ma adesso non
si può forse viaggiare con sicurezza?» disse il conte. Le guide
l'assicurarono che non eravi nessun pericolo, ed andarono innanzi.
Bianca, tranquillata da tale risposta, si compiaceva ad osservare i
progressi della notte. Il giovine Santa-Fè, la cui immaginazione,
scevra da timore, vedeva in ogni cosa oggetti d'ammirazione, faceva
osservare a Bianca i punti di vista più interessanti.

La notte diveniva più cupa, e negre nubi ne raddoppiavano l'oscurità;
le guide proposero di aspettare il sorger della luna, aggiungendo che
il tempo minacciava. Guardando intorno per trovare un ricovero,
scorsero un oggetto sulla punta d'una rupe. La curiosità li spinse ad
andar a veder cosa fosse, e quando furono a poca distanza scorsero una
gran croce piantata colà a mo' di monumento per attestare ch'eravi
stato commesso un omicidio. L'oscurità non permise di leggerne
l'iscrizione; ma le guide si rammentarono allora esservi stata eretta
in memoria del conte Beliard, stato ucciso da una banda di malfattori
che infestavano i Pirenei qualche anno addietro. Bianca fremè all'udir
raccontare alcune orribili particolarità sul destino delle sventurato
conte. Una delle guide le narrava con voce sommessa, come se i suoi
propri accenti gli facessero paura. Mentre i viaggiatori ascoltavano
quel racconto cominciò a lampeggiare, laonde ripartirono tosto in
traccia di qualche ricovero. Tornati sulla strada, le guide si misero
a narrare molte istorie di rapine, e d'assassinii commessi in quei
luoghi medesimi, aggiungendo molte ciarle e millanterie sul loro
coraggio, e sul modo maraviglioso con cui n'erano sfuggiti. La guida
meglio armata cavò dalla cintura una delle sue quattro pistole, e
giurò che quell'arme aveva purgata la terra in quell'istesso anno da
tre assassini. Sguainò quindi uno stile lunghissimo, accingendosi a
raccontare le prodezze in cui aveva figurato; ma Santa-Fè, accortosi
che cotesto racconto affliggeva Bianca, cercò d'interromperlo. Infine,
minacciando il tempo ognor più, rifugiaronsi in una grotta che
scorsero appiè dei dirupi al chiaror de' baleni. Una guida accese un
buon fuoco, e quella fiamma, insieme al riposo, fu di gran sollievo ai
viaggiatori.

I servi del conte trassero fuori alcune provvigioni, ed imbandirono
una buona cena. Dopo essersi rifocillati, Santa-Fè ascese la rupe
dirimpetto. Tutto era tenebre, e nulla turbava in quel punto il
silenzio notturno, meno il mormorio del vento, il rimbombo lontano dei
tuoni e le voci della carovana.

Il giovine osservava il quadro che formavano i viaggiatori sotto la
grotta. La figura elegante di Bianca contrastava colla maestà del
conte, assiso accanto a lei sopra una pietra. Gli abiti grotteschi e
le figure spiccate delle guide e dei servi situati in fondo alla
grotta, producevano un bellissimo effetto. La luce della fiamma faceva
parer pallida la faccia dei circostanti, e scintillare le armi,
imporporando al contrario le foglie d'un castagno gigantesco, che
ombreggiava la grotta, e questa tinta si confondeva gradatamente
coll'oscurità del resto della scena.

La luna spuntò alfine ad oriente; e mentre Santa-Fè contemplava con
ammirazione il suo disco atraverso le nubi, fu scosso dalle voci delle
guide che lo chiamavano. Tornò subito alla grotta, e la di lui
presenza calmò Bianca ed il conte, inquieti per la sua assenza.

La burrasca che cominciava ad imperversare li obbligò a trattenersi
colà. Il conte in mezzo alla figlia ed a Santa-Fè, procurava distrarre
la prima, parlandole dei fatti celebri avvenuti in que' monti.
D'improvviso, udirono latrare un cane. I viaggiatori ascoltarono con
qualche speranza; il vento soffiava forte, e le guide parvero non
dubitar più, a quel segno, di essere vicini all'osteria che cercavano.
Il conte allora si decise a proseguire il suo cammino.

I viaggiatori, diretti dai latrati del cane, costeggiarono nuovamente
il precipizio, preceduti da una torcia a vento, che le guide avevano
per mero caso. Si udiva il cane ora più, ora meno; talvolta cessava, e
le guide cercavano dirigersi verso quella parte. Tutt'a un tratto il
fracasso, spaventoso d'una cascata giunse al loro orecchio, e
trovaronsi in faccia ad un burrone. Bianca scese dalla mula; il conte
e Santa-Fè fecero altrettanto, le guide andarono in traccia di un
ponte che potesse condurli dalla parte opposta, dove chiaro appariva
trovarsi il cane; e confessarono alfine che avevano smarrita la
strada. Trovarono da ultimo un passaggio pericolosissimo formato da
due grossi abeti con rami d'albero e terra sopra. Tutta la comitiva
fremeva all'idea di traversare un ponte di quella sorta. I mulattieri
nondimeno si disposero a passare con le loro bestie. Bianca, tremante
sull'orlo del torrente, ascoltava il mormorio dell'acqua, che a quel
debolissimo chiaro di luna si vedeva precipitare dalle rupi in mezzo
ad abeti d'altezza smisurata, e inabissarsi quindi in un'immensa
voragine. Le povere mule traversarono il ponte colla precauzione lor
dettata dall'istinto naturale. Quell'unica torcia, di cui fino a quel
momento non era stato conosciuto il prezzo, fu pe' viaggiatori un
tesoro inestimabile. Bianca, fattasi coraggio, preceduta dall'amante,
ed appoggiata al braccio del padre, all'incerta luce della torcia,
toccò finalmente l'opposta riva.

Nell'avanzarsi, le montagne si ristringevano, non formando più che una
gola angustissima, in fondo alla quale scorreva con fragore il
torrente. I viaggiatori intanto si consolavano nell'udire del continuo
abbaiare il cane, che forse vegliava all'ingresso di qualche capanna.
Guardando attorno, videro in distanza scintillare un lume a
considerevole altezza. Si vedeva esso e si perdeva a misura che i rami
degli alberi ne intercettavano o ne scoprivano i raggi. I mulattieri
chiamarono ad alta voce, ma nessuno rispose. Finalmente, credendo di
non poter essere intesi a quella distanza, spararono una pistola. Il
rumore dell'esplosione, ripetuto dagli echi, fu la sola risposta, cui
successe assoluto silenzio. Il lume però si vedeva più distintamente.
Poco dopo udirono un suono confuso di voci. I mulattieri rinnovarono
le loro grida; ma le voci tacquero, ed il lume sparì.

Bianca soccombeva quasi all'inquietudine ed alla stanchezza. Il conte
e Santa-Fè andavano incoraggiandola, allorchè distinsero una torre
dalla parte ov'erasi veduto il lume. Villefort, alla di lei situazione
ed a qualche altra circostanza, non dubitò più non fosse una torre
d'osservazione, e persuaso che il lume venisse di là, procurò di
rianimare la figlia colla prospettiva dell'imminente riposo in un
luogo fortificato, ancorchè senza comodi.

«Nei Pirenei fu fabbricato un gran numero di queste torri,» disse il
conte, procurando distrarre l'attenzione di Bianca. «Il metodo che
s'impiega per avvisare dell'avvicinarsi del nemico come voi sapete, è
di accendere un gran fuoco in cima di esse. Gli antichi forti e le
torri che difendono i passi più importanti son custoditi con molta
cura. Alcune vennero abbandonate, e son divenute per lo più
l'abitazione pacifica di qualche cacciatore o pastore. Dopo una
giornata faticosa, la sera, accompagnati dai loro fedeli cani, tornano
presso un buon fuoco a gustare il frutto della caccia, od a contare
gli armenti. Qualche volta servono anche d'asilo ai contrabbandieri, i
quali fanno un immenso commercio in queste montagne; talvolta si
spediscono truppe per distruggerli. Il coraggio disperato di questi
avventurieri li fa affrontare impavidamente i soldati; ma non sono mai
i primi ad attaccare, quando possono farne a meno. I militari poi, i
quali non ignorano che, in simili scaramucce, il pericolo è certo, e
la gloria molto dubbia, non si danno gran premura di combatterli. Ma
ecco la torre che cerchiamo.»

Bianca, osservando attentamente, si vide appiè di una rupe sulla quale
sorgea la torre. Non vi si scorgeva alcun lume: i cani non latravano
più, e le guide cominciarono a dubitare di essersi nuovamente
ingannate. Al fioco chiaror della luna, quasi sempre coperta dalle
nubi, riconobbero che quell'edifizio aveva un'estensione maggiore
d'una semplice torre d'osservazione. Tutta la difficoltà dunque
consisteva allora nel salire lassù, nè si vedeva nessuna traccia di
strada.

Le guide presero la torcia per iscuoprirne il sentiero. Il conte,
Bianca e Santa-Fè restarono appiè della rupe, e gli uomini
deliberarono in segreto, se, trovandone anche la strada, la prudenza,
permetteva d'entrare in un edifizio che poteva anche essere un covo
d'assassini. Rifletterono nondimeno che il loro seguito era numeroso e
ben armato, e calcolando il pericolo di passar la notte a cielo
scoperto, esposti alla pioggia ed alla burrasca, risolsero cercare ad
ogni costo di farsi ricevere.

Un grido delle guide fissò la loro attenzione. Un servo tornò ad
annunciare la scoperta della strada; si affrettarono dunque
raggiungerle salendo un angusto sentiero in mezzo ai cespugli ed ai
rovi. Dopo molta fatica, ed anche con pericolo, giunsero sullo
spianato. Alcune torri rovinate, circondate da un grosso muro, si
offersero ai loro sguardi. L'esteriore di quell'edifizio annunziava un
totale abbandono; ma il conte, conservando tutta la sua prudenza,
disse sottovoce: «Camminate piano finchè abbiamo esaminato questi
luoghi.» Si trovarono tosto in faccia ad un'immensa porta rovinata.
Dopo qualche incertezza penetrarono in un recinto dove sorgea il
fabbricato. Riconobbero allora che non era un semplice posto, ma
un'antica fortezza abbandonata, di stile gotico; le sue torri erano
enormi e le fortificazioni in proporzione. L'imponenza dell'edifizio
risaltava ancor più per la rovina e la degradazione dei muri quasi
distrutti, e pel disordine delle macerie sparse qua e là nell'immenso
recinto solitario e coperto d'erbe selvatiche. Nel cortile d'ingresso
un'annosa querce giganteggiava. La fortezza era stata importantissima:
essa dominava il vallone, poteva arrestare il nemico e difendersi con
facilità. Il conte, esaminandola attentamente, restò sorpreso di
vederla negletta. Tanto abbandono e tanta solitudine gl'inspiravano
malinconia. Mentre continuava le sue osservazioni, gli parve di
distinguer voci nell'interno. Considerò la facciata, e non vide alcun
lume. Fatti alcuni passi, udì latrare un cane, e parvegli riconoscer
quello la cui voce li aveva guidati fin là, non si poteva più dunque
dubitare che il luogo non fosse abitato; ma il conte, titubante,
consultossi di nuovo con Santa-Fè. Dopo un secondo esame, le ragioni
che li avevano decisi in principio, gli parvero convincentissime per
tentar di passare la notte al coperto.

Bussarono dunque al portone: i cani ricominciarono ad abbaiare, ma
nessuno rispose: tornarono a batter più forte, ed allora udirono un
mormorio di voci lontane; pareva adunque che gli abitanti di quel
luogo avessero udito battere, e le precauzioni che prendevano per
rispondere, ne fecero concepire un'opinione favorevole. «Io credo che
siano cacciatori,» disse il conte, «i quali abbiano cercato come noi
un asilo in queste mura: sembra che temano in noi de' veri banditi:
convien dunque rassicurarli. Noi siamo amici,» gridò ad alta voce, «e
cerchiamo asilo per istanotte.» Allora udì camminare, ed una voce
dimandò: «Chi va là?» «Amici,» rispose il conte; «aprite, e saprete
tutto.» Fu tirato il catenaccio, si presentò sulla porta un uomo col
lume in mano, vestito ed armato come un cacciatore, e disse: «Che
cercate ad ora sì tarda?» Il conte rispose che aveva smarrita la
strada, e che, se caso mai non potessero accordargli ricovero per
poche ore, lo pregava ad insegnargli la via dell'abitazione o capanna
più vicina. «Conoscete poco le nostre montagne,» rispose colui; «non
se ne trova se non a qualche lega distante: io non posso insegnarvene
la strada; e giacchè c'è la luna, cercatela da per voi.» Sì dicendo,
accingevasi a chiuder la porta, quando parlò un'altra voce, ed il
conte vide un altro lume, ed un uomo alla ferriata d'una finestra di
sopra al portone. «Restate, amici,» disse questi; «vi siete smarriti,
e senza dubbio siete cacciatori come noi.» Allora gli fu aperta la
porta: alcuni uomini si presentarono all'ingresso dicendo al conte che
entrasse ed invitandolo a passar la notte nella loro abitazione. Gli
fecero un'accoglienza cortese, e gli offrirono di divider seco la loro
cena già preparata. Il conte li osservava attentamente, e benchè
circospetto, ed anche sospettoso, la stanchezza, il timore della
tempesta, e sopra tutto la sicurezza che inspiravagli il suo numeroso
corteggio, l'indussero ad accettar l'offerta. Fece entrar la sua
gente, e furono condotti tutti insieme in un'immensa sala, illuminata
in parte da un gran fuoco, intorno al quale stavano seduti due uomini
in abito da cacciatore, che facevano arrostire carne sulla graticola,
con alcuni cani accovacciati ai loro piedi. In mezzo alla sala eravi
una gran tavola. Quando il conte si avvicinò, coloro si alzarono, ed i
cani ricominciarono a latrare, ma, ad un cenno dei padroni, tornarono
al loro posto.

Bianca osservava minutamente quella sala oscura e spaziosa, quegli
uomini, e suo padre che sorrideva. «Ecco,» disse il conte, «un buon
fuoco adattatissimo per l'ospitalità; la fiamma fa piacere dopo aver
viaggiato molto per questi deserti selvaggi. I vostri cani sembrano
stanchi: avete fatta una buona caccia?

--Secondo il solito,» rispose uno di coloro; «noi torniamo quasi
sempre carichi di cacciagione.

--Son cacciatori come noi,» disse uno di quelli che avevano introdotto
il conte; «eransi smarriti, ed io li accolsi dicendo che c'era posto
per tutti.

--È vero, è vero,» rispose il suo compagno.

--V'ingannate, amico,» disse il conte; «noi siamo viaggiatori.
Trattateci però come cacciatori, che ne saremo contenti, e sapremo
ricompensare la vostra cortese accoglienza.

--Sedete dunque,» rispose un altro. «Giacomo, metti legna sul fuoco:
mi pare che l'arrosto sia all'ordine. Dà una sedia a questa signorina:
di grazia, assaggiate la nostra acquavite, ch'è di Barcellona, e di
prima qualità.»

Bianca sorrise con timidezza, e non voleva accettarla, ma suo padre la
prevenne prendendo egli stesso il bicchiere. Santa-Fè, seduto vicino a
lei, stringendole la mano, la incoraggi con un'occhiata; ma ella
occupavasi d'un uomo che taciturno vicino al fuoco, fissava
costantemente Santa-Fè.

«Voi fate una vita deliziosa,» disse il conte; «la vita del cacciatore
è piacevole e salubre, ed il riposo è più caro allorchè succede alla
stanchezza.

--Sì,» rispose uno degli ospiti, «la nostra vita è piacevolissima, ma
solamente nella stagione d'estate e d'autunno; nell'inverno, questi
luoghi sono orribili, e non si può fare veruna caccia.

--È una vita libera ed amena,» soggiunse il conte; «passerei
volentieri un mese con voi.

--A proposito,» disse Giacomo, «non mi rammentava che abbiamo tordi;
Pietro, va a prenderli; li cuoceremo per questi tre signori.»

Il conte fece alcune interrogazioni sul loro modo di cacciare, ed
ascoltava attento e con molta compiacenza i loro curiosi dettagli,
quando si udì il suono d'un corno. Bianca guardò il padre: ma egli
continuava il suo discorso, quantunque girasse spesso gli occhi verso
la porta con qualche inquietudine. «Sono i nostri compagni,» disse
negligentemente uno di quegli uomini.

Comparvero di lì a poco due altri col moschetto in ispalla e le
pistole alla cintura.

«Ebbene, fratelli, avete fatto buona caccia? Se portate nulla, non
avrete da cena.

--Chi diavolo son costoro?» dissero essi in cattivo spagnuolo,
accennando il conte ed il suo seguito. «Sono Spagnuoli o Francesi?
Dove li avete incontrati?

--Son loro che hanno incontrato noi,» disse Giacomo in francese, «e
l'incontro è gradevolissimo. Il cavaliere e la sua comitiva s'erano
smarriti in queste montagne, e ci hanno chiesto di passar la notte nel
forte.»

Gli altri non risposero nulla, e cavarono da una bisaccia una gran
provvisione di uccelli: quindi lasciarono cascare in terra la
bisaccia, che risuonò facendo conoscere che conteneva una quantità non
indifferente di monete. Il conte allora, insospettito, considerò colui
che la portava. Era un uomo grande e robusto, di faccia audace, ed
invece di un abito da cacciatore, vestiva una divisa militare logora;
i suoi sandali laceri erano affibbiati sulle gambe nude e nerborute;
portava in testa una specie di berretto di cuoio somigliante molto ad
un antico elmo romano. Il conte alla perfino abbassò gli occhi, e
restò muto e pensieroso. Nel rialzarli, vide in un canto della sala
l'uomo che non cessava di guardare Santa-Fè, il quale parlava con
Bianca e non gli badava. Poco dopo, vide quell'istesso uomo battere
sulla spalla del soldato, egualmente attento ad osservare Santa-Fè;
egli, vedendo che il conte lo guardava, volse gli occhi altrove, ma
Villefort concepì qualche diffidenza, che però non volle esternare, e
facendo ogni sforzo per sorridere, si mise a parlar con Bianca. Poco
dopo rialzò gli occhi, ma il soldato ed il suo compagno erano
scomparsi.

