I misteri del castello d'Udolfo, vol. 2

By Ann Ward Radcliffe

Project Gutenberg's I misteri del castello d'Udolfo, vol. 2,
by Ann Radcliffe

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Title: I misteri del castello d'Udolfo, vol. 2

Author: Ann Radcliffe

Release Date: September 20, 2010 [EBook #33782]

Language: Italian


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DEL CASTELLO D'UDOLFO, VOL. 2 ***




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              I MISTERI
                  DEL
          CASTELLO D'UDOLFO


                  DI
            ANNA RADCLIFFE


                VOL. II

                MILANO
           _Oreste Ferrario_

      Sotterranei Galleria Nuova,
  via Silvio Pellico, 6, scala n. 18
          e Santa Margherita




  [Illustrazione: La Camera misteriosa.

  _Cap. XXII_]




CAPITOLO XII


L'avarizia della zia d'Emilia cedè finalmente alla sua vanità. Qualche
splendido pranzo dato dalla Clairval, e l'adulazione generale ond'essa
era l'oggetto, aumentarono la premura della Cheron per assicurare una
parentela che l'avrebbe tanto illustrata a' propri occhi ed a quelli
del mondo. Propose il prossimo matrimonio di Emilia, ed offrì di
assicurarne la dote, purchè la Clairval facesse altrettanto pel
nipote. Questa ponderò la proposta, e considerando ch'Emilia era la
più prossima erede della Cheron, l'accettò senza difficoltà. Emilia
ignorava queste disposizioni, quando la zia l'avvertì di prepararsi
alle nozze che dovevano aver luogo senza indugio. La fanciulla,
sorpresa, non capiva il motivo di una sì istantanea conclusione, in
verun modo sollecitata da Valancourt. Ed infatti, non conoscendo le
convenzioni delle due zie, era ben lontano dallo sperare una sì gran
felicità. Emilia mostrò qualche opposizione, ma la Cheron, sempre
gelosa della sua autorità, insistè per il pronto matrimonio, colla
stessa veemenza, con cui ne aveva rigettate in principio le menome
apparenze. Tutti gli scrupoli di Emilia svanirono, quando Valancourt,
istruito allora della sua felicità, venne a scongiurarla di
confermargliene la certezza.

Mentre si facevano i preparativi di queste nozze, Montoni diveniva
l'amante dichiarato della Cheron. Ne fu malcontentissima la Clairval
quando udì parlare del loro imminente matrimonio, e voleva impedire
quello di Valancourt con Emilia; ma la coscienza le rappresentò, che
non aveva diritto di punirli dei torti altrui. Sebbene donna del gran
mondo, era però meno famigliarizzata della sua amica col metodo di far
dipendere la felicità dalla fortuna e dagli omaggi ch'essa attira,
anzichè dal proprio cuore.

Emilia osservò con ansietà l'ascendente acquistato da Montoni sulla
zia, come pure la maggior frequenza delle sue visite. La sua opinione
su questo Italiano era confermata da quella di Valancourt, il quale
aveva sempre esternato estrema avversione per lui. Una mattina ch'essa
lavorava nel padiglione, godendo della dolce frescura primaverile,
Valancourt leggeva vicino a lei, e tratto tratto deponeva il libro per
conversare. Fu avvisata che la zia voleva vederla subito; entrò nel
suo gabinetto, e paragonò sorpresa l'aria abbattuta della signora
Cheron col genere ricercato del di lei abbigliamento.

«Nipote mia...» diss'ella, e si fermò con qualche imbarazzo. «Vi ho
fatta cercare... io... io... voleva vedervi. Ho da darvi una
notizia... da questo momento voi dovete considerare il signor Montoni
come vostro zio; noi ci siamo maritati stamattina.»

Confusa, non tanto del matrimonio, quanto del segreto con cui era
stato fatto, dell'agitazione colla quale le venne annunziato, Emilia
attribuì siffatto mistero alla volontà di Montoni, piuttostochè a
quella di sua zia; ma questa non voleva che si credesse così.

«Voi vedete,» soggiuns'ella, «che ho voluto fuggire la pubblicità; ma
ora che la cerimonia è fatta, non m'importa più che si sappia. Vado
subito ad annunziare alla mia gente che il signor Montoni è il loro
padrone.»

Emilia fece quanto potè per felicitare la zia di un matrimonio così
imprudente.

«Voglio celebrare le mie nozze con tutto il fasto,» continuò la
signora Montoni, «e per non perder tempo, mi servirò dei preparativi
che furono fatti per le vostre, le quali verranno protratte un poco;
ma voglio che per far onore alla festa, voi vi abbigliate degli abiti
fatti pel vostro matrimonio. Desidero egualmente che facciate noto il
mio cambiamento di nome al signor Valancourt, il quale ne informerà la
signora Clairval. Fra pochi giorni voglio dare un pranzo magnifico, e
conto su di loro.»

Emilia era talmente attonita, che potè appena replicare alla zia, e, a
tenore del suo desiderio, tornò nel padiglione ad informar l'amante
dell'accaduto. La sorpresa non fu il primo sentimento di Valancourt,
sentendo parlare di queste nozze precipitose; ma quando seppe che le
sue erano differite, e che gli ornamenti preparati per abbellire
l'imeneo della sua Emilia, stavano per esser degradati servendo per la
signora Montoni, il dolore e lo sdegno agitarono a vicenda il suo
spirito. Non potè dissimularlo alla fanciulla; i di lei sforzi per
distrarlo e scherzare su questi timori repentini furono inutili.
Quando alla fine si separò da lei, era oppresso da una tenera
inquietudine che la colpì vivamente, e pianse senza saper perchè,
quando fu giunta all'ingresso del giardino.

Montoni prese possesso del castello colla facilità d'un uomo che da
lunga pezza lo riguardava come suo. Il suo amico Cavignì l'aveva
singolarmente servito prodigando alla Cheron le attenzioni e le
adulazioni ch'essa esigeva, ed alle quali Montoni pareva prestarsi con
pena; egli ebbe un appartamento nel castello, e fu obbedito dalla
servitù come lo stesso padrone.

Pochi giorni dopo, la signora Montoni, come l'aveva promesso, diede un
magnifico pranzo ad una numerosa società. Valancourt v'intervenne, ma
la Clairval se ne scusò. Vi fu accademia di musica e festa da ballo.
Valancourt, come di ragione, danzò con Emilia; egli non poteva
esaminare le decorazioni della festa, senza rammentarsi ch'erano
destinate per le sue nozze. Nonostante cercava di consolarsi, pensando
che fra poco i suoi voti sarebbero stati esauditi. La signora Montoni
ballò, rise e chiaccherò del continuo tutta la sera. Montoni però,
taciturno e riservato, sembrava ristucco di quel divertimento, e della
frivola società che ne formava l'oggetto.

Fu il primo e l'ultimo banchetto dato in occasione di quelle nozze.
Montoni, cui il carattere severo, e il taciturno orgoglio, impedivano
d'animare queste feste, era nondimeno dispostissimo a provocarle.
Trovava esso ben di rado nelle conversazioni un uomo che potesse
rivaleggiar con lui per lo spirito od il talento. Tutto il vantaggio,
in questa specie di riunioni, era dunque sempre dalla parte sua.
Conoscendo con quale egoismo si frequenta la società, temeva d'esser
vinto in simulazione, ovvero in considerazione, dovunque egli si
trovava. Ma la signora Cheron, quando trattavasi del proprio
interesse, aveva talfiata più discernimento che vanità. Conosceva essa
la sua inferiorità alle altre donne in tutte le qualità personali. La
gelosia naturale risultante da questa cognizione, ne contrariava
dunque l'inclinazione per le riunioni che offriva Tolosa. La sua
politica era cambiata; si opponeva con vivacità al gusto del marito
per il gran mondo, e non dubitava ch'egli non fosse per essere così
ben ricevuto da tutte le donne com'eralo stato allorchè faceva la
corte a lei.

Erano scorse poche settimane da questo matrimonio, quando la signora
Montoni partecipò ad Emilia il progetto di andare in Italia, tostochè
fossero finiti tutti i preparativi pel viaggio.

«Andremo a Venezia,» diss'ella; «Montoni vi possiede un bel palazzo, e
quindi passeremo al suo castello in Toscana. Perchè prendete voi
un'aria così seria, figliuola? Voi che amate tanto le belle vedute,
dovreste essere incantata di questo viaggio.

--Devo forse venire anch'io?» disse Emilia con emozione e sorpresa
insieme.

--Sì, certo,» replicò la zia; «come potete supporre che noi vogliamo
lasciarvi qui? Ah! vedo che pensate al cavaliere. Io credo che non
sappia nulla, ma lo saprà sicuramente quanto prima. Montoni è uscito
per darne parte alla signora Clairval, ed annunziarle che i nodi
proposti fra le nostre famiglie sono sciolti irremissibilmente.»

L'insensibilità colla quale la Montoni faceva sapere alla nipote che
la separavano, forse per sempre, dall'uomo al quale doveva unirsi per
tutta la vita, aumentò vie più la disperazione dell'infelice a tal
notizia. Quando potè parlare, domandò il motivo di tal cangiamento a
riguardo di Valancourt; e l'unica risposta che ne ottenne fu, che
Montoni aveva proibito questo matrimonio, attesochè Emilia poteva
aspirare a partiti assai più vantaggiosi.

«Io lascio attualmente tutta questa faccenda a mio marito,» soggiunse
la Montoni; «ma devo convenire che il signor Valancourt non mi è
piaciuto mai, e che non avrei mai dovuto dare il mio consenso. Son
debole assai; bene spesso son così buona, che le pene altrui mi
rattristano, e la vostra afflizione la vinse sulla mia opinione. Il
signor Montoni però mi ha dimostrato con molta chiarezza la follia
ch'io faceva, ma non avrà certo a rimproverarmela una seconda volta.
Pretendo assolutamente la vostra sommissione a quelli che conoscono
meglio di voi i vostri interessi, e ci dovete obbedire in tutto.»

Emilia sarebbe stata sorpresa dalle asserzioni e dall'eloquenza di
questo discorso, se tutte le di lei facoltà, annientate dalla scossa
ricevuta, le avessero permesso d'intenderne una sola parola. Qualunque
fosse la debolezza della signora Montoni, avrebbe potuto risparmiarsi
il rimprovero di una eccessiva compassione e d'una prodigiosa
sensibilità ai mali altrui, e soprattutto a quelli di Emilia. Quella
medesima ambizione che l'aveva indotta a brigare il parentado della
Clairval, formava oggi il soggetto della rottura. Il suo matrimonio
con Montoni esaltava ai di lei occhi la propria importanza, e
conseguentemente cambiava le sue mire per Emilia.

Questa interessante fanciulla era troppo afflitta per far valere le
sue ragioni, o scendere a preghiere. Quando finalmente volle far uso
di quest'ultimo mezzo, le mancò la parola, e si ritirò nella sua
camera per riflettere, se ciò le fosse stato possibile, ad un colpo
così inaspettato e tremendo.

Passò gran pezza prima che si fosse riavuta abbastanza da porsi a
riflettere; ma il pensiero che le si affacciò fu tristo e terribile.
Credè che Montoni volesse disporre di lei pel proprio vantaggio, e
pensò che Cavignì fosse la persona per la quale si interessasse. La
prospettiva del viaggio d'Italia diveniva ancor più disgustosa, quando
considerava la situazione turbolenta di quel paese lacerato dalle
guerre civili, in preda a tutte le fazioni, e dove ogni castello si
trovava esposto all'invasione del partito avverso. Considerò a qual
persona era rimesso il suo destino, ed a qual distanza si sarebbe
trovata da Valancourt. A tale idea, svanì qualunque altra immagine, ed
il dolore immerse nella confusione tutti i suoi pensieri.

Passò qualche ora in questo stato doloroso; quando fu avvertita per il
pranzo, volle scusarsene. La Montoni però, ch'era sola, non volle
acconsentirvi, e le convenne obbedire. Parlarono pochissimo durante il
pranzo. L'una era oppressa dal suo dolore, e l'altra indispettita
dell'assenza inaspettata di Montoni. La sua vanità era offesa da
siffatta negligenza, e la gelosia l'allarmava principalmente su di ciò
ch'ella chiamava un impegno misterioso. Non ostante Emilia si provò a
parlar nuovamente di Valancourt, ma la zia, insensibile a pietà ed ai
rimorsi, divenne quasi furiosa perchè si permettessero osservazioni
sulla di lei autorità e su quella di Montoni; in conseguenza la povera
Emilia si ritirò piangendo.

Traversando il vestibolo, udì entrare qualcuno dalla porta grande; le
parve di vedere Montoni e raddoppiò il passo; ma riconobbe tosto la
voce diletta di Valancourt.

«Emilia, mia cara Emilia!» sclamò egli col tuono dell'impazienza, a
misura che si avanzava e che scuopriva le orme della disperazione sul
volto di lei. «Emilia, bisogna ch'io vi parli; ho da dirvi mille cose;
conducetemi in qualche parte ove possiamo parlare con libertà. Ma! voi
tremate, vi sentite male; lasciate ch'io vi conduca ad una sedia.»

Vide una porta aperta, e si provò a condurre Emilia colà; ma essa,
ritirando la mano, gli disse sorridendo languidamente:

«Sto già meglio. Se volete parlare con mia zia, è nel salotto.

--Voglio parlare con _voi sola_, mia cara Emilia,» replicò Valancourt.
«Gran Dio! Siete già arrivata a questo punto? Acconsentite voi così
facilmente a dimenticarmi? questo luogo non ci conviene, possiamo
essere intesi. Non voglio da voi che un solo quarto d'ora di
attenzione.

--Sì, quando avrete veduto mia zia,» disse Emilia.

--Io era già infelice, venendo qui,» esclamò Valancourt; «non
aumentate il mio affanno con questa freddezza e con questo crudele
rifiuto.»

L'energia colla quale pronunciò tali parole, la commosse fino alle
lagrime, ma persistè nella negativa d'ascoltarlo fintantochè non
avesse veduto la signora Montoni.

«Dov'è suo marito, dov'è egli questo Montoni?» disse Valancourt con
voce alterata; «debbo parlar giusto con lui.»

Emilia, spaventata delle conseguenze dello sdegno che sfavillava ne'
di lui occhi, l'assicurò con voce tremante che Montoni non era in
casa, e lo scongiurò di moderare il risentimento. Agli accenti
interrotti della di lei voce, gli sguardi di Valancourt passarono
tosto dal furore alla tenerezza.

«Vi sentite male, Emilia,» diss'egli, «e vogliono perderci amendue.
Perdonatemi se ho ardito dubitare della vostra tenerezza.»

Emilia non s'oppose più ad accordargli un colloquio nella stanza
vicina. La maniera colla quale aveva nominato Montoni, aveale
cagionato i più fondati timori sul pericolo cui poteva correre egli
stesso; non pensò più se non a prevenire le terribili conseguenze
della sua vendetta. Ascoltò egli attento le di lei preghiere, e non vi
rispose che con occhiate di disperazione e di tenerezza. Nascose alla
meglio il suo risentimento per Montoni, e si sforzò di acchetare i di
lei terrori; ma Emilia, poco contenta di quell'apparente tranquillità,
si turbò ancor davvantaggio, e procurò di far conoscere a Valancourt
l'inconveniente di un alterco con Montoni, lo che avrebbe potuto
rendere la loro separazione irrimediabile. Cedè egli alle tenere
preghiere, e le promise che, per quanto grande potesse essere
l'ostinazione di Montoni, non farebbe mai uso della violenza per
conservare i suoi diritti.

Emilia si sforzò di calmarlo coll'assicurazione di un attaccamento
inviolabile. Gli fe' osservare che fra un anno circa sarebbe stata
maggiorenne, e che per conseguenza allora sarebbe uscita di tutela.
Queste assicurazioni però consolavano poco Valancourt: egli
considerava che allora essa sarebbe in Italia, ed in balia di coloro
il cui potere su di lei non sarebbe cessato tanto facilmente co' loro
diritti. Emilia, alquanto calmata dalla promessa ottenuta e dalla
tranquillità ch'egli affettava, stava per lasciarlo, quando la zia
entrò nella stanza. Gettò essa un'occhiata di rimprovero sulla nipote,
che si ritirò subito, e una di malcontento e d'alterigia sull'infelice
giovane.

«Non è questa la condotta ch'io mi aspettava da voi,» diss'ella, «o
signore; io non credeva di vedervi più in casa mia dopo avervi fatto
avvertire che le vostre visite non mi tornavano più gradite. Credeva
ancor meno, che voi cercaste di vedere clandestinamente mia nipote, e
ch'ella avesse l'imprudenza di acconsentire a ricevervi.»

Valancourt, vedendo esser necessario di giustificare Emilia, protestò
che l'unico scopo della sua visita era stato quello di domandare un
abboccamento a Montoni, e ne spiegò i motivi colla moderazione che il
sesso, più che il carattere di quella donna superba, poteva solo
esiger da lui.

Le sue preghiere furono ricevute con asprezza. La zia si lagnò che la
sua prudenza avesse ceduto a quant'essa chiamava la sua compassione,
aggiungendo infine che conoscendo benissimo la follia della sua prima
condiscendenza, e volendo evitare di ricadervi, rimetteva intieramente
ed esclusivamente quest'affare al marito.

L'eloquenza sentimentale del giovane le fece alfine comprendere
l'indegnità della sua condotta; essa conobbe la vergogna, ma non il
rimorso. S'indispettì che Valancourt l'avesse ridotta a quella penosa
situazione, ed il suo odio crebbe colla coscienza dei propri torti.
L'antipatia ch'egli le ispirava era tanto più forte, in quanto che,
senza accusarla, la costringeva a convincersi da sè stessa. Non le
lasciava una scusa per la violenza del risentimento col quale lo
considerava. Alla perfine, la sua collera divenne così violenta, che
Valancourt si decise di uscire al momento, affine di non perdere la
propria stima in una risposta poco misurata, e si convinse appieno che
non doveva sperare nè pietà, nè giustizia da una persona che sentiva
il peso delle male opere, e non l'umiltà del pentimento.

Si era formata l'istessa idea di Montoni, essendo chiaro che il piano
della separazione veniva direttamente da lui. Non era probabile
ch'egli abbandonasse il suo disegno per preghiere o ragioni che doveva
aver prevedute, e contro le quali era preparato. Intanto, fedele alle
promesse fatte ad Emilia, più occupato del suo amore, che geloso della
propria dignità, Valancourt si guardò bene dall'irritar Montoni senza
necessità. Gli scrisse, non per domandargli un abboccamento, ma per
sollecitare il suo favore, e ne attese la risposta con qualche
tranquillità.




CAPITOLO XIII


La signora Clairval si teneva in disparte da tutto quell'intrigo:
quando aveva acconsentito al matrimonio di Valancourt, era nella
credenza che Emilia avrebbe ereditato dalla zia. Allorchè il
matrimonio di quest'ultima l'ebbe disingannata su tal proposito, la
coscienza le impedì di rompere un'unione quasi formata; ma la sua
benevolenza non andava al punto da spingerla a fare un passo che
avesse a deciderla intieramente. Si felicitava che Valancourt fosse
sciolto da un impegno ch'essa credeva tanto al disotto di lui per le
sostanze, quanto Montoni giudicava umiliante tal parentado per la
bellezza di Emilia. La Clairval poteva stimarsi offesa, che un
individuo della sua famiglia fosse stato così congedato; ma non si
degnò di esprimerne il suo risentimento in altro modo che col
silenzio.

Montoni, nella sua risposta, assicurò Valancourt che un abboccamento,
non potendo nè cambiare la risoluzione dell'uno, nè vincere i
desiderii dell'altro, non finirebbe che in un diverbio affatto
inutile, e che per ciò credeva bene di non accordarglielo.

La moderazione tanto raccomandatagli da Emilia, e le promesse fattele,
poterono sole trattenere l'impetuosità di Valancourt, che voleva
correre da Montoni a domandar con fermezza quanto veniva ricusato alle
sue preghiere. Si limitò dunque a rinnovare le sue istanze, e le
appoggiò con tutte le ragioni che poteva somministrare la sua
posizione. Passarono alcuni giorni in domande da una parte, e
nell'inflessibilità dall'altra. Fosse per timore, o per vergogna, o
per l'odio che risultava da questi due sentimenti, Montoni evitava
accuratamente colui che aveva tanto offeso; non era nè intenerito dal
dolore espresso nelle lettere di Valancourt, nè colpito dal pentimento
per le solide ragioni in esse contenute. In fine, le lettere
dell'infelice giovine furono respinte senza essere aperte. Nella sua
prima disperazione, obliò tutte le promesse eccettuata quella di
evitare la violenza, e corse al castello, risoluto di veder Montoni, e
porre tutto in opra per riuscirvi. L'Italiano fece dire che non era in
casa, ed allorchè Valancourt chiese di parlare alla signora o ad
Emilia, gli fu negato positivamente l'ingresso. Non volendo impegnarsi
in alterchi coi servitori, partì e tornò a casa in uno stato di
frenesia: scrisse l'accaduto a Emilia, esprimendole senza riserva le
angosce dell'anima; e la scongiurò, giacchè restava solo questo
ripiego, di accordargli un abboccamento segreto.

Appena quella lettera fu spedita, la sua alterazione si calmò: conobbe
il fallo commesso, aumentando le pene di Emilia colla descrizione
troppo sincera de' suoi guai. Avrebbe dato la metà del mondo per
ricuperare quella lettera imprudente. Emilia però fu preservata dal
dolore che avrebbe provato ricevendola. La signora Montoni aveva
ordinato che le fossero portate tutte le lettere dirette alla nipote:
la lesse, e montata sulle furie per la maniera con la quale Valancourt
vi trattava Montoni, la bruciò.

Montoni, intanto, sempre più impaziente di lasciar la Francia,
sollecitava i preparativi della partenza, e terminava in fretta ciò
che gli restava da fare. Osservò il più profondo silenzio sulle
lettere nelle quali Valancourt, disperando d'ottener di più, e
moderando la passione che avealo fatto trascendere, sollecitava il
permesso soltanto di dire addio ad Emilia. Ma quando il giovane intese
che sarebbe partita fra pochi giorni, e ch'era stato deciso che non la
rivedrebbe più, perdè ogni prudenza, e in una seconda lettera le
propose un matrimonio segreto. Questa lettera andò come l'altra nelle
mani della signora Montoni, e venne la vigilia della partenza senza
che Valancourt avesse ricevuto una sola riga di consolazione, o la
menoma speranza di un ultimo abboccamento.

Intanto Emilia era inabissata nello stupore prodotto da tante
disgrazie inaspettate ed irrimediabili. Essa amava Valancourt col più
tenero affetto; erasi abituata da lunga pezza a considerarlo come
l'amico ed il compagno di tutta la vita; non avea un pensiero di
felicità al quale non fosse unita la sua idea. Qual doveva esser
dunque il suo dolore al momento di una separazione così inaspettata, e
forse eterna, e ad una distanza tale, dove le nuove della loro
esistenza potrebbero appena giugnere, e tutto questo per obbedire ai
voleri di uno straniero, a quelli d'una persona che provocava non ha
guari ancora il loro matrimonio? Invano procurava essa di vincere il
suo dolore, e rassegnarsi ad una sciagura inevitabile. Il silenzio di
Valancourt l'affliggeva ancor più, perchè non sapeva attribuirlo al
suo vero motivo; ma quando, alla vigilia di lasciar Tolosa, seppe che
non erale permesso di salutarlo, il dolore l'oppresse maggiormente, e
non potè trattenersi dal domandare alla zia se le fosse stata
positivamente negata questa consolazione, ciò che le fu barbaramente
confermato.

«Se il cavaliere avesse voluto ottener da noi questo favore,»
diss'ella, «avrebbe dovuto contenersi diversamente. Egli doveva
aspettare con pazienza che noi fossimo disposti ad accordarglielo; non
mi avrebbe rimproverata perchè persisteva a negargli mia nipote, e non
avrebbe molestato il signor Montoni, il quale non credeva conveniente
di entrare in discussione su questa ragazzata. La di lui condotta in
quest'affare è stata affatto presuntuosa e importuna; desidero di non
sentir mai più parlar di lui, e che ci liberiate da cotesta ridicola
tristezza, da cotesti sospiri, da cotesta aria cupa, la quale farebbe
credere che voi siate sempre disposta a piagnucolare; fate come tutti
gli altri; il vostro silenzio non basta a nascondere la vostra
inquietudine alla mia penetrazione; vedo bene che siete disposta a
piangere in questo momento, sì in questo momento istesso, a dispetto
della mia proibizione.»

Emilia, che si era voltata dall'altra parte per nascondere le sue
lacrime, si ritirò a precipizio per versarne in copia. Fu sì grande la
di lei agitazione nel riflettere al suo stato e all'idea di non veder
più Valancourt, che sentissi venir meno. Appena si fu riavuta un poco,
si affacciò alla finestra, e l'aria fresca della notte la rianimò
alquanto. Il chiaro di luna, cadendo sopra un lungo viale di olmi,
sotto di lei, invitolla a tentare se il moto e l'aria aperta non
calmerebbero l'irritazione di tutti i suoi nervi. Tutti dominavano nel
castello: Emilia scese lo scalone, e traversando il vestibolo, penetrò
cautamente nel giardino per un andito solitario. Camminava più o meno
celeremente, secondo che le ombre la ingannavano, credendo vedere
qualcuno da lontano, e temendo non fosse qualche spione di sua zia.
Frattanto, il desiderio di rivedere il padiglione, nel quale aveva
passati tanti momenti felici con Valancourt, dove aveva ammirato seco
lui le belle pianure della Linguadoca, e la Guascogna sua cara patria,
questo desiderio la vinse sul timore di essere osservata, e andò verso
il terrazzo, che si prolungava sino all'ingresso del giardino,
dominando gran parte della sottoposta prateria, alla quale si scendeva
per una marmorea scalea. Quando fu alla scala, sostò un momento
guardando intorno. La distanza del castello aumentava la specie di
spavento che le cagionavano il silenzio, l'ora e l'oscurità; ma non
iscorgendo nulla che potesse giustificare i suoi timori, salì sul
terrazzo, onde il chiaro di luna scopriva l'ampiezza, e mostrava il
padiglione in fondo. Si avanzò verso questo, e vi entrò; l'oscurità
del luogo non era adatta a diminuire la sua timidezza. Le gelosie
erano aperte, ma le piante dei fiori ingombravano l'esterno delle
finestre, lasciando appena vedere a traverso i rami il paese
fiocamente illuminato dalla luna. Avvicinandosi ad una finestra, essa
non gustava di quello spettacolo se non in quanto potea servirla a
richiamarle alla fantasia più vivamente l'immagine di Valancourt.

«Ah!» sclamò con un gran sospiro, gettandosi sopra una sedia; «quante
volte ci siamo seduti in questo luogo! Quante volte abbiamo noi
contemplato questa bella vista! Non l'ammireremo più insieme? mai,
forse non ci rivedremo mai più!»

D'improvviso, lo spavento ne sospese le lagrime: avendo udito una voce
vicina a lei nel padiglione, gettò un grido, ma lo strepito
ripetendosi, distinse la voce amata di Valancourt. Era egli stesso,
era il giovane che la teneva in braccio. In quell'istante la
commozione le tolse l'uso della parola.

«Emilia,» disse alfine Valancourt, tenendole una mano stretta tra le
sue, «mia cara Emilia!» Tacque nuovamente, e l'accento col quale aveva
pronunziato questo nome, esprimeva la sua tenerezza insieme ed il suo
dolore.