Colui che si chiamava Pietro ritornò quasi nell'istesso momento
dicendo: «Il fuoco è acceso, e gli uccelli son pelati. Ceneremo in
un'altra stanza più piccola ma più calda di questa.» Tutti i compagni
applaudirono, ed invitarono gli ospiti a seguirli. Bianca parve
afflitta di cotesto cambiamento, e se ne stava al suo posto. Santa-Fè
guardò il conte, il quale dichiarò che avrebbe preferito di non uscir
dalla sala. I cacciatori però reiterarono le loro istanze con tanta
cortesia, che Villefort, malgrado i suoi dubbi e temendo di
manifestarli, acconsentì finalmente ai loro inviti. Gli anditi lunghi
e rovinati pei quali li fecero passare lo spaventarono; ma il
rumoreggiar del tuono, che aveva già cominciato a farsi udire, non
permetteva più di uscire da quel luogo a notte così avanzata, ed il
conte temeva di provocare i suoi conduttori, lasciando travedere la
sua diffidenza.

I cacciatori lo precedevano. Il conte e Santa-Fè, desiderando
amicarseli, affettando famigliarità, portavano una sedia per
ciascheduno, e Bianca li seguiva lentamente. Il di lei abito si
attaccò ad un chiodo d'un uscio, e fu costretta a fermarsi per
liberarsene. Il conte, che parlava con Santa Fè, non se ne accorse, e
svoltando essi da un'altra parte dietro i cacciatori, Bianca restò
sola in perfetta oscurità. Chiamò il padre; ma la burrasca aumentava,
e lo scroscio dei fulmini impedì loro di udirla. Appena ebbe staccato
l'abito dal chiodo, seguitò con celerità il cammino per dove credeva
fossero andati. Un lume che vide da lontano la confermò in quest'idea.
Si avanzò verso una porta aperta, credendo trovare la stanza ove
dovevano cenare. Sentì alcune voci, e s'arrestò a qualche distanza per
assicurarsi di non essersi ingannata. Al debole chiarore d'una lampada
vide quattro uomini intorno ad una tavola, i quali sembravan tener
consiglio, e riconobbe fra loro colui che aveva fissato Santa-Fè con
tanta attenzione: egli parlava con veemenza, benchè sottovoce. Un
altro pareva contraddirlo, rispondendo con piglio imperioso. Bianca,
inquieta di non trovarsi vicina nè al padre, nè a Santa-Fè e
spaventata dall'aspetto di coloro, stava per allontanarsi, allorchè
udì dire ad uno di coloro:

«Non litighiamo più. Seguite il mio consiglio, e svanirà ogni
pericolo. Assicuratevi di quei due; il resto è una preda facilissima.»

Bianca allarmata da queste parole, volle sentire qualche cosa di più.

«Non si guadagnerebbe nulla col resto,» disse un altro; «io non son
mai di parere di versare il sangue, quando si può risparmiarlo.
Sbrigatevi di quei due, e il nostro affare è fatto; gli altri potranno
andarsene.

--Oibò!» disse il primo, bestemmiando orribilmente; «andrebbero a dire
ciò che abbiamo fatto dei loro padroni, verrebbero le truppe reali, e
ci trarrebbero al supplizio. Bravo! tu dai sempre di buoni consigli;
ma io però mi rammento il giorno di san Tommaso dell'anno scorso.»

Bianca fremè d'orrore. Il suo primo sentimento fu quello di fuggire,
ma pensò che, ascoltando ancora, avrebbe forse potuto esser a tutti di
qualche utilità, ed intese il dialogo seguente:

«E perchè non ammazzarli tutti?

--Giuraddio! La nostra vita è cara più della loro; se non li
ammazziamo, ci faranno impiccare.

--Sì, sì,» gridarono tutti.

--Commettere un omicidio è il mezzo più sicuro per iscansare la
ruota,» disse il primo brigante.

--Dove diavolo sono andati stasera gli altri nostri compagni?» disse un
altro con impazienza; «se erano qui, a quest'ora la faccenda era già
spicciata. Non potremo far il colpo stanotte, perchè il seguito è più
numeroso di noi. Appena farà giorno vorranno partire; e come impedirlo
senza impiegar la forza?

--Ho formato un bel piano,» disse un altro. «Se possiamo sbrigare
cheti cheti i due padroni, tutto il resto ci darà poca pena.

--È un piano maraviglioso,» rispose un altro ironicamente. «Se io
posso fuggire di prigione, sarò certamente in libertà! Come vuoi far
tu a sbrigarli cheti cheti?

--Col veleno,» rispose colui.

--Ben pensato!» disse un'altra voce; «così la mia vendetta sarà
pienamente soddisfatta con una morte più lenta. Un'altra volta i
signori baroni impareranno a non irritarla.

--Ho riconosciuto subito il figlio, appena l'ho veduto,» disse uno,
che Bianca riconobbe per l'individuo che fissava Santa-Fè; «ma non mi
rammento più la fisonomia di suo padre.

--Potete dire tutto quello che volete,» soggiunse un altro, «ma io
scommetterei che quello non è il barone. Lo conosco bene quanto voi,
giacchè io era uno di quelli che l'attaccarono coi nostri bravi
colleghi che son periti.

--Che! forse non c'era anch'io?» disse il primo. «Vi assicuro che è il
barone. Ma cosa importa che sia o non sia lui? Dovremo perciò
lasciarci sfuggire questo bottino? non ci capitano tanto spesso sì
fatte avventure. Quando si arrischia la ruota per frodare una pezza di
raso, rompendosi il collo attraverso precipizi; quando svaligiamo un
infelice viaggiatore, o qualche contrabbandiere nostro collega, che
c'indennizzano appena della polvere che ci costano, ci lasceremo noi
scappare questa ricca preda? Hanno seco denari ed oggetti di valore...

--Non è per questo, non è per questo,» disse il terzo; «prenderemo
quel che troveremo. Ma, se è il barone, voglio dargli un colpo di più,
in onore dei nostri bravi compagni che fece andare al patibolo.

--Sì, ciarlate quanto volete, io vi ripeto che il barone è di statura
più alta.

--Maledette le vostre liti,» disse il secondo; «dovremo noi lasciarli
partire sì o no? Ecco ciò che dobbiamo decidere. Se perdiamo ancora
tempo, sospetteranno il nostro progetto, e se ne andranno subito.
Siano pure quel che si vogliono, mi sembrano ricchi; hanno tanti
servitori! Avete osservato il brillante che aveva il conte? ma ora lo
ha nascosto, essendosi accorto ch'io lo guardavo.

--Sì, è bellissimo, e quel ritratto che pende al collo della giovine,
contornato di diamanti?

--Convien dunque pensare ad assicurarsene,» dissero gli altri; «li
avveleneremo; ma ricordiamoci che il loro seguito è composto di nove o
dieci persone bene armate. Noi siamo in sei soli. Potremo attaccarne
dieci a forza aperta? Diamo intanto il veleno, e poi penseremo al
resto.

--Io vi consiglierò un altro mezzo più sicuro,» disse uno di coloro
impazientemente; «sentite.»

Bianca, che ascoltava tal diverbio con orribile ambascia, non potè
sentir più nulla, perchè coloro si parlarono sottovoce. La speranza di
salvare il padre, Santa-Fè e tutto il seguito, se poteva raggiungerli
subito, le somministrò all'improvviso forza novella, e si diresse di
volo verso il corridoio. Il terrore e l'oscurità cospirarono allora
contro di lei. Appena ebbe fatto qualche passo, urtò in un gradino,
all'ingresso del corridoio, e cadde al suolo. I masnadieri si
riscossero a tal rumore, e precipitaronsi immediatamente fuori per
assicurarsi se ci fosse qualcuno che ascoltasse i loro discorsi.
Bianca li vide avvicinarsi, e prima che potesse alzarsi, la presero
per un braccio, la trascinarono nella stanza e le sue strida non
servirono che a ricevere le più spaventose minacce. Consultarono su
quel che dovevan fare di lei.

«Procuriamo prima di sapere ciò ch'essa ha inteso,» disse uno di loro.
«Da quanto tempo eravate nel corridoio? Ed a far che?» le chiese
colui.

--Assicuriamoci intanto di questo ritratto,» disse un altro,
avvicinandosi a Bianca. «Bella signorina, con vostro permesso, questo
gioiello è mio: datemelo, o ve lo prendo.»

Bianca, chiedendo misericordia, gli diè il medaglione, ed intanto un
altro ladro l'interrogava con fiero cipiglio. La sua confusione ed il
suo spavento spiegavano troppo chiaramente quel che la sua lingua non
ardiva confessare. I briganti si guardarono con aria significante, e
due di essi ritiraronsi in un canto, come per deliberare.

«Giur'al cielo! Sono brillanti di molto valore,» disse colui che
guardava il medaglione; «anche il ritratto è bello: senza dubbio sarà
quello di vostro marito, signora, che m'immagino debba essere il
giovine cavaliere ch'era in vostra compagnia.»

Bianca, smarrita e disperata, lo scongiurava di aver pietà di lei: gli
diè la sua borsa, e gli promise di tacere, se la riconduceva ai suoi
compagni di viaggio; sorrideva egli ironicamente alle di lei parole,
allorchè un rumore lontano fissò la di lui attenzione. Mentre
ascoltava, afferrolla pel braccio con violenza, quasi temendo ch'ella
volesse fuggire. Bianca gridò aiuto. Il rumore, avvicinandosi, scosse
i banditi dalla loro irresolutezza.

«Siamo traditi,» dissero essi; «ma potrebbe darsi che fossero i nostri
colleghi di ritorno dalla scorreria: in tal caso l'affare è fatto:
ascoltiamo meglio.»

Una scarica in lontananza confermò la loro supposizione; ma il primo
rumore si avvicinava sempre più: si udiva uno strepito d'armi, il
fracasso di una zuffa, e qualche gemito che partiva dal fondo del
corridoio. I briganti allora prepararono le armi: fu suonato un corno
al di fuori; tre di essi lasciarono Bianca in custodia del quarto, ed
uscirono a precipizio.

Intanto che Bianca, tremante e confusa, implorava pietà, riconobbe la
voce di Santa-Fè, il quale comparve tutto coperto di sangue ed
inseguito da alcuni banditi. Bianca non vide, non sentì più nulla, e
cadde svenuta nelle braccia di chi la teneva.

Appena riacquistò l'uso de' sensi, riconobbe, all'incerta luce che
vacillava intorno a lei, d'esser sempre nella medesima stanza. Restò
alcun momento nell'incertezza e nello stupore. Un sordo gemito vicino
a lei la fece memore di Santa-Fè, e dello stato in cui l'aveva veduto;
allora alzandosi, si avanzò dalla parte d'onde veniva il sospiro. Non
tardò molto a riconoscere, in un corpo steso sul pavimento, Santa-Fè
pallido e sfigurato, che non poteva parlare. Aveva gli occhi chiusi,
ed una delle sue mani, ch'ella prese nell'ambascia della disperazione,
era bagnata di freddo sudore. Lo chiamò per nome, e gridò aiuto;
qualcuno s'avvicina, un uomo entra: non era il conte; ma qual fu la di
lei sorpresa, quando, supplicandolo di soccorrere Santa-Fè, riconobbe
Lodovico! Ebbe egli appena tempo di riconoscerla; si occupò subito
delle ferite del cavaliere, e giudicando che l'immensa perdita del
sangue cagionava probabilmente la sua debolezza, corse a cercare acqua
per lavargli le ferite e fasciargliele alla meglio.

Appena egli fu uscito, Bianca udì camminare, e vide entrare Villefort
con una torcia nella mano sinistra, e la spada insanguinata nella
destra, che, tutto anelante, chiamava impazientemente la figlia. Al
suono di questa voce ben nota essa volò nelle di lui braccia. Il
conte, lasciando cadere la spada, la strinse al seno con indicibil
trasporto di gioia e stupore: le domandò di Santa-Fè, e lo vide per
terra dando qualche segno di vita. Lodovico tornò di lì a poco ben
provvisto d'acqua e di acquavite; gli applicò l'una alla bocca e
l'altra alle tempie, e Bianca lo vide finalmente aprir gli occhi,
domandando subito di lei. La gioia ch'essa provò in quel momento, fu
subito sturbata da una nuova inquietudine: Lodovico dichiarò che
bisognava senza ritardo trasportare il cavaliere.

«I banditi che sono di fuori erano aspettati, e se perdiamo tempo ci
troveranno qui. Sanno benissimo che il suono del corno, ad un'ora così
strana, è sempre il segnale d'un estremo pericolo, e l'eco di questi
monti ne porta la voce a molta distanza. Li ho veduti tornare in
consimili casi dalle falde del Melicante. Avete voi appostata una
vedetta all'ingresso del forte?

--No,» disse il conte, «la mia gente è dispersa, e non so dove sia.
Lodovico, va tosto a riunirla, ma abbi cura di te stesso, e ascolta se
senti i muli.»

Lodovico uscì immediatamente, ed il conte riflettè al modo di
trasportar Santa-Fè, il quale non avrebbe potuto sopportare il moto
d'una mula, quand'anche fosse stato in grado di reggersi in sella.

Mentre il conte raccontava come i banditi fossero stati rinchiusi
nella torre, Bianca osservò che era ferito anch'esso nel braccio
sinistro; egli le rispose, sorridendo, quella ferita esser
leggerissima. I servi, tranne due che furon lasciati alla porta della
fortezza, comparvero allora tutti, preceduti da Lodovico.

«Mi pare, signore,» diss'egli, «di sentir venire de' muli dal fondo
della valle, ma il mormorio del torrente m'impedisce di accertarmene;
ho portato meco l'occorrente pel trasporto del signor cavaliere.»

Mostrò allora una gran pelle d'orso attaccata a due pertiche che
formava una comoda lettiga, di cui si servivano i banditi per
trasportare i loro feriti. Lodovico la spiegò, vi adattò sopra alcune
pelli di capra per renderla più morbida, fasciò le ferite del
cavaliere, ed avendovelo posato dolcemente, le due guide, prendendo le
quattro estremità delle pertiche sulle spalle, s'incamminarono per
andarsene insieme ai servitori del conte, alcuni dei quali erano stati
leggermente feriti. Passando per la sala, udirono da lontano un
tumulto orribile: Bianca ne fu molto allarmata.

«Non temete,» disse Lodovico, «son tutti quei birbanti chiusi nella
torre.

--Mi sembra che atterrino la porta,» disse il conte.

--È impossibile, signore,» rispose Lodovico, «perchè la porta è di
ferro. Noi non abbiamo nulla da temere: intanto io andrò avanti per
osservar meglio se mai si ode o non si vede nulla.»

Tutti lo seguirono; dopo essere stati alcun poco in ascolto, non
udirono altro che il mormorio del torrente, ed una fresca brezzolina
che agitava i rami dell'antica quercia nel cortile. I viaggiatori
videro allora con estremo piacere che cominciava a spuntar il giorno,
e Lodovico, alla testa della comitiva, la fece scendere nella valle
per un sentiero opposto a quello pel quale erano venuti colà.

«Evitiamo la strada,» diss'egli, «che hanno preso i banditi
stamattina.»

I viaggiatori si trovarono ben presto in una strettissima valle:
l'alba imbianchiva gradatamente i monti, e scopriva verdi praticelli
che ricoprivan le falde delle rupi, sulle quali sorgevano le querce ed
i lecci; la tempesta era cessata; l'aria del mattino e la vista di
quella verzura, ancor più fresca per la pioggia della notte,
rianimarono gli spiriti abbattuti della comitiva. Il sole sorse di lì
a poco, e tutte le piante rosseggiarono in breve de' suoi raggi
dorati; un resto di nebbia aggiravasi ancora in fondo alla valle, ma
il vento la cacciava, ed a poco a poco il sole la fece sparir tutta.
Dopo aver percorso una lega di cammino, Santa-Fè si querelò
dell'eccessiva debolezza: sostarono per ristorarlo, e lasciar riposare
i portatori. Lodovico si era munito, prima di partire, di qualche
bottiglia di vino di Spagna, e ne distribuì a tutta la carovana; ma
Santa-Fè non potè risentirne che un sollievo momentaneo. Una febbre
ardentissima acquistò nuova forza per l'uso di questa bibita; egli non
poteva nascondere i suoi orribili patimenti, nè astenersi
dall'esprimere il desiderio impaziente di giungere all'osteria, in cui
avevano prefisso di passar la notte precedente.

Mentre riposavano tutti all'ombra degli abeti, il conte pregò Lodovico
di spiegargli brevemente in qual modo fosse sparito dall'appartamento
del nord, come avesse potuto cadere nelle mani di quei banditi, e
contribuito in una maniera così prodigiosa a salvarlo colla sua
famiglia. Il conte gli attribuiva giustamente la loro salvezza.
Lodovico accingevasi ad obbedirlo, ma un colpo di pistola sparato
nella strada già da essi percorsa cagionando nuovi timori, obbligò i
viaggiatori a rimettersi in cammino.




CAPITOLO LI


Emilia intanto provava la massima inquietudine sul destino di
Valancourt. Teresa trovò finalmente una persona fidata da spedire al
fattore, la quale s'impegnò di tornare il giorno dopo, e Emilia
promise di trovarsi alla capanna di Teresa, che, divenuta zoppa, non
poteva uscir di casa. Verso sera Emilia s'incamminò sola a quella
parte con tetri presentimenti. L'ora già avanzata accresceva la sua
malinconia. Era la fine dell'autunno; una densa nebbia nascondeva in
parte la cima dei monti, e il vento freddo, che soffiava nei faggi,
copriva la via delle ultime foglie ingiallite. La loro caduta,
presagio della fine dell'anno, era l'immagine della desolazione del
suo cuore, e sembrava predirle la morte di Valancourt: ne provò un
presentimento sì forte, che fu più volte sul punto di tornare
addietro. Non aveva forza bastante per andare incontro a
cotest'orribile certezza; ma lottò contro la sua emozione e continuò
ad avanzare.

Camminava mesta, ed i suoi occhi seguitavano il movimento delle masse
vaporose che stendevansi all'orizzonte; considerava le fuggitive
rondinelle, le quali, in balìa all'agitazione de' venti, ora
scomparendo tra le nubi, ora aleggiando in atmosfere più tranquille,
sembravano rappresentarle le afflizioni e le vicende, ond'essa era
stata vittima. Aveva subìto i capricci della fortuna ed i turbini
della sventura; aveva avuto qualche corto istante di calma. Ma come
dare il nome di calma a ciò che non era se non la sospensione del
dolore? Sfuggita ormai ai più crudeli pericoli, indipendente da' suoi
tiranni, trovavasi padrona di una sostanza ragguardevole; avrebbe
potuto con ragione aspettarsi di gustare la felicità; ma essa n'era
più lungi che mai: sarebbesi accusata di debolezza e d'ingratitudine,
se avesse sofferto che il sentimento dei beni che possedeva fosse
soffocato da quello d'un solo infortunio, se questo però non avesse
colpito che lei sola. Ma essa piangeva per Valancourt, e se anche egli
vivesse, le lacrime della pietà si univano a quelle del rammarico,
afflittissima che un uomo come lui fosse caduto nel vizio, e quindi
nella miseria. La ragione e l'umanità reclamavano assieme le lacrime
dell'amicizia, ed il suo coraggio non poteva separarle ancor da quelle
dell'amore. Nel momento attuale però non la tormentava la certezza dei
torti di Valancourt, bensì il timore della di lui morte; le pareva,
per così dire, di essere la causa innocente di questa disgrazia. La
sua inquietudine aumentava ad ogni passo, e quando vide da lontano la
capanna, le mancò il coraggio di avvicinarsi e sedette sur un banco
nel sentiero. Il vento che susurrava tra le frondi pareva alla sua
rattristata immaginazione recar suoni queruli; ed anche
negl'intervalli di calma credea udire ancora dolorosi accenti.
Prestando maggior attenzione, si convinse dell'error suo, e le
tenebre, divenute più folte per la prossima caduta del dì,
l'avvertirono d'allontanarsi, e con passo vacillante giunse alla
capanna. Traverso i vetri si vedea scintillare un buon fuoco, e
Teresa, avendo veduto venire Emilia, stava sulla porta ad aspettarla.

«La sera è fredda assai, signorina,» le disse ella. «Vuol piovere, ed
ho creduto che un buon fuoco non dovesse spiacervi. Sedete dunque
vicino a me.»

Emilia la ringraziò della sua attenzione, e guardandola in volto, fu
colpita dalla sua tristezza. Si gettò sulla sedia, incapace di
parlare, e la di lei fisonomia esprimeva tanta disperazione, che
Teresa ne comprese il motivo, eppure taceva.

«Ah!» sclamò finalmente Emilia; «è inutile che me lo diciate. Il
vostro silenzio, i vostri sguardi parlano abbastanza; egli è morto.

--Oimè! mia cara padrona,» rispose Teresa colle lacrime agli occhi,
«questo mondo è pieno di affanni. I ricchi ne hanno la lor dose come i
poveri; ma procuriamo di sopportare in pace il carico che ci manda il
cielo.

--Egli è dunque morto?» interruppe Emilia. «Ah! Valancourt è morto!

--Orribil giorno! Io ne temo,» soggiunse Teresa.

--Lo temete soltanto?»

--Sì, signorina, lo temo. Nè il fattore, nè verun'altra persona ha
sentito più parlare di lui a Estuvière, dacchè è partito per la
Linguadoca. Suo fratello ne è afflittissimo. Egli dice che scrive
sempre esattamente, ma che non ha ricevuto veruna lettera da lui dopo
la sua partenza: doveva esser già di ritorno da tre settimane: non ha
scritto, non è tornato, e si teme che gli sia accaduta qualche
disgrazia. Oimè! io non credeva di viver tanto da dover piangere la
sua morte. Io son vecchia, e poteva morire senza dispiacere; mentre
lui...»

Emilia, quasi moribonda, chiese un po' d'acqua: Teresa, spaventata,
affrettossi a soccorrerla, e mentre le porgeva l'acqua, continuò:
«Cara signorina, non vi affliggete tanto; il cavaliere può essere sano
e salvo. Speriamo!

--Oh! no, non posso sperare,» disse Emilia. «Io so circostanze che mi
piombano anzi nella disperazione; ma or mi sento meglio, e posso
ascoltarvi: dettagliatemi tutto quel che avete saputo.

--Aspettate d'esservi rimessa, signorina; mi sembra che stiate sì
male!

--Oh! no, Teresa, ditemi tutto intanto che posso ascoltarvi, ditemi
tutto, ve ne scongiuro.

--Ebbene,» rispose Teresa, «vi acconsento. Il fattore ha detto
pochissimo. Riccardo pretende ch'egli parlasse con molto riserbo del
signor Valancourt. Quel ch'egli ha saputo, gli fu confidato da
Gabriello, uno dei servitori del conte, che disse essergli stato
confidato da un amico del suo padrone. Dice dunque che Gabriello e
tutti i servitori erano in gran pena pel signor Valancourt; ch'esso
era un giovine così buono così amabile, e che lo amavano tutti come
loro fratello; che non comandava imperiosamente, come tanti altri
signori; che perciò era molto rispettato, e che la servitù l'obbediva
volentieri al primo cenno per paura di spiacergli. Il signor conte
stava in gran pena pel cavaliere, quantunque fosse andato in collera
con lui ultimamente. Gabriello dice aver saputo che il signor
Valancourt aveva fatte pazzie a Parigi; che aveva spesi molti denari,
ed era stato perfino messo in prigione. Che il signor conte ricusava
di liberarnelo, pretendendo ch'egli meritasse un tal castigo. Appena
il vecchio Gregorio il cantiniere ne fu informato, fece fare un
bastone a punta ferrata per andar a piedi a Parigi a trovare il
padroncino; quando furono avvertiti che il signor Valancourt era di
ritorno. Oh! qual gioia al suo arrivo! egli era però molto cambiato.
Il conte lo ricevè freddamente, ed era afflitto. Il cavaliere partì
immediatamente per la Linguadoca; e da quel momento, disse Gabriello,
non se n'è saputo più nulla.»

Teresa tacque; Emilia sospirava, nè ardiva sollevar gli occhi da
terra. Dopo una lunghissima pausa, sclamò: «Oh! Valancourt, tu sei
perduto, e perduto per sempre. E son io, son io che ti diedi la
morte.»

Quelle parole, quegli accenti disperati allarmarono la povera Teresa,
la quale temè che quel colpo terribile non avesse alterata la ragione
di Emilia.

«Mia cara padrona, calmatevi,» diss'ella; «non dite di queste cose: è
impossibile che voi abbiate potuto uccidere il signor Valancourt.»

Emilia non le rispose che con un gran sospiro.

«O mia cara signorina,» ripigliò Teresa, «il cuore mi si spezza
vedendovi in tale stato, cogli sguardi fissi, pallida in volto, e sì
afflitta. Mi spaventa il vedervi così.» Emilia non apriva bocca, e non
parea udir nulla. «E d'altra parte, madamigella,» soggiunse la vecchia,
«il signor Valancourt può essere sano ed allegro, malgrado quanto
sappiam noi.»

A tal nome, la fanciulla alzò gli occhi e guardolla con occhi
smarriti, come se avesse cercato di capirla.

«Sì, cara padroncina,» ripigliò Teresa ingannandosi sulla di lei
intenzione, «il signor Valancourt può essere sano ed allegro.»

Alla ripetizione di quest'ultime parole, Emilia ne comprese il senso;
ma invece di produrre l'effetto che ne aspettava Teresa, parvero
soltanto raddoppiare il suo dolore: si alzò bruscamente, e percorse la
cameretta a veloci passi, battendo palma a palma e singhiozzando.
Mentre passeggiava così il suono dolce e sostenuto d'un oboè o flauto
si mescolò alla bufera. La sua dolcezza colpì Emilia; sostò tutta
attenta: i suoni recati dal vento si perdettero in una raffica più
forte; ma il loro accento querulo le commosse il cuore, ed ella si
strusse in lagrime.

«Oh!» sclamò Teresa, tergendo le lagrime; «è Riccardo il figlio del
vicino che suona il suo strumento; è una musica malinconica.»

Emilia continuava a piangere.

«Egli suona spesso alla sera,» continuò la vecchia, «e fa ballare la
gioventù. Ma, signorina, non piangete così. Venite qui vicino al fuoco
che, fa freddo, e bevete un bicchier di vino per ristorarvi.»

Ed accomodatale una sedia al camino, andò a cavar dalla credenza un
fiasco.

«Questo non è un vino ordinario,» soggiunse; «è del migliore di
Linguadoca, e l'ultimo de' sei fiaschi che mi regalò il signor
Valancourt quando partì per Parigi. Io non lo bevo mai senza pensare
a lui, e alle sue parole piene di bontà nell'atto di consegnarmelo.
_Teresa_, mi diss'egli, _voi non siete più giovine; tratto tratto
dovreste bere un bicchier di vino. Io ve ne manderò qualche altro
fiasco, e bevendolo ricordatevi di me, vostro amico_. Sì, furon queste
le sue parole: _Di me, vostro amico!_» Emilia continuava a camminar
per la stanza, senza badare alle parole di Teresa, la quale continuò:
«Mi son sempre ricordata di lui; povero giovine! Egli mi donò questo
ricetto e sostenne la mia vecchiaia. Ah! se è vero che sia morto, sarà
in paradiso col mio rispettabile padrone.»

Qui si mise a piangere, e depose il fiasco. Il suo dolore rinnovò
quello di Emilia, che si avvicinò a lei, e guardolla attentamente come
oppressa dalla riflessione ch'essa piangeva per Valancourt. La buona
vecchia però, asciugando le lagrime, si fece coraggio, e le disse:

«Per carità non v'affliggete di più; prendete, di grazia, un sorso di
questo vino. Gustatelo per l'amor del signor Valancourt, che me lo ha
regalato, come vi dissi.»

La mano d'Emilia, che aveva preso il bicchiere, tremò, e sparse il
liquore nel ritirarlo dalle labbra.

«Per l'amore di chi?» sclamò ella; «chi vi ha dato questo vino?

--Il signor Valancourt, cara padroncina; sapea io che vi farebbe
piacere; è l'ultimo mio fiasco.»

La fanciulla depose il bicchiere sulla tavola, proruppe nuovamente in
un dirotto pianto, e Teresa, sconcertata e dolente, procurò di
consolarla. Emilia le fe' cenno colla mano, che desiderava restar
sola, e pianse sempre più forte. Un lieve colpo battuto alla porta non
permise alla vecchia di lasciarla al momento. Emilia la pregò di non
aprire a nessuno; ma pensando poi che poteva essere Filippo, il suo
servitore, procurò di tergere il pianto, e Teresa andò ad aprire.

La voce ch'ella intese attirò tutta la di lei attenzione: tese
l'orecchio, volse gli occhi verso la porta, una persona comparve, e la
fiamma del fuoco le fe' riconoscere... Valancourt!...

Nel vederlo, si scosse da capo a piedi, tremò, e perdendo l'uso dei
sensi non vide più nulla. Un grido di Teresa annunziò che anche lei
aveva riconosciuto il giovane. L'oscurità, sul primo momento, non
aveale permesso di distinguerlo. Egli cessò di occuparsi di lei,
vedendo cadere una persona dalla sedia vicino al fuoco. Volò a
soccorrerla, e s'avvide di sostenere Emilia. La commozione che provò
per l'inaspettato incontro, ritrovando colei da cui si credeva diviso
per sempre, tenendola pallida e svenuta fra le sue braccia, è più
facile ad immaginare che a descrivere! Sarà egualmente facile
figurarsi ciò che provò Emilia, allorchè riaprendo gli occhi, rivide
Valancourt. L'espressione inquieta colla quale la considerava, si
cambiò tosto in un misto di gioia e tenerezza. Allorchè i suoi occhi
s'incontrarono in quelli di lei, e che la vide in procinto di
rinvenire, potè esclamare appena: _Emilia!_ ma essa, volgendo altrove
gli sguardi, fece un debole sforzo per ritirare la mano. Nei primi
momenti che succedettero alle angosce dolorose, cagionate dall'idea
della sua morte, Emilia obbliò tutti i falli dell'amante: lo rivide
qual era nel momento in cui meritava il suo amore, ne risentì altro
che gioia e tenerezza; ma oimè! fu un'illusione passaggiera! Le di lei
riflessioni s'innalzarono nuovamente, come tante nubi sull'orizzonte,
ad oscurare l'immagine lusinghiera che inebriava il suo cuore. Rivide
allora Valancourt degradato in faccia alla società, indegno ormai
della sua stima e tenerezza. Le mancò la forza, ritirò la mano, e si
volse dalla parte opposta per nascondere il suo dolore. Il giovane,
più agitato ed imbarazzato di lei, se ne stava muto e dolente.

Il sentimento di quanto doveva a sè stessa, trattenne le sue lagrime,
e le insegnò a dissimulare parte della gioia e del dolore, che
facevano il più fiero contrasto nel fondo del suo cuore. Si alzò,
ringraziollo della sua attenzione, salutò Teresa, e volle andarsene.
Valancourt, svegliato come da un sogno, la supplicò umilmente di
accordargli un momento d'attenzione. Il cuore d'Emilia perorava forte
in favor suo; ma ebbe il coraggio di resistere, e non badando neppure
alle suppliche di Teresa, che la pregava di non esporsi sola in tempo
di notte, aveva già aperta la porta; ma la pioggia dirotta l'obbligò a
rientrare.

Muta, interdetta, tornò vicino al fuoco. Valancourt, inquieto,
turbato, camminava a gran passi per la stanza, come se avesse temuto e
desiderato di parlare. Teresa esprimeva senza ritegno la gioia e la
sorpresa che le cagionava il suo arrivo.

«Oh! mio caro benefattore,» diceva essa, «io non sono mai stata così
contenta come in questo punto. Poco fa eravamo immerse ambedue nella
massima afflizione per causa vostra; credendo che foste morto,
parlavamo di voi, e piangevamo insieme; in quella appunto bussaste
alla porta: la mia cara padrona versava calde lagrime.»

Emilia guardò Teresa in atto di disapprovazione; ma, prima ch'ella
potesse parlargli, Valancourt, incapace di contenersi ulteriormente,
esclamò:

«Mia Emilia, vi son io dunque tuttavia caro? Voi mi onorate d'un
pensiero, d'una lagrima! O cielo! Voi piangete, anche adesso piangete!

--Signore,» disse Emilia, procurando di frenare il pianto, «Teresa ha
ben ragione di ricordarsi di voi con gratitudine. Ella era
afflittissima di non aver avuto vostre notizie: permettetemi che vi
ringrazi anch'io di tutte le bontà di cui la colmaste. Ora son
tornata, e spetta a me di averne cura.

--Emilia,» le disse Valancourt, non sapendo più contenersi, «così
accogliete voi colui che già una volta volevate onorare della vostra
mano, colui che vi ha amata tanto, e che tanto ha sofferto per voi? Ma
che potrò io allegare in mia difesa? Perdonatemi, signora,
perdonatemi, non so più quel che mi dica: non ho più diritto ai vostri
pensieri: ho perduto tutti i miei titoli alla vostra stima e al vostro
amore. Sì, ma non oblierò mai d'averli posseduti un tempo; la certezza
di averli perduti, forma ora la mia più crudele disperazione, il mio
maggior tormento.

--Ah! mio caro signore,» disse Teresa prevedendo la risposta di
Emilia, «voi parlate di aver già posseduto i suoi affetti... Anche
adesso, sì, anche adesso, la mia padrona vi preferisce al mondo
intiero, quantunque non voglia confessarlo.

--Ciò è veramente insopportabile,» disse Emilia. «Teresa, voi non
sapete che cosa vi dite. Signore, se avete qualche riguardo, alla mia
tranquillità, spero non vorrete prolungare questo momento doloroso.

--Io la rispetto troppo per turbarla volontariamente,» rispose
Valancourt, il cui orgoglio lottava allora colla tenerezza; «non mi
renderò volontariamente importuno. Vi aveva chiesto qualche istante
d'attenzione, ma a che mi gioverebbe? Raccontandovi i miei affanni,
non farei che avvilirmi vie maggiormente, senza eccitare la vostra
pietà. Sappiate però, Emilia, che fui, e sono ben disgraziato!»

La sua voce vacillante divenne allora l'accento del dolore. Volse uno
sguardo disperato alla giovine, e s'accinse a partire.

«Come!» soggiunse Teresa, «volete uscire con questa pioggia! No, no,
il mio caro benefattore non deve allontanarsi in questo momento. Mio
Dio! Quanto son pazzi i grandi di respingere così la loro felicità! Se
foste povera gente, a quest'ora sarebbe già tutto finito. Parlare
d'indegnità, dire che non vi amate più, quando in tutta la provincia
non vi son due cuori più teneri o, a dir meglio, due persone che si
amino tanto come voi due!»

Emilia, oppressa da inesprimibile ambascia, si alzò e disse: «Non
piove più, voglio andarmene.

--Restate, Emilia, restate, signorina,» rispose Valancourt, armandosi
di tutta la sua risoluzione, «non vi affliggerò vie più colla mia
presenza. Perdonatemi se non ho obbedito più presto. Se lo potete,
compiangete colui che vi perde, e perde così ogni speranza di riposo.
Possiate esser felice, sebbene io rimarrò eternamente infelice,
possiate essere felice quant'io ve lo desidero con tutto il cuore.»

Gli mancò la voce a queste ultime parole, impallidì, gettò su di lei
uno sguardo di tenerezza e dolore inesprimibili, e fuggì
precipitosamente.

«Caro signore! Mio benefattore!» gridò Teresa seguendolo alla porta.
«Signor Valancourt! Come piove! Che notte burrascosa per lasciarlo
andar via! egli morrà sicuramente dal dolore e dall'affanno. Cara
signora Emilia, quanto siete incostante! poco fa piangevate la sua
morte, ed ora lo scacciate così barbaramente!»

La fanciulla non rispose, e non udiva quel che diceva colei. Assorta
nel suo dolore e nelle sue riflessioni, restava seduta cogli occhi
fissi sul fuoco, e l'imagine del giovane presente al pensiero.

«Il signor Valancourt è molto cambiato, signora; com'è dimagrato! come
afflitto! Eppoi ha il braccio fasciato.»

Emilia alzò gli occhi; non aveva osservata quest'ultima circostanza.
Non dubitò più allora che Valancourt non fosse stato ferito dal
giardiniere. A tal convinzione tutta la sua pietà si riaccese, e si
rimproverò d'averlo lasciato partire con un tempo così cattivo.

Poco dopo vennero a prenderla in carrozza. Emilia sgridò Teresa per le
cose irriflessive dette al Valancourt, le ordinò espressamente di non
fare mai più certi discorsi, e se ne tornò al castello pensierosa ed
afflitta.