«O Emilia mia!» soggiuns'egli dopo una lunga pausa; «vi riveggo
ancora, ed ascolto ancora il suono della vostra voce! Ho errato
intorno a questi luoghi e a questo giardino per tante notti, nè aveva
che una debolissima speranza di rivedervi! Era questa la sola risorsa
che mi restava; grazie al cielo non mi è mancata.»

Emilia pronunziò qualche parola senza saper quasi ciò che dicea,
espresse il suo inviolabile affetto, e si sforzò di calmare
l'agitazione di Valancourt. Quando egli si fu un poco rimesso, le
disse:

«Io son venuto qui subito dopo il tramonto del sole, nè ho cessato poi
dal percorrere i giardini ed il padiglione. Aveva abbandonato
qualunque speranza di vedervi; ma non sapeva risolvermi a staccarmi da
un luogo ove vi sapeva così vicino a me, e sarei probabilmente rimasto
tutta notte in questi contorni. Ma quando apriste il padiglione,
l'oscurità m'impediva di distinguere con certezza se fosse la mia cara
Emilia: il cuore mi batteva così forte per la speranza ed il timore
ch'io non poteva parlare. Appena intesi gli accenti lamentosi della
vostra voce, ogni dubbio svanì, ma non i miei timori, fintantochè non
pronunziaste il mio nome. Nell'eccesso della gioia, non ho pensato
allo spavento che vi avrei cagionato; ma non poteva più tacere. Oh!
Emilia, in momenti così preziosi, la consolazione e il dolore lottano
con tanta forza, che il cuore può a stento sopportarne la tenzone.»

Il cuore d'Emilia sentiva questa verità; ma la gioia di riveder
l'amante nel momento in cui si accorava di esserne separata per
sempre, si confuse presto col dolore, quando la riflessione guidò la
sua immaginazione sull'avvenire. Faceva essa ogni sforzo per
ricuperare la calma e dignità tanto necessarie per sostenere
quest'ultimo colloquio. Valancourt non poteva moderarsi; i trasporti
della gioia si cangiarono improvvisamente in quelli della
disperazione; ed espresse col linguaggio il più appassionato l'orrore
della separazione, e la poca probabilità d'una possibile riunione.
Emilia procurava contenere la propria tristezza, e addolcire quella
dell'amante.

«Voi mi lasciate,» le dicea egli, «voi andate in terra straniera! E a
qual distanza! Voi andate a trovare nuove società, nuovi amici, nuovi
ammiratori; si sforzeranno di farvi scordare di me, e vi saranno
preparati nuovi nodi. Come poss'io saper tutto questo, e non sentire
che non tornerete più per me, che non sarete mai più mia?» La voce gli
mancò soffocata dai singulti.

«Credete voi dunque,» diss'Emilia, «che la mia afflizione nasca da un
affetto leggiero e momentaneo? Potete voi crederlo?

--Soffrire!» interruppe Valancourt; «soffrir per me! Emilia mia,
quanto son dolci, e quanto amare al tempo stesso queste parole! Io non
devo dubitare della vostra costanza; eppure, tal è l'inconseguenza del
vero amore; è esso sempre pronto a sospettare; e quand'anche la
ragione lo riprova, egli vorrebbe sempre una nuova assicurazione.
Adesso vi veggo, vi stringo tra le mie braccia: ancora pochi momenti,
e non sarà più che un sogno: guarderò, e non vi vedrò più... Io
rinasco da morte a vita, quando mi dite che vi son caro; ma appena non
vi ascolto più, ricado nella dubbiezza, e mi abbandono alla
diffidenza.» Poi, sembrando raccogliersi, esclamò: «Quanto son
colpevole di tormentarvi così in questi momenti nei quali dovrei
consolarvi, e sostenere il vostro coraggio!»

Questa riflessione lo intenerì singolarmente. La sua voce e le sue
parole erano così appassionate, che Emilia, non potendo più contenere
il proprio, cessò di reprimere il dolore di Valancourt, il quale in
cotesti istanti terribili di amore e di pietà perdè quasi il potere e
la volontà di signoreggiare la sua agitazione.

«No,» esclamò, «io non posso, non deggio lasciarvi. Perchè affideremo
noi la felicità della nostra vita alle volontà di coloro che non hanno
il diritto di distruggerla, e non possono contribuirvi se non
concedendovi a me? O Emilia! osate fidarvi al vostro cuore! Osate
esser mia per sempre!» La voce gli tremava, e non disse di più. Emilia
piangeva e taceva. Valancourt le propose di sposarsi segretamente.
«Alla punta del giorno lascerete la casa della signora Montoni, e mi
seguirete alla chiesa di Sant'Agostino, ove ci attende un sacerdote
per unirci.»

Il silenzio col quale la fanciulla ascoltò una proposta dettata
dall'amore e dalla disperazione, in un momento in cui era appena
capace di respingerla, quando il suo cuore era intenerito dal dolore
d'una separazione, che poteva essere eterna, quando la sua ragione era
in preda alle illusioni dell'amore e del terrore; questo silenzio
incoraggì le speranze di Valancourt. «Parlate, mia cara Emilia,» le
diss'egli con ardore; «lasciatemi ascoltare il suono della vostra voce
soave; fate che intenda da voi la conferma del mio destino.» Essa
rimase muta, un freddo brivido l'assalse, e svenne. L'immaginazione
turbata di Valancourt se la figurò moribonda. La chiamò per nome, e si
alzava per andar a chieder soccorso al castello; ma pensando alla di
lei situazione, fremette all'idea di uscire e lasciarla in quello
stato.

Dopo qualche momento ella sospirò e rinvenne. Il contrasto da lei
sofferto fra l'amore e il dovere, la sommissione alla sorella di suo
padre, la ripugnanza ad un matrimonio clandestino, il timore d'un nodo
indissolubile, la miseria ed il pentimento in cui essa poteva
immergere l'oggetto de' suoi affetti, erano motivi troppo forti per
uno spirito affralito dalle sciagure, e la sua ragione era rimasta
alquanto sospesa. Ma il dovere e la saviezza, per quanto potessero
esser penosi trionfarono finalmente della tenerezza e de' suoi tristi
presentimenti. Essa temeva specialmente di gettar Valancourt
nell'oscurità, ed in quei vani rimorsi che sarebbero, o le parevan
dover essere la conseguenza necessaria di un matrimonio nella loro
posizione. Ella si condusse senza dubbio con una grandezza d'animo
poco comune, quando risolse di provare un male presente, piuttosto che
provocare una disgrazia futura.

Si spiegò con un candore che giustificava pienamente a qual punto essa
lo stimasse ed amasse, e perciò gli divenne, se fosse stato possibile,
ancor più cara. Gli espose tutti i motivi che la decidevano a
rigettare la sua offerta. Egli confutò, o piuttosto contraddisse tutti
quelli che riguardavano lui solo; ma gli altri lo richiamarono a
tenere considerazioni su di lei, che il furore della passione e della
disperazione gli avevano fatto obliare. Quel medesimo amore che
facevagli proporre un matrimonio segreto ed immediato, l'obbligava
allora a rinunziarvi. La vittoria costava troppo al suo cuore; si
sforzava di calmarsi per non affliggerla maggiormente, ma non poteva
dissimulare tutto quel che sentiva. «O Emilia,» diss'egli, «bisogna
ch'io vi lasci, e son certo che vi lascio per sempre.»

Singulti convulsi l'interruppero, e amendue piansero a calde lacrime.
Rammentandosi finalmente il pericolo di essere scoperti, e
l'inconveniente di prolungare un colloquio che l'esporrebbe all'altrui
censura, Emilia si fece coraggio, e pronunziò l'ultimo addio.

«Restate» disse Valancourt, «restate ancora un momento, ve ne
scongiuro; ho da dirvi mille cose. L'agitazione del mio spirito non mi
ha permesso di parlarvi d'un sospetto importantissimo; ho temuto
mostrarmi poco discreto, e sembrare aver unicamente in mira di
allarmarvi, per farvi accettare la mia proposta.»

Emilia, turbata, non lo lasciò, ma lo fece uscire dal padiglione, e
passeggiando sul terrazzo, Valancourt continuò:

«Quel Montoni! Io ho udito voci molto strane sul conto suo. Siete voi
ben sicura ch'egli sia realmente della famiglia della signora Quesnel,
e che la di lui fortuna sia tale quale sembra essere?

--Non ho ragione di dubitarne,» rispose Emilia con sorpresa; «son
certa del primo punto, ma non ho alcun mezzo di giudicar del secondo;
e vi prego dirmi tutto quel che ne sapete.

--Lo farò per certo, ma questa informazione è imperfettissima e poco
soddisfacente. Il caso mi ha fatto incontrare un Italiano che
discorreva con qualcuno di questo Montoni, parlavano essi del suo
matrimonio, e l'Italiano diceva che s'era quello che s'immaginava, la
signora Cheron non sarebbe troppo felice. Continuò esso a parlarne con
pochissima considerazione, ma in termini generali e disse certe cose
sul di lui carattere, che eccitarono la mia curiosità. Gli feci
qualche domanda, ma egli fu riservato nelle risposte; e dopo avere
esitato qualche tempo, confessò che Montoni, secondo la voce pubblica,
era un uomo perduto negli averi e nella riputazione. Aggiunse qualcosa
d'un castello che possiede in mezzo agli Appennini, e qualche altra
circostanza relativa al suo primo genere di vita: lo strinsi
maggiormente, ma il vivo interesse delle mie domande fu, per quanto io
credo, troppo visibile, e lo insospettì. Nessuna preghiera fu capace a
determinarlo di spiegarmi le circostanze cui aveva fatto allusione, o
a dirne di più: gli osservai che se Montoni possedeva un castello
negli Appennini, ciò sembrava indicare una nascita distinta, e
contraddire la supposizione della sua rovina. L'incognito scosse la
testa e fece un gesto significantissimo, ma non rispose.

«La speranza di saper qualcosa di più positivo mi trattenne a lungo
vicino a lui; rinnovai più volte le mie domande, ma l'Italiano stette
in una perfetta riservatezza, dicendomi che tutto quanto aveva esposto
non era se non il risultato d'una diceria vaga; che l'odio e la
malignità inventavano spesso simili istorie, e bisognava crederci
poco. Mi vidi dunque costretto di rinunziare a saperne davvantaggio,
poichè l'Italiano pareva allarmato delle conseguenze della sua
indiscrezione. Restai perciò nell'incertezza su d'un oggetto in cui
essa è quasi insopportabile. Pensate, cara Emilia, a quanto debbo
soffrire; vi vedo partire per terre straniere con un uomo di carattere
tanto sospetto, come quello di cotesto Montoni, ma non voglio
allarmarvi senza necessità; è probabile, come lo ha detto l'Italiano,
che questo Montoni non sia quello di cui egli parlava; nonpertanto,
riflettete, mia cara, prima di affidarvi a lui. Ma ormai mi scordava
tutte le ragioni che poco fa mi hanno fatto abbandonare le mie
speranze, e rinunziare al desiderio di possedervi subito.»

Valancourt passeggiava a gran passi sul terrazzo, mentre Emilia,
appoggiata al parapetto, stava immersa in profonda meditazione. La
notizia allor ricevuta l'allarmava moltissimo, e rinnovava il suo
interno contrasto. Essa non aveva mai amato Montoni. Il fuoco de' suoi
occhi, la fierezza dei suoi sguardi, il di lui orgoglio, la sua
audacia, la profondità del suo risentimento, che alcune occasioni,
benchè leggere, avevano messo in caso di sviluppare, erano altrettante
circostanze ch'essa avea sempre osservato con certo quale stupore; e
l'espressione ordinaria de' suoi lineamenti avevale sempre inspirata
antipatia. Credeva essa ogni momento più che fosse quello il Montoni
del quale aveva parlato l'Italiano. L'idea di trovarsi sotto il suo
dominio assoluto in paese straniero, le sembrava spaventosa; ma il
timore non era il solo motivo che dovesse indurla ad un matrimonio
precipitato. L'amore più tenero le aveva già parlato a favore
dell'amante, e nella sua opinione non aveva potuto vincerla sul
proprio dovere, sull'interesse ben anco di Valancourt, e sulla
delicatezza che la faceva opporre ad un matrimonio clandestino. Non
conveniva dunque aspettare che il terrore operasse più di quello che
non avesser potuto il dolore e l'amore; ma questo terrore restituì ai
motivi già combattuti tutta la loro energia, e rese necessaria una
seconda vittoria. Valancourt, i cui timori per Emilia divenivano
sempre più forti, a misura che ne pesava le ragioni, non poteva
adattarsi a questa seconda vittoria. Era più che persuaso che il
viaggio d'Italia avrebbe immerso la sua Emilia in un laberinto di
mali. Egli era dunque risoluto di opporvisi pertinacemente, e di
ottenere da lei un titolo, per divenire il suo legittimo protettore.

«Emilia,» diss'egli col più vivo ardore, «questo non è il momento
degli scrupoli; non è il momento di calcolare gl'incidenti frivoli e
secondari relativamente alla nostra felicità avvenire. Vedo adesso,
più che mai, quali sono i pericoli ai quali andate incontro con un
uomo del carattere di Montoni. Il discorso dell'Italiano fa temere
molto, ma meno assai della fisonomia, e dell'idea ch'essa mi ha
formata di lui; vi scongiuro per il vostro interesse, e pel mio, di
prevenire le disgrazie che mi fanno fremere a prevederle soltanto....
Cara Emilia! soffrite che la mia tenerezza e le mie braccia ve ne
allontanino; datemi il diritto di difendervi. Io son lacerato dal
dolore all'idea della nostra separazione, e dei mali che possono
esserne la conseguenza. Non vi son pericoli ch'io non sia capace di
affrontare per salvarvi. No, Emilia, no, voi non mi amate.

--Abbiamo pochi momenti da perdere in recriminazioni e giuramenti,»
disse questa sforzandosi di nascondere l'emozione; «se voi dubitate
quanto mi siete caro, e quanto lo sarete eternamente, allora non vi è
espressione da parte mia che sia capace di convincerne.» Queste ultime
parole spirarono sulle sue labbra, e proruppe in largo pianto. Dopo
alcuni istanti, si riebbe da quello stato di tristezza, e gli disse:
«Bisogna ch'io vi lasci: è tardi, e nel castello potrebbero accorgersi
della mia assenza. Pensate a me, amatemi, quando sarò lungi di qui. La
mia fiducia a tal proposito formerà tutta la mia consolazione.

--Pensare a voi, amarvi!» sclamò Valancourt.

--Tentate di moderare siffatti trasporti per amor mio, tentatelo!

--Per amor vostro!

--Sì, per amor mio,» disse la fanciulla con voce tremante; «non posso
lasciarvi in questo stato.

--Ebbene, non mi lasciate,» rispose Valancourt; «perchè lasciarci, o
almeno lasciarci prima dell'albeggiare del dì?

--È impossibile,» soggiunse Emilia; «voi mi straziate il cuore; ma non
acconsentirò mai a questa proposta imprudente e precipitata.

--Se potessimo disporre del tempo, Emilia cara, essa non sarebbe tanto
precipitata. Bisogna sottoporci alle circostanze.

--Sì, certo, bisogna sottomettervici. Io vi ho già aperto il cuore: or
mi sento spossata.

--Perdonate, Emilia; pensate al disordine del mio spirito in questo
momento in cui sto per lasciare tutto ciò che ho di più caro al mondo.
Quando sarete partita, mi ricorderò con rimorso di tutto quanto vi
feci soffrire; allora desidererò invano di vedervi, non foss'altro
per un istante solo, per lenire il vostro dolore.»

Le lagrime lo interruppero; Emilia pianse con lui.

«Mi mostrerò più degno del vostro amore,» disse Valancourt alfine;
«non prolungherò questi crudeli istanti, Emilia mia, unico mio bene,
non dimenticatemi mai: Dio sa quando ci rivedremo. V'affido alla
Provvidenza. O Dio, Dio mio, proteggetela, beneditela!»

Si strinse la di lei mano al cuore: Emilia gli cadde quasi esanime sul
seno. Non piangevan più, non si parlavano. Valancourt, allora repressa
la sua disperazione, tentò di consolarla e rincorarla. Ma essa parea
incapace di comprenderlo, ed un sospiro che esalava per intervalli
provava solo che non era svenuta.

Ei la sorreggeva camminando a lenti passi verso il castello, piangendo
e parlandole sempre. Ella rispondea sol co' sospiri. Giunti alfine a
capo del viale, parve rianimarsi, e guardandosi intorno:

«Qui bisogna separarsi,» diss'ella sostando. «Perchè prolungar questi
momenti? Rendetemi quel coraggio del quale ho tanto bisogno. Addio,»
soggiunse con voce languida; «quando sarete partito, mi ricorderò di
mille cose ch'io doveva dirvi.

--Ed io! di tante e tante altre,» rispose Valancourt; «non vi ho mai
lasciata senza ricordarmi subito dopo d'una domanda, d'una preghiera,
e d'una circostanza relativa al nostro amore, ch'io ardeva dal
desiderio di comunicarvi, ma che mi sfuggiva dalla fantasia appena vi
vedeva. O Emilia! quelle fattezze ch'io contemplo in questo momento,
fra poco saranno lontane da' miei sguardi, e tutti gli sforzi
dell'immaginazione non potranno delinearmeli con sufficiente
esattezza...»

Ciò detto se la strinse di nuovo al seno, ove la tenne in silenzio
bagnandola delle sue lagrime, che vennero pure a sollevare l'ambascia
della fanciulla. Si dissero addio, e si separarono. Valancourt
sembrava fare ogni sforzo per allontanarsi. Traversò a precipizio il
viale; ed Emilia, che camminava lentamente verso il castello, ascoltò
i suoi passi veloci. La calma malinconica della notte cessò alfine di
essere interrotta. Ella si affrettò di tornare alla sua camera per
cercarvi il riposo, ma, oimè! esso era fuggito lungi da lei, e la sua
sciagura non le permetteva più di gustarne.




CAPITOLO XIV


Le carrozze furono di buon'ora alla porta: il fracasso dei servitori
che andavano e venivano per le gallerie, svegliarono Emilia da un
sonno affannoso. Il suo spirito agitato le aveva rappresentato tutta
notte le immagini più spaventose ed il più tristo avvenire. Fece ogni
sforzo per bandire queste sinistre impressioni, ma passava da un male
immaginario alla certezza d'un male reale. Rammentandosi che aveva
lasciato Valancourt, e forse per sempre, il cuore le mancava a misura
che la sua immaginazione se lo rappresentava lontano; questi sforzi
spargevano sulla di lei fisonomia un'espressione di rassegnazione,
come un legger velo rende la bellezza più interessante nascondendone
soltanto qualche debole tratto. Ma la signora Montoni notò il di lei
pallore straordinario, e la rimproverò severamente; disse alla nipote
che male a proposito si era abbandonata ad inquietudini fanciullesche,
che la pregava di osservare un po' più il decoro, e non lasciar
trasparire che fosse incapace di rinunziare ad un affetto poco
conveniente. Fu servita la colazione: Montoni parlò pochissimo, e
parve impaziente di partire. Le finestre della sala guardavano sul
giardino, e nel passarvi vicino, Emilia non potè fare a meno di dare
un'occhiata a quel luogo, ove, nella notte precedente, erasi separata
da Valancourt. Gli equipaggi erano già in ordine, ed i viaggiatori
salirono in carrozza e si misero in cammino. Emilia sarebbe partita
dal castello senza rammarico, se Valancourt non avesse abitato ne'
dintorni.

Da una piccola eminenza, ella osservò le immense pianure della
Guascogna, e le vette irregolari dei Pirenei che sorgevano da lontano
sull'orizzonte, illuminate già dal sole nascente. «Care montagne,»
diss'ella fra sè, «quanto tempo passerà prima ch'io vi rivegga! quante
disgrazie in quest'intervallo, potranno aggravare la mia miseria! Oh!
s'io potessi esser sicura di non ritornar mai più, ma che Valancourt
vivesse un giorno per me, partirei in pace! Egli vi vedrà, vi
contemplerà, mentr'io sarò lontana di qui.»

Gli alberi della strada, che formavano una linea di prospettiva alle
immense distanze, stavano per nasconderne la vista; ma gli azzurri
monti distinguevansi ancora traverso il fogliame, ed Emilia non si
tolse dalla portiera fin quando non li ebbe totalmente perduti di
vista.

Un altro oggetto risvegliò in breve la sua attenzione. Aveva essa
osservato appena un uomo che camminava lungo la strada col cappello
calato sugli occhi, ma ornato d'un pennacchino militare. Al rumore
delle ruote egli si voltò, ed essa riconobbe Valancourt. Le fece un
segno, si avvicinò alla carrozza, e dalla portiera le pose in mano una
lettera. Si sforzò di sorridere in mezzo alla disperazione che
vedevasegli dipinta sul volto; questo sorriso restò impresso per
sempre nell'anima di Emilia: si affacciò allo sportello, e lo vide su
d'una collinetta, appoggiato ad uno degli alberi che l'ombreggiavano;
seguiva cogli occhi la carrozza, e stese le braccia; ella continuò a
guardarlo fintantochè la lontananza non n'ebbe cancellati i
lineamenti, e che la strada, svoltando, nol fece sparire affatto.

Si fermarono ad un castello poco lontano per prendervi Cavignì, e i
viaggiatori percorsero le pianure della Linguadoca. Emilia fu
relegata, senza riguardo, colla cameriera di sua zia nella seconda
carrozza. La presenza di costei le impedì di legger la lettera di
Valancourt, non volendo esporsi alle di lei probabili osservazioni
sulla commozione che avrebbele cagionato la lettura della medesima.
Nulladimeno, n'era tale la curiosità, che la sua mano tremante fu
mille volte sul punto di romperne il sigillo. All'ora del pranzo,
Emilia potè aprirla: essa non aveva mai dubitato de' sentimenti di
Valancourt; ma la nuova assicurazione che ne riceveva, restituì un po'
di calma al suo cuore. Bagnò la lettera con lacrime di tenerezza, e la
mise da parte per leggerla quando sarebbe stata soverchiamente
afflitta, e per occuparsi di lui meno dolorosamente di quello avesse
fatto la loro separazione. Dopo molti dettagli che l'interessavano
assai, perchè esprimevano il suo amore, ei la supplicava di pensar
sempre a lui al tramonto del sole. «I nostri pensieri allora si
riuniranno,» diceva egli; «io attenderò il tramonto colla maggiore
impazienza, e godrò dell'idea che i vostri occhi si fisseranno in quel
momento sopra i medesimi oggetti che i miei, e che i nostri cuori si
comprenderanno. Voi non sapete, Emilia, la consolazione che me ne
riprometto, ma mi lusingo che la proverete anche voi.»

È inutile dire con qual commozione Emilia aspettò tutto il giorno il
tramonto del sole: lo vide finalmente declinare su d'immense pianure,
lo vide scendere, ed abbassarsi dalla parte ove abitava Valancourt. Da
quel momento il di lei spirito fu più tranquillo e rassegnato di
quello nol fosse stato dopo il matrimonio di Montoni e di sua zia.

Per molti giorni i viaggiatori traversarono la Linguadoca, e quindi
entrarono nel Delfinato. Dopo qualche tragitto pe' monti di quella
provincia pittoresca, scesero dalle carrozze, e cominciarono a salir
le Alpi. Qui si offrirono ai loro occhi scene così sublimi, che la
penna non potrebbe imprendere a descriverle in verun modo. Queste
nuove e sorprendenti immagini occuparono talmente Emilia, che talfiata
le fecero allontanare l'idea costante di Valancourt. Più spesso esse
le rinnovavano la rimembranza de' Pirenei, che avevano ammirati
insieme, e di cui allora credeva che nulla superasse la bellezza.
Quante volte desiderò di comunicargli le nuove sensazioni che
l'animavano a questo spettacolo: quante volte si compiaceva essa
d'indovinare le osservazioni ch'egli avrebbe fatte, e se lo figurava
sempre vicino: queste idee nobili e grandiose davano alla di lei
anima, ai di lei affetti una nuova vita.

Con quali vive e tenere emozioni si univa essa ai pensieri di
Valancourt all'ora del tramonto! Vagando in mezzo alle Alpi,
contemplava quell'astro maraviglioso che si perdeva dietro le lor
vette, le cui ultime tinte morivano sulle punte coperte di neve, e
questo teatro s'avvolgeva in una maestosa oscurità. Passato quel
momento, Emilia distolse gli occhi dall'occidente col dispiacere che
si prova alla partenza d'un amico. L'impressione singolare che spande
il velo della notte, a misura che si svolge, veniva vie più
accresciuta da quei sordi rumori che non si ascoltano mai se non al
progressivo calar delle tenebre, e che rendono la calma generale assai
più imponente: è il lieve stormir delle foglie, l'ultimo soffio della
brezza che s'alza al tramonto, il mormorio dei vicini torrenti.....

Nei primi giorni di questo viaggio attraverso le Alpi, la scena
rappresentava un avvicendarsi sorprendente di deserti e d'abitazioni,
di colti e di terreni sterili. Sull'orlo di spaventosi precipizi,
nelle cavità delle rupi, al disotto delle quali si vedeva una folta
nebbia, si scoprivano villaggi, campanili e monasteri. Verdi pascoli,
ubertosi vigneti, formavano un contrasto interessante co' sovrapposti
massi perpendicolari, le cui punte di marmo o granito coronavansi di
eriche, e non mostravano che rocce massicce ammucchiate le une
sull'altre, terminate da monti di neve, d'onde cascavano i torrenti
rumoreggianti in fondo alla valle.

La neve non era ancora sciolta sulle alture del Cenisio, che i
viaggiatori traversarono con qualche difficoltà; ma Emilia, osservando
il lago di ghiaccio, e la vasta pianura circondata da quelle rupi
scoscese si raffigurò facilmente la bellezza di cui si sarebbero
ornate allo sparir della neve.

Scendendo dalla parte dell'Italia, i precipizi divennero più
spaventosi, le vedute più alpestri e maestose. Emilia non si stancava
di guardare le nevose cime de' monti alle differenti ore del giorno:
rosseggiavano al levar del sole s'infiammavano al mezzogiorno, e la
sera rivestivansi di porpora; le tracce dell'uomo non si riconoscevano
che alla zampogna del pastore, al corno del cacciatore, o all'aspetto
d'un ardito ponte gettato sul torrente per servir di passaggio al
cacciatore lanciato sull'orme del camoscio fuggitivo.

Viaggiando al di sopra delle nuvole, Emilia osservava con rispettoso
silenzio la loro immensa superficie, che bene spesso cuopriva tutta la
scena sottoposta, e somigliava ad un mondo nel caos; altre volte, nel
diradarsi, lasciavano travedere qualche villaggio o una parte di
quell'impetuoso torrente, il cui fracasso faceva rimbombar le caverne;
si vedevano le rupi, le loro punte di ghiaccio, e le cupe foreste
d'abeti che arrivavano alla metà delle montagne. Ma chi potrebbe
descrivere l'estasi di Emilia quando scuoprì per la prima volta
l'Italia! Dal ciglione uno dei precipizi spaventosi del Cenisio, che
stanno all'ingresso di cotesto bel paese, gettò gli sguardi alle falde
di quelle orride montagne, e vide le ubertose valli del Piemonte e
l'immense pianure della Lombardia. La grandezza degli oggetti che le
s'affacciarono improvvisamente, la regione de' monti, che sembravano
accumularsi, i profondi precipizi sottoposti, quella cupa verzura
d'abeti e di querce che ricuopriva le profonde voragini, i torrenti
fragorosi, le cui rapide cascate sollevavano una specie di nebbia, e
formavano mari di ghiaccio, tutto prendeva un carattere sublime e
contrapposto alla quiete e alla bellezza dell'Italia; questa bella
pianura che aveva per limiti l'orizzonte ne accresceva vie più lo
splendore con le tinte cilestri che si confondevano coll'orizzonte
medesimo.