Valancourt, intanto, era rientrato nell'osteria del villaggio, ove
aveva preso alloggio pochi momenti soltanto prima d'andare a visitar
Teresa. Veniva a Tolosa e recavasi al castello del conte di Duverney.
Non eravi più tornato dopo la sua separazione da Emilia a Blangy. Era
rimasto qualche tempo nelle vicinanze d'un luogo ove abitava l'oggetto
più caro al suo cuore. V'erano momenti in cui il dolore e la
disperazione lo stringevano a ricomparire innanzi ad Emilia, e
rinnovare le istanze a dispetto delle sue sciagure. Una nobil fierezza
però, la tenerezza del suo amore, che non poteva acconsentire ad
avvolgerla nei suoi infortuni, avevano finalmente trionfato della
passione. Ritornando in Guascogna, era passato da Tolosa, e vi si
trovava allorchè vi giunse Emilia. Andava a nascondere ed alimentare
la sua dolorosa mestizia in quel medesimo giardino nel quale aveva
passato presso di lei momenti così felici. Volendo aver la
consolazione di rivederla ancor una volta, e ritrovarsi vicino a lei,
passeggiava una sera nel parco, quando il giardiniere, prendendolo per
un ladro, gli tirò una schioppettata, e lo ferì in un braccio. Questo
caso l'aveva trattenuto a Tolosa per farsi curare: là, senza premura
per sè medesimo, senza riguardi pe' parenti, la cui fredda accoglienza
al suo ritorno da Parigi l'aveva scoraggito, non aveva informato
nessuno della sua situazione. Ritrovandosi in istato di viaggiare,
tornava ad Estuvière, passando per la valle; sperava di aver colà
notizie d'Emilia; voleva trovarsi vicino a lei; desiderava anche
informarsene dalla vecchia Teresa, e credeva in fine, che, nella di
lui assenza, l'avrebbero privata della sua pensione. Tutti questi
motivi lo avevano dunque condotto alla capanna di Teresa dove aveva
incontrato Emilia.

Quella conferenza inaspettata avevagli dimostrato a un tempo tutta la
tenerezza dell'amore di Emilia, e tutta la fermezza della di lei
risoluzione. La sua disperazione erasi rinnovata con maggior forza, e
non eravi considerazione bastante per acquietarlo. L'immagine di
Emilia, la di lei voce ed i suoi sguardi, si presentavano
incessantemente alla di lui fantasia, e qualunque sentimento era
bandito dal suo cuore, eccettuato la disperazione e l'amore. Un'ora
prima della mezzanotte ritornò da Teresa per sentir parlar di Emilia e
trovarsi ancora nel luogo già da lei occupato. La gioia che provò ed
espresse quella povera vecchia, si cangiò presto in tristezza,
allorchè ebbe osservato i di lui sguardi smarriti e la profonda
malinconia che l'opprimeva. Dopo avere ascoltato attentamente tutto
quel ch'essa poteva dirgli intorno ad Emilia, le regalò tutto il
denaro che aveva indosso, quantunque ella si ostinasse a ricusarlo, e
l'assicurasse che la sua padrona aveva provveduto ai di lei bisogni.
Le consegnò anche un anello di valore, incaricandola espressamente di
presentarlo a Emilia. La faceva pregare d'accordargli quest'ultimo
favore di conservarlo per amor suo, e rammentarsi qualche volta, nel
guardarlo, dell'infelice Valancourt che glielo inviava.

Teresa pianse nel riceverlo, ma più per tenerezza, che per l'effetto
di alcun presentimento. Prima ch'ella potesse rispondere, Valancourt
era già partito; corse sulla porta a chiamarlo, supplicandolo di
tornare indietro, ma non n'ebbe alcuna risposta, e non lo vide più.




CAPITOLO LII


La mattina di poi, Emilia, nel gabinetto contiguo alla biblioteca,
rifletteva alla scena della sera precedente, allorquando Annetta entrò
anelante, ed abbandonossi senza fiato su d'una sedia. Passarono alcuni
minuti prima che potesse rispondere alle interrogazioni di Emilia;
finalmente esclamò:

«Ho veduto la sua ombra, signorina, sì, ho veduto la sua ombra!

--Che vuoi tu dire?» disse Emilia con impazienza.

--Egli è uscito dal cortile, mentr'io traversava il salotto.

--Ma di chi parli?» ripetè Emilia; «chi è uscito dal cortile?

--Era vestito come lo vidi le centinaia di volte. Ah! chi l'avrebbe
mai creduto?»

Emilia, annoiata da quelle ciarle insipide, si accingeva a
rimproverarle la sua ridicola credulità, quando un servo venne a dirle
che un forestiero chiedeva di parlarle.

Emilia, immaginandosi allora che il forestiere fosse Valancourt,
rispose essere occupata, e non voler veder nessuno. Il servo tornò
subito dopo dicendo che il forestiere aveva cose importantissime da
comunicarle. Annetta, rimasta fin allora muta e stupefatta, si scosse,
e sclamò: «Sì, è Lodovico! sì, è Lodovico.»

E corse fuor dal gabinetto. Emilia ordinò al servitore di seguirla, e,
se era realmente Lodovico, di farlo entrare sul momento.

Poco dopo, comparve l'Italiano accompagnato da Annetta, a cui
l'allegrezza faceva obliare tutte le convenienze, e non voleva parlar
altro che lei. Emilia esternò la sua sorpresa e soddisfazione nel
vederlo. La sua prima emozione crebbe allorchè aprì le lettere del
conte di Villefort e Bianca, che l'informavano della loro avventura e
della situazione loro in un'osteria alle falde de' Pirenei, ov'erano
stati trattenuti dallo stato di Santa-Fè e dall'indisposizione di
Bianca. Quest'ultima aggiungeva che il barone era arrivato, che
avrebbe ricondotto il figlio al suo castello, finchè fosse guarito
dalle sue ferite, e ch'essa con suo padre continuerebbero il viaggio
per la Linguadoca, e sarebbero passati dalla valle, proponendosi di
esservi il giorno seguente. Essa pregava Emilia di trovarsi alle sue
nozze, e d'accompagnarli al castello di Blangy; lasciava poi a
Lodovico la cura di raccontare egli stesso le sue avventure. Emilia,
sebben premurosa di conoscere in qual modo fosse sparito
dall'appartamento del nord, nondimeno volle sospendere questa
soddisfazione finchè non si fosse rifocillato, ed avesse parlato a
lungo colla sua Annetta, la cui gioia non sarebbe stata così
stravagante se fosse risorto dalla tomba.

Emilia, intanto, rileggeva le lettere de' suoi amici. L'espressione
della stima e dell'affetto loro, era in quel momento un vero balsamo
nel suo povero cuore piagato. La sua tristezza, i suoi affanni,
avevano acquistato nell'ultimo colloquio una nuova amarezza.

L'invito di recarsi a Blangy era fatto dal conte e dalla figlia colle
più tenere espressioni. Anche la contessa ne la sollecitava.
L'occasione n'era sì importante per l'amica sua, che Emilia non potea
ricusarvisi. Avrebbe desiderato non abbandonare le placide ombre della
sua dimora, ma sentiva la sconvenienza di restarvi sola mentre
Valancourt trattenevasi ancora nelle vicinanze, oltrechè rifletteva
che la società e la varietà degli oggetti sarebbero riuscite a
tranquillare il suo spirito meglio della solitudine.

Quando Lodovico ritornò nel gabinetto, lo pregò di raccontarle
dettagliatamente le sue avventure, e spiegarle per qual caso abitasse
co' banditi in mezzo ai quali lo aveva trovato il conte.

Egli obbedì. Annetta, la quale, in mezzo alle sue tante ciarle, non
aveva avuto il tempo di parlargliene, si accinse ad ascoltare con
ardente curiosità. Ricordò prima alla padroncina e l'incredulità da
lei dimostrata ad Udolfo a proposito degli spiriti, e la propria
saggezza credendovi invece sì forte. Emilia arrossì suo malgrado
pensando alla fede prestata ultimamente; notò soltanto che se
l'avventura di Lodovico avesse potuto giustificare la superstizione
d'Annetta, e' non sarebbe là a narrargliela.

Il giovane sorrise, inchinossi e cominciò in questi termini:

«Vi rammenterete, o signora, che il signor conte ed il signor Enrico
m'accompagnarono nell'appartamento del nord. Per tutto il tempo che vi
rimasero non si presentò nulla di allarmante: appena furono partiti,
accesi un buon fuoco nella camera, e sedetti presso al camino; aveva
portato un libro per distrarmi, e confesso che tratto tratto io
guardava qua e là con un sentimento simile alla paura. Molte volte,
quando il vento soffiava con violenza, scuotendo le finestre,
m'immaginai di udire rumori molto strani; anzi una volta o due mi
alzai, ed osservando da per tutto non vidi altro che le grottesche
figure dei parati, le quali pareva mi facessero boccacce. Passai così
più di un'ora, e poi mi parve udir rumore, esaminai di nuovo la
camera, e non vedendo nulla, ripresi il libro. Quando l'istoria fu
finita, mi assopii. D'improvviso fui svegliato dal rumore che aveva
già inteso; esso pareva venire dalla parte del letto. Io non so se
l'istoria che aveva letta mi avesse alterata la fantasia,
o se mi venissero in mente tutte le ciarle che si facevano su
quell'appartamento; ma so bene che, guardando il letto, mi parve
vedere la faccia d'un uomo fra le cortine.»

A tai parole, Emilia fremè e divenne inquieta ricordandosi lo
spettacolo veduto colà da lei e dalla vecchia Dorotea. «Vi confesso,
signorina,» continuò Lodovico, «che mi si agghiacciò il cuore. Il
medesimo rumore risvegliò di nuovo la mia attenzione: distinsi lo
scricchiolio d'una chiave che girava in una serratura, e quel che mi
sorprendeva di più era il non vedere alcuna porta d'onde potesse
provenire quel suono. Un istante dopo il cortinaggio del letto fu
alzato lentamente, e comparve una persona: essa usciva da una
porticina nel muro. Restò un momento nella medesima attitudine, col
resto del volto nascosto dal lembo della tappezzeria, cosicchè non
vedeasi altro che i suoi occhi. Quando sollevò il capo, vidi di dietro
a lei la figura d'un altro uomo, che guardava per disopra le spalle
del primo. Non so come andasse la faccenda: la mia spada era sul
tavolino, ma non ebbi la presenza di spirito d'impugnarla: restai
zitto e cheto a considerarli cogli occhi mezzo chiusi, affinchè mi
credessero addormentato. Suppongo che realmente ne fossero persuasi;
li udii concertarsi, e restarono in quella posizione per lo spazio di
circa un minuto; allora credetti vedere altre teste nell'apertura
della porta, ed intesi parlar più forte.

--Questa porticina mi sorprende;» interruppe Emilia; «mi fu detto che
il conte avea fatto levar tutte le cortine ed esaminar le pareti,
credendo che celassero qualche andito pel quale fosse partito.

--Non mi par tanto straordinario, signorina, che quell'usciuolo abbia
potuto sfuggire agli sguardi; esso è praticato in una parete sottile
che sembra far parte del muro esteriore, per cui quand'anco il signor
conte l'avesse osservato, non avrebbe badato ad una porta colla quale
nessun passaggio parea dovesse comunicare. Fatto sta che il passaggio
era nella grossezza del muro. Ma, per tornare agli uomini ch'io
distingueva confusamente nello sfondo della porticina, ei non mi
lasciarono a lungo in sospeso; precipitaronsi nella camera e mi
circondarono: io aveva presa la spada, ma che poteva fare un uomo
contro quattro? Fui ben presto disarmato; mi legarono le braccia, e
postomi un bavaglio in bocca, mi trascinarono nell'andito. Prima di
partire però lasciarono la mia spada sul tavolino, _per soccorrere_,
dicevano essi, _coloro che venissero al par di me, a combattere gli
spiriti_. Mi fecero traversare parecchi corridoi strettissimi formati
nella grossezza del muro, e dopo avere sceso molti gradini, giungemmo
ad una vôlta sotto il castello. Aprirono un uscio di pietra, ch'io
credeva far parte del muro; percorremmo un lunghissimo passaggio
scavato nel masso; un'altra porta ci condusse ad un sotterraneo, e
finalmente, dopo qualche intervallo, mi trovai sul lido del mare appiè
delle rupi stesse, sulle quali sorge il castello: trovammo una barca
che aspettava quei birbanti; mi vi trascinarono, e andammo a bordo
d'un piccolo bastimento ancorato a poca distanza. Quando fui là
dentro, due de' miei compagni restarono con me; gli altri ricondussero
la barca, ed il bastimento si mise alla vela. Compresi allora il
significato di tutto ciò, e che cosa facessero quella gente al
castello. Sbarcammo al Rossiglione: dopo qualche giorno, i loro
compagni vennero dalle montagne, e mi condussero nel forte in cui mi
trovava quando giunse il signor conte. Avean cura d'invigilarmi, ed
anzi m'aveano bendati gli occhi per condurmivi; ma anche senza questa
precauzione, credo mi sarebbe stato assai difficile ritrovar la strada
per quell'aspra contrada. Appena fui colà, mi tenevano come un
prigioniero: non poteva mai uscire senza due o tre de' miei compagni,
ed era sì stanco della vita, che andava studiando il modo di terminare
la mia miserabile esistenza.

--Ma però vi lasciavan parlare,» disse Annetta; «non vi mettevan più
il bavaglio. Non capisco perchè eravate sì stanco di vivere, senza
parlare della probabilità che avevate di rivedermi.»

Lodovico sorrise, siccome anche Emilia, la quale gli domandò per qual
motivo quegli uomini l'avessero rapito.

«Mi accorsi tosto,» ripigliò egli, «che coloro erano pirati, i quali
da molti anni nascondevano il loro bottino nei sotterranei del
castello, che, essendo vicino al mare, conveniva perfettamente ai loro
disegni. Onde non essere scoperti avevano adoperato ogni mezzo per far
credere che il castello era frequentato dagli spiriti e dalle ombre,
ed avendo scoperto la via segreta, la quale conduceva all'appartamento
del nord, che dopo la morte della marchesa stava sempre chiuso, non
fu lor difficile riuscirvi. La custode e suo marito, le uniche persone
che abitassero nel castello, spaventati oltremodo dagli strani rumori
che udivano, ricusarono di soggiornarvi più a lungo. Allora tutto il
paese credè facilmente che il castello fosse abitato da' folletti,
tanto più che la marchesa era morta in una maniera molto strana, e che
il marchese da quel punto non eravi più tornato.

--Ma,» disse Emilia, «perchè mai que' pirati non si contentavano della
cava, e perchè stimavan necessario deporre i loro furti nel castello?

--La cava, madamigella, stava aperta a tutti,» ripigliò il giovane,
«ed i loro tesori sarebbero stati in breve scoperti. Ne' sotterranei
invece erano sicuri, finchè il castello incutesse terrore. E' parve
che i pirati vi recassero a mezzanotte le prese fatte per mare, e ve
le tenessero, finchè potessero venderle vantaggiosamente. Erano essi
intimamente collegati co' contrabbandieri e banditi che vivono ne'
Pirenei, e vi fanno un traffico inesprimibile. Io restai dunque con
questa banda di malandrini fino all'arrivo del signor conte. Non
oblierò giammai la pena che sentii nel vederlo; quasi lo tenni
perduto. Io sapeva che se mi faceva conoscere, i banditi avrebbero
scoperto il suo nome, e probabilmente ci avrebbero ammazzati, tutti,
per impedire ch'egli scoprisse il loro segreto, come proprietario di
Blangy. Evitai la vista del signor conte, e invigilai sui briganti,
risoluto, se progettassero qualche violenza, di mostrarmi, e
combattere per la vita del mio padrone. Non tardai a sentir macchinare
una trama infernale; si trattava di una strage generale. Mi arrischiai
a farmi conoscere alla gente del conte; narrai quanto si progettava, e
ci concertammo insieme. Il signor conte, allarmato per l'assenza della
figlia, domandò dove fosse. I banditi non lo soddisfecero. Il mio
padrone e Santa-Fè divennero furiosi. Pensando allora ch'era tempo di
mostrarci, ci lanciammo nella stanza ov'era preparata la cena,
gridando: _Tradimento! Signor conte difendetevi._ Il conte ed il
cavaliere sguainarono la spada sul momento; la zuffa fu ostinata, ma
in fine noi restammo vincitori, come avrete sentito nella lettera del
mio padrone.

--È un'avventura singolare,» disse Emilia; «certamente, Lodovico, la
vostra prudenza ed intrepidezza meritano molti elogi. Vi sono però
varie circostanze relative all'appartamento del nord, ch'io non
comprendo ancora, e che voi forse sarete in grado di decifrarmi. Avete
mai udito raccontare dai banditi i pretesi prodigi che operavano in
quel luogo?

--No, signorina,» rispose Lodovico; «non li intesi parlarne mai: una
volta sola li udii ridere della vecchia custode, che quasi quasi
stette per sorprendere uno dei pirati. Fu dopo l'arrivo del conte, e
colui che fece la burla ne ridea a crepapelle.»

Emilia arrossì, e pregò Lodovico di raccontargli dettagliatamente
quanto sapeva.

«Ebbene,» diss'egli, «una notte che colui trovavasi nella camera da
letto, udì gente nel salotto contiguo, e credendo non aver il tempo
d'alzare il parato ed aprir la porta, si nascose nel letto, e vi restò
per qualche tempo, credo io, molto intimorito.

--Come lo foste voi,» interruppe Annetta, «quando aveste l'ardire di
passarvi la notte.

--Sì,» rispose Lodovico, «appunto così. La custode si avvicinò al
letto con un'altra donna. Temendo allora di essere scoperto, pensò che
il solo mezzo per salvarsi fosse quello di far loro paura. Alzò dunque
leggermente il trapunto; ma il suo piano non riuscì, se non quando
ebbe mostrata la testa; allora esse fuggirono, ci diss'egli,
come se avessero veduto il diavolo, ed il birbante se ne andò
tranquillamente.»

Emilia non potè trattenersi dal ridere a questa spiegazione. Comprese
l'incidente che l'aveva tanto impaurita, e fu sorpresa di averne
sofferto tanto; ma considerò quindi, che appena lo spirito cede alla
debolezza della superstizione, qualunque inezia basta a fare la
massima impressione. Rammentandosi però la musica misteriosa che si
sentiva verso mezzanotte al castello di Blangy, domandò a Lodovico se
per caso ne avesse saputo nulla, ma egli non potè darne veruna
spiegazione.

«So per altro, signorina,» aggiunse, «che i pirati non vi hanno parte;
so che ne ridono, e dicono che il diavolo è senza dubbio alleato con
loro.

--Scommetterei che hanno ragione,» disse Annetta sempre con volto
ilare. «Ho sempre creduto che lui e gli spiriti fossero gli abitanti
di quell'appartamento; vedete dunque, signorina, che non m'ingannava.

--Non si può negare che lo spirito maligno non v'abbia una estrema
influenza,» disse Emilia sorridendo: «ma stupisco che i pirati
persistessero nella loro condotta; dopo l'arrivo del conte, egli è
certo che prima o poi dovevano essere scoperti.

--Ho motivo di credere,» rispose Lodovico, «ch'essi non contassero
seguitare che il tempo necessario per mettere in salvo i loro tesori.
Pare che se ne occupassero subito dopo l'arrivo del conte; ma non
potevano lavorare che poche ore della notte, e quando mi presero, la
vôlta era già mezzo vuota. Conveniva loro d'altronde di confermare
tutte le superstizioni relative all'appartamento, nel quale ebbero la
maggior premura di lasciar tutto al suo posto per meglio mantener
l'errore. Spesso, celiando fra loro, si figuravano la costernazione
degli abitanti di Blangy per la mia scomparsa. A datare da quel
momento si credettero padroni assoluti del castello. Seppi però che
una notte, malgrado le loro precauzioni, si scopersero quasi da sè.
Andavano, secondo il solito, a ripetere i sordi gemiti che facevano
tanta paura alle serve. Mentre stavano per aprire, udirono voci nella
camera da letto; il signor conte mi disse che vi stava lui stesso col
signor Enrico: udirono ambidue strani lamenti, opera senza dubbio dei
malandrini, fedeli al loro disegno di spargere il terrore. Il signor
conte mi confessò di aver provato una sensazione maggiore della
sorpresa: ma siccome il riposo della famiglia esigeva il silenzio, si
guardarono bene dal farne parola ad alcuno.»

Emilia, rammentandosi allora il cambiamento del conte, dopo aver
passata la notte in quel luogo misterioso, ne riconobbe il motivo. Non
fece nuove interrogazioni a Lodovico, lo mandò a riposare, e diede le
disposizioni necessarie per ricevere i suoi amici.

La sera, Teresa quantunque zoppa, venne a portarle l'anello di
Valancourt. Emilia s'intenerì nel vederlo, ma la rimproverò d'averlo
ricevuto, e ricusò d'accettarlo, malgrado il tristo piacere ch'essa ne
avrebbe avuto. Valancourt lo portava in tempi più felici. Teresa
pregò, supplicò, le rappresentò l'abbattimento in cui era il cavaliere
quando le consegnò l'anello, le ripetè ciò ch'ei le aveva ordinato di
dire. Emilia, non potendo nascondere il dolore che le cagionava quel
racconto, proruppe in dirotto pianto.

«O Dio! Mia cara padroncina,» disse Teresa, «perchè piangete? Vi
conosco fin dall'infanzia, vi amo come mia figlia, e vorrei vedervi
felice. È vero che conosco il signor Valancourt da poco tempo; ma ho
però forti ragioni per amarlo come mio figlio! Io so benissimo che vi
amate scambievolmente! Perchè dunque piangere?» Emilia le fe' segno di
tacere, ma essa continuò: «Vi somigliate amendue per ispirito e
carattere; se foste maritati, sareste la coppia più felice. Chi
impedisce il vostro matrimonio? Dio buono! Dio mio! Come mai si può
veder gente che sfuggono la loro felicità, piangono e si disperano
quasi non dipendesse da loro l'esser contenti, e come se gli affanni
ed il pianto valessero più del riposo e della pace! La scienza è certo
una bella cosa, ma se non rende più saggi di così, preferisco di non
saper mai nulla.»

L'età ed i lunghi servigi di Teresa le accordavano il diritto di dire
il suo parere; non per tanto Emilia l'interruppe, e quantunque
riconoscesse la giustizia delle di lei osservazioni, non volle
spiegarsi. Si limitò a dirle che questo discorso l'affliggeva; che,
per regolare la sua condotta, aveva motivi che non poteva spiegarle, e
che bisognava restituir l'anello al cavaliere, dicendogli com'essa non
potesse accettarlo. Le disse in seguito, che se faceva caso della sua
stima ed amicizia, non doveva più incaricarsi di veruna ambasciata di
Valancourt. Teresa ne fu commossa, e tentò insistere, ma il
malcontento esternato dalla fisonomia della padroncina, le impedì di
proseguire, e partì afflitta e maravigliata.

Per sollevare in qualche modo l'affanno e l'oppressione sua, Emilia si
occupò dei preparativi del viaggio. Annetta, che la aiutava, parlava
incessantemente del ritorno di Lodovico colla più tenera effusione.
Emilia pensò che avrebbe potuto anticipare la loro felicità, e decise
che, se Lodovico era costante quanto la semplice e buona cameriera, le
avrebbe dato una buona dote, e li avrebbe impiegati in qualche parte
de' suoi beni. Queste considerazioni la fecero pensare alla porzione
di patrimonio, dal di lei padre venduta a Quesnel. Desiderava
ricomprarla, perchè Sant'Aubert aveva dimostrato sovente il maggior
rincrescimento che la dimora principale de' suoi avi fosse passata in
mani straniere. Quel luogo, d'altronde, l'aveva veduta nascere, ed era
la culla de' suoi primi anni. Poco le caleva de' beni di Tolosa, e si
propose di venderli per riacquistare il patrimonio avito, se Quesnel
acconsentisse a disfarsene. Tale accomodamento non le pareva
impossibile, dacchè egli s'occupava di stabilirsi in Italia.




CAPITOLO LIII


Il giorno dipoi, l'arrivo de' suoi amici rianimò l'afflittissima
Emilia. La valle fu nuovamente l'asilo d'un'amabile società. La sua
indisposizione e lo spavento avuto, toglievano a Bianca qualcosa della
sua vivacità, ma ella conservava però un'ingenua semplicità, che la
rendeva ancor più interessante. La trista avventura de' Pirenei faceva
desiderare impazientemente al conte di tornare al suo castello. Dopo
una settimana, Emilia si preparò a seguire i di lei ospiti in
Linguadoca, ed affidò a Teresa la cura della casa nella sua assenza.
La vigilia della partenza, la buona vecchia le riportò l'anello di
Valancourt, scongiurandola, colle lagrime agli occhi, di accettarlo.
Non aveva più veduto il cavaliere, nè più udito parlar di lui dal
momento che glie l'aveva consegnato. Sì dicendo esternava in volto
maggior inquietudine che non volesse manifestarne. Emilia represse la
sua, e pensando ch'era per certo tornato dal fratello, persistè nel
rifiuto, e raccomandò a Teresa di conservarlo, finchè rivedesse
Valancourt.

Il giorno seguente partirono tutti dal castello della valle, e
giunsero l'indomani a Blangy. La contessa, Enrico e Dupont, che Emilia
fu sorpresa di trovare colà, li ricevettero con indicibil trasporti di
gioia. La fanciulla si afflisse molto nel vedere che il conte
alimentava sempre le speranze dell'amico. La sera del secondo giorno,
Villefort le parlò nuovamente delle offerte di Dupont: l'estrema
dolcezza di Emilia nell'ascoltarlo lo ingannò sullo stato del di lei
cuore; credè egli che Valancourt fosse quasi dimenticato, e ch'ella
potesse avere favorevoli disposizioni per Dupont. Allorchè la di lei
risposta l'ebbe convinto del suo errore, il suo zelo per assicurare la
felicità di due persone che stimava cotanto lo spinse a farle
conoscere che, per un affetto male impiegato, avvelenava i più bei
giorni della vita. Vedendo il di lei silenzio e l'abbattimento della
sua fisonomia, il conte finì per dirle: «Non insisterò di più, ma son
convinto appieno che non rigetterete sempre un uomo tanto stimabile
come il signor Dupont.» Le risparmiò la pena di rispondere, e
s'allontanò subito.

Emilia continuò a passeggiare, affliggendosi che il conte non
desistesse da un progetto da lei sempre respinto. Perduta nelle sue
tristi riflessioni, si trovò insensibilmente al bosco che circondava
il convento di Santa Chiara, alla vista delle cui torri, accortasi
allora quanto si fosse allontanata, risolse di prolungare un po' più
la passeggiata, e d'andare ad informarsi della badessa e delle monache
sue amiche. Entrò nel parlatorio, e non avendovi trovato nessuno,
suppose che fossero tutte in chiesa; finalmente giunse una monaca
cercando la badessa con aria d'impazienza, senza osservare Emilia.
Ella si fece conoscere, ed intese che stavano pregando per l'anima di
suor Agnese, la quale aveva languito per molto tempo, ed in quel
momento era moribonda. La monaca le fece il dettaglio dei patimenti di
suor Agnese, e le orribili convulsioni da essa patite. Era ricaduta in
uno stato tale di disperazione, che nè le sue proprie orazioni, alle
quali si univano quelle di tutta la comunità, nè le assicurazioni del
confessore, non potevano calmarla, e lasciarle gustare un solo istante
di quiete.

Emilia ascoltò tutto col massimo interesse; si rammentava lo
smarrimento notato sovente nella fisonomia di suor Agnese, non meno
che il racconto di suor Francesca, e la di lei pietà diveniva
maggiore. Era già tardi; Emilia non potè nè vederla, nè andar a
pregare per lei in quel punto; incaricò la monaca de' suoi complimenti
per tutta la comunità, e se ne tornò al castello, pensando tristamente
alla misera agonizzante.




CAPITOLO LIV


La sera del giorno dopo, Emilia, volendo saper le nuove di suor Agnese
e rivedere le amiche, persuase Bianca di tenerle compagnia fino al
monastero, alla cui porta videro una carrozza co' cavalli bagnati di
sudore, lo che indicava essere giunti da pochi minuti. Regnava il più
cupo silenzio nel cortile e nei chiostri ch'esse traversarono.
Arrivando nel salone, furono informate da una monaca che suor Agnese
viveva ancora in perfetto sentore, ma che sicuramente sarebbe morta
nel corso della notte. Nel parlatorio, parecchie educande vennero a
salutarla e a discorrere con lei. Di lì a poco sopraggiunse la
badessa, ed espresse la massima soddisfazione nel rivedere Emilia; le
sue maniere però avevano una singolar gravità, ed era di mesto umore.
«La nostra casa,» diss'ella dopo i primi complimenti, «è veramente una
casa di duolo. Una delle nostre sorelle paga in questo momento il
tributo alla natura; voi non ignorate senza dubbio che la nostra
povera Agnese è moribonda. La morte ci presenta una grande ed
importante lezione; sappiamo profittarne, ed impariamo a prepararci al
cambiamento che ci attende. Voi siete giovane, mia cara Emilia, e
potete acquistare l'inapprezzabile pace della coscienza. Conservatela
in gioventù, affinchè divenga un giorno il vostro conforto. Invano
avremo fatto qualche buon'azione nell'età provetta, se i nostri primi
anni saranno stati macchiati da qualche delitto. Gli ultimi giorni di
Agnese sono stati esemplari. Possano dunque espiare le colpe della sua
gioventù! I di lei patimenti attuali sono troppo terribili; ma
speriamo che le assicureranno il riposo eterno. L'ho lasciata col suo
confessore, e con un signore cui desiderava ardentemente di vedere, e
ch'è arrivato or ora da Parigi: ardisco lusingarmi che l'aiuteranno a
riacquistare la calma, della quale il suo spirito ha tanto bisogno.
Durante la sua malattia, essa vi ha rammentata talvolta. Potrebbe
darsi ch'ella provasse qualche consolazione nel vedervi. Quando sarà
sola andremo a trovarla, se ne avrete il coraggio. Queste scene
straziano il cuore, lo confesso; ma è bene abituarvisi, poichè sono
molto salutari per l'anima, e ci preparano a quanto dobbiamo
soffrire.»

Emilia divenne grave e pensierosa; questo discorso le rammentava le
massime del suo buon padre, e sentì il bisogno di piangere nuovamente
sulla di lui tomba. Nell'intervallo del silenzio che susseguì le
parole della badessa, le tornarono in memoria alcune minute
circostanze de' suoi ultimi momenti: la commozione da lui mostrata
udendo d'esser vicino al castello di Blangy, la domanda di essere
sepolto in un certo luogo del monastero, e l'ordine così positivo di
bruciar quelle carte senza leggerle. Si rammentò inoltre le parole
orribili e misteriose del manoscritto lette involontariamente, e cui
non si ricordava mai senza una penosa curiosità sul senso che potevano
avere e sul divieto del padre. Era nonostante contentissima d'avere
obbedito ciecamente.

La badessa non disse altro, essendo tanto commossa dal soggetto
trattato che non poteva proseguire, e stavano tutte in silenzio per
l'egual motivo. La meditazione generale fu poco stante interrotta
dall'arrivo di un forestiere. Era esso il signor Bonnac, che usciva in
quel punto dalla cella d'Agnese. Pareva assai turbato; ma Emilia credè
notare nelle sue espressioni più orrore che dolore. Trasse in disparte
la badessa e le parlò per qualche minuto: ella parve star molto
attenta: parlava con riflessione e cautela, e mostrava grande
interesse. Dopo ch'egli ebbe finito, salutò tutti rispettosamente, e
si ritirò. La badessa propose ad Emilia di andare nella camera di suor
Agnese; essa vi acconsentì con qualche ripugnanza, e Bianca restò
colle educande.

Alla porta della camera, trovarono il confessore, il quale, al loro
accostarsi, alzò il capo, ed Emilia riconobbe lo stesso che aveva
assistito suo padre; ma egli era astratto, e passò senza osservarla.
Entrate nella cella, trovarono suor Agnese distesa sopra una stuoia;
presso di lei eravi un'altra monaca. Era essa così cambiata, che
Emilia avrebbe difficilmente potuto riconoscerla, se non fosse stata
avvertita. La sua fisonomia era tetra ed orribile; gli occhi,
infossati e velati, stavan fissi sopra un crocifisso che stringevasi
al petto; era così assorta, che da principio non vide nè la badessa,
nè Emilia. Finalmente, voltando gli occhi grevi, li fissò con orrore
sopra Emilia, sclamando:

«Ah! questa visione mi perseguita fino all'ultimo respiro.»

Emilia indietreggiò spaventata guardando la badessa, che le fece cenno
di non temere, e poi disse a suor Agnese: «Figliuola, questa giovine
che vi ho condotta è madamigella Sant'Aubert: mi lusingava che
l'avreste veduta con piacere.» Agnese non rispose nulla, e
considerando Emilia con orribile smarrimento, sclamò: «È dessa. Ah!
ell'ha negli sguardi quelle attrattive, che fecero la mia perdita. Che
volete? Che cercate? Una riparazione? L'avrete; anzi l'avete già
avuta. Quanti anni sono scorsi dacchè non vi ho veduta? Il mio delitto
è di ieri; soltanto invecchiai sotto il di lui peso; e voi siete
sempre giovine, sempre bella! Bella come all'epoca in cui mi
costringeste a quell'esecrabile delitto... Oh! se potessi obliarlo!...
Ma a che servirebbe?... Io lo commisi!»

Emilia, estremamente commossa, voleva ritirarsi. La badessa la prese
per mano, la incoraggì, e la pregò di aspettare che suor Agnese fosse
più tranquilla. Procurò di calmarla, ma la delirante non l'ascoltava,
e guardando sempre Emilia, continuò: «A che servono dunque tanti anni
d'orazione e di pentimento? No, essi non bastano a lavar la macchia
dell'omicidio, sì dell'omicidio. Dov'è egli? dov'è? Guardate, guardate
là! s'aggira per questa camera. Perchè venite a turbarmi in questo
momento?» ripigliò Agnese, i cui occhi percorrevano lo spazio. «Non
son io dunque abbastanza punita? Deh! per pietà, non mi guardate con
occhio così severo. Oh cielo! ancora! è dessa! è dessa! Perchè mi
guardate con tanta pietà? perchè sorridete? Sorridere a me! Ma qual
gemito! udiste?...»

Suor Agnese ricadde, e parve spirare, Emilia, non potendo reggersi
s'appoggiò al letto; la badessa e l'assistente s'affrettarono a
soccorrere la derelitta. Emilia voleva parlarle.

«Zitto,» disse la badessa, «il delirio è finito essa sta alquanto
meglio.

--Sorella, è un pezzo che si trova in questo stato?

--Eran parecchie settimane che non aveva avuto un accesso così
violento,» rispose la monaca; «ma l'arrivo di quel gentiluomo, che
desiderava tanto di vedere, l'ha agitata forte.

--Sì,» ripigliò la badessa, «ed ecco per certo la causa del delirio;
quando starà meglio, la lasceremo quieta.»

Emilia acconsentì volentieri; ma benchè fosse di poca utilità, non
volle ritirarsi fin quando potè credere d'essere di qualche aiuto.

Quando suor Agnese ebbe ripresi i sensi, guardò ancora Emilia, ma
senza smarrimento, e con una profonda espressione di dolore; passarono
alcuni minuti prima che potesse parlare, poi disse debolmente: «La
somiglianza è maravigliosa! è più che immaginazione riscaldata!
Ditemi, ve ne scongiuro, se, malgrado il nome di Sant'Aubert, che voi
portate, non siete figlia della marchesa.

--Di qual marchesa?» rispose Emilia attonita. La calma delle maniere
d'Agnese le aveva fatto credere al ritorno della sua ragione. La
badessa le diè un'occhiata d'intelligenza, ma essa ripetè la domanda.

«Di qual marchesa?» sclamò Agnese; «io ne conosco una sola: la
marchesa di Villeroy.»

Emilia, rammentandosi la commozione di suo padre, allorchè gli fu
nominata questa dama, e la domanda da lui fatta di esser sepolto
presso le tombe de' Villeroy, provò un estremo interesse, e pregò suor
Agnese di spiegare i motivi di tale interrogazione. La badessa avrebbe
voluto fare uscire Emilia, la quale, troppo interessata, reiterò la
domanda con calore.

«Portatemi la mia cassetta, sorella,» disse Agnese, «e vi svelerò
tutto. Guardatevi in quello specchio, e lo saprete; voi siete certo
sua figlia; altrimenti come spiegare una somiglianza così perfetta?»

La monaca le portò la cassetta; suor Agnese gliela fece aprire, e ne
cavò una miniatura, che Emilia riconobbe esattamente somigliante a
quella da lei trovata nelle carte di suo padre. Agnese stese la mano
per pigliarla, la contemplò qualche tempo in silenzio, poi alzò gli
occhi al cielo, e recitò sottovoce un'orazione; quand'ebbe finito,
restituì il ritratto ad Emilia. «Tenetelo,» le disse, «ve lo dono, e
credo che ne abbiate diritto; la vostra somiglianza mi ha colpito
sovente, ma fino a questo momento non aveva turbata tanto la mia
coscienza. Ma restate, sorella,» soggiunse, vedendo che l'infermiera
volea partire, «non portate via la cassetta; essa contiene un altro
ritratto.»