La signora Montoni era spaventatissima osservando i precipizi,
sull'orlo dei quali i portantini correvano con leggerezza pari alla
celerità, e saltavan come camosci. Emilia tremava egualmente, ma i di
lei timori erano un misto di sorpresa, d'ammirazione, di stupore e di
rispetto, onde non avea mai provato nulla di simile.

I portantini si fermarono per prender fiato, ed i viaggiatori
sedettero sulla cima d'una rupe. Montoni e Cavignì disputarono sul
passaggio di Annibale attraverso le Alpi: quegli pretendeva che fosse
entrato dal Cenisio, e questi sosteneva ch'era sceso dal San Bernardo.
Questa controversia presentò all'immaginazione di Emilia tutto ciò che
aveva dovuto soffrire quel famoso guerriero in un'impresa così ardita
e perigliosa.

La signora Montoni intanto guardava l'Italia; contemplava essa
coll'immaginazione la magnificenza dei palagi e la maestosità dei
castelli dei quali andava ad esser padrona a Venezia e negli
Appennini, e di cui si credea esser divenuta la principessa. Lungi
dalle inquietudini che avevanle impedito a Tolosa di ricevere tutte le
_bellezze_, delle quali il marito parlava con maggior compiacenza per
la sua vanità, che riguardi pel loro onore e rispetto per la verità,
la signora Montoni progettava accademie, sebbene non amasse la
musica; conversazioni, sebbene non avesse verun talento per figurare
nella società; in somma, essa voleva superare collo splendore delle
sue feste e la ricchezza delle livree tutta la nobiltà di Venezia.
Questa idea lusinghiera fu nonostante un poco turbata nel riflettere
che il di lei sposo, quantunque si abbandonasse ad ogni sorta di
divertimenti, quando se gli presentavano, affettava però il maggior
disprezzo per la frivola ostentazione che suole accompagnarli. Ma
pensando che il di lui orgoglio sarebbe forse più soddisfatto di
spiegare il suo fasto in mezzo ai concittadini ed amici, di quello nol
fosse stato in Francia, continuò a pascersi di queste illusioni, che
non cessavano d'estasiarla.

A misura che i viaggiatori calavano, vedevano l'inverno cedere il
posto alla primavera, ed il cielo cominciava a prendere quella bella
serenità che appartiene soltanto al clima d'Italia. Il fiume Dora, che
scaturisce dalle sommità del Cenisio, e si precipita di cascata in
cascata attraverso i profondi burroni, si rallentava, senza cessare di
esser pittoresco, nell'avvicinarsi alle valli del Piemonte. I
viaggiatori vi discesero avanti il tramonto del sole, ed Emilia
ritrovò ancor una volta la placida beltà d'una scena pastorale: vedeva
armenti, colline verdeggianti di selve, e graziosi arboscelli quai ne
avea visti sulle Alpi stesse: i prati erano smaltati di fiori
primaverili, ranuncole e viole che non tramandano in verun altro paese
un odore così soave. Emilia avrebbe voluto divenire una contadina
piemontese, abitare quelle ridenti capanne ombreggiate alle rupi,
avrebbe voluto menare una vita tranquilla in mezzo a quegli ameni
paesaggi, pensando con ispavento alle ore, ai mesi intieri che avrebbe
dovuto passare sotto il dominio di Montoni.

Il sito attuale le raffigurava spesso l'immagine di Valancourt; essa
lo vedeva sulla punta d'uno scoglio osservando con estasi la stupenda
natura che lo circondava; lo vedeva errare nella valle, soffermarsi
spesso per ammirare quella scena interessante, e nel fuoco d'un
entusiasmo poetico slanciarsi su qualche masso. Ma quando pensava in
seguito al tempo e alla distanza che dovevano separarli, quando
pensava che ciascuno de' suoi passi aumentava questa distanza, il
cuore le si straziava, ed il paese perdeva ogni incanto.

Dopo aver attraversata la Novalese, essi giunsero verso sera
all'antica e piccola città di Susa, che aveva altre volte chiuso il
passaggio delle Alpi nel Piemonte. Dopo l'invenzione dell'artiglieria,
le alture che la dominano ne hanno rese inutili le fortificazioni; ma,
al chiaro della luna, quelle alture pittoresche, la città sottoposta,
le sue mura, le sue torri ed i lumi che ne illuminavano porzione,
formavano per Emilia un quadro interessantissimo. Passarono la notte
in un albergo che offriva poche risorse; ma l'appetito dei viaggiatori
dava un sapore delizioso alle pietanze più grossolane, e la stanchezza
assicurava il loro sonno. In cotesto luogo, Emilia intese il primo
pezzo di musica italiana su territorio italiano. Seduta dopo cena
vicino ad una finestrella aperta, ella osservava l'effetto del chiaro
di luna sulle vette irregolari delle montagne. Si rammentò che in una
notte consimile aveva riposato su d'una roccia de' Pirenei col padre e
Valancourt. Intese sotto di lei i suoni armoniosi d'un violino;
l'espressione di quell'istrumento, in perfetta armonia coi teneri
sentimenti nei quali era immersa, la sorpresero e l'incantarono a un
tempo. Cavignì, il quale si avvicinò alla finestra, sorrise della sua
sorpresa.

«Eh! eh!» le diss'egli; «voi ascolterete la medesima cosa, forse in
tutti gli alberghi: dev'essere un figlio del locandiere quello che
suona così, non ne dubito.»

Emilia sempre attenta, credeva udire un artista: un canto melodioso e
querulo la piombò a grado a grado nella meditazione; i motteggi di
Cavignì ne la trassero sgradevolmente. Nel tempo istesso Montoni
ordinò di preparare gli equipaggi di buon'ora, perchè voleva pranzare
a Torino.

La signora Montoni godeva di trovarsi alfine in una strada piana:
raccontò lungamente tutti i timori provati, obliando senza dubbio che
ne faceva la descrizione ai compagni dei suoi pericoli; ed aggiunse
che sperava presto perder di vista quelle orribili montagne. «Per
tutto l'oro del mondo,» diss'ella, «non farei un'altra volta l'istesso
viaggio.» Si lamentò di stanchezza, e si ritirò di buon'ora. Emilia
fece altrettanto, ed intese da Annetta, la cameriera di sua zia, che
Cavignì non erasi ingannato a proposito del suonatore di violino. Era
colui il figlio di un contadino abitante nella valle vicina, che
andava a passare il carnevale a Venezia, e ch'era creduto molto
amabile. «Quanto a me,» disse Annetta, «preferirei vivere in queste
boscaglie, e su queste belle colline, che andare in una città. Si dice
che noi non vedremo più nè boschi, nè montagne, nè prati, e che
Venezia è fabbricata in mezzo al mare.»

Emilia convenne con Annetta, che quel giovane perdeva molto nel
cambio, poichè lasciava l'innocenza e la bellezza campestre, per la
voluttà di una città corrotta.

Quando fu sola, non potè dormire. L'incontro di Valancourt, e le
circostanze della loro separazione, non cessarono di occupare il suo
spirito, ritracciandole il quadro di un'unione fortunata in seno della
natura, e della felicità dalla quale temeva d'essere lontana per
sempre.




CAPITOLO XV


Il giorno seguente, di buonissim'ora, i viaggiatori partirono per
Torino. La ricca pianura che si estende dalle Alpi a quella magnifica
città, non era allora, come adesso, ombreggiata da grossi alberi.
Piantagioni d'ulivi, di gelsi, di fichi, frammiste di viti, formavano
un magnifico paesaggio, traverso il quale l'impetuoso Eridano si
slancia dalle montagne, e si unisce a Torino colle acque dell'umile
Dora. A misura che i viaggiatori avanzavano, le Alpi prendevano ai
loro sguardi tutta la maestà del loro aspetto. Le giogaje
s'innalzavano le une sopra le altre in una lunga successione. Le cime
più alte, coperte di nubi, si perdevano qualche volta nelle loro
ondulazioni, e spesso slanciavansi di sopra ad esse. Le falde di que'
monti, le cui irregolari cavità presentavano ogni sorta di forme,
tingevansi di porpora e di azzurro al movimento della luce e delle
ombre, variando ad ogni istante la scena. A levante si spiegavano le
pianure di Lombardia; scoprivansi già le torri di Torino, e, in
maggior distanza, gli Appennini circoscrivevano un immenso orizzonte.

La magnificenza di quella città, la vista delle sue chiese, dei suoi
palagi e delle grandiose piazze, oltrepassavano non solo tutto ciò che
Emilia avea veduto in Francia, ma tutto quello ancora che si era
immaginato.

Montoni, il quale conosceva già Torino, e non n'era sorpreso, non cedè
alle preghiere della consorte, che avrebbe desiderato vedere qualche
palazzo; non si fermò che il tempo necessario per riposarsi, e si
affrettò di partir per Venezia. Durante il viaggio, egli si mostrò
altiero e riservatissimo, specialmente colla moglie; ma questa riserva
però era meno quella del rispetto che dell'orgoglio e del
malcontento. Si occupava pochissimo di Emilia. I suoi discorsi con
Cavignì avevano sempre per soggetto la guerra o la politica, che lo
stato convulsivo d'Italia rendeva allora molto interessanti. Emilia
osservava che, nel raccontare qualche fatto illustre, gli occhi di
Montoni perdevano la loro fosca durezza, e sembravan brillare di
gioia. Sebbene ella dubitar potesse talvolta che questo istantaneo
cambiamento fosse piuttosto l'effetto della malizia, che la prova del
valore, pure questo pareva convenir molto bene al di lui carattere, e
alle sue maniere superbe e cavalleresche; e Cavignì, con tutta la sua
disinvoltura e buona grazia, non era in grado di stargli a confronto.

Entrando nel Milanese, lasciarono il loro cappello alla francese pel
berretto italiano scarlatto, ricamato in oro. Emilia fu sorpresa nel
vedere Montoni aggiungervi il pennacchio militare, e Cavignì
contentarsi delle piume che vi si portavano di solito. Credè
finalmente che Montoni prendesse l'equipaggio soldatesco per traversar
con più sicurezza una contrada inondata di truppe, e saccheggiata da
tutti i partiti. Si vedeva in quelle feraci pianure la devastazione
della guerra. Laddove le terre non restavano incolte, si riconoscevano
le tracce della rapina. Le viti erano strappate dagli alberi che
dovevano sostenerle; le olive giacevano calpestate; i boschetti di
gelsi erano stati tagliati per accenderne il fuoco devastatore de'
casali e dei villaggi. Emilia volse gli sguardi, sospirando, a
settentrione, sulle Alpi Elvetiche: le loro solitudini severe parevano
essere il sicuro asilo degli infelici perseguitati.

I viaggiatori osservarono spesso distaccamenti di truppe che
marciavano a qualche distanza, e negli alberghi ove sostavano
provarono gli effetti della estrema carestia, e tutti gli altri
inconvenienti che sono le conseguenze delle guerre intestine. Pur non
ebbero mai alcun motivo di temere per la loro sicurezza. Giunti a
Milano, non si fermarono nè per considerare la grandiosità di quella
metropoli, nè per visitarne il magnifico tempio, che si stava ancora
costruendo.

Passato Milano, il paese portava il carattere di una devastazione più
spaventosa. Tutto allora parea tranquillo; ma come il riposo della
morte sopra un volto che conserva ancora l'impronta orribile delle
ultime convulsioni. Lasciato il Milanese, incontrarono essi nuovamente
truppe. La sera era avanzata; videro un esercito sfilare da lontano
nella pianura, e le cui lance e gli elmi scintillavano ancora agli
ultimi raggi del sole. La colonna inoltrò sopra una parte della strada
chiusa fra due poggi. Si distinguevano facilmente i capi che
dirigevano la marcia. Parecchi uffiziali galoppavano sui fianchi,
trasmettendo gli ordini ricevuti dai superiori; altri, separati
dall'avanguardia, volteggiavano nella pianura a destra.

Nell'avvicinarsi, Montoni, dai pennacchi, dalle bandiere e dai colori
delle divise dei vari corpi, credè riconoscere la piccola oste
comandata dal famoso condottiero Utaldo. Egli era amico di lui e de'
capi principali. Fece fermare le carrozze per aspettarli, e lasciar
libero il passo. Una musica guerriera si fece in breve sentire; essa
andò sempre crescendo, e Montoni, persuaso che fosse proprio la banda
del celebre Utaldo, sporse il capo dalla carrozza, e salutò il
generale agitando per aria il berretto. Il condottiere rese il saluto
colla spada, e vari uffiziali, avvicinatisi alla carrozza, accolsero
Montoni come un antico conoscente: il capitano stesso arrivò poco
stante; la truppa fece alto, ed il capo s'intertenne con Montoni, cui
sembrava contentissimo di rivedere. Emilia comprese, dai loro
discorsi, esser quello un esercito vittorioso che tornava nel suo
paese; i numerosi carriaggi che l'accompagnavano erano carchi delle
ricche spoglie dei nemici, non che di feriti e prigionieri che
sarebbero stati riscattati alla pace. I capi doveano separarsi il
giorno seguente, dividere il bottino, ed accantonarsi, colle proprie
bande, nei rispettivi castelli. Quella sera doveva dunque esser
consacrata ai piaceri, in memoria della comune vittoria, e del congedo
che prendevano scambievolmente.

Utaldo disse a Montoni che le sue schiere si sarebbero accampate
quella notte in un villaggio distante mezzo miglio di là; l'invitò a
tornare addietro, e a prender parte al banchetto, assicurandolo che le
signore sarebbero benissimo trattate. Montoni se ne scusò allegando
che voleva arrivare a Verona la sera medesima, e dopo qualche domanda
sullo stato dei dintorni di quella città, si accommiatò e partì, ma
non potè giungere a Verona che a notte molto tarda.

Emilia non potè vederne la deliziosa situazione che il giorno dopo.
Abbandonarono di buon'ora quella bella città, e giunti a Padova,
s'imbarcarono sulla Brenta per Venezia. Qui, la scena era intieramente
cambiata. Non eran più i vestigi di guerra sparsi nelle pianure del
Milanese, ma al contrario tutto respirava il lusso e l'eleganza. Le
sponde verdeggianti della Brenta non offrivano che bellezze, delizie
ed opulenza. Emilia considerava con istupore le ville della nobiltà
veneta, i loro freschi portici, i bei colonnati ombreggiati da pioppi
e cipressi di maestosa altezza; gli aranci, i cui fiori odorosi
imbalsamavano l'aria, ed i folti salci che bagnavan le lunghe chiome,
nel fiume, formando ombrosi ricetti. Il carnevale di Venezia sembrava
trasportato su quelle sponde incantevoli. Le gondole, in perpetuo
moto, ne aumentavano la vita. Tutta la bizzarria delle mascherate
formava una superba decorazione; e verso sera, molti gruppi andavano a
ballare sotto i grossi alberi.

Cavignì istruiva Emilia del nome dei gentiluomini ai quali
appartenevano le ville; e per divertirla vi aggiungeva un leggiero
schizzo dei loro caratteri, essa compiacevasi talvolta ad ascoltarlo;
ma il suo brio non faceva più sulla signora Montoni l'effetto di
prima: questa parea quasi sempre seria, e Montoni era constantemente
riservato.

È indescrivibile la meraviglia della fanciulla allorchè scoprì
Venezia, i suoi isolotti, i suoi palazzi e le sue torri che tutti
insieme sorgevano dal mare riflettendo i loro svariati colori sulla
superficie chiara e tremolante. Il tramonto dava alle acque ed ai
monti lontani del Friuli, che circondano a tramontana l'Adriatico, una
tinta giallastra di effetto mirabilissimo. I portici marmorei e le
colonne di San Marco erano rivestite di ricche tinte e dell'ombra
maestosa della sera. A misura che si avanzavano, la magnificenza della
città disegnavasi più particolareggiatamente. I suoi terrazzi,
sormontati da edifizi aerei eppur maestosi, illuminati, com'eranlo
allora, dagli ultimi raggi del sole, parevano piuttosto fatti uscir
dall'onde dalla bacchetta di un mago, che costruiti da mano mortale.

Il sole essendo finalmente sparito, l'ombra invase gradatamente le
acque e le montagne, spegnendo gli ultimi fuochi che ne doravan le
sommità; e il violaceo malinconico della sera si stese ovunque come un
velo. Quanto era profonda e bella la tranquillità che avvolgeva la
scena! La natura pareva immersa nel riposo. Le più soavi emozioni
dell'anima eran le sole che si destassero. Gli occhi di Emilia si
empivano di lacrime: essa provava i trasporti di una devozione
sublime, innalzando gli sguardi alla vôlta celeste, mentre una musica
deliziosa accompagnava il mormorio delle acque. Ella ascoltava in
tacita estasi, e nessuno ardiva rompere il silenzio. I suoni pareano
ondeggiar nell'aere. La barca avanzavasi con movimento sì placido, che
appena si poteva distinguere; e la brillante città sembrava moverle
incontro da sè per ricevere i forestieri. Distinsero allora una voce
donnesca che, accompagnata da qualche istrumento, cantava una dolce e
languida arietta. La sua espressione patetica, che sembrava ora quella
di un amore appassionato, ed ora l'accento lamentevole del dolore
senza speranza, annunziava bene come il sentimento che le dettava non
fosse finto. «Ah!» disse Emilia sospirando e rammentandosi Valancourt;
«quel canto parte sicuramente dal cuore!»

Essa guardavasi intorno con attenta curiosità. Il crepuscolo non
lasciava più distinguere che immagini imperfette. Intanto, a qualche
distanza, le parve vedere una gondola, ed intese nel tempo istesso un
coro armonioso di voci e d'istrumenti. Esso era così dolce, così
soave! Era come l'inno degli angeli che scendono nel silenzio della
notte. La musica finì, e parve che il coro sacro risalisse al cielo.
La calma profonda che susseguì era espressiva quanto l'armonia
poc'anzi cessata. Finalmente, un sospiro generale parve risvegliar
tutti da una specie d'estasi. Emilia però restò a lungo abbandonata
all'amabile tristezza, che si era impadronita de' suoi sensi; ma lo
spettacolo ridente e tumultuoso della piazza di San Marco fugò le sue
meditazioni. La luna, che sorgea allora sull'orizzonte, spandeva un
debole chiarore su' terrazzi, su' portici illuminati, sulle magnifiche
arcate, e lasciava vedere le numerose società, i cui passi leggieri, i
canti ed i suoni si mescolavano confusamente.

La musica che i viaggiatori avevano già intesa, passò vicino alla
barca di Montoni, in una di quelle gondole che si vedevano errare sul
mare, piene di gente che andava a godere il fresco della sera. Quasi
tutte avevano suonatori. Il mormorio dell'acque, i colpi misurati dei
remi sull'onde spumanti, vi aggiungevano un incanto particolare.
Emilia osservava, ascoltava, e le pareva di essere nel tempio delle
fate. Anche la zia provava qualche piacere. Montoni felicitavasi di
essere tornato finalmente a Venezia, ch'esso chiamava la _prima città
del mondo_; e Cavignì era più allegro ed animato del solito.

La barca passò pel Canal grande ov'era situata la casa di Montoni. I
palazzi di Sansovino e Palladio spiegavano agli occhi d'Emilia un
genere di bellezza e magnificenza tale, onde la sua immaginazione non
aveva potuto formarsi un'idea. L'aria era agitata da dolci suoni
ripetuti dall'eco del canale, e gruppi di maschere che ballavano al
lume della luna, realizzavano le più brillanti funzioni della
fantasmagoria.

La barca si fermò davanti al portico di una gran casa, ed i
viaggiatori sbarcarono su d'un terrazzo, che per una scala marmorea li
condusse in un salotto, la cui magnificenza fece stupire Emilia. Le
pareti ed il soffitto erano ornati di affreschi. Lampade d'argento,
sospese a catene dello stesso metallo, illuminavano la stanza. Il
pavimento era coperto di stuoie indiane dipinte di mille colori. La
tappezzeria delle finestre era di seta verde chiaro, ricamata in oro,
arricchita di frange verdi ed oro. Il balcone guardava sul Canal
grande. Emilia, colpita dal carattere tetro di Montoni, osservava con
sorpresa il lusso e l'eleganza di quei mobili. Si rammentava con
istupore che glielo avevano descritto per un uomo rovinato.--Ah!» si
diceva ella; «se Valancourt vedesse questa casa, non parlerebbe più
così! Come sarebbe convinto della falsità delle ciarle.--

La signora Montoni prese le arie d'una principessa; Montoni,
impaziente e contrariato, non ebbe neppure la civiltà di salutarla e
complimentarla sul di lei ingresso in casa sua. Appena giunto ordinò
la gondola ed uscì con Cavignì per prender parte ai piaceri della
serata. La Montoni divenne allora seria e pensierosa: Emilia, cui
tutto sorprendeva, si sforzò di rallegrarla, ma la riflessione non
diminuiva nè i capricci, nè il cattivo umore della zia, le cui
risposte furono talmente sgarbate, che Emilia, rinunziando al progetto
di distrarla, andò ad una finestra, per godere almeno lei d'uno
spettacolo così nuovo ed interessante. Il primo oggetto che la colpì
fu un gruppo di persone che ballavano al suono di una chitarra e di
altri strumenti. La donna che teneva la chitarra e quella che suonava
il tamburello, ballavano esse pure con molta grazia, brio ed agilità.
Dopo queste vennero le maschere: chi era travestito da gondoliere, chi
da menestrello e cantavano tutti versi accompagnati da pochi
strumenti. Si fermarono a qualche distanza dal portico, ed in que'
canti Emilia riconobbe le ottave dell'Ariosto. Cantavano le guerre dei
mori contro Carlo Magno, e le sventure del paladino Orlando. Cambiò il
tuono della musica, ed intese le malinconiche stanze del Petrarca; la
magia di quegli accenti dolorosi veniva sostenuta da un'espressione e
da una musica veramente italiana. Il chiaro di luna compiva
l'incantesimo.

Emilia era entusiasmata; versava lacrime di tenerezza, e la sua
immaginazione si portava in Francia vicino a Valancourt; vide con
rincrescimento svanire quella scena incantata, e restò per qualche
tempo assorta in una pensierosa tranquillità. Altri suoni
risvegliarono di lì a poco la sua attenzione: era una maestosa armonia
di corni. Osservò che molte gondole si mettevano in fila alle sponde;
riconobbe nella lontana prospettiva del canale una specie di
processione che solcava la superficie dell'acque; a misura che si
avvicinava, i corni ed altri strumenti facevano echeggiar l'aria de'
più soavi concenti.... Poco dopo le deità favolose della città parvero
sorgere dal seno delle acque. Nettuno, con Venezia sua sposa, si
avanzavano sul liquido elemento, circondati dai Tritoni e dalle
naiadi. La bizzarra magnificenza di questo spettacolo sembrava avere
improvvisamente realizzato tutte le visioni de' poeti; le vaghe
immagini, delle quali era ripiena l'anima di Emilia, le restarono
impresse anche molto dopo la comparsa di quella mascherata.

Dopo cena, sua zia vegliò lunga pezza, ma Montoni non tornò a casa. Se
Emilia aveva ammirata la magnificenza del salotto, non fu però meno
sorpresa nell'osservare lo stato nudo e miserabile di tutte le stanze,
che dovè traversare per giungere alla sua camera: vide essa una lunga
fuga di grandi appartamenti, il cui dissesto indicava bastantemente
come non fossero stati abitati da molto tempo. Vi erano su qualche
parete brani sbiaditi di antichissimi parati, su alcune altre qualche
affresco quasi distrutto dall'umidità. Finalmente essa giunse alla sua
camera, spaziosa, elevata, sguarnita come le altre, e con grandi
finestroni; questa stanza richiamolle alla fantasia le idee più tetre,
ma la vista del mare le dissipò.




CAPITOLO XVI


Montoni ed il suo compagno non erano ancora tornati a casa all'alba: i
gruppi delle maschere o dei ballerini si dispersero collo spuntar del
giorno, come tante chimere. Montoni era stato occupato altrove; la di
lui anima poco suscettibile di frivole voluttà, si pasceva nello
sviluppo delle passioni energiche, le difficoltà, le tempeste della
vita che rovesciano la felicità degli altri, rianimavano tutta
l'elasticità dell'anima sua, procurandogli i soli godimenti dei quali
potesse esser capace; senza un estremo interesse la vita non era per
lui che un sonno. Quando gli mancava l'interesse reale, se ne formava
di artificiali, finchè l'abitudine, venendo a snaturarli, cessassero
di esser fittizi: tale era l'amore pel giuoco. Non vi si era
abbandonato dapprincipio che per togliersi dall'inerzia e dal
languore, e vi aveva persistito con tutto l'ardore di una passione
ostinata. Aveva passata la notte con Cavignì a giuocare in una società
di giovani che avevan molto da spendere e molti vizi da soddisfare.
Montoni sprezzava la maggior parte di questa gente, più per la
debolezza de' loro talenti, che per la bassezza delle inclinazioni, e
non li frequentava se non per renderli strumenti de' suoi disegni. Fra
costoro però eranvene di più abili, e Montoni li ammetteva alla sua
intimità, conservando però sopra di loro quell'alterigia decisa che
comanda la sommessione agli spiriti vili o timidi, e suscita l'odio e
la fierezza degli spiriti superiori. Egli avea dunque numerosi e
mortali nemici; ma l'antichità del loro odio era la prova certa del di
lui potere; e siccome il potere era il suo unico scopo, gloriavasi più
di quest'odio che di tutta la stima che avessero potuto tributargli.
Sprezzava dunque un sentimento tanto moderato come quello della stima,
ed avrebbe disprezzato sè medesimo, se si fosse creduto capace di
contentarsene. Nel numero ristretto di coloro ch'egli distingueva,
contavansi i signori Bertolini, Orsino e Verrezzi. Il primo aveva un
carattere allegro e passioni vive; era di una dissipazione e d'una
stravaganza senza pari, ma del resto generoso, ardito e
schietto.--Orsino, orgoglioso e riservato, amava il potere più che
l'ostentazione: avea indole crudele e sospettosa; sentiva vivamente le
ingiurie, e la sete della vendetta non gli dava riposo. Sagace,
fecondo in ripieghi, paziente, costante nella sua perseveranza, sapeva
signoreggiare le azioni e le passioni. L'orgoglio, la vendetta e
l'avarizia erano quasi le sole ch'ei conoscesse: pochi riflessi che
valessero ad arrestarlo, e pochi gli ostacoli che potessero eludere la
profondità de' suoi stratagemmi. Costui era il favorito di Montoni.

Verrezzi non mancava di talenti; ma la violenza della sua
immaginazione lo rendeva schiavo delle passioni più opposte. Egli era
giocondo, voluttuoso, intraprendente, ma non aveva nè fermezza, nè
coraggio vero, ed il più vile egoismo era l'unico principio delle sue
azioni. Pronto ne' progetti, petulante nelle speranze, il primo ad
intraprendere e ad abbandonare non solo le sue imprese, ma anche
quelle degli altri; orgoglioso, impetuoso ed insobordinato: tal
Verrezzi; chiunque però conosceva a fondo il di lui carattere, e sapeva
dirigere le sue passioni, lo guidava come un fanciullo.

Questi erano gli amici che Montoni introdusse in casa sua, ed ammise a
mensa, il giorno dopo il suo arrivo a Venezia. Vi era parimente fra
loro un nobile Veneziano chiamato il conte Morano, ed una tal signora
Livona, che Montoni presentò alla moglie come persona di merito
distinto; essa era venuta la mattina per congratularsi del suo arrivo,
ed era stata invitata a pranzo.

La signora Montoni ricevè di mala grazia i complimenti di quei
signori. Bastava, per dispiacerle, che fossero amici di suo marito; e
li odiava perchè accusavali d'aver contribuito a fargli passar la
notte fuori di casa. Finalmente l'invidiava, chè, sebbene convinta
della poca influenza di lei su Montoni, supponeva che preferisse la
loro società alla sua. Il grado del conte Morano gli fruttò
un'accoglienza che ricusava a tutti gli altri: il di lei portamento,
le maniere sprezzanti, ed il suo stravagante e ricercato abbigliamento
(essa non aveva ancora adottato le fogge veneziane), contrastavano
forte colla bellezza, modestia, dolcezza e semplicità della nipote.
Questa osservava con più attenzione che piacere la società che la
circondava: la bellezza però, e le grazie seducenti della signora
Livona l'interessarono involontariamente; la dolcezza de' suoi accenti
e la sua aria di compiacenza risvegliarono in Emilia le tenere
affezioni che sembravano sopite da lungo tempo.

Per profittare della frescura della sera, tutta la compagnia s'imbarcò
nella gondola di Montoni. Lo splendido fulgore del tramonto coloriva
ancora le onde, andando a morire a ponente; le ultime tinte parevano
dileguarsi a poco a poco, mentre l'azzurro cupo del firmamento
cominciava a scintillar di stelle. Emilia abbandonavasi ad emozioni
dolci e serie insieme; la quiete della laguna su cui vogava, le
immagini che venivano a pingervisi, un nuovo cielo, gli astri
ripercossi nelle acque, il profilo tetro delle torri e de' portici, il
silenzio infine in quell'ora solenne, interrotto sol dal gorgoglio
dell'onda e dai suoni indistinti di lontana musica, tutto sublimava i
suoi pensieri. Sgorgaronle lagrime; i raggi della luna, luminosi ognor
più che le ombre diffondeansi, proiettavano allora su di lei il loro
argenteo splendore. Semicoperta d'un nero velo, la sua figura ne
ricevea un'inenarrabile soavità. Il conte Morano, seduto accanto ad
Emilia, e che l'aveva considerata in silenzio, prese improvvisamente
un liuto, e suonandolo con molta agilità, cantò un'aria piena di
malinconia con voce insinuante. Quand'ebbe finito, diede il liuto ad
Emilia, che, accompagnandosi con quell'istrumento, cantò con molto
gusto e semplicità una romanza, poi una canzonetta popolare del suo
paese; ma questo canto le richiamò al pensiero rimembranze dolorose:
la voce tremante le spirò sul labbro, e le corde del liuto non
risuonarono più sotto la sua mano. Vergognandosi infine della
commozione che l'aveva tradita, passò tosto ad una canzone sì allegra
e graziosa, che tutta la conversazione proruppe in applausi e fu
obbligata a ripeterla. In mezzo ai complimenti che le venivano fatti,
quelli del conte non furono i meno espressivi, e non cessarono se non
quando Emilia passò il liuto alla signora Livona, la quale se ne servì
con tutto il gusto italiano.

Il conte, Emilia, Cavignì e la signora Livona cantarono quindi
canzonette accompagnate da due liuti, e da qualche altro istrumento.
Talvolta gli strumenti tacevano, e le voci, in accordo perfetto,
andavano indebolendosi fino all'ultimo grado; dopo una breve pausa si
rialzavano, gli strumenti riprendevan forza, ed il coro generale
echeggiava per l'aria.

Intanto, Montoni, annoiato di quella musica, rifletteva al mezzo di
disimpegnarsi per seguir coloro che volevano andare a giuocare in un
casino. Propose di tornare a terra: Orsino l'appoggiò con piacere, ma
il conte e tutti gli altri vi si opposero con vivacità.

Montoni meditava di nuovo il modo di sbarazzarsi da quell'impaccio;
una gondola vuota che tornava a Venezia passò accanto alla sua. Senza
tormentarsi più a lungo per una scusa, profittò dell'occasione, e
affidando le signore agli amici partì con Orsino. Emilia, per la prima
volta, lo vide andar via con rincrescimento, poichè considerava la di
lui presenza come una protezione, senza saper bene ciò che avesse a
temere. Egli sbarcò alla piazza San Marco, e correndo al casino, si
perdè nella folla de' giuocatori.

Il conte aveva fatto partire segretamente un suo servo nella barca di
Montoni per mandar cercare i suoi suonatori e la propria gondola.
Emilia, ignara di tutto questo, intese le allegre canzonette de'
gondolieri che, turbando coi remi le onde argentine, ove ripercoteasi
la luna, si avvicinavano, e distinse poco dopo il suono degli
istrumenti, ed una sinfonia veramente armoniosa; nell'istante medesimo
le barche si avvicinarono, il conte spiegò tutto, e passarono nella di
lui gondola parata col gusto più squisito.

Mentre la società gustava rinfreschi di frutti e gelati, i suonatori
nell'altra barca eseguivano deliziose melodie: il conte, seduto
accanto ad Emilia, occupavasi di lei sola, e le prodigava con voce
soave ed appassionata complimenti, il cui senso non poteva esser
dubbioso; per evitarli, essa parlava colla signora Livona, e prendeva
con lui un tuono riservato ed imponente, ma troppo dolce per contenere
le di lui sollecitudini. Egli non poteva vedere, nè ascoltare altri
che Emilia, e non poteva parlare che a lei. Cavignì l'osservava con
mal umore, e la fanciulla con imbarazzo.

Sbarcarono tutti alla piazza San Marco; la serenità della notte
determinò la Montoni ad accettare le proposte del conte, di passare
cioè alcun tempo prima di andare a cena, al di lui casino col resto
della società. Se qualche cosa avesse potuto dissipare gli affanni di
Emilia, sarebbe stata per certo la novità di tutto ciò che la
circondava, gli ornamenti dei ricchi palazzi ed il tumulto delle
maschere.

Finalmente recaronsi al casino, ornato col miglior gusto: eravi
preparata una splendida cena; ma quivi il contegno riserbato di Emilia
fece comprendere al conte quanto gli fosse necessario il favore della
Montoni; la condiscendenza da essa già dimostratagli gl'impediva di
giudicare l'impresa molto difficile; rivolse allora parte delle sue
attenzioni sulla zia, la quale fu talmente lusingata di tale
distinzione, che non potè dissimulare la gioia, e prima della fine
della cena il conte possedeva tutta la sua stima. Quand'egli si
dirigea a lei, il suo volto accigliato si rasserenava, e sorridea a
tutte le sue parole, gradiva tutte le di lui proposte: Morano la
invitò colla società a prendere il caffè nel suo palco al teatro per
la sera dopo; Emilia, avendo inteso ch'ella accettava, non si occupò
più che di trovare una scusa per dispensarsene.

Era già tardi quando s'imbarcarono; la sorpresa d'Emilia fu estrema,
allorchè, uscendo dal casino, vide il sole sorgere dall'Adriatico, e
la piazza San Marco tuttavia piena di gente. Il sonno da gran pezza
le aggravava le palpebre; la frescura del vento marino la ravvivò, ed
essa sarebbe partita di colà con rincrescimento, se non fosse stata la
presenza del conte, il quale volle assolutamente accompagnar le
signore fino a casa. Montoni non era tornato ancora: la di lui moglie
entrò nelle proprie stanze, e liberò Emilia dalla noia della sua
compagnia.

Montoni tornò tardi ed era furente: aveva fatto una grossa perdita;
prima di coricarsi, volle parlare a quattr'occhi con Cavignì, e l'aria
di quest'ultimo fece conoscere abbastanza il dì seguente che il
soggetto della conferenza eragli riuscito poco gradevole.

La Montoni, che per tutto il dì era stata taciturna e pensierosa,
ricevè verso sera alcune Veneziane, la cui affabilità piacque assai ad
Emilia. Queste signore avevano un'aria di scioltezza e cordialità
inesprimibile co' forestieri; parevan conoscerli da molto tempo; la
loro conversazione era a vicenda tenera, sentimentale e briosa. La
Montoni istessa, che non aveva veruna attrattiva per quel genere di
trattenimento, e la cui asciuttezza e l'egoismo contrastavano sovente
all'eccesso colla loro squisita cortesia, ella stessa non potè essere
insensibile alle loro grazie.

Cavignì andò a trovar le signore alla sera: Montoni aveva altri
impegni. S'imbarcarono esse nella gondola per andare alla piazza San
Marco, ove il concorso era numeroso. Dopo una breve passeggiata, si
misero a sedere alla porta di un casino; e mentre Cavignì faceva
portare il caffè e gelati, arrivò il conte Morano. S'avvicinò ad
Emilia con aria d'impazienza e di piacere, che, unita alle di lui
attenzioni della sera precedente, l'obbligarono a riceverlo con timida
riservatezza.

Era quasi mezzanotte allorchè andarono al teatro. Emilia
nell'entrarvi, si rammentò tutto ciò che aveva veduto, e ne fu meno
abbagliata. Tutto lo splendore dell'arte le pareva inferiore
alla semplicità della natura. Il suo cuore non era commosso
dall'ammirazione come alla vista dell'immenso Oceano e della grandezza
de' cieli, al fragor dell'onde tumultuanti, alle melodie d'una musica
campestre. Tai memorie doveano renderle insipida la scena affettata
che le s'offriva allo sguardo.

Scorsero così varie settimane, nelle quali Emilia si compiacque a
considerare un teatro i costumi tanto opposti ai francesi; ma il conte
Morano vi si trovava troppo frequentemente per la di lei tranquillità.
Le sue grazie, la sua figura, le sue belle doti, che facevano
l'ammirazione generale, avrebbero forse interessato anche Emilia, se
il suo cuore non fosse stato prevenuto per Valancourt. Fors'anco
avrebbe fatto meglio a mettere meno pertinacia nelle sue premure.
Qualche tratto del suo carattere che rivelò, indisposero Emilia, e la
prevennero contro le di lui migliori qualità.

Poco dopo il suo arrivo a Venezia, Montoni ricevè una lettera da
Quesnel, che gli annunziava la morte dello zio della propria moglie
nella sua villa sulla Brenta, ed il suo progetto di venir tosto a
prender possesso di cotesta casa e degli altri beni toccatigli. Questo
zio era fratello della madre della signora Quesnel. Montoni eragli
parente da parte di padre, e sebbene non avesse nulla a pretendere da
cotesta ricca eredità, non potè nascondere tutta l'invidia che tale
notizia suscitavagli in cuore.

Emilia aveva osservato che, dopo la sua partenza dalla Francia,
Montoni non aveva conservato nessun riguardo per sua zia: in principio
l'aveva trascurata, ed ora non le mostrava che avversione e cattivo
umore. Ella non aveva mai supposto che i difetti della zia fossero
sfuggiti al discernimento di Montoni, e che lo spirito e la figura di
lei avessero meritata la sua attenzione. La sorpresa cagionatale da
questo matrimonio era stata estrema; ma la scelta era fatta, e non
s'immaginava com'egli potesse così presto mostrarle il suo aperto
disprezzo. Montoni, allettato dall'apparente ricchezza della Cheron,
si trovò singolarmente deluso nelle sue speranze. Sedotto dalle
astuzie da essa messe in opra finchè l'avea creduto necessario, si
trovò incappato nel laccio in cui egli avrebbe voluto far cadere lei
stessa. Era stato giocato dall'accortezza d'una donna, della quale
stimava pochissimo l'intelligenza, e si trovava aver sacrificato
l'orgoglio e la libertà, senza preservarsi dalla rovina disastrosa
sospesa sul di lui capo. La signora Cheron erasi posta in testa
propria la maggior parte delle sostanze. Montoni s'era impadronito del
resto, e benchè la somma ricavatane fosse inferiore alla sua
aspettativa ed ai suoi bisogni, aveva portato questo danaro a Venezia
per abbagliare il pubblico, e tentar la fortuna con un ultimo sforzo.

Le voci riportate a Valancourt sul carattere e la situazione di
Montoni, erano pur troppo esatte. Toccava al tempo ed alle circostanze
a svelare il mistero.

La Montoni non era di carattere da soffrire un'ingiuria con dolcezza,
e molto meno dal risentirla con dignità. Il di lei orgoglio esacerbato
si spiegava con tutta la violenza, tutta l'acredine d'uno spirito
limitato, o almeno mal regolato. Non volea nemmen riconoscere avere
colla sua duplicità provocato in certo qual modo siffatto disprezzo.
Persistè a credere lei sola essere da compiangersi e Montoni da
biasimare. Incapace di concepire qualche idea morale d'obbligazione,
non ne sentiva la forza se non quando la si violava verso di lei. La
sua vanità soffriva già crudelmente per lo sprezzo aperto del
consorte; le restava da soffrir davvantaggio, scuoprendone lo stato di
fortuna. Il disordine della di lui casa faceva conoscere parte della
verità alle persone spassionate; ma quelle che non volevan credere
decisamente se non secondo i loro desideri, erano affatto cieche. La
Montoni non si credeva niente meno d'una principessa, essendo padrona
di un palazzo a Venezia, e di un castello negli Appennini. Talvolta
Montoni parlava di andare per qualche settimana al suo castello di
Udolfo ond'esaminarne lo stato e ritirarne le rendite. Parea non
esservi stato da due anni, e che il castello fosse abbandonato alle
cure d'un vecchio servo, ch'egli chiamava il suo intendente.

Emilia sentiva parlar di questo viaggio con piacere, poichè le
prometteva nuove idee e qualche tregua alle assiduità di Morano.
D'altronde, alla campagna, avrebbe avuto più agio d'occuparsi di
Valancourt, e della malinconica memoria dei luoghi natii.

Il conte Morano non si tenne lunga pezza al muto linguaggio delle
premure. Dichiarò la sua passione ad Emilia, e fece proposte allo zio,
il quale accettò a dispetto del di lei rifiuto. Incoraggito da
Montoni, ed in ispecie da una cieca vanità, il conte non disperò di
riuscire. Emilia fu sorpresa ed offesa sensibilmente della di lui
persistenza. Morano passava tutto il suo tempo in casa di Montoni, vi
pranzava, e seguiva da per tutto Emilia e la sua zia.

Montoni non parlava più d'andare ad Udolfo, e non era in casa se non
quando vi si trovavano il conte ed Orsino. Si notò qualche freddezza
tra lui e Cavignì, sebbene quest'ultimo abitasse sempre nel palazzo.
Emilia s'avvide che lo zio si rinchiudea spesso nelle sue stanze con
Orsino per ore intiere, e qualunque fosse il tema de' loro colloqui,
convien dire che fosse interessantissimo, perchè Montoni trascurava
fin la sua passione favorita pel giuoco, e passava la notte in casa.
Eravi qualcosa di misterioso nelle visite d'Orsino; Emilia n'era più
inquieta che sorpresa, avendo involontariamente scoperto ciò ch'egli
si sforzava di nascondere. Montoni, dopo le visite dell'amico, era
talfiata più pensieroso del solito; tal altra, le sue profonde
meditazioni l'allontanavano da quanto lo circondava, e spandevano
sulla di lui fisonomia un'alterazione tale da renderla terribile.
Altre volte i di lui occhi sfavillavano, e tutta l'energia dell'animo
suo parea prendere maggior vigore nell'idea d'una sorpresa
formidabile. Emilia cercava di seguire con interesse i di lui
mutamenti, ma si guardò bene dal far conoscere l'esito delle sue
osservazioni alla zia, la quale non vedeva ne' modi strani del marito
se non la conseguenza d'una ordinaria severità.

Una seconda lettera di Quesnel annunziò l'arrivo di lui e della moglie
a Miarenti: conteneva inoltre particolari sul fortunato caso che li
conducea in Italia, e finiva con un invito pressantissimo per Montoni,
sua moglie e sua nipote, di andarlo a trovare ne' suoi nuovi possessi.

Emilia ricevè, quasi nel medesimo tempo, una lettera molto più
interessante, e che per qualche tempo calmò l'amarezza del suo cuore.
Valancourt, sperando ch'ella fosse ancora a Venezia, aveva arrischiato
una lettera per la posta; le parlava del suo amore, delle sue
inquietudini e della sua costanza. Aveva languito per qualche tempo a
Tolosa dopo la di lei partenza, avendovi gustato il piacere di visitar
tutti i giorni quei luoghi, ov'ella si trovava del consueto, ed erane
partito per recarsi al castello di suo fratello, nelle vicinanze della
valle. Dopo le più tenere espressioni e lunghi dettagli, egli
aggiungeva:

«_Voi dovete osservare che la mia lettera è datata da parecchi giorni
diversi. Guardate le prime righe, e conoscerete che le scrissi subito
dopo la vostra partenza di Francia. Scrivere a voi, ecco la sola
occupazione che ha potuto rendermi sopportabile la vostra assenza.
Quando converso con voi sulla carta, e vi esprimo ciascuno de' miei
sentimenti, e tutti gli affetti del cuore, mi pare che siate sempre
presente: non ho avuto fino ad ora altra consolazione. Ho differito a
spedire il plico unicamente pel piacere di aumentarlo. Quando una
circostanza qualunque aveva interessato il mio cuore ed infondeva un
raggio di gioia nell'anima mia, mi affrettava di comunicarvelo, e mi
pareva vedervi godere ad una tal descrizione._

«_Debbo farvi nota una circostanza che distrugge in un punto solo
tutte le mie illusioni. Son costretto di andare a raggiungere il mio
reggimento, e non posso più vagar sotto quelle ombre amene, ove mi
figurava di vedervi al mio fianco. La valle è affittata. Ho luogo di
credere che ciò avvenne a vostra insaputa, da quanto mi ha detto
Teresa stamattina, e perciò appunto ve ne parlo. Essa piangeva
raccontandomi che lasciava il servizio della sua cara padrona, ed il
castello nel quale passò tanti anni felici._ E quel che è peggio,
_aggiungeva_, senza una lettera della signora Emilia che me ne
raddolcisca il dolore. Questa è l'opera del signor Quesnel; e ardisco
dire ch'essa ignora tutto quel che si fa in questo luogo.

«_Teresa mi ha detto aver ricevuto una lettera da lui, annunziandole
che il castello era affittato, che non c'era più bisogno del suo
servizio, e che avesse a sloggiare entro una settimana. Qualche giorno
prima di ricevere questa lettera, ella era stata sorpresa dall'arrivo
del signor Quesnel e di un forestiero, i quali avevano esaminato
partitamente il castello._»

Verso la fine della lettera datata una settimana dopo quest'ultima
frase, Valancourt soggiungea:

«_Prima di partire pel reggimento, sono andato stamattina alla valle.
Ho saputo che il locatario vi è già alloggiato, e che Teresa n'è
partita. Ho procurato di aver notizie sul carattere di cotesto
signore, ma indarno. La peschiera era sempre aperta. Vi andai, e vi
passai un'ora, pascendomi dell'immagine della mia cara Emilia. O
Emilia mia! sicuramente noi non siamo separati per sempre, sì, lo
spero, e vivremo l'uno per l'altro._»

Questa lettera le fece versar molte lacrime, ma lacrime di tenerezza e
soddisfazione, sentendo che Valancourt stava bene di salute, e che il
suo affetto per lei non era indebolito nè dal tempo, nè dalla
lontananza. Quanto alla notizia che le dava intorno al suo castello,
era stupita ed offesa che Quesnel l'avesse affittato senza degnarsi
neppure di consultarla. Questo procedere provava evidentemente a qual
punto egli credesse assoluta la sua autorità ed illimitati i suoi
poteri nell'amministrazione del di lei patrimonio. È vero che prima
della sua partenza le aveva proposto di affittare que' fondi, e per
riguardo ad economia essa non aveva fatta obbiezione alcuna; ma
affidare al capriccio d'uno straniero i beni e la casa paterna,
privarla di un asilo sicuro nel caso che qualche disgraziata
circostanza potesse renderglielo necessario; ecco ciò che l'aveva
decisa ad opporvisi forte. Sant'Aubert, negli ultimi momenti della sua
vita, aveva ricevuto da lei la promessa solenne di non disporre mai
del castello, e, soffrendone la locazione, questa promessa era
violata. Era troppo evidente che Quesnel non aveva fatto caso delle di
lei obbiezioni, e considerava come indifferente tutto ciò che si
opponeva ai soli vantaggi pecuniari. Pareva eziandio ch'egli non si
fosse degnato d'informare Montoni di tale operazione, giacchè
quest'ultimo non avrebbe avuto alcun motivo per nascondergliela, se
gli fosse stata nota. Tale condotta spiacque forte ad Emilia e la
sorprese; ma ciò che l'afflisse maggiormente fu il licenziamento della
vecchia e fedel serva del padre suo. «Povera Teresa,» diceva Emilia,
«tu non puoi avere accumulato nulla del tuo salario; tu eri
caritatevole cogli infelici, e credevi morire in quella casa ove hai
passato il fiore degli anni! Povera Teresa! Ora ti hanno scacciata
nella tua vecchiaia, e sarai costretta d'andare mendicando un tozzo di
pane!»

E piangeva amaramente mentre faceva queste riflessioni, pensando a
quel che avrebbe potuto fare per Teresa, e al modo di spiegarsi in
proposito con Quesnel. Temeva assai che la di lui anima insensibile
non fosse capace di pietà. Volle informarsi se nelle sue lettere a
Montoni colui facesse menzione de' suoi affari; lo zio la fece
pregare, di lì a poco, di passare nel suo gabinetto, e immaginandosi
che egli volesse comunicarle qualche passo di lettera di Quesnel
relativo all'affare della valle, vi andò tosto e lo trovò solo.

«Io scrivo al signor Quesnel,» le disse egli, allorchè la vide
entrare, «in risposta ad una lettera che ho ricevuto ultimamente.
Desiderava parlarvi sopra un articolo di questa lettera.

--Anch'io desiderava intertenermi con voi di tal soggetto,» rispose
Emilia.

--È una cosa interessantissima per voi,» soggiunse Montoni; «voi la
vedrete al certo sotto il medesimo aspetto di me, poichè non si può
vederla diversamente; converrete adunque che qualunque obbiezione
fondata sul _sentimento_, come si dice, deve cedere a considerazioni
d'un vantaggio più positivo.

--Accordandovi questo,» disse Emilia modestamente, «mi pare che nel
calcolo dovrebbero entrare anche le considerazioni d'umanità; ma temo
non sia troppo tardi per deliberare a tal proposito, e mi spiace che
non sia più in mio potere di rigettarlo.

--È troppo tardi,» disse Montoni; «ma piacemi vedere che vi
sottomettete alla ragione e alla necessità, senza abbandonarvi a
querele inutili. Applaudisco assaissimo a tale condotta, la quale
annunzia una forza d'animo di cui il vostro sesso è difficilmente
capace. Quando avrete qualche anno di più, riconoscerete il servizio
che vi fanno gli amici vostri, allontanandovi dalle romanzesche
illusioni del _sentimento_. Non ho ancora chiusa la lettera, e potete
aggiungervi qualche linea per informar lo zio del vostro consenso: lo
vedrete fra breve, essendo mia intenzione di condurvi fra pochi
giorni a Miarenti con mia moglie; così potrete discorrere di
quest'affare.»

Emilia scrisse le linee seguenti:

«_È inutile adesso, o signore, il farvi osservazioni sull'affare del
quale il signor Montoni mi dice avervi scritto. Avrei potuto
desiderare che lo si concludesse meno precipitosamente; ciò mi avrebbe
dato tempo per vincere quant'egli chiama_ pregiudizi, _e il cui peso
mi opprime il cuore. Giacchè la cosa è fatta, io mi vi sottopongo, ma
nonostante la mia sommissione, ho molte cose da dire su altri punti
relativi al medesimo soggetto, e li riserbo pel momento in cui avrò
l'onore di vedervi. Intanto vi prego, signore, di voler prender cura
della povera Teresa, in considerazione della vostra affezionatissima
nipote._

                                           «EMILIA SAINT-AUBERT.»

Montoni sorrise ironicamente a ciò che aveva scritto Emilia, ma non le
fece veruna obbiezione. Ella si ritirò nel suo appartamento, e
cominciò una lettera per Valancourt; vi riferiva le particolarità del
suo viaggio, e l'arrivo a Venezia. Vi descrisse le scene più
interessanti del suo passaggio nelle Alpi, le sue emozioni alla prima
vista dell'Italia, i costumi ed il carattere del popolo che la
circondava, e qualche dettaglio sulla condotta di Montoni. Si guardò
bene dal nominare il conte Morano, e meno ancora della di lui
dichiarazione, sapendo quanto il vero amore sia facile ad allarmarsi.




CAPITOLO XVII


Il dì dopo, il conte pranzò in casa Montoni; era straordinariamente
allegro. Emilia osservò nelle sue maniere con lei un'aria di fiducia e
di gioia che non aveva mai avuta; si provò a reprimerlo raddoppiando
la consueta freddezza, ma non le riuscì. Egli parve cercar l'occasione
di parlarle senza testimoni, ma Emilia non volle mai aderire ad
ascoltar cose che non si potessero dire a voce alta. Verso sera, il
signor Montoni e tutta la società andarono a divertirsi sul mare; il
conte, conducendo Emilia allo _zendaletto_[1], portò la sua mano alle
proprie labbra, e la ringraziò della condiscendenza che si era degnata
mostrare. La fanciulla, sorpresa e malcontenta, affrettossi a ritirar
la mano, e credette che scherzasse; ma quando in fondo alle scale
conobbe, dalla livrea, che era lo zendaletto del conte, e che il resto
della società, essendo già entrata in altre gondole, stava per
partire, risolse di non soffrire un abboccamento particolare; gli
diede la buona sera, e tornò verso il portico. Il conte la seguì,
pregando e supplicando, allorchè giunse Montoni, il quale la prese per
mano, e la condusse al zendaletto; Emilia lo pregava sottovoce di
considerare la sconvenienza di quel passo.

      ¹ Specie di gondoletta ornata con magnificenza.

«Questo capriccio è intollerabile,» diss'egli; «io non vedo qui
nessuna sconvenienza.»

Da quel punto, l'avversione di Emilia pel conte divenne una specie
d'orrore; l'audacia inconcepibile colla quale continuava a
perseguitarla ad onta del suo rifiuto, l'indifferenza ch'egli mostrava
per la sua opinione particolare, finchè Montoni favorisse le sue
pretese, tutto si riuniva per aumentare l'eccessiva ripugnanza ch'essa
non aveva mai cessato di sentire per lui. Si tranquillò però alquanto
sentendo che Montoni sarebbe venuto con loro. Egli si mise da una
parte e Morano dall'altra. Tutti tacevano mentre i gondolieri
preparavano i remi; ma Emilia, fremendo del colloquio che sarebbe
susseguito a quel silenzio, ebbe alfine bastante coraggio per romperlo
con qualche parola indifferente, all'uopo di prevenire le
sollecitazioni dell'uno ed i rimproveri dell'altro.

«Io era impaziente,» le disse il conte, «di esprimere la mia
riconoscenza alla vostra bontà: ma devo pure ringraziare il signor
Montoni, che mi procurò un'occasione tanto desiderata.»

Emilia guardò il conte con un misto di sorpresa e malcontento.

«Come!» soggiuns'egli; «vorreste voi diminuire la soddisfazione di
questo momento delizioso? Perchè rimpiombarmi nella perplessità del
dubbio, e smentire, coi vostri sguardi, il favore delle vostre ultime
dichiarazioni? Voi non potete dubitare della mia sincerità e di tutto
l'ardore della mia passione. È inutile, vezzosa Emilia, senza dubbio,
è inutile affatto che cerchiate di nascondere più a lungo i vostri
sentimenti.