Emilia tremava per l'ansietà, e la badessa volea trascinarla via.
«Agnese torna a delirare, le disse; «osservate come vaneggia! Ne' suoi
accessi, essa non è più in sentore, e si accusa, come vedete, de' più
orribili misfatti.»

La giovane per altro credette scorgere in quel delirio tutt'altro che
follia. Il nome della marchesa, il suo ritratto aveano per lei
bastante interesse, e risolse di procurarsi maggiori schiarimenti.

La monaca portò indietro la cassetta. Agnese calcò una molla, e
scoperto un altro ritratto, lo mostrò dicendo:

«Ecco una lezione per la vanità; guardate questo ritratto, ed
osservate se c'è qualche rapporto fra quello ch'io sono e quello che
sono stata.»

Emilia s'affrettò a prenderlo; è impossibile descrivere la sorpresa ed
il terrore di lei, allorchè riconobbe in esso la perfettissima
somiglianza con quello della signora Laurentini, che aveva veduto al
castello di Udolfo: di quella dama sparita in modo così misterioso, e
che si sospettava fatta perire da Montoni.

Muta e attonita, la giovine guardava alternamente il ritratto e la
monaca moribonda, cercando invano una somiglianza che allora non
esisteva più.

«Perchè quegli sguardi severi?» disse suor Agnese, non comprendendo la
sorpresa di Emilia.

--Ho già veduta questa figura,» disse infine la giovine; «è egli
realmente il vostro ritratto?

--Or potete domandarlo,» rispose Agnese; «ma vi accerto che un tempo
era somigliantissimo. Guardatemi attenta e vedete l'effetto del
delitto!... Allora io era innocente, e le mie sciagurate passioni
dormivano ancora. Sorella mia,» soggiunse gravemente, e prendendo
nella sua mano fredda ed umida una mano di Emilia, che fremette a quel
tocco, «sorella mia, guardatevi bene dal primo movimento delle
passioni! Guardatevi dal primo! Se non si arresta il loro corso, esso
è rapido; la loro forza non conosce alcun freno: desse ci trascinano
ciecamente a delitti, che non possono venir cancellati da lunghi anni
di preghiere e di penitenza. È tale l'impero d'una passione, che
domina tutte le altre, e s'impadronisce di tutte le vie del cuore; è
una furia che ci rende insensibili alla pietà e alla coscienza, e
quando il suo scopo è compiuto, furia sempre più spietata e crudele,
ci abbandona per nostro tormento a tutti quei sentimenti che aveva
sospesi, ma non soffocati, ai supplizi della coscienza, del rimorso e
della disperazione. Ci svegliamo come da un sogno: siamo circondati da
un nuovo mondo attoniti e spaventati; ma il delitto è commesso. Il
potere riunito del cielo e della terra non può annientarlo, ed i
fantasmi ci perseguitano. Cosa sono le ricchezze, la salute e la
grandezza, in confronto dell'inestimabil vantaggio di una coscienza
pura, in confronto della salute dell'anima? Cosa sono gli affanni
della povertà, del disprezzo e della miseria, in confronto
dell'angoscia d'una coscienza in preda ai rimorsi? Oh! quanto tempo è
scorso da che ho perduto la pace dell'innocenza. Ho gustato ciò che
chiamavasi dolcezza della vendetta; ma quanto è passaggiera! Ella
spira col di lei oggetto. Rammentatevene, sorella mia, le passioni
sono il germe del vizio, come quello della virtù; ambedue possono
essere il risultato: ciò dipende dalla maniera di governarle, e guai a
coloro che non hanno mai imparato quest'arte tanto necessaria.

--Sventurato colui,» disse la badessa, «che conosce male la nostra
santa religione!»

Emilia ascoltava Agnese in silenzio e con rispetto: considerava la
miniatura, e si accertava della somiglianza del ritratto con quello
veduto a Udolfo.

«Questa figura non mi è ignota,» diss'ella per far ispiegare la
monaca.

--Voi v'ingannate,» rispose suor Agnese, «e non l'avete mai certamente
veduta.

--No,» soggiunse Emilia; «ma ho veduto la sua perfetta somiglianza.

--È impossibile,» disse suor Agnese, che ora potremo chiamare la
signora Laurentini.

--Era nel castello di Udolfo,» continuò Emilia, guardandola fiso.

--Di Udolfo!» esclamò la signora Laurentini «di Udolfo in Italia?

--Precisamente,» rispose Emilia.

--Allora voi mi conoscete, e siete la figlia della marchesa.»

Emilia stupefatta da quella positiva asserzione, rispose:

«Io son figlia di Sant'Aubert, e la dama che voi nominate mi è affatto
estranea.

--Voi lo credete?» rispose la Laurentini.

Emilia le domandò per qual motivo pensasse il contrario.

«La vostra somiglianza,» disse la monaca. «È noto che la marchesa era
molto affezionata ad un gentiluomo di Guascogna, quando sposò il
marchese per obbedire a suo padre. Donna infelice!»

Emilia, rammentandosi l'eccessiva commozione di Sant'Aubert al nome
della marchesa, avrebbe provato allora un sentimento ben diverso dalla
sorpresa, se avesse conosciuto meno la probità del padre. Il rispetto
che aveva per lui non le permise di fermarsi alla supposizione che le
insinuava la Laurentini; la sua curiosità però crebbe a dismisura, e
la scongiurò di spiegarsi più chiaramente.

«Non mi sollecitate a tal proposito,» rispose la monaca; «è troppo
terribile per me: potessi cancellarlo per sempre dalla memoria!»

Sospirò profondamente, e chiese alla giovine in qual modo avesse
saputo il suo nome.

«Dal ritratto che vidi ad Udolfo e dalla somiglianza di questa
miniatura.

--Voi dunque siete stata nel castello di Udolfo?» disse la monaca con
estrema emozione. «Quali scene mi rammenta quel luogo! Scene di
felicità, di patimenti e d'orrore!»

In quel punto, il terribile spettacolo veduto da Emilia in una camera
del castello le tornò alla memoria; guardando la signora Laurentini,
si rammentò le ultime parole di lei, che la macchia d'un assassinio
non poteva esser lavata da molti anni d'orazione e di penitenza, e si
vide costretta di attribuirle a tutt'altra causa che al delirio: provò
un orrore inesprimibile sembrandole di vedere un'omicida... ed
infatti, tutta la condotta della Laurentini confermava questa
supposizione; Emilia si perdè in un abisso di congetture, e non
sapendo in qual modo chiarire simili dubbi, disse soltanto con parole
tronche:

«La vostra improvvisa partenza da Udolfo...» La monaca sospirò. «Tutte
le voci che corrono,» continuò Emilia... «la camera di ponente... quel
velo di lutto... l'oggetto ch'esso cuopre, quando i misfatti son
compiuti...» La monaca sclamò: «Come! ancora?» E cercando di
sollevarsi, gli smarriti suoi sguardi parean discernere un oggetto.
«Risorgere dalla tomba! Come! sangue e sangue sempre... Non ci fu
sangue; tu non puoi dirlo... Oh! non sorridere, non sorridere con quel
piglio pietoso...»

La Laurentini cadde in convulsioni: Emilia, incapace di reggere più a
lungo ad una tale scena, fuggì dalla camera, ed andò a raggiungere
Bianca e le educande ch'erano nel parlatorio. Le si affollarono tutte
intorno, e spaventate dal terrore che ella manifestava, le fecero
mille domande. Essa evitò di rispondervi, aggiungendo solo che suor
Agnese era in agonia. Un quarto d'ora dopo furono informate che stava
un poco meglio. La badessa comparve di lì a poco, e pregò Emilia di
tornar da lei il giorno dipoi, giacchè aveva una cosa di qualche
importanza da comunicarle. La giovane glielo promise, e se ne tornò al
castello con Bianca. Cammin facendo, videro Dupont che parlava col
forestiero veduto al monastero. Allorchè furono ad essi vicino, il
forestiero si congedò, ed egli tornò al castello.

Villefort, udendo nominare Bonnac, disse che lo conosceva da lunga
pezza; seppe il tristo oggetto del suo viaggio, ed avendo inteso
ch'era alloggiato in un'osteria del paese poco distante, pregò l'amico
di andar a cercarlo perchè venisse ad abitare al castello. Dupont vi
si prestò con piacere; Bonnac accettò l'invito. Il conte colle sue
attenzioni ed Enrico col suo brio fecero di tutto per dissipar la
tristezza che sembrava opprimere il loro nuovo ospite. Bonnac era un
uffiziale al servizio francese, dell'età di circa cinquant'anni, alto
di statura, di nobile portamento, affabile di maniere, e di fisonomia
interessantissima. Il di lui volto, che pareva essere stato bello,
portava un'impronta malinconica che sembrava provenire da lunghi
affanni, anzichè da disposizione naturale.

Si separarono subito dopo cena. Quando Emilia si fu ritirata nella sua
camera, le scene di cui era stata testimone se le presentarono
nuovamente con orribile energia. Aver trovato in una monaca moribonda
la signora Laurentini! Colei che, in vece d'essere stata vittima di
Montoni, sembrava anzi rea ella stessa d'un delitto abominevole! Ciò
era per lei un gran soggetto di sorpresa e di meditazione. I discorsi
fatti sul matrimonio della marchesa, e tutte le sue interrogazioni
sulla nascita di Emilia, erano proprie ad ispirare a chiunque sorpresa
ed interesse.

L'istoria di suor Agnese, raccontata da suor Francesca, diveniva
evidentemente falsa; ma qual potesse essere stato il motivo per cui
era stata immaginata, Emilia non sapeva indovinarlo. Quanto poi
eccitava maggiormente la di lei curiosità, era la relazione che la
marchesa di Villeroy poteva aver avuto col di lei padre. La dolorosa
sorpresa dimostrata da Sant'Aubert nell'udirne pronunziare il nome, la
domanda da lui fatta d'essere sepolto vicino a lei, e il ritratto di
quella dama trovato fra le sue carte, provavano esservi stato qualche
rapporto fra loro. Talvolta Emilia pensava che il padre potesse essere
stato l'amante preferito dalla marchesa, quando fu costretta di
sposare Villeroy; ma non poteva persuadersi ch'egli avesse conservata
la sua passione dopo quel matrimonio. Non dubitava però quasi più che
le carte, di cui suo padre avevale ordinata la distruzione, non
fossero relative alla marchesa, e se fosse stata meno certa dei rigidi
principii di Sant'Aubert, avrebbe creduto che il mistero della sua
nascita fosse andato sepolto colle ceneri di quei manoscritti. Queste
riflessioni l'occuparono gran parte della notte; il sonno le
rappresentava del continuo la monaca moribonda, e si svegliò piena
d'idee lugubri.

Alla mattina, si sentì troppo indisposta per andare a trovar la
badessa, e verso mezzogiorno seppe che suor Agnese aveva pagato il
tributo alla natura. Bonnac ne ricevè la nuova con dispiacere, ma
Emilia osservò ch'egli sembrava meno afflitto del giorno precedente:
questa morte senza dubbio l'affliggeva meno della confessione statagli
fatta. Comunque fosse, egli era fors'anco un po' consolato pe' legati
statigli fatti. La di lui famiglia era numerosa; le stravaganze d'un
suo figliuolo l'avevano piombato in un abisso d'affanni, e gettato
perfino in carcere. Il dolore che gli cagionava la condotta
sconsiderata di questo figlio, le spese e la rovina che ne fu la
conseguenza, avevangli dato quell'impressione di tristezza notata da
Emilia. Raccontò dettagliatamente a Dupont tutte le sue disgrazie.
Egli era stato per molti mesi in prigione a Parigi, senza speranza,
per così dire, di uscirne, e trovandosi privo dei conforti della
moglie, che, in una provincia lontana, tentava invano di muovere gli
amici in suo favore. Infine essa andò a trovarlo: ottenne di entrare
nel carcere, ma il cambiamento sensibilissimo in cui gli affanni e la
prigionia avevano piombato il suo marito, l'accorò a segno, che ammalò
gravemente.

«La nostra situazione,» continuò Bonnac, «commosse tutti quelli che
n'erano stati testimoni. Un amico generoso, allora mio compagno di
sventura, ottenne di lì a poco la libertà, ed il primo uso che ne
fece, fu quello di tentare la mia. Vi riuscì; la somma enorme ond'io
era debitore fu pagata, e quando volli esprimere la mia gratitudine al
mio benefattore, egli era già lungi da me. Io dubito molto che la sua
generosità abbia cagionata la sua perdita, e sia ricaduto egli stesso
in quei ferri, dai quali mi ha liberato. Per quante ricerche ne abbia
fatte, non ho mai potuto saper nulla del suo destino. Amabile ed
infelice Valancourt!

--Valancourt!» sclamò Dupont, «di qual famiglia?

--Valancourt dei conti Duverney,» rispose Bonnac.

È impossibile descrivere l'emozione di Dupont quando scoprì nel rivale
il benefattore del suo amico. Dopo il primo moto di sorpresa, dissipò
le inquietudini di Bonnac, facendogli sapere che Valancourt era in
libertà, e trovavasi in Linguadoca. La sua passione per Emilia lo
strinse in seguito a fare alcune domande sulla condotta del suo rivale
a Parigi. Bonnac ne pareva bene informato; le di lui risposte lo
convinsero appieno che Valancourt era stato calunniato, e per quanto
doloroso fosse il suo sacrifizio, formò il progetto di riunire Emilia
all'amante, non parendogli ora più indegno dei sentimenti ch'essa
serbava per lui.

Bonnac raccontò che Valancourt, entrando nel gran mondo, era caduto
nei lacci statigli tesi dal vizio e dall'impudenza; passava tutto il
tempo fra una marchesa dissoluta ed il giuoco, ove l'ingordigia e
l'avarizia de' suoi compagni avevano saputo trascinarlo. Aveva perduto
somme vistose colla speranza di riguadagnarne piccole, ed erano
appunto queste le perdite delle quali Villefort e Enrico erano stati
sovente testimoni. Il conte suo fratello, irritato da tale condotta,
ricusò di fargli rimesse rilevanti per soddisfare ai suoi debiti.
Valancourt fu dunque imprigionato ad istanza de' creditori, ed il
fratello ve lo lasciò per qualche tempo, sperando che un tal castigo
avrebbe corretto i suoi costumi, tanto più non avendo avuto il tempo
materiale per abituarsi radicalmente al vizio ed alla dissolutezza.

Nell'ozio del carcere, Valancourt ebbe campo di riflettere, e si
pentì. La memoria di Emilia, indebolita dalle sue dissipazioni ma
sempre presente al suo cuore, si rianimò con tutte le grazie
dell'innocenza e della bellezza; sembravagli lo rimproverasse di
sacrificare la sua felicità ed i suoi talenti ad occupazioni
vergognose e detestabili. Le sue passioni erano vive, ma il cuore non
era corrotto; l'abitudine non l'aveva stretto nelle catene del vizio,
e dopo molti sforzi e lunghi patimenti spezzò i lacci della seduzione.

Liberato finalmente per cura del conte suo fratello, e impietosito
dalla scena commovente dei coniugi Bonnac, ond'era stato testimonio,
il primo uso che fece della sua libertà fu al tempo istesso un esempio
d'umanità e di temerità; arrischiò, in una casa da giuoco, quasi tutto
il denaro mandatogli dal fratello, coll'unica speranza di restituire
ai voti della sua famiglia l'amico infelice lasciato in prigione. La
fortuna lo favorì, ma colse tal momento per fare il voto solenne di
non ceder mai più alle allettative di quel vizio rovinoso.

Dopo aver ridonato il venerabile Bonnac alla sua riconoscente
famiglia, Valancourt era ripartito per Estuvière. Nell'entusiasmo suo
di aver reso la felicità a quell'infelice, obliò i propri mali. Si
avvide però ben presto di aver perduta tutta la sua sostanza, senza
della quale non poteva mai lusingarsi di sposare Emilia. La vita,
senza di lei, gli pareva insopportabile. La sua bontà e delicatezza, e
la semplicità del suo cuore, ne rendevano la bellezza vie più
incantevole. L'esperienza avevagli insegnato ad apprezzare le qualità
che aveva sempre ammirate, ma che il contrasto del mondo facevagli
allora adorare. Queste riflessioni accrebbero i suoi rimorsi ed il suo
rammarico. Cadde in un abbattimento, che non potè essere distratto
neppure dalla presenza di Emilia, e si conobbe indegno di lei. In
alcun tempo però Valancourt non aveva subìto l'ignominia della
liberalità della marchesa di Campoforte, come aveva creduto Villefort,
nè partecipato mai alle astuzie colpevoli de' giuocatori. Questi
rapporti erano stati fatti da coloro che si compiaciono di avvilire
l'infelice. Il conte avevali avuti da una persona distinta, e
l'imprudenza di Valancourt era bastata per confermarli. Emilia non
glie ne aveva parlato particolarmente, e per conseguenza non aveva
potuto giustificarsi; ed allorquando le confessò che non meritava più
la sua stima, non avrebbe mai creduto di appoggiare egli stesso
un'infame calunnia. L'errore era stato reciproco, e non erasi
presentata fino allora l'occasione di rettificarlo.

Quando Bonnac ebbe spiegata la condotta di un amico generoso, ma
giovine ed imprudente, Dupont, severo, ma giusto, decise tosto che
bisognava disingannare il conte e rinunziare ad Emilia. Un sacrificio
come quello che faceva allora il suo amore, meritava una nobile
ricompensa; e se Bonnac avesse potuto obliare il benefico Valancourt,
avrebbe desiderato che Emilia accettasse la mano di Dupont.

Appena il conte ebbe riconosciuto il suo errore, fu afflittissimo
delle conseguenze della sua credulità. I dettagli di Bonnac sulla
condotta del suo benefattore a Parigi lo convinsero che Valancourt
aveva ceduto agli artifizi del libertinaggio, più per l'occasione di
trovarsi co' compagni, che per inclinazione al vizio. Incantato
dell'umanità generosa, quantunque temeraria, che mostrava il suo
procedere verso Bonnac, ne obliò i falli passaggieri, e riprese per
lui quella stima che avevagli inspirata la sua prima conoscenza. La
più lieve soddisfazione che potesse accordare a Valancourt, era quella
di procurargli il modo di spiegarsi con Emilia. Gli scrisse dunque
immediatamente, pregandolo di perdonargli un'offesa involontaria, e
l'invitò a recarsi subito a Blangy. La delicatezza del conte lo fece
astenere dall'informare Emilia di questa lettera, e siffatta
precauzione preservò la fanciulla da un affanno ancor più terribile di
quello avesse creduto il conte, ignorando egli i sintomi della
disperazione di Valancourt.