--Se li avessi mai nascosti, signore,» rispose Emilia, «sarebbe
inutile senza dubbio il dissimularli viemaggiormente. Aveva sperato
che mi avreste risparmiata la necessità di dichiararli ancora; ma
poichè mi ci obbligate, vi protesto, e per l'ultima volta, che la
vostra perseveranza vi priva perfin della stima ond'io era disposta a
credervi degno.

--Perdio!» sclamò Montoni; «questo oltrepassa la mia aspettativa;
aveva conosciuto capricci nelle donne, ma... Osservate, madamigella
Emilia, che se il conte è vostro amante, io nol sono, e non servirò di
trastullo alle vostre capricciose incertezze. Vi si propone un
matrimonio che onorerebbe ogni famiglia: ricordatevi che la vostra non
è nobile; voi resisteste lunga pezza alle mie ragioni; il mio onore
adesso è impegnato, e non intendo fare una trista figura. Voi
persisterete, se v'aggrada, nella dichiarazione che m'incaricaste di
fare al conte.

--Bisogna per certo che siate caduto in errore, signore,» disse
Emilia; «le mie risposte su questo soggetto furono costantemente le
medesime; è degno di voi l'accusarmi di capriccio. Se acconsentiste
ad incaricarvi delle mie risposte, è un onore ch'io non sollecitai. Ho
dichiarato io stessa al conte Morano, ed a voi, o signore, che non
accetterò mai l'onore ch'egli vuol farmi, e lo ripeto.»

Il conte guardava Montoni con meraviglia; il contegno di quest'ultimo
mostrava eziandio sorpresa, ma una sorpresa mista a sdegno.

«Qui c'è audacia e capriccio insieme. Negherete voi le vostre proprie
espressioni, signorina?

--Una tal domanda non merita risposta,» disse Emilia arrossendo; «voi
ve la rammenterete, e vi pentirete d'averla fatta.

--Rispondete categoricamente,» replicò Montoni con veemenza. «Dunque
ardite disdire le vostre parole? Vorreste negare che poco fa avete
riconosciuto esser troppo tardi per isciogliervi dai vostri impegni, e
che voi accettaste la mano del conte? lo negherete voi?

--Negherò tutto, perchè nessuna delle mie parole ha mai espresso nulla
di simile.

--Negherete voi quello che scriveste al signor Quesnel vostro zio? Se
ardite farlo, il vostro carattere attesterà contro di voi. Che potete
dire adesso?» continuò Montoni, prevalendosi del silenzio e della
confusione d'Emilia.

--Mi accorgo, signore, che siete in un grand'abbaglio, e ch'io stessa
fui ingannata.

--Non più finzioni, ve ne prego. Siate franca e sincera, se è
possibile.

--Io sono stata sempre tale, signore, e non men fo al certo nessun
merito. Non ho alcun motivo di fingere.

--Cosa vuoi dir tutto questo?» esclamò Morano alquanto commosso.

--Sospendete il vostro giudizio, conte,» replicò Montoni; «le idee
d'una donna sono impenetrabili. Ora, si venga alla spiegazione....

--Scusatemi, signore, se io sospendo questa spiegazione fino al
momento in cui voi sembrerete più disposto alla fiducia; tutto quel
ch'io potrei dire adesso non servirebbe che ad espormi ad insulti.

--Spiegatevi ve ne prego,» disse Morano.

--Parlate,» soggiunse Montoni, «vi accordo tutta la fiducia; sentiamo.

--Permettete che vi porti ad uno schiarimento, facendovi una domanda.

--Mille se v'aggrada,» disse Montoni sdegnosamente.

--Qual era il tema della vostra lettera al signor Quesnel?

--Eh! qual poteva mai essere? L'offerta onorifica del conte Morano.

--Allora, signore, noi ci siamo ingannati stranamente entrambi.

--Noi ci siamo spiegati male, suppongo, nel colloquio precedente alla
lettera. Devo rendervi giustizia; siete molto ingegnosa nel far
nascere un malinteso.»

Emilia procurava di trattenere le lagrime e risponderete con fermezza.
«Permettetemi, signore, di spiegarmi intieramente, o di tacer del
tutto.

--Montoni,» gridò il conte, «lasciatemi patrocinare la mia propria
causa; è chiaro che voi non potete farci nulla.

--Qualunque discorso a tal proposito,» disse Emilia, «è inutile; se
volete farmi grazia, non prolungatelo.

--È impossibile, signora, ch'io soffochi una passione che forma
l'incanto ed il tormento della mia vita. V'amerò sempre, e vi
perseguiterò con ardore instancabile; quando sarete convinta della
forza e costanza della mia passione, il vostro cuore cederà alla
pietà, e forse al ravvedimento.»

Un raggio di luna, cadendo sul volto di Morano, scoperse il
turbamento e l'agitazione dell'anima sua. D'improvviso esclamò: «È
troppo, signor Montoni, voi m'ingannaste, e vi domando soddisfazione.

--A me, signore? l'avrete,» balbettò questi.

--Mi avete ingannato,» continuò Morano, «e volete punire l'innocenza
del cattivo successo dei vostri progetti.»

Montoni sorrise sdegnosamente. Emilia, spaventata dalle conseguenze
che poteva avere quel diverbio, non potè tacere più a lungo. Spiegò il
motivo dello sbaglio, e dichiarò che non aveva inteso consultar
Montoni se non per l'affitto della valle, concludendo, e supplicandolo
di scrivere sul momento a Quesnel onde riparare a siffatto errore.

Il conte poteva appena contenersi; nullameno, mentr'essa parlava,
entrambi stavano attenti ai suoi discorsi. Calmato alquanto il di lei
spavento, Montoni pregò il conte d'ordinare ai gondolieri di tornare
addietro, promettendogli un abboccamento particolare; Morano aderì
senza difficoltà.

Emilia, consolata dalla prospettiva di qualche riposo, adoprò le sue
premure conciliatrici a prevenire una rottura fra due persone che
aveanla perseguitata, ed insultata ben anco senza riguardo.

Lo zendaletto si fermò alla casa di Montoni; il conte condusse Emilia
in una sala, ove lo zio la prese pel braccio e le disse qualcosa
sottovoce. Morano le baciò la mano nonostante tutti i di lei sforzi
per ritirarla, le augurò la buona notte colla più tenera espressione,
e ritornò allo zendaletto, accompagnato dall'altro.

Emilia, nella sua camera, considerò con estrema inquietudine la
condotta ingiusta e tirannica di Montoni, la pertinacia impudente di
Morano e la propria tristissima situazione, lontana dagli amici e
dalla patria. Invano pensava a Valancourt, come a di lei protettore:
egli era trattenuto lontano dal suo servizio, ma si consolava almeno
nel sapere ch'esisteva al mondo una persona la quale divideva le sue
pene, ed i cui voti non tendevano che a liberarnela.

Risolse nondimanco di non cagionargli un dolore inutile
ragguagliandolo come le spiacesse d'aver respinto il suo giudizio
sopra Montoni, benchè però non si pentisse d'aver ascoltata la voce
del disinteresse e della delicatezza, rifiutando la proposta d'un
matrimonio clandestino. Ella nutriva qualche speranza nel suo prossimo
colloquio collo zio; era decisa a dipingergli la sua trista
situazione, e pregarlo di permettergli d'accompagnarlo al di lui
ritorno in Francia; quando d'improvviso ricordossi che la valle, suo
prediletto soggiorno, unico suo asilo, non sarebbe più a di lei
disposizione per lunga pezza. Pianse allora, temendo di trovar poca
pietà in un uomo come Quesnel, il quale disponeva delle sue proprietà
senza nemmen degnarsi di consultarla, e licenziava una serva vecchia e
fedele, mettendola così in istrada. Ma benchè certa di non aver più
casa in patria, e pochi amici, volea tornarvi, per sottrarsi al
dominio di Montoni, la cui tirannide verso di lei e la durezza verso
gli altri pareanle insopportabili. E neppur desiderava abitare collo
zio, il procedere del quale a di lei riguardo bastava a convincerla
del pari non avrebbe altro fatto se non cambiar d'oppressore.

La condotta di Montoni le pareva singolarmente sospetta, a proposito
della lettera a Quesnel. Poteva, da principio, essere stato ingannato;
ma essa temeva non persistesse egli volontariamente nel suo errore per
intimorirla, piegarla ai suoi desiderii, e costringerla a sposare il
conte. In qualunque caso però, era premurosissima di parlarne a
Quesnel, e considerava la sua visita imminente con un misto
d'impazienza, di speranza e timore.

Il giorno seguente, la Montoni, trovandosi sola con Emilia, le parlò
del conte Morano. Parve sorpresa che la sera innanzi non avesse
raggiunto le altre gondole, e ripreso così presto la volta di Venezia.
Emilia raccontò tutto l'accaduto, esprimendo il suo cordoglio per il
malinteso sorto fra lei e Montoni, e supplicò la zia d'interporre i
suoi buoni uffici, perchè questi desse al conte un rifiuto decisivo e
formale; ma si accorse in breve ch'ella sapeva già tutto.

«Non dovete aspettarvi nessuna condiscendenza da me,» le disse: «ho
già dato il mio voto, ed il signor Montoni ha ragione di estorcere il
vostro consenso con tutti i mezzi che sono in suo potere. Quando la
gioventù s'accieca su' suoi veri interessi, e se ne allontana
ostinatamente, la maggior fortuna che possa avere è quella di trovare
amici che si oppongano alle loro follie. Ditemi, in grazia, se, per la
vostra nascita, potevate aspirare ad un partito così vantaggioso, come
quello che vi è offerto?

--No, signora,» rispose Emilia; «io non ho l'orgoglio di pretendere...

--Non si può negare che non ne abbiate una buona dose. Il mio povero
fratello, vostro padre, era anch'egli molto orgoglioso; ma, in verità,
bisogna confessarlo, la fortuna non lo favoriva troppo.»

Sdegnata per questa maligna allusione al padre, ed incapace di
rispondere con sufficiente moderazione, Emilia esitò un momento
confusa; la zia ne trionfava; finalmente le disse: «L'orgoglio di mio
padre, signora, aveva un oggetto nobilissimo; la sola felicità ch'ei
conoscesse, veniva dalla bontà, educazione e carità sua verso il
prossimo. Egli non la fece mai consistere nel superar gli altri in
ricchezza, nè era umiliato della sua inferiorità a tal riguardo. Non
respigneva i miseri e gli sventurati. Disprezzava talvolta quelle
persone le quali, in seno alla prosperità, si rendevano invise a forza
di vanità, d'ignoranza e di crudeltà. Io farò dunque consistere la mia
gloria nell'imitarlo.

--Non ho la pretensione, nipote mia, di comprendere quest'accozzaglia
di bei sentimenti; ne lascio tutta la gloria a voi; ma vorrei
insegnarvi un poco di buon senso, e non vedervi la maravigliosa
saviezza di sprezzare la vostra felicità. Non mi vanto d'una
educazione tanto raffinata come quella che vostro padre si piacque di
darvi, ma mi contento d'un po' di senso comune. Sarebbe stata una vera
fortuna, per vostro padre e per voi, se vi avesse insegnato ad
adoprarlo.»

Emilia, offesa sensibilmente da simili riflessioni sulla memoria del
padre, disprezzando questo discorso, la lasciò d'improvviso e
ritirossi nella sua camera.

Ne' pochi giorni che scorsero da questo colloquio alla partenza per
Miarenti, Montoni non rivolse mai una parola alla nipote; i di lui
sguardi esprimevano il suo risentimento; ma Emilia era molto sorpresa
com'egli potesse astenersi dal rinnovare il soggetto. Lo fu
viemaggiormente vedendo che, negli ultimi tre giorni, il conte non
comparve, e che Montoni non ne pronunziò neppure il nome. Parecchie
congetture le si affacciarono alla mente; temeva talora che la lite si
fosse rinnovata, e fosse riuscita fatale al conte; qualche volta
inclinava a credere che la stanchezza e il disgusto fossero state la
conseguenza del di lei rifiuto, e ch'egli avesse abbandonato i suoi
progetti; da ultimo, s'immaginava che il conte ricorresse allo
strattagemma di sospendere le sue visite, ottenendo da Montoni che non
lo nominasse, nella speranza che la gratitudine e la generosità
opererebbero molto su lei, e determinerebbero un consenso ch'egli non
attendeva più dall'amore. Passava il tempo in queste vane congetture,
cedendo volt'a volta alla speranza ed all'amore: partirono infine per
Miarenti, e quel giorno, come gli altri, il conte non comparve, nè si
parlò menomamente di lui.

Montoni avendo deciso di non partir da Venezia prima di sera, per
evitare il caldo e godere il fresco della notte, s'imbarcarono per
giungere alla Brenta un'ora prima del tramonto. Emilia, seduta sola a
poppa, contemplava in silenzio gli oggetti che fuggivano a misura che
la barca inoltrava: vedeva i palazzi sparire a poco a poco confusi
coll'onde; ben presto le stelle succedettero agli ultimi raggi del
sole, ed una notte fresca e tranquilla l'invitò a dolci meditazioni,
turbate sol dal romore momentaneo dei remi, e dal lieve mormorio delle
acque.

Giunti alle bocche della Brenta, si attaccarono alla barca i cavalli,
e la fecero avanzare speditamente fra due sponde ornate a vicenda
d'alberi altissimi, di ricchi palagi, di giardini deliziosi, e di
boschetti odorosi di mirti e d'aranci. Allora affacciaronsi alla
fanciulla tenere memorie; pensò alle belle sere passate nella sua
valle, ed a quelle trascorse con Valancourt presso Tolosa ne' giardini
della zia. Perduta in tristi riflessioni, e spesso colle lagrime agli
occhi, ne fu scossa d'improvviso dalla voce di Montoni, che l'invitava
a prender qualche rinfresco. Recatasi nella cabina, vi trovò la zia
sola. La fisonomia di questa era accesa di collera, prodotta, a quanto
parea, da un colloquio avuto col marito. Questi la guardava con aria
di corruccio e disprezzo, e per qualche tempo restarono ambedue in
perfetto silenzio. Montoni parlò ad Emilia di Quesnel.

«Mi lusingo, non vorrete persistere nel sostenere che ignoravate il
soggetto della mia lettera.

--Dopo il vostro silenzio mi era figurata, o signore, che non fosse
più necessario d'insistere, e che avreste riconosciuto il vostro
errore.

--Avevate sperato l'impossibile,» sclamò Montoni; «mi sarei dovuto
aspettare dal vostro sesso una sincerità ed una condotta più
riflessiva, colla stessa facilità con cui voi poteste immaginarvi di
convincermi d'errore.»

Emilia arrossì, e non parlò più. Conobbe allora troppo chiaramente che
aveva di fatti sperato l'impossibile, e che laddove eravi stato errore
volontario, non si poteva sperare di convincere; era evidente che la
condotta di Montoni non era stata l'effetto di un malinteso, ma quello
d'un piano concertato.

Impaziente di sottrarsi ad un colloquio tanto dispiacevole ed
umiliante per lei, Emilia tornò fuori a sedere a poppa. Là almeno le
veniva accordato dalla natura quella quiete che le ricusava Montoni.

Quando, svegliata dalla voce d'una guida o da qualche movimento nella
barca, essa ricadea nelle sue riflessioni, pensava all'accoglienza che
le farebbero i coniugi Quesnel, e che cosa direbbe a proposito della
valle. Poi cercava distogliere lo spirito da un soggetto tanto
fastidioso, divertendosi a contemplare i tratti del bel paese
illuminato dalla luna. Mentre la sua imaginazione distraevasi così,
scoprì un edifizio che s'innalzava al disopra degli alberi. Man mano
che la barca inoltrava, udiva rumor di voci; in breve distinse l'alto
portico d'una bella casa ombreggiata da pini e pioppi, e la riconobbe
per la casa medesima statale già mostrata come proprietà del parente
della signora Quesnel.

La barca si fermò vicino ad una scala marmorea che conduceva sotto il
portico, il quale era illuminato. Montoni sbarcò colla sua famiglia, e
trovarono i coniugi Quesnel in mezzo agli amici, assisi su sofà, che
godevano il fresco della notte mangiando frutti e gelati, mentre
alcuni suonatori, in qualche distanza, facevano una bella serenata.
Emilia era già avvezza ai costumi dei paesi caldi, e non fu sorpresa
di trovar quei signori di fuori dal loro portico a due ore dopo
mezzanotte.

Fatti i soliti complimenti, la compagnia prese posto sotto il
portico, e da una sala vicina le furono serviti rinfreschi
squisitissimi. Cessato il piccolo tumulto dell'arrivo, e quando Emilia
si fu rimessa dal turbamento provato in barca fu sorpresa dalla
bellezza singolare di quel luogo, e dai comodi che offriva per
guarentirsi dalle molestie della stagione. Era una rotonda a cupola
scoperta di marmo bianco, sostenuta da colonnati della medesima
materia. Le due ali guardavano su lunghi cortili, lasciando vedere
immense gradinate sulle sponde del fiume. Una fontana in mezzo, co'
suoi zampilli, formava, cadendo un piacevole mormorio, e l'odore soave
dei fiori profumava quel luogo delizioso.

Quesnel parlò dei propri affari col suo tuono ordinario d'importanza.
Vantò i nuovi acquisti, e compianse con affettazione Montoni delle
recenti perdite da lui fatte. Quest'ultimo, il cui orgoglio almeno era
capace di sprezzare una tale ostentazione, scuopriva facilmente, sotto
una finta compassione, la vera malignità di Quesnel. Lo ascoltò con
silenzio sdegnoso, quand'ebbe nominato sua nipote, si alzarono
entrambi ed andarono a passeggiare in giardino.

Emilia intanto si avvicinò alla signora Quesnel, la quale parlava
della Francia. Il solo nome della di lei patria erale caro: provava
gran piacere nel considerare una persona che ne veniva. Quel paese
d'altronde era abitato da Valancourt, e dessa ascoltava attentamente
nella lieve lusinga di sentirlo nominare. La Quesnel che, durante il
suo soggiorno in Francia, parlava con estasi dell'Italia, non parlava
in Italia che delle delizie della Francia, sforzandosi di eccitare la
curiosità altrui raccontando tutte le belle cose che aveva avuto la
fortuna di vedervi.

Emilia attese invano il nome di Valancourt. La signora Montoni parlò a
sua volta delle bellezze di Venezia, e del piacere che sperava gustare
visitando il castello di Montoni negli Appennini. Quest'ultimo
articolo non era trattato che per vanità. Emilia sapeva bene che la di
lei zia apprezzava poco le grandezze solitarie, e quelle in ispecie
che potea presentare il castello di Udolfo. La conversazione continuò
malignandosi vicendevolmente, per quanto poteva permetterlo la
civiltà, con reciproca ostentazione. Assise su morbidi sofà, sotto un
portico elegante, circondate dai prodigi della natura e dell'arte, gli
esseri meno sensibili avrebbero dovuto provare trasporti di
cordialità, buone disposizioni, e cedere con trasporto a tutte le
dolcezze di quei luoghi incantati.

Poco stante albeggiò; sorse il sole, e permise agli sguardi attoniti
di contemplare il magnifico spettacolo che offrivano da lunge i monti
coperti di neve, i declivi verdeggianti, e le ubertose pianure che si
estendevano alle loro falde.

I contadini che andavano al mercato passavano in battello. Gli
ombrelli di tela colorata, che portavano la maggior parte per
guarentirsi dai raggi solari; i canestri di frutti e di fiori che
andavano accomodando nel tragitto; l'abbigliamento semplice e
pittoresco delle villanelle, tutto formava un colpo d'occhio dei più
sorprendenti. La rapidità della corrente, la vivacità dei rematori, i
canti di quei contadini all'ombra delle vele, ed il suono di qualche
rustico strumento, dava a tutta la scena il carattere di una festa
campestre.

Allorchè Montoni e Quesnel ebbero raggiunte le signore, passeggiarono
tutti insieme nei giardini, la cui elegante distribuzione contribuì
molto a distrarre Emilia. La forma maestosa e la ricca verzura dei
cipressi, ch'ella trovava qui nella loro perfezione, l'altezza
smisurata dei pini e dei pioppi, i folti rami dei platani,
contrastavano coll'arte in quei giardini meravigliosi; i boschetti di
mirto ed altre piante fiorite confondevano gli aromatici effluvi con
quelli di mille fiori che smaltavano il terreno, e l'aria veniva
rinfrescata dai limpidi ruscelli, serpeggianti fra i verdi pergolati.

Intanto il sole s'innalzava sull'orizzonte, ed il caldo cominciava a
farsi sentire. La società abbandonò i giardini per andar in cerca di
riposo.




CAPITOLO XVIII


Emilia profittò della prima occasione propizia per parlare a Quesnel
del castello della valle. Le sue risposte furono concise, e fatte
coll'accento di chi non ignorando il suo assoluto potere,
s'impazientisce di vederlo messo in dubbio. Le dichiarò che la
disposizione presa era una misura necessaria, e ch'essa doveva andar
debitrice alla di lui prudenza de' vantaggi che gliene sarebbero
ridondati.

«Del resto,» aggiunse «quando il conte veneziano, di cui non mi
ricordo il nome, vi avrà sposata, i fastidi della vostra dipendenza
cesseranno. Come vostro parente, mi rallegro per voi d'una circostanza
tanto felice, e, ardisco dirlo, così poco attesa dai vostri amici.»

Per qualche momento, Emilia restò muta e fredda; quindi procurò
disingannarlo a proposito del poscritto da lei aggiunto alla lettera
di Montoni; Quesnel parve avere ragioni particolari di non crederle, e
per assai tempo persistè ad accusarla di capriccio. Convinto alfine
della di lei avversione per Morano, e del rifiuto positivo che gli
aveva dato, si abbandonò alle stravaganze del risentimento,
esprimendosi colla maggiore asprezza. Lusingato segretamente dal
parentado d'un nobile, onde aveva finto dimenticar il casato, era
incapace d'intenerirsi dei patimenti cui poteva incontrare la nipote
nel sentiero che le segnava la propria ambizione.

Emilia vide tosto tutte le difficoltà che la minacciavano; e
quantunque nessuna persecuzione potesse farla rinunziare a Valancourt
per Morano, essa fremeva all'idea delle violenze di suo zio. A tanta
collera ed a tanto sdegno oppos'ella solamente la dolce dignità d'uno
spirito superiore; ma la fermezza misurata della sua condotta non
servì che ad esacerbare il corruccio di Quesnel, obbligandolo a
riconoscere la sua inferiorità. Finì per dichiararle che, se
persisteva nella sua follìa, e lui e Montoni l'avrebbero abbandonata
al disprezzo universale.

La calma nella quale Emilia erasi mantenuta in presenza dello zio,
l'abbandonò quando fu sola: pianse amaramente; ripetè più d'una volta
il nome del padre, di quel tenero padre che non vedeva più, e di cui
si rammentava tutti gli avvertimenti datile al letto di morte. «Oimè!»
diceva essa; «conosco bene adesso che la forza del coraggio è
preferibile alle grazie della sensibilità. Farò tutti gli sforzi per
adempire alla mia promessa; non mi abbandonerò ad inutili lamenti, e
procurerò di soffrire con fortezza d'animo l'oppressione che non posso
evitare.»

Sollevata in qualche modo dal suo fermo proposito di adempire in parte
alle ultime volontà paterne, terse il pianto, e comparve a tavola
colla consueta serenità.

Verso sera, le signore andarono a prendere il fresco nella carrozza
della Quesnel sulle rive della Brenta. La situazione d'Emilia formava
un contrasto malinconico coll'allegria delle brillanti società riunite
sotto gli alberi lungo il delizioso fiume. Taluni ballavano all'ombra,
altri, sdraiati sull'erba, prendevano gelati, mangiavano frutti e
gustavano in pace le dolcezze d'una bella sera all'aspetto del più bel
paese del mondo.

La fanciulla considerando le lontane vette nevose degli Appennini,
pensò al castello di Montoni, e fremè all'idea ch'egli ve la
condurrebbe, ed avrebbe saputo costringerla all'obbedienza. Questo
timore però svanì, riflettendo ch'era in di lui potere a Venezia, come
lo sarebbe stata in ogni altra parte.

Tornarono a Miarenti assai tardi; la cena era preparata nella
magnifica rotonda già tanto ammirata da Emilia: le signore si
riposarono sotto il portico, finchè Quesnel, Montoni ed altri
gentiluomini vennero a raggiungerle. Emilia faceva ogni sforzo per
tranquillarsi, allorchè una barca sostò d'improvviso alla scalea del
giardino, ed essa distinse la voce di Morano, il quale comparve poco
dopo. Ricevè i di lui complimenti in silenzio, e la sua freddezza
parve da principio sconcertarlo, ma in seguito si rimise, riprese il
suo brio, e la fanciulla osservò che la specie d'adulazione onde
l'opprimevano i suoi zii, e di cui ella maravigliossi forte, eccitava
solo il suo disgusto.

Appena potè ritirarsi, le di lei riflessioni quasi involontariamente
si aggirarono sui mezzi possibili d'indurre il conte a desistere dalle
sue pretese; la sua delicatezza non ne trovò di più efficace fuor
quello di confessargli un vincolo già formato, e rimettersene alla di
lui generosità. Nullameno, quando la domane egli rinnovò le sue
premure, Emilia abbandonò quel progetto: sarebbe repugnato troppo al
di lei orgoglio lo svelare il segreto del suo cuore ad un uomo come
Morano, e domandargli un sacrifizio; talchè respinse con impazienza il
piano già concetto. Ripetè il suo rifiuto nei termini più decisi, e
biasimò severamente la condotta tenuta verso di lei. Il conte ne parve
mortificato, ma continuò a persistere nelle solite assicurazioni di
tenerezza; l'arrivo della Quesnel l'interruppe, e fu per Emilia un
gran soccorso.

Di tal guisa, Emilia passò i giorni più infelici in quella casa
deliziosa a motivo dell'ostinata assiduità di Morano, e della tirannia
crudele che esercitavano su di lei Quesnel e Montoni, i quali
parevano, al par della zia, più risoluti che mai a siffatto
matrimonio. Quesnel, vedendo infine che i discorsi e le minacce erano
egualmente inutili per venire ad una pronta decisione, vi rinunziò, e
tutto fu rimesso al tempo ed al potere di Montoni. Emilia intanto
desiderava tornar a Venezia, sperando colà sottrarsi in parte alle
persecuzioni di Morano; d'altro lato, Montoni, distratto dalle
occupazioni, non sarebbe sempre stato in casa. In mezzo alle sciagure,
pensò anche a raccomandar con forza la povera Teresa a Quesnel il
quale, la lusingò promettendole che non l'avrebbe dimenticata.

Montoni, in un lungo colloquio, concertò con Quesnel il piano da
eseguirsi riguardo alla nipote, e questi promise trovarsi a Venezia
tosto dopo la celebrazione del matrimonio.

Emilia per la prima volta, non provò verun rincrescimento a separarsi
da' parenti. Morano tornò a Venezia nella stessa barca di Montoni. La
fanciulla, la quale osservava gradatamente l'avvicinarsi di quella
superba città, si vide dappresso la sola persona che potesse
diminuirgliene il piacere. Arrivarono verso mezzanotte; Emilia fu
liberata dalla presenza del conte, che seguì Montoni in un casino, e
potè finalmente ritirarsi nella sua camera.

Il dì seguente, lo zio in un breve colloquio dichiarò ad Emilia che
non intendeva esser tirato più per le lunghe; il suo matrimonio col
conte era per lei di un vantaggio così prodigioso, che sarebbe follìa
l'opporvisi, ed una follìa inconcepibile, e che verrebbe celebrato
senza dilazione, e, se facea duopo, senza di lei consenso. La giovane,
la quale fino allora aveva impiegate le ragioni, ricorse alle
preghiere: il dolore le impediva di considerare che, con un uomo del
carattere di Montoni, le suppliche non produrrebbero migliore effetto
delle ragioni. Gli domandò poscia con qual diritto esercitasse egli su
di lei quell'autorità illimitata. In uno stato più tranquillo, non
avrebbe rischiato questa domanda che non le giovava a nulla, e faceva
trionfare Montoni della sua debolezza e del suo isolamento.

«Con qual diritto?» sclamò questi con un sorriso maligno; «col diritto
della mia volontà; se voi potrete sottrarvene, io non vi domanderò con
qual diritto lo faceste. Ve lo ricordo per l'ultima volta: voi siete
straniera, lontana dalla patria; deve interessarvi di avermi per
amico, e ne conoscete i mezzi; se mi obbligate a divenirvi nemico,
m'arrischierò a dire che la punizione supererà la vostra aspettativa;
dovreste ben sapere che non son fatto per essere burlato.»

Emilia restò immobile dopo che Montoni l'ebbe lasciata: era disperata,
o piuttosto stupefatta; il sentimento della sua miseria era il solo
che avesse conservato: la Montoni la trovò in quello stato. La giovine
alzò gli occhi, e il dolore espresso da tutta la di lei persona avendo
senza dubbio intenerita la zia, le parlò con insolita bontà; il cuore
di Emilia ne fu commosso, e dopo aver pianto alcun poco, raccolse
bastante forza per raccontarle il soggetto del suo dolore, e sforzarsi
d'interessarla per lei. La compassione della zia era stata sorpresa,
ma la sua ambizione non poteva moderarsi, e credeva esser già la zia
d'una contessa. I tentativi della fanciulla non riusciron meglio con
lei che con Montoni: ritornò nella sua camera, e cominciò nuovamente a
piangere, risolutissima di sfidare ad ogni costo tutta la vendetta di
Montoni, anzichè sposare un uomo di cui avrebbe disprezzata la
condotta, quand'anco non avesse mai conosciuto Valancourt.

Sopraggiunse poco di poi una faccenda che per qualche giorno sospese
l'attenzione di Montoni; le visite misteriose d'Orsino si erano
rinnovate con maggiore frequenza, dopo il ritorno di Montoni. Cavignì,
Verrezzi, e qualcun altro erano ammessi, oltre Orsino, a questi
conciliaboli notturni: Montoni divenne più riservato e severo che mai.
Se i propri interessi non l'avessero resa indifferente a tutto il
resto, Emilia si sarebbe accorta che meditava qualche progetto.

Una sera che non doveva tenersi riunione, arrivò Orsino agitatissimo e
spedì al casino un suo confidente in cerca di Montoni: lo pregava di
tornare a casa subito, raccomandando al messo di non pronunziar il suo
nome. Montoni tornò sull'istante, trovò Orsino, e seppe tosto il
motivo della visita ed agitazione sua, conoscendone già una parte.

Un gentiluomo veneziano, che aveva recentemente provocato l'odio di
Orsino, era stato pugnalato da scherani pagati da quest'ultimo. Il
morto apparteneva alle prime famiglie, ed il Senato erasi preso a
cuore quell'affare. Uno degli assassini fu arrestato, e confessò,
Orsino essere il reo. Alla nuova del suo pericolo, egli veniva a
trovare Montoni perchè gli facilitasse la fuga, sapendo che in quel
momento tutti gli officiali di polizia erano in cerca di lui per tutta
la città, talchè riuscivagli impossibile di uscirne. Montoni
acconsentì a nasconderlo per qualche giorno finchè la vigilanza fosse
rallentata, e potesse con sicurezza lasciar Venezia. Sapeva il
pericolo che incorreva accordando asilo ad Orsino; ma era tale la
natura delle obbligazioni sue verso quell'uomo, che non credeva
prudente negarglielo.

Tal era la persona ammessa da lui alla sua confidenza, e per la quale
sentiva tanta amicizia, quanto potevalo comportare il suo carattere.

Per tutto il tempo che Orsino rimase nascosto nella casa, Montoni non
volle attirare gli sguardi del pubblico celebrando le nozze del conte;
ma quando la fuga del reo ebbe fatto cessare questo ostacolo, informò
Emilia che il di lei matrimonio avrebbe avuto luogo la mattina
seguente. Essa protestò che non avrebbe mai acconsentito, ed egli
rispose con un maligno sorriso, assicurandola che di buonissima ora il
conte ed un sacerdote si sarebbero trovati in casa sua, e
consigliandola a non isfidare il di lui risentimento con
un'opposizione contraria ai suoi voleri ed al proprio di lei bene.

«Esco per tutta sera,» aggiuns'egli: «ricordatevi che domani do la
vostra mano al conte Morano.»

Emilia, la quale, dopo le ultime di lui minacce, si lusingava che la
crisi giungerebbe al suo termine, fu poco scossa da questa
dichiarazione; studiò dunque il mezzo di farsi coraggio considerando
che il matrimonio non poteva esser valido fintantochè in presenza del
sacerdote ella ricuserebbe di prender parte alla cerimonia. Il momento
della prova si avvicinava, ed essa era egualmente agitata dall'idea
della vendetta e a quella dell'imeneo. Assolutamente incerta sulle
conseguenze del suo rifiuto all'altare, temeva più che mai il potere
illimitato di Montoni, ed era persuasa che avrebbe trasgredite senza
scrupolo tutte le leggi per riuscire ne' suoi progetti.

Mentre stava immersa in questo mare di affanni fu avvertita che Morano
desiderava parlarle. Appena il servo fu uscito con le di lei scuse, se
ne pentì, lo chiamò indietro, e volendo provare se le preghiere e la
fiducia produrrebbero migliore effetto del rifiuto e dello spregio,
gli fece dire che sarebbe andata a trovarlo ella stessa.

La dignità e il nobile contegno con cui mosse incontro al conte,
l'aria rassegnata e pensierosa che ne addolciva la fisonomia, non
erano mezzi capaci per farlo rinunziare a lei, nè servirono se non ad
aumentare una passione che l'aveva già inebriato. Egli ascoltò ciò
ch'essa diceva con apparente compiacenza e gran desiderio di
contentarlo, ma la sua risoluzione era invariabile. Mise in opera con
lei l'arte e l'insinuazione la più raffinata. Persuasa Emilia che non
avesse nulla da sperare dalla di lui giustizia, ripetè solennemente le
sue proteste d'opposizione, e lo lasciò coll'assicurazione formale che
avrebbe saputo mantenersi nella negativa anche malgrado la violenza.
Un giusto orgoglio aveane trattenute le lacrime in presenza di Morano,
ma appena si trovò sola, pianse amaramente, invocando il padre, ed
attaccandosi con dolore inesprimibile all'idea di Valancourt.

La sera era avanzatissima, allorchè la Montoni entrò nella di lei
camera cogli ornamenti nuziali che inviavale il conte. Essa aveva
scansata la nipote per tutta la giornata, temendo cedere ad
un'insolita sensibilità: non ardiva esporsi alla disperazione di
Emilia; e forse la sua coscienza, il cui linguaggio era sì poco
frequente, le rimproverava una condotta sì dura verso un'orfana figlia
di suo fratello, e della quale un padre moribondo le aveva affidata la
felicità.

Emilia non volle vedere quei regali, e tentò, sebbene senza speranza,
un nuovo ed ultimo sforzo per interessare la compassione della zia.
Commossa forse alternativamente dalla pietà o dai rimorsi, seppe
nasconder l'una e gli altri, e rimproverò alla nipote la follia di
affliggersi per un matrimonio che non poteva mancare di renderla
felice. «Certo,» le diss'ella, «se io non fossi maritata, e se il
conte mi offrisse la sua mano, sarei molto lusingata di questa
distinzione. Se io credo dover pensare così, voi, nipote mia, che non
siete ricca, dovete indubitatamente trovarvene onoratissima, e
mostrare una riconoscenza, un'umiltà verso Morano, tale da
corrispondere alla sua condiscendenza. Son sorpresa, ve lo confesso,
di veder lui così sommesso e voi così orgogliosa. Stupisco della sua
pazienza, e, se fossi in lui, vi farei per certo ricordare un po'
meglio dei vostri doveri. Io non vi adulerò, ve lo dico schietto; è
questa ridicola adulazione che vi dà tanta e tale opinione di voi
stessa, che vi fa credere non esservi nessuno che possa meritarvi.
L'ho detto spesso al conte; io non badava alla stravaganza de' suoi
complimenti, e voi li pigliavate alla lettera.

--La vostra pazienza, signora,» disse Emilia, «soffriva allora assai
meno della mia.

--Tutto questo è pura affettazione, null'altro,» rispose la zia; «io
so che l'adulazione v'insuperbisce e vi rende così vana, che credete
ingenuamente di vedere tutti gli uomini ai vostri piedi; ma
v'ingannate. Posso accertarvi, nipote mia, che non troverete molti
adoratori come il conte; chiunque altro vi avrebbe voltate le spalle,
e vi avrebbe lasciata in preda a un tardo pentimento.

--Oh! perchè mai il conte non fa quel che farebbero gli altri?» disse
Emilia sospirando.

--È una fortuna per voi che non sia così,» replicò la zia.

--Io non sono ambiziosa; desidero solo restare nello stato in cui mi
trovo.

--Non si tratta di ciò,» soggiunse la zia; «vedo che pensate sempre a
quel Valancourt. Scacciate, ven prego, queste ubbie amorose e questo
ridicolo orgoglio; diventate ragionevole. D'altronde son tutte ciarle
inutili; voi sarete maritata domani, vogliate o no, già lo sapete: il
conte non vuole esser più a lungo vostro zimbello.»

La fanciulla non tentò rispondere a siffatta singolare aringa,
sentendone l'inutilità. La zia depose i regali del conte sopra un
tavolino ove appoggiavasi Emilia, e le augurò la buona sera.
L'orfanella fissò gli occhi sulla porta dond'era uscita la zia;
ascoltava attenta se qualche suono venisse a rialzar l'abbattimento
spaventoso de' suoi spiriti. Era mezzanotte passata; tutti dormivano,
tranne il servo che aspettava il padrone. Il di lei animo, prostrato
dai dispiaceri, cedè allora a terrori imaginari; tremava considerando
le tenebre dell'ampia stanza in cui trovavasi; temeva senza saper
perchè. Durò in tale stato tanto tempo, che avrebbe chiamata Annetta,
la cameriera della zia, se la paura le avesse concesso d'alzarsi dalla
sedia e traversar le camere. Le tetre illusioni a poco a poco
svanirono; ed andò a letto, non per dormire, era impossibile, ma per
cercar di calmare il disordine dell'accesa fantasia e raccogliere le
forze che le sarebbero state necessarie per la mattina seguente.




CAPITOLO XIX


Un colpo battuto alla porta di Emilia la scosse dalla specie di sonno
al quale erasi data in preda. Sussultò: le vennero tosto in mente
Montoni e Morano. Ascoltò qualche momento, e riconoscendo la voce di
Annetta rischiò ad aprire.

«Che ti conduce qui così di buon'ora?» le chiese tutta tremante.

--Per carità, signorina, non vi spaventate; siete così pallida, che
fate paura anche a me. Giù dabbasso fanno un gran rumore; tutti i
servi vanno e vengono con furia, e nessuno può indovinarne il motivo.

--Chi c'è con loro?» disse Emilia; «Annetta, non m'ingannare.

--Il cielo me ne guardi, per tutto l'oro del mondo non v'ingannerei.
Ho veduto soltanto che il signor Montoni mostra un'impazienza
straordinaria, e mi diede l'ordine di farvi alzare sul momento.

--Cielo! aiutatemi,» gridò Emilia disperata. «Il conte Morano è dunque
venuto?

--No, signorina, per quanto io sappia egli non c'è. Sua _eccellenza_
mandommi a dirvi che a momenti saranno qui le gondole, e partiremo da
Venezia. Bisogna ch'io mi sbrighi per tornar dalla padrona, la quale è
tanto confusa, che non sa più quel che si faccia.

--Ma insomma, che cosa significa tutto questo?

--Oh! signora Emilia, io non so altro se non che il signor Montoni è
tornato a casa agitatissimo, e ci ha fatti alzar tutti, dichiarandoci
che bisognava partir sull'istante.

--Il conte Morano viene egli con noi? e dove andiamo?

--Lo ignoro. Ho inteso che Lodovico parlava d'un castello che il
padrone ha in certe montagne.

--Negli Appennini?

--Appunto, signorina; ma sollecitatevi, e pensate all'impazienza del
signor Montoni. Dio buono! sento già i remi delle gondole che
arrivano.»

Annetta uscì a precipizio. Emilia si dispose a questo viaggio
inaspettato, ed appena ebbe gettati libri ed abiti nel baule, ricevè
un secondo avviso; scese nel gabinetto della zia, ove Montoni le
rimproverò la sua lentezza. Egli uscì quindi per dare alcuni ordini, e
Emilia chiese il motivo di quella partenza subitanea. La zia parve
ignorarlo come lei, e che non intraprendesse quel viaggio se non con
estrema ripugnanza.

Finalmente tutta la famiglia s'imbarcò, ma nè Morano, nè Cavignì si
fecero vedere. Questa circostanza rianimò un poco gli spiriti
abbattuti di Emilia, la quale somigliava ad un condannato a morte, cui
venga accordata una breve dilazione: il suo cuore si alleggerì ancor
più, quando ebbero fatto il giro di San Marco senza fermarsi per
prendere il conte.

L'alba cominciava appena a biancheggiar l'orizzonte ed il lido. Emilia
non ardiva fare veruna interrogazione a Montoni, che restò qualche
tempo in cupo silenzio, e s'avvolse quindi nel mantello, come se
avesse voluto dormire. Sua moglie fece altrettanto. Emilia, non
potendo prender sonno, alzò una cortina, e si mise a considerar il
mare. L'aurora illuminava grandemente la sommità dei monti friulani;
ma le loro coste e le onde che le bagnavano, erano tuttavia sepolte
nell'ombra: la fanciulla, immersa in dolce malinconia, osservava i
progressi del giorno, che stendevasi sul mare, illuminando Venezia, i
suoi isolotti, e finalmente le spiagge italiane, lungo le quali
cominciavano già a mettersi in moto le barche. I gondolieri venivano
spesso chiamati da coloro che portavano le provvisioni al mercato di
Venezia. Un'infinita quantità di barchette coperse in breve la laguna.
Emilia gettò l'ultimo sguardo su quella magnifica città; ma il di lei
spirito allora era soltanto occupato da mille congetture sui casi che
l'attendevano, sul paese ov'era trascinata, e sul motivo di quel
viaggio repentino.

Le parve dopo mature riflessioni, che Montoni la conducesse al suo
castello isolato per costringerla più sicuramente all'obbedienza con
mezzi di terrore. Se le scene tenebrose e solitarie che vi si
disponevano non sortissero il bramato esito, il suo matrimonio vi
sarebbe celebrato per forza, e con maggior mistero forse e meno smacco
per l'onore di Montoni. Il poco coraggio resole dalla proroga svanì a
questa terribile idea, e quando si toccò la riva, ell'era ricaduta nel
più penoso abbattimento.

Montoni non rimontò la Brenta, ma continuò in carrozza per andare agli
Appennini. Durante questo viaggio fu così severo con Emilia che ciò
solo avrebbe servito a confermare le sue congetture allarmanti.

I viaggiatori cominciarono a salire gli Appennini: a quell'epoca que'
monti erano coperti da immense foreste di abeti. La strada passava in
mezzo a questi boschi, e non lasciava vedere che rupi spaventevoli
sospese sul loro capo, a meno che qualche radura non lasciasse
distinguere momentaneamente il sottoposto piano. L'oscurità di quei
luoghi, il loro cupo silenzio, quando neanche il più lieve vento
agitava la cima degli alberi, l'orrore dei precipizi susseguentisi,
ciascun oggetto, in una parola, rendeva più imponenti le triste
riflessioni d'Emilia. Essa non vedeva a sè intorno che immagini di
spaventosa grandezza e di tetra sublimità.

A misura che i viaggiatori montavano attraverso le selve, le rupi
accatastavansi a rupi, i monti parevano moltiplicarsi, e la cima di
un'eminenza sembrava servir di base ad un'altra. Finalmente
trovaronsi sopra un piccolo piano, ove i mulattieri sostarono. La
scena vasta e magnifica che si presentava nella valle, eccitò
l'ammirazione universale, ed interessò perfino la signora Montoni.
Emilia obliò un momento i suoi mali nell'immensità della natura. Al di
là d'un anfiteatro di montagne, le cui masse parevano numerose quanto
le onde del mare, e le cui falde erano coperte di folti boschi,
scuoprivansi le campagne d'Italia dove i fiumi, le città, gli oliveti,
le vigne e tutta la prosperità della coltura si mischiavano in una
ricca confusione. L'Adriatico circoscriveva l'orizzonte. Il Po e la
Brenta, dopo aver fecondato tutta l'estensione del bel paese, venivano
a scaricarvi le loro fertili acque. Emilia contemplò a lungo lo
splendore di quei luoghi deliziosi che abbandonava, e la cui
magnificenza sembrava non ispiegarsi davanti a lei se non per
cagionarle maggior rincrescimento. Per lei, il mondo intero non
conteneva che Valancourt, il di lei cuore dirigevasi a lui solo, e per
lui solo versava tante lacrime.

Da quel punto di vista sublime i viaggiatori continuarono a salire
penetrando in una gola angusta che mostrava soltanto minacciose rupi
sospese sulla strada. Nessun vestigio umano, verun segno di
vegetazione compariva colà. Questa gola conduceva nel cuore degli
Appennini. Si allargò finalmente, scoprendo una catena di monti
sterilissimi, attraverso i quali bisognò viaggiare per più ore.

Verso sera, la strada svoltò in una valle più profonda, circondata
quasi tutta da scoscese montagne. Il sole tramontava allora dietro lo
stesso monte che scendevano i viaggiatori, prolungandone l'ombra verso
la valle; ma i suoi raggi orizzontali, traversando qualche spaccatura,
doravano le sommità dell'opposta foresta, e scintillavano sulle alte
torri ed i comignoli d'un castello, i cui vasti bastioni estendevansi
lungo uno spaventoso precipizio. Lo splendore di tanti oggetti bene
illuminati veniva accresciuto dal contrasto dell'ombre che avvolgevano
già la valle.

«Ecco il castello di Udolfo,» disse Montoni, parlando per la prima
volta dopo parecchie ore.

Emilia guardò il castello con una specie di terrore, quando seppe
ch'era quello di Montoni; sebbene illuminato in quel momento dal sole
all'occaso la gotica magnificenza di quell'architettura, le antiche
mura di pietra bigia, ne formavano un oggetto imponente e sinistro. La
luce s'affievolì insensibilmente, spargendo una tinta purpurea che si
estinse grado grado, e lasciò i monti, il castello e tutti gli oggetti
circonvicini in tetra oscurità.

Isolato, vasto e massiccio, esso sembrava dominare la contrada. Più la
notte diveniva oscura, più le sue alte torri parevano imponenti.
L'estensione e l'oscurità di quegli immensi boschi erano considerate
da Emilia come adatte soltanto a servir di covile a masnadieri.
Finalmente, le carrozze giunsero alle porte del castello. La lunga
oscillazione della campana che fu suonata alla porta d'ingresso
aumentò il terrore di Emilia. Mentre si aspettava l'arrivo di qualcuno
che aprisse quelle imposte formidabili, ella considerò il maestoso
edifizio. Le tenebre che l'avvolgevano non le permisero di discernerne
il recinto, le grosse mura, i bastioni merlati e d'accorgersi che era
vasto, antico e spaventoso. La porta d'ingresso conduceva nei cortili,
ed era di proporzioni gigantesche. Due fortissime torri ne difendevano
il passaggio. Invece di stendardi si vedevano svolazzare, su per le
sconnesse pietre, erbe lunghissime e piante salvatiche abbarbicate
nelle rovine, e che parevano crescere a stento in mezzo alla
desolazione che le circondava. Le torri erano congiunte da una cortina
munita di merli e casematte. Dall'alto della vôlta cadeva una pesante
saracinesca. Da questa porta, le mura dei bastioni comunicavano con
altre torri sporgenti sul precipizio; ma queste muraglie quasi
rovinate mostravano i guasti della guerra. Mentre Emilia osservava con
tanta attenzione, si udì aprire i grossi catenacci. Un vecchio
servitore comparve, e spinse le imposte per lasciar entrare il suo
signore. Mentre le ruote giravano con fracasso sotto quelle
saracinesche impenetrabili, Emilia si sentì mancare il cuore, credendo
entrare nella sua prigione. Il cupo cortile che traversarono
confermònne la lugubre idea; e la di lei immaginazione, sempre attiva,
le suggerì un terror maggiore di quel che potesse giustificarlo la sua
ragione.

Un'altra porta l'introdusse nel secondo cortile, ancor più tristo del
primo. Emilia ne giudicava alla fioca luce del crepuscolo, vedendone
le alte mura tappezzate d'ellera e di musco, e le merlate torri
giganteggianti. L'idea di lunghi patimenti e d'un assassinio le colpì
l'immaginazione d'improvviso orrore. Questo sentimento non diminuì
allorchè entrò in una sala gotica, immensa, tenebrosa. Una face che
brillava da lontano traverso una lunga fila d'arcate serviva solo a
renderne più sensibile l'oscurità.

L'arrivo inaspettato di Montoni non aveva permesso alcun preparativo
per riceverlo. Il servo da lui spedito partendo da Venezia, l'aveva
preceduto di pochi momenti, e questa circostanza scusava in qualche
modo lo stato di nudità e disordine del castello.

Il servo che venne a far lume, salutò il padrone tacendo, e la di lui
fisonomia non fu animata da veruna apparenza di piacere. Montoni
rispose al saluto con leggiero moto della mano e passò. La moglie lo
seguiva, guardandosi intorno con una sorpresa ed un malcontento, cui
pareva temer di esprimere. Emilia, vedendo l'immensa estensione di
quell'edificio, con timido stupore si avvicinò ad una scala marmorea.
Qui gli archi formavano una vôlta altissima, dal centro della quale
pendeva una lampada a tre becchi, che il servitore si affrettò di
accendere. La ricchezza delle cornici, la grandezza di una galleria
che conduceva a molti appartamenti, ed i vetri coloriti d'un
finestrone gotico, furono, gli oggetti che scuoprironsi
successivamente.

Dopo aver girato appiè della scala, e traversata un'anticamera,
entrarono in una vastissima sala. L'intavolato di nero larice ne
aumentava l'oscurità.

«Portate altri lumi,» disse Montoni nell'entrare. Il servo depose la
lucerna ed uscì per ubbidire. La padrona osservò che l'aria della sera
era umida in quel clima, e che avrebbe gradito un po' di fuoco:
Montoni ordinò di accenderne.

Mentr'egli passeggiava pensieroso nella stanza, la signora Montoni
riposava silenziosa sopra un sofà, aspettando il ritorno del servo.
Emilia osservava l'imponente singolarità e l'abbandono di quel luogo,
illuminato da una sola lucerna posta in faccia al grande specchio di
Venezia, che rifletteva oscuratamente la scena, e l'alta statura di
Montoni, che passava e ripassava colle braccia incrociate, e la faccia
ombreggiata dalle piume del suo largo cappello. Il vecchio servitore
tornò di lì a poco carico d'un fascio di legna e seguito da altri due
servi con lumi.

«Vostra eccellenza sia il benvenuto,» disse il vecchio, dopo aver
deposte le legna. «Questo castello è stato lunga pezza deserto. Ci
scuserete sapendo che abbiamo avuto pochissimo tempo. Saranno due anni
il giorno di san Marco prossimo, che vostra eccellenza non è venuta
qui.

--Precisamente,» disse Montoni, «tu hai buona memoria, Carlo; come hai
tu fatto dunque a vivere sì lungamente?

--Ah! signore, molto a stento. I venti freddi che soffiano in questi
luoghi nell'inverno, sono cattivi per me. Aveva pensato più d'una
volta di domandare il permesso a vostra eccellenza di lasciarmi
abbandonare i monti per ritrarmi nella valle; ma non so come sia, io
non posso risolvermi ad abbandonare queste vecchie mura dove ho
vissuto per tanti anni.

--Bene,» disse Montoni; «cosa facesti tu in questo castello dopo la
mia partenza?

--Press'a poco come secondo il solito; ma tutto rovina qui: c'è la
torre di settentrione che ha bisogno di esser risarcita; molte
fortificazioni sono in cattivo stato; una parte del tetto della sala
grande è crollato, e poco mancò non cadesse sulla testa della mia
povera moglie (Dio l'abbia in pace). Tutti i venti vi s'inabissavano
l'inverno scorso. Noi fummo quasi per morir di freddo.

--Ci sono altre riparazioni da fare?» disse Montoni con impazienza.

--Oh! sì, eccellenza. Il bastione è rovinato in tre luoghi. Le scale
della galleria a tramontana sono piene di tante macerie, ch'è
pericoloso passarvi. Il corridoio che mette alla camera di quercia, è
nel medesimo stato. Una sera mi ci avventurai; e...

--Basta basta,» disse Montoni vivamente; «ne discorreremo domattina.»

Il fuoco era già acceso. Carlo spazzò il camino, dispose le sedie,
spolverò una tavola di marmo vicina e uscì.

I nostri personaggi s'accostarono al fuoco. La Montoni tentò appiccar
discorso, ma le brusche risposte del marito ne la distolsero. Emilia
procurò di farsi animo, e con voce tremante disse: «Poss'io
domandarvi, o signore, il motivo di questa improvvisa partenza?» Dopo
una lunga pausa ebbe bastante coraggio per reiterare la domanda.

«Non mi garba rispondere alle interrogazioni,» disse Montoni, «come a
voi non conviene di farmene. Il tempo spiegherà tutto. Desidero
adesso non essere importunato più a lungo. Vi consiglio ad adottare
una condotta più ragionevole. Tutte queste idee di pretesa sensibilità
non sono, a dirla schietta, che debolezze.»

Emilia si alzò per andarsene. «Buona notte,» diss'ella alla zia,
nascondendo con difficoltà la sua emozione.

--Buona notte, mia cara,» rispose questa con accento di bontà
straordinaria in lei. La tenerezza inaspettata fece piangere la
fanciulla, che, salutato Montoni, s'avviò. «Ma voi non sapete dove sia
la vostra camera?» soggiunse la zia. Montoni chiamò il servo che
attendeva nell'anticamera, e gli ordinò di far venire la cameriera di
sua moglie, la quale arrivò poco dopo e seguì Emilia.

«Sai tu dove sia la mia camera?» diss'ella ad Annetta nel traversar la
sala.

--Credo saperlo, signorina, ma è una stanza molto stravagante; è
situata sul bastione meridionale, e ci si va dallo scalone: la camera
della signora è all'altra estremità del castello.»

Emilia salì la scala ed entrò nel corridoio. Percorrendolo, Annetta
ripigliò il chiaccherio.

«È un luogo solitario e tristo questo castello; io tremo tutta nel
pensare che devo soggiornarvi. Oh! quante volte mi son pentita di
avere abbandonata la Francia! non mi sarei mai aspettata, quando
seguii la signora per girare il mondo, di essere imprigionata in un
luogo simile. Oh! non sarei venuta via dal mio paese, quand'anco
m'avessero coperta d'oro.

--Da questa parte, signorina, voltate a sinistra. In verità, son quasi
tentata di credere ai giganti. Questo castello sembra fatto
espressamente per loro. Una notte o l'altra vedremo qualche folletto;
ne devono comparire in quella gran sala, la quale, ne' suoi pesanti
pilastri, somiglia più ad una chiesa, che ad altro.