CAPITOLO LV


Alcune circostanze singolari distrassero Emilia dalle sue
inquietudini, eccitando in lei sorpresa pari ad orrore.

Pochi giorni dopo la morte della signora Laurentini, fu aperto il
testamento di quella dama in presenza della superiora del convento e
di Bonnac. Un terzo de' suoi beni era stato lasciato al parente più
prossimo della marchesa di Villeroy, e questo legato riguardava
Emilia.

La badessa conosceva da molto tempo il segreto della sua famiglia; ma
Sant'Aubert, ch'erasi fatto conoscere al religioso che avevalo
assistito, aveva prescritto che questo segreto restasse celato sempre
alla sua figlia. I discorsi però sfuggiti alla signora Laurentini, e
la strana confessione da lei fatta nei suoi ultimi momenti, fecero
creder necessario alla badessa di parlare alla sua giovane amica d'un
soggetto che poteva illuminarla. Per questo motivo adunque avrebbe
voluto vederla il giorno seguente a quello in cui era stata a visitare
suor Agnese. L'indisposizione di Emilia avevale impedito di recarsi al
monastero, ma dopo l'apertura del testamento, essendo andata a Santa
Chiara, venne informata di molti dettagli che l'afflissero molto.
Siccome poi il racconto fatto dalla badessa sopprimeva varie
particolarità che possono interessare il lettore, e che l'istoria
della monaca è legata con quella della marchesa, ometteremo la
conversazione del parlatorio, e daremo qui un ristretto della storia
della defunta.


=Storia della signora Laurentini di Udolfo.=

Era essa figlia unica ed erede dell'antica famiglia di Udolfo nel
territorio di Venezia. Il primo infortunio della sua vita, e la vera
sorgente di tutte le di lei sciagure fu che i suoi genitori, i quali
avrebbero dovuto moderare la violenza delle sue passioni, ed
insegnarle a regolarle, non fecero che fomentarle con una colpevole
indulgenza. Amavano in lei i propri sentimenti. Lodavano sgridavano,
la figlia non secondo una tenerezza ragionevole, ma dietro la loro
inclinazione. L'educazione non fu per essa che un misto di debolezza e
di pertinacia che l'irritò. I consigli che le venivano dati divennero
altrettante contese, in cui il rispetto figliale e l'amor paterno
erano egualmente dimenticati. Ma siccome quest'amor paterno era sempre
più forte, e si disarmava più facilmente, la figlia credeva aver
vinto, e lo sforzo che facevano per moderare le sue passioni lor
somministrava sempre nuova forza.

La morte de' genitori la lasciò padrona di sè medesima nell'età tanto
pericolosa della gioventù e della bellezza. Amava il gran mondo,
s'inebbriava del veleno della lode, e sprezzava la pubblica opinione
quando contraddiceva a' suoi gusti. Il di lei spirito era vivo e
brillante; aveva tutti i talenti, tutte le attrattive che formano la
grand'arte di sedurre. La sua condotta fu quale potevano farlo
presagire la debolezza de' suoi principii e la forza delle sue
passioni.

Nel numero infinito de' suoi adoratori, vi fu il marchese di Villeroy.
Viaggiando in Italia, la vide a Venezia, e se ne innamorò. Anch'essa
fu colpita dalla bella figura, dalle grazie e dalle qualità del
marchese, il più amabile de' gentiluomini francesi. Seppe nascondere i
pericoli del suo carattere, le macchie della sua condotta, e il
marchese chiese la di lei mano.

Prima della conclusione delle sue nozze andò al castello di Udolfo,
ove il marchese la seguì. Là, meno riservata e prudente forse di
quello fosse stata fino allora, diè luogo all'amante di formar qualche
dubbio sulla convenienza nel nodo che stava per istringere.
Un'informazione più esatta lo convinse del suo errore, e colei che
doveva esser sua moglie, divenne la sua concubina.

Dopo aver passato alcune settimane a Udolfo, fu d'improvviso
richiamato in Francia: partì con ripugnanza, e col cuore pieno della
sua bella, colla quale però aveva saputo differire la conclusione del
matrimonio. Per incoraggirla a sopportare tale separazione, le diè
parola di tornare a celebrar le nozze appena i suoi affari glielo
avessero permesso.

Consolata da tale assicurazione, la signora Laurentini lo lasciò
partire. Poco dopo, Montoni, suo parente, venne a Udolfo, e le rinnovò
proposte da lei già respinte, che rigettò nuovamente. I suoi pensieri
eran tutti rivolti al marchese di Villeroy. Provava per lui tutto il
delirio d'un amore costante, fomentato dalla solitudine in cui erasi
confinata. Aveva perduto il gusto de' piaceri e della società, e la
sua unica consolazione consisteva nel contemplare e bagnar di lacrime
un ritratto del marchese. Visitava i luoghi testimoni della loro
felicità, e sollevavasi il cuore scrivendogli del continuo lettere
affettuosissime. Contava i giorni, e le ore, i minuti che dovevano
scorrere prima dell'epoca probabile del suo ritorno. Questo periodo
immaginario finì; le settimane che susseguirono, divennero per lei
d'un peso insopportabile. La di lei fantasia occupata in una sola
idea, si disordinò. Il suo cuore era dedito ad un solo oggetto, e
quando credè averlo perduto, la vita le divenne odiosa.

Scorsero parecchi mesi senza ch'ella ricevesse una sola parola del
marchese. Passava i giorni intieri fra i trasporti di una passione
furiosa ed il cupo languore della più nera disperazione. Isolata da
tutto, e da tutti, si chiudeva in casa settimane intiere senza parlare
ad altri che alla sua confidente. Scriveva lettere, rileggeva quelle
ricevute una volta dal marchese, piangeva sul di lui ritratto, e
parlavagli del continuo, ora per rimproverarlo, ora per baciarlo con
fervore.

Finalmente, si sparse la voce nel castello che il marchese si fosse
maritato in Francia. Straziata dall'amore, dalla gelosia e dallo
sdegno, prese il partito di andar segretamente in quel paese, e
vendicarsi, se il fatto era vero. Comunicò alla sola sua confidente il
progetto formato, e l'indusse a seguirla. Prese tutte le sue gioie, e
quelle raccolte nelle successive eredità di vari membri della
famiglia, ch'erano d'immenso valore; e partita segretamente in
compagnia d'una sola cameriera, andò a Livorno, ove s'imbarcò per la
Francia.

Al suo arrivo in Linguadoca, venne a sapere che il marchese di
Villeroy era già ammogliato da qualche tempo. La disperazione alterò
la sua ragione. Formava ed abbandonava contemporaneamente l'orribile
progetto di pugnalare il marchese, la di lui sposa e sè medesima.
Decise finalmente di presentarsegli, rimproverargli la sua condotta,
ed uccidersi alla sua presenza. Ma quando l'ebbe riveduto, quand'ebbe
ritrovato il costante oggetto de' suoi pensieri e della sua tenerezza,
il risentimento cedè all'amore: le mancò il coraggio; il conflitto di
tanti affetti contrari la rese tremante, e cadde svenuta ai suoi
piedi.

Il marchese non potè resistere alla prova di tanta bellezza e
sensibilità; tutta l'energia di un primo sentimento si risvegliò; la
ragione, ma non l'indifferenza, aveva combattuto la sua passione.
L'onore non avevagli permesso di sposar la Laurentini; aveva cercato
di vincersi; aveva cercato una compagna, per la quale non aveva che
stima, considerazione ed un ragionevole affetto. Ma la dolcezza e le
virtù di quella donna adorabile non poterono consolarlo di
un'indifferenza, ch'essa cercava indarno nascondere. Egli sospettava
da qualche tempo che il di lei cuore fosse impegnato ad un altro,
allorchè la Laurentini giunse in Linguadoca. Questa donna artifiziosa
conobbe in breve tutto l'impero ripreso su di lui. Calmata da tale
scoperta, si determinò a vivere, e moltiplicare gli artifizi per
ridurre il marchese all'esecrabile misfatto cui credeva necessario
per assicurare la sua felicità. Perseverò nel suo progetto con
profonda dissimulazione ed imperturbabile pazienza. Riuscì a staccare
intieramente il marchese dalla consorte. La sua dolcezza, bontà e
freddezza, così opposte alle maniere insinuanti, alla voluttà
inesprimibile d'una Veneziana, cessarono ben tosto di piacergli. La
Laurentini ne profittò per destare nel di lui cuore la gelosia
dell'orgoglio, non potendo più risentir quello dell'amore: giunse
perfino a designargli la persona per la quale affermava che la
marchesa lo tradisse, dopo avergli strappato il giuramento, che il
rivale non sarebbe stato mai l'oggetto della sua vendetta, nella
persuasione, che, restringendola così da una parte, avrebbe preso
dall'altra maggior violenza ed atrocità. Pensò che così il marchese si
sarebbe determinato più facilmente all'atto orribile che diveniva
indispensabile a' suoi disegni, e doveva annichilare l'unico ostacolo
che sembrava impedire la di lei felicità.

L'innocente marchesa osservava con estremo dolore il cambiamento del
marito verso di lei. Alla sua presenza, egli era pensieroso e
riservato. La di lui condotta diveniva sempre più austera ed aspra: la
lasciava struggere in lacrime, e per ore intiere essa piangeva sulla
di lui freddezza, facendo sempre nuovi progetti per riguadagnarne
l'affetto. La di lui condotta l'affliggeva tanto più in quanto che
aveva sposato il marchese unicamente per obbedienza: ne aveva amato un
altro, col quale sarebbe stata al certo felice; ma aveva saputo
sacrificare la passione ai doveri coniugali. La Laurentini, la quale
non tardò a scoprirlo, ne approfittò sagacemente. Suggerì al marchese
tante prove apparenti sull'infedeltà della moglie, che, nell'eccesso
del furore e del risentimento per l'oltraggio che credeva aver
ricevuto, pronunciò il decreto fatale della sua morte. Le fu dato un
lento veleno, e quell'infelice morì vittima d'un'astuta gelosia e
d'una colpevole debolezza.

Il trionfo della Laurentini fu di breve durata. Quel momento, ch'essa
aveva riguardato come il colmo di tutti i suoi voti, divenne il
principio di un supplizio che la tormentò fino alla morte. La sete
della vendetta, prima motrice della sua atrocità, fu spenta appena
soddisfatta, e lasciolla in preda alla pietà e ad inutili rimorsi. Gli
anni di felicità ch'erasi ripromessa col marchese di Villeroy ne
sarebbero stati indubbiamente avvelenati; ma anch'egli trovò il
rimorso nel compimento della sua vendetta e la sua complice gli
divenne odiosa. Tutto ciò che gli era sembrato una convinzione,
parvegli allora svanire come un sogno; e fu oltremodo sorpreso, dopo
che la moglie ebbe subìto il suo supplizio, di non trovare alcuna
prova del delitto pel quale l'aveva condannata. Al sapere ch'ella era
in fin di vita, sentì d'improvviso la persuasione della sua innocenza,
la quale gli venne confermata dall'assicurazione solenne ch'essa
gliene diede in punto di morte.

Nel primo orrore del rimorso e della disperazione, voleva darsi da per
sè nelle mani della giustizia con colei che l'aveva piombato
nell'abisso del delitto. Dopo questa crisi violenta, cambiò
risoluzione: vide una volta sola la Laurentini, ma per maledirla come
l'autrice detestabile di tanto misfatto. Le dichiarò che non la
risparmiava se non perchè consacrasse i giorni all'orazione e alla
penitenza. Oppressa dal disprezzo e dall'odio d'un uomo, pel quale
erasi resa tanto colpevole; sovrappresa d'orrore per l'inutile
delitto, di cui si era macchiata, la Laurentini rinunziò al mondo, e,
vittima orribile d'una passione sfrenata, prese il velo nel convento
di Santa Chiara.

Il marchese partì dal castello di Blangy, nè vi tornò più. Procurò di
spegnere i rimorsi nel tumulto della guerra e nelle dissipazioni della
capitale; ma i suoi sforzi furono vani. Gli pareva d'esser sempre
circondato da una nube impenetrabile; i suoi più intimi amici non
valsero a consolarlo, e infine morì fra tormenti quasi eguali a quelli
della Laurentini. Il medico che aveva osservato lo stato della
marchesa dopo la sua morte, era stato indotto a tacere a furia di
regali. I sospetti di qualche domestico si limitarono ad una voce
vaga. Se questa voce giungesse al padre della marchesa, o se la
mancanza di prove lo impedisse di accusarlo, è egualmente incerto. È
indubitato però che la di lei perdita rincrebbe a tutta la famiglia, e
specialmente a Sant'Aubert suo fratello, tal essendo il grado di
parentela esistente tra la marchesa ed il padre di Emilia: egli
sospettò il genere della sua morte, e scrisse immediatamente al
marchese, da cui ricevè parecchie lettere, le quali, insieme a quelle
della marchesa, che confidava al fratello il motivo della sua
sventura, componevano le carte che Sant'Aubert aveva ordinato di
bruciare. L'interesse, il riposo di Emilia aveangli fatto desiderare
ch'ella ignorasse questa tragica istoria. L'afflizione cagionatagli
dalla morte prematura d'una sorella da lui tanto amata, avevagli
impedito di pronunziarne mai il nome, se non alla defunta consorte.
Temendo specialmente la viva sensibilità di Emilia, le aveva lasciato
ignorare affatto l'istoria ed il nome della marchesa, non che la
parentela esistente tra loro, ed aveva prescritto il medesimo silenzio
alla signora Cheron sua sorella, che l'aveva rigorosamente osservato.

Era sur alcune lettere della marchesa che, partendo dalla valle,
Emilia vide piangere il padre; era al di lei ritratto ch'egli aveva
fatto sì teneri baci. Una morte sì crudele può spiegare l'emozione cui
dimostrò quando Voisin la nominò a lui dinanzi. Egli volle esser
sepolto presso al mausoleo de' Villeroy, ove giaceano le ceneri di sua
sorella. Il marito di questa essendo morto nella Francia
settentrionale, ve l'avean sepolto colà.

Il confessore, il quale assistè Sant'Aubert al letto di morte, lo
riconobbe pel fratello della defunta marchesa. Per tenerezza verso
Emilia, Sant'Aubert scongiurollo di celarle siffatta circostanza, e
fe' chiedere la medesima grazia alla badessa, raccomandandole la
figlia.

La Laurentini, arrivando in Francia, aveva scrupolosamente celato il
suo nome. Entrando in convento, per meglio nascondere la sua vera
storia, aveva ella stessa fatta circolare quella stata raccontata da
suor Francesca. La badessa non era nel monastero quando fece
professione, e non conoscea tutta la verità. I crudeli rimorsi che
opprimevano la rea, la disperazione d'un amore deluso, e la passione
che conservava pel marchese, aveanle alterata la fantasia. Dopo le
prime crisi, una cupa malinconia s'impadronì di lei, e fu di rado sino
alla morte interrotta da accessi violenti di delirio. Per vari anni il
di lei solo piacere fu quello di passeggiare la notte pei boschi;
portava seco un liuto, e s'accompagnava sovente colla sua bella voce
cantando le più squisite ariette italiane coll'energico sentimento che
occupava costantemente il suo cuore. Il medico che la curava,
raccomandò alla badessa di tollerare questo capriccio, come l'unico
mezzo di calmarla. Soffrivano adunque che la notte errasse pe' boschi,
accompagnata dalla sola donna che fosse venuta seco da Udolfo; ma
siccome un tale permesso alterava la regola del monastero, fu tenuto
segreto; e quella musica misteriosa, unita a tante altre circostanze,
fece credere che il castello di Blangy ed i suoi dintorni fossero
frequentati dagli spiriti.

Avanti che la sua ragione si alterasse, e prima di prendere il velo,
aveva fatto testamento. Oltre un lascito importante al monastero, essa
divideva il resto de' suoi beni, che le sue gioie rendevano
ragguardevoli, tra un'Italiana sua parente, sposa di Bonnac, ed il
parente più prossimo della marchesa di Villeroy. Emilia era la
parente più prossima di questa dama, e la condotta misteriosa di suo
padre venne giustificata in tal guisa.

La somiglianza d'Emilia colla sventurata sua zia era stata spesso
osservata dalla Laurentini; ma fu specialmente all'ora della sua
morte, nel momento stesso in cui la sua coscienza mostravale del
continuo la marchesa, che siffatta somiglianza la colpì, e che, nel
suo delirio, credette vedere la marchesa in persona. Ardì affermare,
ricuperando i sensi, che Emilia doveva esser la figlia di quella dama.
N'era convinta; sapeva che la sua rivale, sposando il marchese, gli
preferiva un altro, e non dubitava che una passione sfrenata non
avesse, come la sua, trascinata la marchesa a qualche fallo.

Intanto il delitto che, per un malinteso, Emilia supponeva essere
stato commesso dalla signora Laurentini in Udolfo, non aveva mai avuto
luogo. Emilia era stata ingannata dalla vista orribile del quadro
coperto da un velo nero, onde si parlò negli scorsi capitoli, e che
aveale fatto attribuire i rimorsi della monaca ad un omicidio accaduto
in quel castello. Quel velo nascondeva un oggetto che la riempì di
orrore; sollevandolo, invece di un quadro, vide nello sfondo una
figura umana, i cui lineamenti sfigurati avevano il pallore della
morte. Era coperta da un lenzuolo, e distesa in una specie di tomba.
Ciò che rendeva tal vista ancor più spaventosa, era che quella figura
parea esser già in preda ai vermi, e che le mani ed il volto ne
lasciavano vedere le orme. È facile immaginare, che un oggetto tanto
schifoso non si dovea guardar due volte. Emilia, quando lo vide,
lasciò cadere il velo, e se ne allontanò spaventata, nè tornovvi più.
Se avesse avuto il coraggio di osservarla più attentamente, l'orrore e
lo spavento suo si sarebbero dissipati, perchè avrebbe riconosciuto
che quella figura era di cera. Questo fatto, sebbene straordinario,
non è però senza qualch'esempio negli annali della dura servitù in
cui la superstizione monastica ha sovente piombato il genere umano. Un
membro della casa di Udolfo aveva offeso in qualche punto le
prerogative della Chiesa, e fu condannato a contemplare due ore per
giorno l'immagine in cera di un cadavere. Questa penitenza, che doveva
servire a rammentargli una sorte inevitabile, aveva per iscopo di
reprimere nel signore di Udolfo un orgoglio di cui quello di Roma era
offeso. Non solo egli subì esattamente la sua penitenza, ma nel suo
testamento, prescrisse la conservazione di quella figura, mettendo a
tal prezzo la proprietà del dominio, e riguardando come utilissima
l'umiliante moralità che insegnava il finto cadavere, l'avea fatto
incorniciare nel muro del suo appartamento, ma nessuno degli eredi
però volle imitarne la penitenza.

L'immagine era così naturale, che non è da stupirsi se Emilia la credè
un corpo umano. Aveva udito raccontare la strana scomparsa della
padrona del castello, e il carattere di Montoni autorizzava in lei il
sospetto che il cadavere fosse quello della signora Laurentini
assassinata dallo stesso suo parente.

Venendo a conoscere che la marchesa di Villeroy era sorella di
Sant'Aubert, Emilia si sentì combattuta da contrari affetti. In mezzo
alla mestizia cagionatale della morte prematura dell'infelice, si
sentì alleviata dalle penose congetture in cui l'avea gettata la
temeraria asserzione della Laurentini sulla di lei nascita e
sull'onore de' suoi parenti. La sua fiducia ne' principii del padre
non permetteale guari d'immaginare ch'egli avesse mancato alla
delicatezza. Ripugnava a credersi figlia di tutt'altra che di colei
ch'ella avea sempre amata e rispettata come sua madre; avrebbe
stentato molto a crederlo; ma la di lei somiglianza colla defunta
marchesa, la condotta di Dorotea, le asserzioni della Laurentini, il
misterioso affetto di Sant'Aubert aveanle ispirati dubbi che la sua
ragione non poteano nè distruggere, nè confermare; ella se ne trovava
così sbarazzata, e la condotta del padre si spiegava. Il suo cuore non
era più oppresso che dalla sventura d'una parente amabile, e per la
terribile lezione data dalla monaca moribonda. Troppa indulgenza per
le sue prime passioni, avean trascinata grado grado la signora
Laurentini ad un delitto il cui solo nome in gioventù l'avrebbe al
certo fatta fremere d'orrore; delitto di cui lunghi anni di penitenza
non avean potuto cancellar la memoria, nè alleviare la di lei
coscienza.




CAPITOLO LVI


Dopo le ultime scoperte, Emilia fu trattata dal conte e dalla sua
famiglia come una parente della casa Villeroy, e ricevuta, se era
possibile, anche con maggiore amicizia.

Il conte, inquieto e sorpreso di non ricevere alcuna risposta da
Valancourt, s'applaudiva della sua prudenza. Emilia non partecipava a
paure di cui ignorava il motivo; ma quando la vedeva soccombere al
peso del suo errore crudele, aveva bisogno di tutta la sua risoluzione
per privarla d'un sollievo momentaneo e dissimular seco lei. Le nozze
di Bianca si avvicinavano, attirando la sua attenzione e le sue cure.
Si aspettava di giorno in giorno il cavaliere Santa-Fè, e tutto il
castello si occupava dei più brillanti preparativi. Emilia voleva
prender parte all'allegrezza che circondavala, ma lo tentava invano;
preoccupata di quanto avea saputo, ed inquieta soprammodo della sorte
di Valancourt si raffigurava lo stato in cui era quando diè l'anello a
Teresa: essa credea riconoscervi l'espressione della disperazione, e
quando considerava dove questo stato avrebbe potuto spingerlo, il
cuore le sanguinava di dolore e spavento. I dubbi da lei formati sulla
salute e sull'esistenza sua, l'obbligo in cui era di conservar questi
dubbi sino al di lei ritorno alla valle, pareale insopportabile.
Eranvi momenti in cui nulla valea a contenerla. Essa sottraevasi
inosservata da casa, andando a cercare la calma nelle profonde
solitudini de' boschi che contornavano la spiaggia. Il fragor delle
onde spumanti, il sordo stormir delle foreste, s'accordavano collo
stato dell'anima sua: sedeva sopra una rupe o sulle rovine della
vecchia torre; osservava verso sera la sfumatura de' colori nelle
nubi; vedea svolversi i tetri veli del crepuscolo. La candida cresta
dell'onde, eternamente sospinte al lido, distinguevasi appena
sull'oscura superficie dell'acque. Talvolta essa ripetea i versi
incisi dall'amante in que' luoghi; poi, troppo addolorata pe'
dispiaceri che le rinnovavano, cercava distrarsi.

Una sera che col liuto errava a caso sul lido favorito, entrò nella
torre. Salita una scala a lumaca, trovossi in una stanza meno rovinata
del resto. Di là spesse fiate ella aveva ammirato la vasta prospettiva
offertale dal mare e dalla terra: il sole tramontava da quella parte
de' Pirenei che divide la Linguadoca dal Rossiglione; ella si mise ad
una finestra munita di ferriate: i boschi e le onde sotto a lei
conservavano ancora le tinte rossicce del tramonto. Accordato il
liuto, vi unì il suono della voce, e cantò una di quelle romanze
semplici e campestri tanto predilette da Valancourt.

Il tempo era sì queto e sereno, che appena la brezza vespertina
increspava la superficie dell'acqua o gonfiava leggermente la vela
indorata ancora agli ultimi rai del dì. I colpi misurati de' remi di
qualche battello sturbavan soli il riposo ed il silenzio. La tenera
melodia del liuto finiva d'immerger la fanciulla in dolce malinconia;
essa ripetè le antiche canzoni, e le memorie in lei destate diventando
ognor più tenere, le sue lagrime caddero sul liuto, e non potè
proseguire.

Il sole era scomparso dietro le vette de' monti, e le loro cime più
alte non ne ricevevan più la luce; Emilia, trattenendosi ancora nella
torre, vi si abbandonava a' suoi pensieri. Udendo camminare,
sussultò, e guardando abbasso, riconobbe Bonnac. Ricadde nella
meditazione, e dopo alcuni momenti, ripreso il liuto, cantò la sua
aria favorita. Tornò ad udir rumore di passi; ascoltò: salivan la
scala della torre. L'oscurità ispirolle qualche paura; i passi eran
veloci e leggeri; la porta s'aprì ed il debole crepuscolo le celò
sulle prime i lineamenti d'una persona che entrava; ma Emilia potea
ingannarsi al suono della voce? era quella di Valancourt. La
fanciulla, la quale non aveala mai intesa senza emozione, turbata da
sorpresa e piacere a un tempo, appena se l'ebbe visto a' piedi, fu per
venir meno. Tanti contrari affetti agitavanle il cuore, che a stento
udiva quella voce, i cui teneri e timidi accenti cercavan
riassicurarla. Valancourt, vedendola in tale stato, si rimproverava
l'eccesso d'impazienza che l'aveva spinto a sorprenderla così. Appena
giunto al castello di Blangy, non aveva potuto aspettare il ritorno
del conte, ch'era fuori al passeggio, e correndone in cerca, nel
passar presso la torre, avea riconosciuta la voce d'Emilia, ed era
salito subito.

Quand'essa fu rinvenuta, respinse le attenzioni di Valancourt, e gli
domandò, con aria di malcontento, qual fosse il soggetto della sua
visita.

«Ah! Emilia,» disse Valancourt, «queste parole, questo disprezzo...
Gran Dio! Mi sono illuso. Allorchè mi privaste della vostra stima, voi
avete dunque cessato di amarmi?

--Sì, signore,» rispos'ella, sforzandosi di parer tranquilla; «se
faceste caso della mia stima, non mi avreste data questa nuova
occasione di affanno.»

La fisonomia del giovane si alterò visibilmente, e l'ansietà del
dubbio cedè alla sorpresa e allo scoraggiamento. Tacque alcun poco,
poi disse:

«M'avevano lusingato di un'accoglienza molto diversa! È dunque vero, o
Emilia, che ho perduto per sempre il vostro affetto? Debbo io dunque
credere che la vostra stima non può essermi mai restituita, e che il
vostro amore non può rinascere? Il conte ha meditato dunque questa
crudeltà che mi dà una seconda volta la morte?»

L'accento con cui si esprimeva allarmò e sorprese molto Emilia.
Tremante d'impazienza, gli disse che si spiegasse più chiaro.

«E perchè una spiegazione? Ignorate voi,» rispose Valancourt, «quanto
la mia condotta fu calunniata? Ignorate voi che le azioni di cui mi
credeste colpevole... E come poteste, o Emilia, degradarmi fino a
questo punto nella vostra opinione?... Che queste azioni, le disprezzo
e le abborro quanto voi? Ignorate voi che il conte ha scoperte le
falsità che mi privavano dell'unico bene che mi sia caro al mondo; che
mi ha invitato egli medesimo a venire a giustificarmi presso di voi?
Lo ignorate voi, o son io ancora il trastullo d'una falsa speranza?»

Il silenzio di Emilia parea confermare questo timore; il giovane,
nell'oscurità, non poteva distinguere la sorpresa e la gioia che la
rendevano quasi immobile, incapace di parlare, un profondo sospiro
parve sollevarla, e disse finalmente:

«Valancourt! Io ignorava tutto quel che mi avete detto. L'emozione
ch'io sento n'è la prova. Io non poteva stimarvi più, ma non aveva
ancora potuto riuscire a dimenticarvi.

--Qual felicità mi recan le vostre parole! Vi son dunque caro ancora,
o mia Emilia?

--È forse necessario che io ve lo dica? Questo è il primo momento di
gioia dopo la vostra partenza, e m'indennizza di tutto quello che ho
sofferto.»

Valancourt sospirava, non poteva rispondere, bagnava di baci e lagrime
le mani di lei, ed il suo pianto esprimeva assai meglio di qualunque
più tenero linguaggio. La fanciulla, riavutasi alquanto, propose di
tornar al castello. Allora, e per la prima volta, ricordossi che il
conte avea invitato Valancourt a giustificarsi appo lei, e che
nessuna spiegazione era avvenuta. Ma, a questa sola idea, il suo cuore
respinse la possibilità che Valancourt fosse stato reo. I suoi
sguardi, la voce, i modi erano il pegno della sua nobile e costante
sincerità. Ella abbandonossi dunque senza ritegno al sentimento di una
gioia non mai provata fin allora.

Nè Emilia, nè il giovane seppero come fossero tornati al castello: se
un potere magico ve li avesse trasportati, forse ne avrebbero meglio
notato il movimento; erano nel vestibolo prima d'accorgersi che
esistesse qualcuno al mondo. Il conte venne loro incontro con tutta la
franchezza e l'affabilità del suo carattere; accolse cordialmente
Valancourt, e lo pregò di perdonargli la sua ingiustizia. Poco dopo
Bonnac raggiunse quel gruppo felice, e Valancourt ed esso si
abbracciarono con reciproca e tenera soddisfazione.

Dopo i primi complimenti, il conte ebbe una lunga conferenza col
giovane, il quale si giustificò appieno. Confessò così ingenuamente i
suoi torti, e ne mostrò tanto rammarico, che il conte ne concepì le
più liete speranze. Valancourt era dotato delle più eminenti qualità:
l'esperienza gli aveva insegnato a detestare tutte le follie che
l'avevano sviato qualche momento; ed il conte, persuaso ch'esso
avrebbe menato vita onesta, gli confidò alfine senza scrupolo la
felicità della parente cui amava come sua figlia. Le rese conto in due
parole del soggetto del loro colloquio; Emilia aveva già saputo tutto
ciò che Valancourt aveva fatto per Bonnac, e versava in quel momento
copiose lacrime di piacere e di tenerezza. Il colloquio del conte
Villefort finì a dileguare tutti i suoi dubbi, ed ella restituì senza
tema la sua stima e l'amor suo a colui che aveva saputo
inspirarglieli.

L'arrivo del cavaliere di Santa-Fè, guarito dalle sue ferite, finì di
spargere il brio e l'allegrezza in tutti gli abitanti del castello. Il
povero Dupont volle scansar di gettare, colla sua presenza, qualche
ombra di tristezza su tutta quella felice comitiva. Appena fu certo
che Valancourt non era indegno di Emilia, pensò sul serio a guarire
dalla sua passione, e partì. La di lui condotta, ben compresa dalla
fanciulla, le ispirò pietà ed ammirazione insieme.

Quando Annetta seppe l'arrivo di Valancourt, Lodovico durò gran fatica
a trattenerla; voleva correre nella sala ad esprimere tutta la sua
gioia, assicurando che dopo il ritorno del suo caro Lodovico non aveva
provato mai tanta consolazione.

Le nozze di Bianca e di Emilia furon celebrate nel medesimo giorno a
Blangy con tutta la magnificenza. Le feste furono splendidissime: la
sala grande era stata ornata d'un nuovo parato rappresentante Carlo
Magno co' suoi dodici pari. Si vedevano i fieri Saraceni che si
avanzavano in battaglia, e tutti gl'incanti ed il potere magico di
Merlino. Le sontuose bandiere de' Villeroy, sepolte a lungo nella
polvere, sventolarono di nuovo sulle torri gotiche del castello. La
musica rimbombava da tutte le parti. Annetta ammirava tutte quelle
feste, considerava la magnificenza degli abbigliamenti, le ricche
livree dei servitori, i mobili di velluto ricamati in oro, ascoltava i
lieti canti che facevan echeggiar le vôlte, e credevasi trasportata in
un palazzo di geni e di fate. La vecchia Dorotea sospirava, e diceva
che l'aspetto attuale del castello le rammentava tuttavia la sua
gioventù.

Dopo aver per qualche giorno fatto l'ornamento delle feste, Emilia e
Valancourt si congedarono dai loro buoni amici, e tornarono alla
valle. Furono ricevuti dalla buona e fida Teresa con gioia sincera.

Le fresche ombre di quel luogo favorito parvero offrir loro gratamente
le più care memorie. Percorrendo que' luoghi, soggiorno per tanto
tempo de' suoi diletti genitori, Emilia mostrava con tenerezza allo
sposo i luoghi ove solevan riposare, e la sua felicità pareale più
dolce, pensando che entrambi l'avrebbero abbellita d'un sorriso.

Valancourt la condusse al platano ove per la prima volta avea ardito
favellarle d'amore. La memoria de' dispiaceri sofferti poscia, delle
sventure, de' pericoli susseguiti a quell'incontro, aumentò il
sentimento dell'attuale loro felicità. Sotto quelle sacre ombre,
dedicate per sempre alla memoria di Sant'Aubert, giuraronsi
scambievolmente di cercar di rendersene degni, imitando la di lui
dolce benevolenza: ricordandosi che ogni specie di superiorità impone
doveri a chi ne fruisce; offrendo a' loro simili, oltre le
consolazioni ed i benefizi che la prosperità deve ogni giorno
all'infortunio, l'esempio d'una vita passata nella gratitudine verso
Dio, e la costante occupazione d'essere utile all'umanità.

Poco dopo il loro ritorno alla valle, il fratello di Valancourt venne
a felicitarlo sul di lui matrimonio, ed a rendere omaggio ad Emilia.
Fu talmente contento di lei, e della ridente prospettiva che questo
matrimonio offriva a Valancourt, che tosto gli donò la metà de' suoi
averi, e siccome non aveva figli, gli assicurò tutta la sua eredità.

I beni di Tolosa furono venduti. Emilia ricomprò da Quesnel il
patrimonio avito; dotò Annetta, che si maritò a Lodovico, e impiegolli
ambidue a Epourville. Valancourt e lei stessa preferivano gli ombrosi
luoghi della valle ad ogni altra residenza, e vi fissarono stabile
dimora; ma tutti gli anni, per rispetto alla memoria di Sant'Aubert,
andavano a passar qualche mese nell'abitazione ove era stato allevato.

Emilia pregò lo sposo di permetterle che donasse a Bonnac il legato
ricevuto dalla signora Laurentini, e ciò le venne accordato col
massimo piacere. Il castello di Udolfo toccava egualmente alla sposa
di Bonnac, come più prossima parente della Laurentini; e cotesta
famiglia, lungamente infelice, gustò di nuovo l'abbondanza e la pace.

Oh! quanto sarebbe dolce il parlar a lungo della felicità de' due
sposi! dire con qual gioia, dopo aver sofferto l'oppressione de'
malvagi e lo sprezzo de' fiacchi, furono alfine restituiti l'uno
all'altro; con qual piacere ritrovarono i diletti luoghi della patria!
Quanto sarebbe dolce narrare, come, rientrati nella via che adduce più
sicuramente alla felicità, tenendo ognora alla perfezione
dell'intelletto, fruirono delle dolcezze d'una società illuminata, de'
piaceri d'una beneficenza attiva, e come i boschetti della valle
ritornarono il soggiorno della saviezza ed il tempio della domestica
felicità!

Possa almeno aver giovato il dimostrare, che il vizio può talvolta
affliggere la virtù, ma che il suo potere è passeggiero, e certo il
suo castigo, mentre, se la virtù è oppressa dall'ingiustizia,
appoggiata però alla pazienza, trionfa infine di qualunque infortunio!
E se la debole mano che scrisse questi eventi ha potuto sollevar un
momento il cuor mesto degli afflitti; se colla sua morale consolante
ha potuto insegnar loro a sopportarne il peso con rassegnazione, i
suoi umili sforzi non saranno stati vani, e l'autore avrà ottenuto la
sua ricompensa.


  FINE DEL QUARTO ED ULTIMO VOLUME.

  Milano 1875--Tip. Ditta Wilmant.





NOTA DEL TRASCRITTORE

La presente edizione del libro è una traduzione abbreviata e priva di
quasi tutte le parti in poesia. La versione originale completa in
inglese è disponibile su Project Gutenberg: The mysteries of Udolpho
(http://www.gutenberg.org/etext/3268).

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo
senza annnotazione minimi errori tipografici. In particolare, l'uso di
trattini e virgolette per introdurre il discorso diretto, molto
irregolare e incoerente, è stato per quanto possibile regolarizzato.

I seguenti refusi sono stati corretti [tra parentesi il testo
originale]:

  P.  7 - maggiore che non potete supporre [suporre].
     18 - la sua relazione [ralazione] con Valancourt
     22 - e le disse affettuosamente [affettuosomente]
     25 - mi darà la forza [forza la] di superare
     31 - con rispettoso [ripettoso] silenzio
     46 - Mi fu detto che la marchesa di Villeroy [Valleroy]
     78 - ed a qualche altra circostanza [ciscostanza]
     80 - udito battere, e le precauzioni [precauazioni]
     83 - del cacciatore è piacevole e salubre [solubre]
     90 - Avete voi appostata una vedetta [vendetta]
     96 - con molto riserbo del signor Valancourt [Valencurt]
    103 - aveva passato [passate] presso di lei momenti
    131 - la conversazione del parlatorio [palatorio]





End of the Project Gutenberg EBook of I misteri del castello d'Udolfo, vol. 4,
by  Ann Radcliffe

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DEL CASTELLO D'UDOLFO, VOL. 4 ***

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