--Sì,» disse Emilia sorridendo, lieta di sottrarsi a più serii
pensieri, «se noi venissimo qui a mezzanotte e guardassimo nel
vestibolo, lo vedremmo per certo illuminato da più di mille lampade.
Tutti gli spiriti ballerebbero in giro al suon di deliziosa musica; e'
soglion sempre tener lor congreghe in luoghi consimili. Temo, Annetta,
tu non abbia bastante coraggio per assistere a sì bello spettacolo. Se
tu parlassi, tutto svanirebbe all'istante.

--Epperciò credo che se abiterò qui un pezzo diverrò un'ombra anch'io.

--Spero che non confiderai i tuoi timori al signor Montoni; gli
spiacerebbero assaissimo.

--Come! voi dunque sapete tutto, signorina? Oh! no, no. So ben io cosa
devo fare, e se il padrone può dormire in pace, certo tutti qui
possono fare altrettanto... Per quest'andito, signorina; esso conduce
ad una scaletta. Oh! se vedo qualcosa, cado svenuta sicuramente.

--Non è possibile,» disse Emilia sorridendo, e svoltando l'andito che
metteva in un'altra galleria. Annetta si avvide allora d'avere
sbagliata strada, e si smarrì sempre più attraverso altri corridoi:
spaventata infine dai loro giri e dalla solitudine loro, gridò
chiedendo soccorso; ma i servi erano dalla parte opposta del castello,
e non potevano udirla. Emilia aprì la porta d'una camera a sinistra.
La cameriera sclamò:

«Non entrate là dentro, signora, ci perderemmo ancor più.

--Porta il lume: troveremo la strada traverso tutte queste stanze.»

Annetta stava alla porta titubando; essa tendeva il lume per lasciar
vedere la camera, ma i suoi raggi non vi penetravano a metà. «Perchè
non entri?» disse Emilia; «lasciami vedere per dove si va per di qui.»

L'altra si avanzò con ripugnanza. La camera dava adito ad una fuga di
stanze antiche e spaziose. I mobili che le adornavano erano antichi
quanto le muraglie, e conservavano un'apparenza di grandezza, sebbene
logorati dal tempo e dalla polvere.

«Come fa freddo qui,» disse Annetta; «a quanto si dice, non vi ha
abitato nessuno da molti secoli. Andiamo via.

--Da questa parte potremo forse arrivare allo scalone,» rispose
Emilia, e andando sempre avanti, si trovarono in una sala guarnita di
quadri; prese il lume per esaminare quello d'un soldato a cavallo sul
campo di battaglia. Egli puntava la spada sopra un uomo disteso ai
piedi del suo destriero, e che sembrava chiederli mercè. Il soldato,
colla visiera alzata, lo guardava con l'aria della vendetta.

Quest'espressione e tutto il complesso sorpresero Emilia per la sua
somiglianza con Montoni; fremè e volse altrove lo sguardo. Passando
col lume accanto agli altri quadri, ne vide uno coperto da un velo
nero; questa singolarità la colpì; fermossi coll'intenzione di alzare
il velo e considerare ciò che v'era nascosto con tanta cura; pure
esitò. «Madonna!» gridò Annetta; «che vuol dir mai questo? È
sicuramente la pittura, il quadro di cui si parlava a Venezia.

--Che pittura?» disse Emilia. «Che quadro?

--Un quadro,» rispose Annetta, tremante e pallida. «Non ho mai potuto
sapere ciò che fosse.

--Alza quel velo, Annetta.

--Chi? io, signorina, io? No, per tutto l'oro del mondo.

--Ma che cosa hai saputo su questo quadro, che ti spaventa tanto?

--Nulla, signorina, non mi è stato detto nulla. Andiamo via.

--Sicuro, ma prima voglio vedere il quadro; piglia il lume, Annetta,
alzerò io il velo.»

La cameriera prese il lume e fuggì precipitosamente, senza volere
ascoltare Emilia, la quale, non volendo restar al buio, fu obbligata a
seguirla.

«Ma che cos'hai, Annetta? Cosa ti fu detto di quel quadro, che scappi
quando ti prego di restare?

--Non ne so il motivo, e non m'han detto nulla. Tutto quel che so, è
che ci fu qualcosa di spaventoso a tal proposito; che in seguito fu
sempre tenuto coperto d'un velo nero, e che nessuno lo ha veduto da
molto tempo. Si dice che ciò abbia qualche rapporto colla persona che
possedeva il castello prima che appartenesse al padrone; e...

--Benissimo, Annetta, mi accorgo che infatti tu non sai nulla del
quadro.

--No, nulla in verità, signorina; perchè mi hanno fatto promettere di
non parlarne mai. Ma...

--In tal caso,» soggiunse Emilia, vedendola combattuta dalla volontà
di rivelare un segreto, e dal timore delle conseguenze, «in tal caso,
non voglio saperne di più.

--No, signorina; non me lo domandate.

--Tu diresti tutto.»

Annetta arrossì, Emilia sorrise; finirono di traversare quelle stanze,
e si trovarono finalmente in cima allo scalone. La cameriera vi lasciò
la padroncina per chiamare una serva del castello, e farsi condurre
alla camera inutilmente cercata.

Intanto Emilia pensava al quadro. La curiosità la spingea a tornar
indietro per esaminarlo; ma l'ora, il luogo, il cupo silenzio che
regnava intorno, tutto ne la distolse. Pure risolse di tornar col
nuovo giorno al misterioso quadro e sollevarne il velo.

La serva comparve alfine, e condusse Emilia nella sua camera, situata
all'estremità del castello ed in fondo al corridoio, sul quale
s'apriva appunto la fila di stanze che avevano traversate. L'aspetto
deserto di quella camera fece desiderare alla fanciulla che Annetta
non partisse subito. Il freddo umido che vi si sentiva la gelava
quanto il timore; pregò Caterina, la serva del castello, di accenderle
un po' di fuoco.

«Oh! signorina, son molti anni che non venne acceso fuoco in questa
camera,» disse la fantesca.

--Non c'era bisogno di dircelo, buona donna,» soggiunse Annetta; «tutte
le stanze di questo castello son fresche come i pozzi in tempo di
estate: stupisco che voi possiate vivere in un luogo simile. Per me,
vorrei essere a Venezia, o piuttosto in Francia.»

Emilia fe' cenno a Caterina di andare a prender le legna.

«Non capisco,» disse la cameriera, «perchè questa si chiami la camera
doppia.»

La padroncina intanto l'osservava in silenzio, e la trovava alta e
spaziosa come tutte le altre già vedute. Le pareti erano intavolate di
larice; il letto e gli altri mobili pareano antichissimi, ed avevano
quell'aria di tetra grandezza che si osservava in tutto l'edificio.
Essa aprì un finestrone; ma l'oscurità non le permise di nulla
distinguere.

In presenza di Annetta, Emilia procurava di contenersi e trattener le
lacrime. Desiderava ansiosamente di sapere quando si aspettava al
castello il conte Morano; ma temeva di fare un'interrogazione inutile,
e divulgare interessi di famiglia in presenza della servitù. Intanto,
i pensieri d'Annetta occupavansi di oggetti ben diversi: essa amava
molto il maraviglioso; aveva udito parlare d'una circostanza relativa
al castello, che solleticava molto la di lei curiosità. Le avevano
raccomandato il segreto e la sua smania di parlare era così violenta,
che ad ogni istante stava per dir tutto. Era circostanza sì strana! Il
non poter parlarne era un castigo forte per lei; ma Montoni poteva
imporgliene de' più severi ed essa temeva di provocarlo.

Caterina portò le legna, e la fiamma sfavillante fugò alquanto la
nebbia lugubre della stanza; la fante disse ad Annetta che la padrona
la cercava: Emilia restò sola in preda alle sue tristi riflessioni.
Per sottrarvisi, si alzò a considerare meglio la camera ed i mobili.
Vide una porta chiusa poco esattamente; ma accorgendosi non esser
quella ond'era entrata, prese il lume per sapere ove conduceva.
L'aprì, e scorse i gradini d'una scaletta segreta. Volle vedere dove
mettesse, tanto più che comunicava colla camera; ma nello stato
attuale del suo spirito le mancò il coraggio per andar più oltre.
Chiuse la porta, e cercò d'affrancarla, avendo osservato che dalla
parte interna non aveva chiavistello, mentre di fuori ve n'erano fin
due. Appoggiandovi una sedia pesante, rimediò in parte al pericolo; ma
paventava molto d'esser costretta a dormire in quella camera isolata,
sola e con una porta della quale non conosceva la riuscita. Voleva
quasi andar a pregar la signora Montoni acciò permettesse ad Annetta
di passar la notte con lei, ma rigettò quest'idea, persuasa che i di
lei timori sarebbero stati chiamati puerili, e per non iscuoter anche
di troppo la fantasia già alterata della giovine. Queste affliggenti
riflessioni furono interrotte dal rumore di passi nel corridoio: era
Annetta ed un servo che le portavano la cena da parte della zia. Si
mise a tavola vicino al fuoco, ed obbligò la cameriera a mangiar seco
lei. Incoraggita da tale condiscendenza, e dallo splendore e calore
del fuoco, la buona ragazza accostò la sedia a quella d'Emilia, e le
disse:

«Avete mai udito parlare, signorina, dello strano caso che ha messo il
padrone in possesso di questo castello?

--Quale maravigliosa storia ti fu mai detta?» rispose Emilia, cercando
nascondere la viva curiosità che la tormentava.

--Io so tutto,» soggiunse Annetta guardandosi intorno, ed
accostandosele sempre più; «Benedetto mi ha raccontato tutto per
viaggio.--Annetta, mi diss'egli, voi non sapete nulla di quel castello
ove noi andiamo?--No, gli risposi, signor Benedetto; e voi che ne
sapete?--Ma mi lusingo che saprete custodire un segreto, altrimenti
non vi direi nulla per tutto l'oro del mondo.--Ho promesso di non
parlarne, e si assicura che al padrone spiacerebbe molto che se ne
ciarlasse.

--Se hai promesso il segreto,» disse Emilia, «fai male a rivelarlo.»

Annetta tacque alcun poco, poi soggiunse: «Oh! ma per voi, signorina,
so bene che vi posso confidar tutto.»

Emilia si mise a ridere, dicendo: «Io tacerò fedelmente quanto te.»

Annetta replicò con gravità, ch'era cosa indispensabile, e continuò:
«Voi dovete sapere che questo castello è molto antico e ben
fortificato; si dice che abbia già sostenuto diversi assedi, e non
appartenne sempre al signor Montoni, nè a suo padre; ma per una
disposizione qualsiasi, egli doveva entrarne al possesso, se la
signora moriva senza maritarsi.

--Qual signora?» disse Emilia.

--Adagio,» soggiunse Annetta; «è la signora di cui verrò a parlarvi.
Essa abitava nel castello, ed aveva, come potete immaginarvelo, un
gran treno. Il padrone veniva spesso a visitarla; se ne innamorò e le
offrì di sposarla; erano parenti alla lontana, ma ciò non importava.
La signora amava un altro, e non volle saperne di lui, per cui dicono
montasse sulle furie; e voi ben sapete qual uomo sia quando è in
collera. Forse lo vide ella in uno di questi trasporti, e lo rifiutò.
Ma, come vi diceva, essa parea trista, infelice, e ciò per molto
tempo. O Dio! Che rumore è questo? Non sentite, signorina?

--È il vento,» disse Emilia; «prosiegui il tuo racconto.

--Come vi diceva, essa era afflitta ed infelice, passeggiava sola sul
terrazzo, sotto le finestre, e là piangeva amaramente... Tutto ciò
l'ho inteso dire a Venezia; ma ciò che segue, lo seppi oggi soltanto:
il caso è accaduto molti anni addietro, allorchè il signor Montoni era
ancor giovine; la dama si chiamava la signora Laurentini; era
bellissima, ma andava spesso in collera, al par del padrone. Accortosi
questi ch'essa non voleva dargli retta, che fa? lascia il castello, e
non ci torna più; ma ciò poco le importava, poichè era infelice anche
lui assente. Una sera finalmente,» soggiunse la ragazza sbassando la
voce, e guardando intorno inquieta, «per quanto si dice, verso la fine
dell'anno, cioè alla metà di settembre, o ai primi di ottobre, a
quanto suppongo, o fors'anco alla metà di novembre... poco importa, è
sempre verso la fine dell'anno: ma non posso precisare il momento,
perchè non me lo dissero neppur essi. In somma, verso la fine
dell'anno, questa signora andò a passeggiare fuori del castello nel
bosco vicino, come faceva di solito. Essa era sola, colla sua
cameriera: faceva freddo; ed il vento, spazzando via le foglie,
soffiava tristamente attraverso quei grossi castagni che abbiamo
passati ieri: Benedetto mi mostrava gli alberi mentre raccontava. Il
vento era dunque molto freddo, e la cameriera la pregava di tornare
indietro, ma non volle acconsentirvi, chè passeggiava volentieri pei
boschi in qualunque stagione, la sera in ispecie; e se le foglie
secche cadevano intorno a lei, ne avea maggior piacere. Ebbene! fu
veduta scendere verso il bosco; venne la sera, ed essa non comparve.
Suonarono le dieci, le undici, mezzanotte, e non si vide tornare; i
domestici, pensando che le fosse occorsa qualche disgrazia, ne
andarono in traccia; cercarono tutta la notte, ma non la trovarono, e
non poterono averne nessun indizio. Da quel giorno non ne hanno più
saputo nulla.

--È proprio vero?» disse Emilia sorpresa.

--Verissimo, signora,» rispose Annetta inorridita; «pur troppo è vero.
Ma si dice,» soggiunse ella sottovoce, «che da qualche tempo la
signora Laurentini fu vista più volte di notte nel bosco e nei
contorni del castello; alcuni de' vecchi servitori, che restarono qui
dopo il tristo caso, assicurano d'averla veduta. Il vecchio fattore
potrebbe raccontare cose assai strane, a quanto si dice.

--Qual contraddizione!» soggiunse Emilia; «tu dici che non si era più
udito parlare di lei, e poi asserisci che fu veduta.

--Tutto questo mi fu detto colla massima segretezza,» continuò Annetta
senza badare all'osservazione; «son certa che non vorrete farci torto
a Benedetto ed a me di parlare di questo fatto.

--Non temere della mia indiscrezione,» rispose Emilia; «ma permettimi
ch'io ti consigli d'essere un po' più prudente, e non isvelare ad
alcuno quel che hai detto a me. Il signor Montoni, come tu dici,
potrebbe benissimo andare in collera, se ne sentisse parlare. Ma,
quali ricerche furono fatte a proposito di questa infelice?

--Oh! infinite, perchè il padrone aveva diritti sul castello, essendo
parente più prossimo della signora Laurentini; e si dice che i
giudici, i senatori, od altri, dichiararono ch'egli non potesse
entrarne in possesso, se non dopo molti anni, e che se dopo questo
lasso di tempo la dama non si fosse trovata, allora il castello gli
sarebbe appartenuto come se fosse morta. Ma il fatto si propalò, e si
sparsero tante e tante voci strane in proposito, che non ardisco
neppure menzionarvele...

--È strano,» disse Emilia; «ma allorchè la signora Laurentini è di poi
ricomparsa nel castello, non le ha parlato nessuno?

--Parlato! parlarle!» sclamò Annetta con ispavento. «No, no, e poi no,
statene sicura.

--E perchè no?» disse Emilia, bramando sapere qualcosa di più.

--Madonna santa! Parlare con uno spirito!

--Ma quali ragioni vi sono per credere che fosse uno spirito, se
nessuno se le è avvicinato, e se nessuno le ha parlato?

--Oh! signorina, questo non posso dirvelo. Come potete voi farmi
domande così stravaganti? Ma nessuno l'ha veduta andare e venire nel
castello. Ora la vedevano in un sito, e poco dopo era in un altro.
Essa non parlava, e se fosse stata viva, cosa avrebbe fatto in questo
castello senza parlare? vi sono perfino parecchi luoghi dove nessuno
si è arrischiato più di andare, e sempre per lo stesso motivo.

--Perchè essa non parlava?» disse Emilia sforzandosi di ridere,
malgrado la paura che cominciava ad impossessarsi di lei.

--No,» rispose Annetta indispettita; «ma perchè ci si vedeva qualche
cosa. Si dice pure esservi un'antica cappella nella parte occidentale
del castello, ove talvolta, a mezzanotte, si sentono gemiti. Io fremo
solo a pensarvi! colà si sono vedute cose molto straordinarie.

--Finiscila una volta con queste favole.

--Favole! signorina, io posso dirvi in proposito una storia che mi
raccontò Caterina. Era una fredda sera d'inverno, e Caterina stava
seduta nel salotto col vecchio Carlo e sua moglie. Carlo desiderò di
mangiar fichi, ed incaricò la serva d'andarne a cercare alla dispensa,
ch'era in fondo della galleria settentrionale. Caterina prese la
lampada... Zitto, signora, odo fracasso!...»

Emilia, in cui allora Annetta avea fatto passar la sua paura, ascoltò
attenta; ma non udì nulla. La cameriera continuò: «Caterina andò alla
galleria... è quella che abbiam traversata prima di venir qui. Essa
andava colla lampada in mano senza paura alcuna... Ancora!» sclamò
d'improvviso; «ho sentito ancora: or non m'inganno.

--Zitto!» disse Emilia tutta tremante. Ascoltarono, e rimasero
immobili. Fu udito un colpo battuto nel muro. Annetta gettò un alto
grido, la porta si aprì con lentezza, e videro entrar Caterina, che
veniva per dire alla cameriera che la sua padrona la cercava. Annetta
ridendo e piangendo, rimproverò Caterina di averle fatto tanta paura:
temeva avesse udito ciò ch'ella aveva detto. Emilia, profondamente
colpita dalla circostanza principale del racconto di Annetta, non
avrebbe voluto restar sola nella situazione attuale; ma, per evitare i
sarcasmi della signora Montoni, e non tradire la propria debolezza,
lottò contro l'illusioni della paura, e congedò Annetta per tutta la
notte.

Quando fu sola, pensò alla strana storia della signora Laurentini, e
poi alla situazione in cui trovavasi ella stessa in quel terribile
castello, in mezzo a deserti e montagne, in paese straniero, sotto il
dominio d'un uomo che pochi mesi prima non conosceva, e di cui
considerava il carattere con un orrore giustificato dal terror
generale ch'egli ispirava. Allora, ricordando i timori profetici di
Valancourt, il cuore di lei stringeasi dolorosamente, abbandonandosi a
vani rammarici.

Il vento, fischiando con forza di fuori pel corridoio, accresceva la
di lei malinconia. Emilia restava fissa davanti alle fredde ceneri
dello spento focolare, quando un'impetuosa raffica penetrando con
ispaventevol fracasso per quegli anditi, scosse porte e finestre, e
spaventolla tanto più che spostò, nella scossa, la sedia ond'ell'erasi
servita per affrancare l'uscio della scaletta, che si socchiuse.
Gelata dal terrore, stette immobile, si fe' quindi coraggio, e corse
ad assicurarlo alla meglio; quindi coricossi lasciando il lume sulla
tavola; ma quella luce tetra raddoppiò la sua paura. Al tremolio
degli incerti raggi le pareva sempre di vedere ombre moversi nel fondo
tenebroso della camera, ed affacciarsi per fino alle cortine del
letto. L'orologio del castello suonò un'ora prima ch'ella potesse
addormentarsi.




CAPITOLO XX


La luce del giorno fugò i vapori della superstizione, ma non quelli
della paura. Si alzò, e per distrarsi delle importune idee, cercò
occuparsi degli oggetti esterni. Contemplò dalla finestra le selvagge
grandezze che le s'offrivano; i monti accatastati l'un sull'altro, non
lasciavan vedere che anguste valli ombreggiate da folte selve. I vasti
bastioni, gli edifizi diversi del castello, stendevansi lungo uno
scosceso scoglio appiè del quale rumoreggiava un torrente
precipitandosi sotto annosi abeti in profondo burrone. Una lieve
nebbia occupava le lontane fondure, e svanendo gradatamente ai raggi
del sole, scopriva gli alberi, le coste, gli armenti ed i pastori.

Osservando queste ammirabili vedute, Emilia si trovò alquanto
sollevata.

L'aria fresca del mattino contribuì non poco a rianimarla. Innalzò i
pensieri al cielo, chè sentivasi ognor più tranquilla allorchè gustava
le sublimità della natura. Quando si ritrasse dalla finestra, girò gli
occhi verso la porta da lei assicurata con tanta cura la notte
precedente. Era decisa di esaminarne la riuscita, quando,
nell'avvicinarsi per levar la sedia, si avvide ch'essa n'era già stata
alquanto scostata. È impossibile descrivere la di lei sorpresa nel
trovar poscia la porta chiusa. Rimase attonita come se avesse veduto
uno spettro. La porta del corridoio era chiusa come l'aveva lasciata;
ma l'altra, che non si poteva chiudere se non dal di fuori, eralo
stata necessariamente nel corso della notte. Si spaventò all'idea di
dover dormir ancora in una camera nella quale era sì facile penetrare,
e così lontana da qualunque soccorso: si decise pertanto di dirlo alla
signora Montoni, e domandarle il cambiamento della camera.

Dopo qualche difficoltà le riuscì di ritrovare la sala della sera
precedente, ove stava già preparata la colazione. Sua zia era sola,
Montoni essendo andato a visitare i contorni del castello, per
esaminar lo stato delle fortificazioni in compagnia di Carlo. Emilia
notò che la zia aveva pianto, e il suo cuore s'intenerì per lei con un
sentimento che si manifestò più nelle sue maniere che nelle parole. Si
fece coraggio non ostante, e profittando dell'assenza di Montoni,
chiese un'altra camera, ed informossi del motivo di quel viaggio. Sul
primo articolo, la zia la rimandò a Montoni, ricusando di
mescolarsene; e sul secondo, protestò la più assoluta ignoranza.
Parlarono quindi del castello e del paese che lo circondava; e la zia
non potè resistere al piacere di motteggiare la buona Emilia sul di
lei gusto per le bellezze della natura. Questi discorsi furono
interrotti dall'arrivo di Montoni, il quale si mise a tavola senza
mostra di avvedersi che vi fosse qualcuno vicino a lui.

Emilia, che l'osservava tacendo, vide nella sua fisonomia
un'espressione più tetra e severa del solito.--Oh! se io potessi
indovinare,--diss'ella tra sè,--i pensieri ed i progetti di
quella testa, non sarei condannata a questo crudele stato
d'incertezza!--Avanti la fine della colazione, passata nel silenzio,
Emilia arrischiò la domanda del cambiamento della camera, allegando i
motivi che ve la inducevano.

«Non ho tempo di occuparmi di queste inezie,» disse Montoni; «quella è
la camera che vi fu destinata, e dovete contentarvene. Non è
presumibile che nessuno siasi preso l'incomodo di salire una scala
per chiudere una porta; se non lo era quando entraste, è
probabilissimo che il vento abbia sospinto un chiavistello. Ma io non
so perchè dovrei occuparmi d'una circostanza così frivola.»

Questa risposta non soddisfece punto Emilia, la quale avea notato come
i chiavistelli fossero rugginosi, e per conseguenza non tanto facili a
moversi. Non fe' noto questa sua osservazione, ma rinnovò la domanda.

«Se volete essere schiava di simili paure,» disse Montoni severamente,
«astenetevi almeno dal molestare gli altri. Sappiate vincere tutte
queste frivolezze, ed occupatevi nel fortificare il vostro spirito.
Non avvi esistenza più spregevole di quella avvelenata dalla paura.»
Sì dicendo, egli guardava fisso la moglie, la quale arrossì, e non
proferì parola. Emilia, sconcertata ed offesa, trovava allora i suoi
timori troppo giusti per meritare que' sarcasmi; ma vedendo che
qualunque osservazione in proposito sarebbe inutile affatto, mutò
discorso.

Carlo entrò di lì a poco portando frutti. «Vostra eccellenza
dev'essere stanca di quella lunga passeggiata,» diss'egli mettendo le
frutta sulla tavola; «ma dopo la colazione ci resta da vedere assai
più: c'è un posto, nella strada sotterranea, che conduce a...»

Montoni aggrottò le ciglia e gli accennò di ritirarsi. Carlo troncò il
discorso e chinò gli occhi; poi, avvicinandosi alla tavola, soggiunse:
«Mi son presa la libertà, eccellenza, di portare alcune ciliege per le
mie padrone: degnatevi gustarle,» diss'egli presentando il paniere
alle donne; «sono buonissime; le ho colte io stesso; vedete, sono
grosse come susine.

--Andiamo, andiamo,» disse Montoni impazientito, «basta così. Uscite
ed aspettatemi, poichè avrò bisogno di voi.» Quando i due coniugi si
furono ritirati, Emilia cercò distrarsi esaminando il castello. Aprì
una gran porta e passò sui bastioni, contornati per tre lati da
precipizii. L'ampiezza di essi ed il paese svariato cui dominavano
eccitarono la di lei ammirazione. Percorrendoli, sostava ella sovente
a contemplare la gotica magnificenza d'Udolfo, la sua orgogliosa
irregolarità, le alte torri, le fortificazioni, le anguste
finestrelle, le numerose feritoie delle torrette. Affacciatasi al
parapetto, misurò coll'occhio la voragine spaventosa del sottoposto
precipizio, di cui le nere cime delle selve celavano ancora la
profondità. Dovunque volgea gli sguardi, non vedeva che picchi erti,
tetri abeti e gole anguste, che internavansi negli Appennini, e
sparivano alla vista tra quelle inaccessibili regioni. Stava così
intenta quando vide Montoni accompagnato da due uomini che si
arrampicavano per un sentiero praticato nel vivo sasso. Egli si fermò
sopra un poggio considerando il bastione, e voltandosi alla scorta, si
esprimeva con aria e gesti molto energici. Emilia conobbe che un di
coloro era Carlo, e che solo all'altro, vestito da contadino,
dirigevansi gli ordini di Montoni. Si ritirò dal muro al repentino
fracasso d'alcune carrozze ed al tintinnar della campana d'ingresso, e
le venne subito l'idea che fosse giunto il conte Morano. Tornò
celeramente alla propria stanza, agitata da mille paure; corse alla
finestra, e vide sul bastione Montoni che passeggiava con Cavignì:
parevano intertenersi in animatissimo colloquio.

Mentre stava agitata e perplessa, udì camminare nel corridoio, ed
Annetta entrò.

«Ah! signorina,» diss'ella, «è arrivato il signor Cavignì: son
contentissima di veder finalmente una faccia cristiana in questo
luogo. Egli è così buono, m'ha sempre dimostrato tanto interesse....
C'è pure il signor Verrezzi, ed un altro che voi non indovinereste
mai.

--Il conte Morano forse, suppongo...» E cedendo all'emozione, cadde
quasi svenuta sulla sedia.

--Il conte? Ma chi ve lo dice? No, signorina, egli non è qui, fatevi
coraggio.

--Ne sei tu ben sicura?

--Sia lodato Iddio,» soggiunse Annetta, «che vi siete riavuta presto.
In verità, vi credeva moribonda.

--Ma sei proprio sicura che il conte non c'è?

--Oh! sicurissima. Io guardava da un finestrino nella torretta di
settentrione, quando sono arrivate le carrozze: non mi aspettava certo
una vista tanto cara in questa spaventosa cittadella. Ma ora vi sono
padroni, servitori, e si vede un po' di moto. Noi staremo
allegri: andremo a ballare e cantare nel salotto, ch'è lontano
dall'appartamento del padrone. Ma, a proposito, Lodovico è venuto con
loro. Vi dovete ricordare di Lodovico, signora Emilia: quel bel
giovane che governava la gondola del cavaliere nell'ultima regata, e
guadagnò il premio! Quello che cantava poesie così belle, sempre sotto
la mia finestra, al chiaro della luna, a Venezia! Oh! come l'ascoltava
io!

--Temo che que' versi non ti abbiano guadagnato il cuore, Annetta mia.
Ma se è così, ricordati di non lasciarglielo capire. Adesso sono
riavuta, e puoi lasciarmi.

--Mi scordava di domandarvi in qual maniera avete potuto riposare in
questa antica e spaventosa camera la notte scorsa.

--Come secondo il solito.

--Non avete dunque inteso alcun rumore?

--No.

--Nè veduto nulla?

--Niente affatto.

--È sorprendente.

--Ma dimmi, per qual motivo mi fai tu queste interrogazioni?

--Oh! signorina, non ve lo direi per tutto l'oro del mondo, nè molto
meno quel che mi fu raccontato di questa camera... Vi spaventereste
troppo.

--Se è così, tu mi hai già spaventata. Potrai dunque dirmi tutto quel
che ne sai senza aggravarti la coscienza.

--Dio Signore! si dice che compariscano spiriti in questa camera, e da
un bel pezzo.

--Se è vero, gli è uno spirito che sa chiudere molto bene i
chiavistelli,» disse Emilia sforzandosi di ridere, malgrado la sua
paura. «Ieri sera lasciai quella porta aperta, e stamane l'ho trovata
chiusa.»

Annetta impallidì, e tacque.

«Hai tu inteso dire che qualche servitore abbia chiusa questa porta
stamattina prima ch'io mi alzassi?

--No, signora Emilia, vi giuro che non lo so, ma andrò a domandarlo,»
disse Annetta correndo alla porta del corridoio.

--Fermati, Annetta, ho altre domande da farti. Dimmi quel che sai di
questa camera e della scaletta segreta.

--Vado subito a domandarlo, signorina; eppoi son persuasa che la
padrona avrà bisogno di me, e non posso più restare.» Ed uscì ratta,
senza aspettare risposta. Emilia, sollevata dalla certezza che Morano
non era arrivato, non potè astenersi di ridere del repentino terrore
superstizioso di Annetta, benchè anch'ella se ne risentisse talfiata.

Montoni aveva negato ad Emilia un'altra camera, ed ella si decise a
sopportar rassegnata il male che non poteva evitare. Procurò di
rendere la sua abitazione più comoda che potè; situò su d'un
grand'armadio la sua piccola biblioteca, delizia dei giorni felici, e
consolazione nella sua malinconia, preparò le matite, avendo deciso di
disegnare il sublime punto di vista che scorgevasi dalla finestra; ma
rammentandosi quante volte avesse intrapreso anche altrove una
distrazione di quel genere, e quante ne fosse stata impedita da nuove
imprevedute disgrazie, titubò ad accingersi al lavoro, turbata dal
presupposto prossimo arrivo del conte.

Per evitare queste penose riflessioni, si mise a leggere; ma la sua
attenzione non potendo fissarsi sul libro che aveva in mano, lo buttò
sul tavolino, e risolse di visitare il castello. Rammentandosi la
strana istoria dell'antica proprietaria, si ricordò del quadro coperto
dal velo, e risolse d'andarlo a scoprire. Traversando le stanze che vi
conducevano, si sentì vivamente agitata: i rapporti di quel quadro
colla signora del castello, il discorso di Annetta, la circostanza del
velo, il mistero di quell'affare, eccitavano nell'anima sua un lieve
sentimento di terrore, ma di quel terrore che s'impadronisce dello
spirito, l'innalza ad idee grandiose, e, per una specie di magia,
all'oggetto medesimo, che n'è la cagione.

Emilia camminava tremando, e si fermò un momento alla porta prima di
risolversi di aprirla. Si avanzò verso il quadro, che parea di
straordinaria grandezza e trovavasi in un canto; si fermò nuovamente;
alla fine, con mano timida alzò il velo, ma tosto lasciollo ricadere.
Non era un dipinto che aveva veduto, e, prima di poter fuggire, svenne
sul pavimento.

Allorchè ebbe ricuperato l'uso de' sensi la rimembranza di ciò che
aveva veduto la fece quasi mancare una seconda volta, ed ebbe appena
la forza di uscir da quel luogo e di tornare nella sua camera. Quando
vi fu rientrata, non ebbe coraggio di restarvi sola. L'orrore la
dominava intieramente, e quando fu un poco riavuta, non seppe
decidersi se dovesse informare la signora Montoni di ciò che aveva
visto; ma il timore di esser nuovamente derisa, la determinò a tacere.
Sedette alla finestra per riprender coraggio. Montoni e Verrezzi
passarono di lì a poco; essi parlavano e ridevano, e la loro voce la
rianimò alquanto. Bertolini e Cavignì li raggiunsero sul terrazzo.
Emilia, supponendo allora che la signora Montoni fosse sola, uscì per
recarsi da lei. Sua zia stava abbigliandosi pel pranzo. Il pallore e
la costernazione della nipote la sorpresero assai, ma la fanciulla
ebbe forza bastante per tacere, sebbene il labbro ad ogni momento
fosse in procinto di tradirla. Restò nell'appartamento della zia fino
all'ora del pranzo; essa vi trovò i forestieri, i quali avevano un
aria insolita di preoccupazione, e parevano distratti da interessi
troppo importanti, per fare attenzione a Emilia od alla zia: parlarono
poco, e Montoni anche meno: Emilia fremè nel vederlo. L'orrore di
quella camera le stava sempre innanzi, e cambiò colore temendo di non
poter contenere l'emozione; ma potè vincere sè medesima,
interessandosi ai discorsi ed affettando un'ilarità poco d'accordo
colla mestizia del cuore. Montoni mostrava evidentemente riflettere a
qualche grande operazione. Il pasto fu silenzioso. La tristezza di
quel soggiorno influiva perfino sul giocondo carattere di Cavignì.

Il conte Morano non fu nominato. La conversazione s'aggirò tutta sulle
guerre che in quei tempi laceravano l'Italia, sulla forza delle
milizie veneziane e sulla bravura dei generali. Dopo il pranzo, Emilia
intese che il cavaliere sul quale Orsino aveva saziata la sua
vendetta, era morto in conseguenza delle ferite ricevute, e che
l'omicida veniva cercato con cura. Questa notizia parve allarmar
Montoni; ma seppe dissimulare, e s'informò dove fosse nascosto Orsino.
Gli ospiti, eccettuato Cavignì, ignari che Montoni a Venezia ne avesse
favorito la fuga, risposero che desso era scappato la medesima notte
con tanta fretta e segretezza, che neppure i suoi più intimi amici non
ne avevano saputo nulla.

Emilia si ritirò poco dopo colla signora Montoni, lasciando quei
signori occupati nei loro consigli segreti. Aveva già Montoni
avvertito la consorte, con cenni espressivi, a ritirarsi. Questa andò
sui bastioni a passeggiare, nè aprì bocca: Emilia non interruppe il
corso de' suoi pensieri. Essa ebbe bisogno di tutta la sua fermezza
per astenersi dal comunicare alla zia il soggetto terribile del
quadro. Si sentiva tutta convulsa, ed era tentata di palesarle ogni
cosa per sollevarsi il cuore; ma, considerando che un'imprudenza della
zia poteva perderle ambedue, preferì soffrire un male presente anzichè
sottoporsi per l'avvenire ad uno maggiore. Essa aveva in quel giorno
strani presentimenti. Le pareva che il suo destino l'incatenasse a
quel luogo lugubre. Nondimeno, la rimembranza di Valancourt, la
perfetta fiducia che aveva del suo amore costante, bastavano a
versarle in seno il balsamo della consolazione.

Mentre appoggiavasi al parapetto del bastione, scorse in poca distanza
parecchi operai ed un mucchio di pietre che parevano destinate a
risarcire una breccia. Vide parimenti un antico cannone smontato. La
zia si fermò per parlare co' lavoranti, domandandoli cosa facessero.
«Si vuol risarcire le fortificazioni, signora,» disse uno di loro.
Ella fu sorpresa che Montoni pensasse a que' lavori, tanto più ch'ei
non le aveva mai manifestata l'intenzione di voler soggiornare colà
lunga pezza. Si avanzò verso un'alta arcata che conduceva al bastiono
di mezzogiorno, e che, essendo unita da una parte al castello,
sosteneva una torretta di guardia dominante tutta la valle.
Nell'avvicinarsi a quell'arcata, vide da lontano scendere dai boschi
una numerosa truppa di cavalli e d'uomini, cui riconobbe per soldati
al solo splendore delle lance e delle altre armi, giacchè la distanza
non permetteva di giudicare esattamente dei colori. Mentre guardava,
l'avanguardia uscì dal bosco, ma la truppa continuava a stendersi fino
all'estremità del monte. L'uniforme militare si distingueva nelle
prime file, alla testa delle quali inoltrava il comandante, che
pareva dirigere la marcia delle schiere, avvicinandosi gradatamente al
castello.

Un tale spettacolo, in quelle contrade solitarie, sorprese ed allarmò
singolarmente la Montoni, la quale corse in fretta da alcuni contadini
che lavoravano all'altro bastione, a domandar loro cosa fosse quella
truppa. Queglino non poterono darle alcuna risposta soddisfacente; e,
sorpresi anch'essi, osservavano stupidamente la cavalcata. La signora,
credendo necessario comunicare al marito il soggetto della di lei
sorpresa, mandò Emilia per avvertirlo che desiderava parlargli. La
nipote non approvava l'ambasciata, temendo il mal umore dello zio;
pure obbedì senza aprir bocca.

Nell'avvicinarsi alle stanze, ove si trovava Montoni cogli ospiti,
Emilia udì una contesa violenta. Si fermò temendo la collera che
poteva produrre il suo arrivo inaspettato. Poco dopo tacquero tutti;
allora essa ardì aprir la porta. Montoni si volse vivamente, e la
guardò senza parlare; ella eseguì la commissione. «Dite alla signora
che sono occupato,» ei le rispose.

La fanciulla credè bene raccontargli il motivo dell'ambasciata.
Montoni e gli altri si alzarono tosto e corsero alle finestre; ma, non
vedendo le truppe, andarono sul bastione, e Cavignì congetturò dovesse
essere una legione di _condottieri_ in marcia per Modena. Parte di
quella soldatesca era allora nella valle, l'altra risaliva i monti
verso ponente, e la retroguardia era ancora sull'orlo dei precipizi,
dond'erano venuti. Mentre Montoni e gli altri osservavano quella
marcia militare, s'udì lo squillo delle trombe e dei timpani, i cui
acuti suoni venivan ripetuti dagli echi. Montoni spiegò i segnali, di
cui pareva espertissimo, e concluse che non avean nulla di ostile. La
divisa dei soldati e la qualità delle armi lo confermarono
nell'opinione di Cavignì; ebbe la soddisfazione di vederli
allontanare, nè ritirossi fintantochè non furono intieramente
scomparsi.

Emilia, non sentendosi bastantemente rimessa per sopportare la
solitudine della sua camera, rimase sul baluardo fino a sera. Gli
uomini cenarono fra loro. La signora Montoni non uscì dalle sue
stanze: Emilia recossi da lei prima di ritirarsi, e la trovò piangente
ed agitata. La tenerezza della nipote era naturalmente così
insinuante, che riusciva quasi sempre a consolare gli afflitti; ma le
più dolci espressioni a nulla valsero colla zia. Ella finse, colla
solita delicatezza, di non osservare il dolore di lei, ma ne' modi usò
una grazia così squisita, una premura così affettuosa, che quella
superba se ne offese. Eccitare la pietà della nipote, era per lei un
affronto sì crudele pel suo orgoglio, che s'affrettò a congedarla.
Emilia non le parlò della sua estrema ripugnanza a trovarsi isolata;
le chiese soltanto in grazia che Annetta potesse restare con lei fino
al momento di coricarsi. L'ottenne a stento; e siccome Annetta allora
era co' servitori, le convenne ritirarsi sola. Traversò veloce le
lunghe gallerie. Il fioco chiarore del lume non serviva che a rendere
più sensibile l'oscurità, ed il vento minacciava di spegnerlo ad ogni
istante. Passando davanti la fuga delle stanze visitate la mattina,
credette udir qualche suono, ma guardossi bene dal fermarsi per
accertarsene. Giunta alla sua camera, non vi trovò neppure una
scintilla di fuoco. Prese un libro per occuparsi, finchè Annetta
venisse; ma la solitudine e la quasi oscurità la piombarono nuovamente
nella desolazione, tanto più ch'era prossima al luogo orribile
scoperto la mattina. Non sapendo risolversi a dormire in quella stanza
dove per certo la notte precedente era entrato qualcuno, aspettava
Annetta con penosa impazienza, volendo saper da lei un'infinità di
circostanze. Desiderava egualmente interrogarla su quell'oggetto
d'orrore, di cui la credea informata, sebbene inesattamente. Stupiva
però, che la camera che lo conteneva restasse aperta tanto
imprudentemente. Il fioco chiarore diffuso sulle pareti dal lume
presso a spegnersi, aumentava il suo terrore. Si alzò per tornare
nella parte abitata del castello, prima che l'olio fosse totalmente
consunto.

Nell'aprir la porta, intese alcune voci, e vide un lume in fondo al
corridoio. Era Annetta con un'altra serva. «Ho piacere che siate
venute,» disse Emilia; «qual cagione vi ha trattenute tanto? Favorite
di accendere il fuoco.

--La padrona aveva bisogno di me,» rispose Annetta un poco
imbarazzata. Vado subito a prendere le legna.

--No,» disse Caterina, «è incombenza mia.» Ed uscì. Annetta voleva
seguirla; ma Emilia la richiamò, ed ella si mise a parlar forte e a
ridere, come se avesse avuto paura di stare silenziosa.

Caterina tornò colle legna, e tostochè fu acceso il fuoco e la serva
se ne fu andata, la fanciulla domandò ad Annetta se avesse prese le
informazioni ordinatele.

«Sì, signora,» rispose la ragazza, «ma nessuno sa nulla. Io ho
osservato Carlo con attenzione, perchè dicono ch'egli sappia di cose
strane; quel vecchio ha una cert'aria che non saprei esprimere: mi
domandò più volte se era ben sicura che la porta della scaletta
segreta non fosse chiusa.--Sicurissima, gli risposi. In verità,
signorina, son tanto sbalordita, che non so quel che mi dica. Non
vorrei dormire in questa camera più che sul cannone del baluardo, là
in fondo.

--E perchè meno su quel cannone che in qualunque altra parte del
castello?» disse Emilia sorridendo. «Credo che il letto sarebbe duro.

--Sì, ma non si può trovarne un più cattivo. Il fatto sta che la notte
scorsa fu veduto qualcosa vicino a quel cannone, che vi stava come di
guardia.

--E tu credi a tutte le favole che ti spacciano?

--Signorina, vi farò vedere il cannone di cui si tratta. Voi potete
scorgerlo qui dalla finestra.

--È vero, ma è una prova che sia guardato da un fantasma?

--Come! Se vi faccio vedere il cannone, non lo credete neppure allora?

--No, non credo altro se non quel che vedo co' miei occhi.

--Ebbene, lo vedrete, se volete avvicinarvi soltanto alla finestra.»

Emilia non potè trattener le risa, e Annetta parve sconcertata.
Vedendo la di lei facilità a credere al maraviglioso, la fanciulla
credè bene astenersi dal parlarle del soggetto del suo terrore,
temendo ch'ella soccombesse a paure ideali. Parlò dunque delle regate
di Venezia.

«Oh! sì, signorina,» disse Annetta, «que' bei lampioni e quelle belle
notti al chiaro di luna: ecco che cosa c'è di magnifico a Venezia; son
certa che la luna è più bella in quella città che altrove. Che musica
deliziosa si sentiva! Lodovico cantava così spesso vicino alla mia
finestra, sotto il portico! Fu Lodovico a parlarmi di quel quadro che
avevate tanta smania di vedere ieri.

--Che quadro?» disse Emilia, volendo far parlare Annetta.

--Quel quadro terribile col velo nero.

--L'hai tu veduto?

--Chi? io? giammai; ma stamattina,» continuò la cameriera, parlando
sottovoce e guardandosi intorno, «stamattina, quando fu giorno
chiaro,--voi sapete ch'io aveva un gran desiderio di vederlo, ed aveva
inteso strane cose in proposito,--andai fino alla porta decisa di
entrarvi, ma la trovai chiusa.»

Emilia fremette, e temendo d'essere stata osservata, poichè la porta
era stata chiusa sì poco tempo dopo la sua visita, tremava la sua
curiosità non le attirasse la vendetta di Montoni; e comprendendo quel
soggetto essere troppo spaventoso per occuparsene a quell'ora, cambiò
discorso. Era vicina la mezzanotte, e Annetta accingeasi ad andarsene,
allorchè intesero suonare la campana della porta d'ingresso;
ristettero spaventate: dopo una lunga pausa udirono il rumore di una
carrozza nel cortile; Emilia si abbandonò sopra la sedia esclamando:
«È il conte senz'altro.

--A quest'ora! oh no! parendomi impossibile ch'egli abbia scelto
questo momento per arrivare in una casa.

--Cara mia, non perdiamo tempo in vani discorsi,» disse Emilia
spaventata; «va, te ne prego, va a vedere chi può essere.»

Annetta uscì portando via il lume, e lasciandola all'oscuro: ciò le
avrebbe fatto paura qualche minuto prima, ma in quel momento non ci
badava: aspettava ed ascoltava quasi senza respirare. Infine Annetta
ricomparve.

«Sì,» diss'ella, «avevate ragione; è il conte.

--Giusto cielo!» sclamò Emilia; «ma è proprio lui? l'hai realmente
riconosciuto?

--Sì, l'ho veduto distintamente; sono andata al finestrino della corte
occidentale che, come sapete, guarda nel cortile intorno. Ho veduto la
sua carrozza, ov'egli aspettava qualcuno: vi erano molti cavalieri con
torce accese. Quando gli si presentò Carlo, disse alcune parole ch'io
non potei capire, e scese in compagnia d'un altro signore. Credendo
che il padrone fosse già in letto, corsi al gabinetto della padrona
per saper qualcosa; incontrai Lodovico, dal quale seppi che il signor
Montoni vegliava ancora, e teneva consiglio cogli altri signori in
fondo alla galleria di levante. Lodovico mi fe' segno di tacere, ed io
son tornata subito qui.»

Emilia domandò chi fosse il compagno del conte, e come li avesse
ricevuti Montoni; ma Annetta non potè dirle nulla.

«Lodovico,» soggiuns'ella, «andava appunto a chiamare il cameriere del
padrone per informarlo di questo arrivo, allorchè io lo trovai.»

Emilia restò alcun tempo incerta; finalmente pregò Annetta di andar a
scoprire, se fosse possibile, l'intenzione del conte venendo al
castello.

«Volentieri,» rispose l'altra; «ma come potrò io trovare la scala, se
vi lascio la lucerna?»

Emilia si offrì di farle lume. Quando furono in cima alla scala, essa
riflettè che poteva essere veduta dal conte, e, per evitar di passare
pel salone, Annetta la condusse per vari anditi ad una scala segreta
che metteva nel tinello.

Tornando indietro, Emilia temè di smarrirsi, ed essere nuovamente
spaventata da qualche misterioso spettacolo, e fremea all'idea di
aprire una sola porta. Mentre stava perplessa e pensierosa, le parve
udire un singulto; si fermò, e ne sentì un altro distintamente: avea a
destra parecchi usci; tese l'orecchio; quando fu al secondo, intese
una voce lamentevole, ma non sapeva decidersi ad aprir la porta, o ad
allontanarsi. Riconobbe sospiri convulsi e le querele d'un cuore alla
disperazione: impallidì, e considerò ansiosa le tenebre che
circondavanla: i lamenti continuavano; la pietà vinse il terrore.
Nella probabilità che le di lei attenzioni valessero a consolarlo,
depose il lume, ed aprì la porta pian piano: tutto era tenebre, tranne
un gabinetto in fondo d'onde trapelava una fioca luce. Parendole
riconoscere la voce, si avanzò adagio, e vide sua zia appoggiata al
tavolino, col fazzoletto agli occhi... Essa restò immobile per lo
stupore.

Un uomo stava assiso vicino al caminetto, ma non potè distinguerlo,
perchè le voltava le spalle; tratto tratto egli diceva qualche parola
sottovoce, che non potevasi intendere, ed allora la zia piangeva più
forte. Avrebbe Emilia voluto indovinare il motivo di quella scena, e
riconoscere colui che a quell'ora si trovava colà: non volendo però
aumentare le smanie della zia scuoprendo i suoi segreti, si ritirò con
cautela, e, sebbene a stento, le riuscì di trovare la sua camera, ove
in breve altri interessi le fecero obliare la di lei sorpresa.

Annetta tornò senza risposta soddisfacente. I servi, coi quali aveva
parlato, ignoravano il tempo che il conte doveva restare nel castello:
non parlavano che delle strade cattive percorse, dei pericoli
superati, e maravigliavansi che il loro padrone avesse fatto quella
strada a notte così avanzata. Ella finì col chiedere il permesso
d'andarsi a riposare.

Emilia, conoscendo che sarebbe stata una crudeltà il trattenerla, la
congedò. Rimase sola, pensando alla propria situazione ed a quella
della zia; e gli occhi di lei fermaronsi alfine sul ritratto trovato
nelle carte che il padre aveale imposto di ardere, e che stava sul
tavolo con vari disegni estratti da una scatoletta poche ore innanzi:
tal vista la immerse in tristi riflessioni, ma l'espressione
commovente del ritratto ne addolciva l'amarezza. Guardò intenerita
que' leggiadri lineamenti; d'improvviso, ricordossi conturbata le
parole del manoscritto trovato colla miniatura, e che allora aveanla
compresa d'incertezza e d'orrore. Infine, si riscosse, e decise di
coricarsi; ma il silenzio, la solitudine in cui si trovava a quell'ora
tarda, l'impressione lasciatale dal soggetto cui stava meditando, le
ne tolsero il coraggio. I racconti di Annetta, benchè frivoli, aveanla
però conturbata, tanto più dopo la spaventosa circostanza ond'ella era
stata testimone poco lungi dalla sua camera.

La porta della scala segreta era forse il soggetto d'un timore meglio
fondato. Decisa a non ispogliarsi, si gettò vestita sul letto; il cane
di suo padre, il buon Fido, coricato ai di lei piedi, le serviva di
sentinella.

Preparata così, procurò di bandire le triste idee; ma il suo spirito
errava tuttavia sui punti che più l'interessavano, e l'orologio suonò
le due prima ch'ella potesse chiuder occhio. Cedè finalmente ad un
sonno leggero, e ne fu svegliata da un rumore che le parve sentire in
camera. Tremante alzò il capo, ascoltò attenta: tutto era nel
silenzio; credendo essersi ingannata, si riadagiò sul guanciale.

Poco dopo il rumore ricominciò: pareva venir dalla parte della
scaletta. Si rammentò allora il disgustoso incidente della notte
scorsa, in cui una mano ignota aveva socchiuso quell'uscio. Il terrore
le agghiacciò il cuore. Si alzò sul letto, e stirando lievemente il
cortinaggio, osservò la porta della scala. Il lume che ardeva sul
caminetto spandeva una luce fiochissima. Il rumore che credeva venire
dalla porta continuò a farsi sentire. Le pareva che ne smovessero i
chiavistelli; poi si fermavano, e quindi ricominciavano pian piano,
come se avessero temuto di farsi udire. Mentre Emilia fissava gli
occhi da quella parte, vide l'imposta muoversi, aprirsi lenta e
qualcosa entrare in camera, senza che l'oscurità le permettesse
distinguer nulla. Quasi morta dallo spavento, fu abbastanza padrona di
sè stessa per non gridare e lasciar ricader la cortina. Osservò
tacendo quell'oggetto misterioso, il quale pareva cacciarsi nelle
parti più oscure della camera, poi talvolta fermarsi; ma quando si
avvicinò al camino, Emilia potè distinguere una figura umana. Una
tetra rimembranza fu quasi per farla soccombere. Continuò nonostante
ad osservar quella figura, la quale restò immobile buona pezza, e si
avvicinò quindi pian piano ai piedi del letto. Le cortine, socchiuse
alquanto, permettevano alla fanciulla di vederla; ma il terrore la
privava perfin dalla forza di fare un movimento. Dopo un istante, la
figura tornò al camino, prese il lume, considerò la camera, e
riaccostossi adagio al letto. I raggi della lampada svegliarono
allora il cane, il quale saltò a terra, latrò forte, e corse
sull'incognito, che lo respinse colla spada coperta dal fodero. Emilia
riconobbe il conte Morano. Essa lo guardò muta dallo spavento. Egli
cadde in ginocchio, scongiurandola di non temere, e gettando il ferro,
volle prenderle una mano. Ma, ricuperando allora le forze paralizzate
dal terrore, Emilia saltò giù dal letto, Morano si alzò, la seguì
verso la porta della scaletta, e la fermò mentre ne toccava il primo
gradino; ma già al chiarore d'un lume, essa aveva veduto un altr'uomo
a metà della scala medesima. Gettò un grido di disperazione, e,
credendosi tradita da Montoni, si diè per perduta.

Il conte la trascinò in camera. «Perchè tanto spavento?» diss'egli con
voce tremante. «Ascoltatemi, Emilia, io non vengo per farvi alcun
male; no, giuro al cielo, vi amo troppo, senza dubbio pel mio riposo.»

Emilia lo guardò un momento coll'incertezza della paura. «Lasciatemi,
signore,» gli disse, «lasciatemi dunque sul momento.

--Ascoltate, Emilia,» soggiunse Morano, «ascoltatemi: io vi amo, e
sono disperato, sì, disperato. Come posso io guardarvi, forse per
l'ultima volta e non provare tutte le furie della disperazione? Ma no,
voi sarete mia a dispetto di Montoni, a dispetto di tutta la sua
viltà.

--A dispetto di Montoni!» sclamò Emilia con vivacità. «O cielo! che
sento mai?

--Che Montoni è un infame,» gridò Morano con veemenza, «un infame che
vi vendeva al mio amore, che...

--E quello che mi comprava lo era egli meno?» diss'ella gettando sul
conte un'occhiata sprezzante. «Uscite, signore, uscite sull'istante.»
Poi soggiunse con voce commossa dalla speranza e dal timore, benchè
sapesse di non poter essere intesa da nessuno: «Od io metterò sossopra
tutto il castello, ed otterrò dal risentimento del signor Montoni ciò
che implorai indarno dalla sua pietà.

--Non isperate nulla dalla sua pietà; egli mi ha tradito indegnamente:
la mia vendetta lo perseguiterà da per tutto; e quanto a voi, Emilia,
ha senza dubbio progetti più lucrosi del primo.»

Il raggio di speranza che le prime parole del conte avevano reso ad
Emilia, fu quasi spento da queste ultime espressioni. La di lei
fisonomia ne fu conturbata, e Morano procurò di trarne vantaggio. Ei
disse:

«Io perdo il tempo, non venni per declamare contro Montoni, venni per
sollecitare, per supplicare Emilia; venni per dirle tutto ciò che
soffro, per iscongiurarla di salvarci amendue: me dalla disperazione e
lei dalla rovina. Emilia, i progetti di Montoni son tali, che voi non
potete concepirli; sono terribili, ve lo giuro. Fuggite, fuggite da
quest'orrida prigione coll'uomo che vi adora. Un servo, guadagnato a
forza d'oro, mi aprirà le porte del castello, e fra breve vi sarete
sottratta da questo scellerato.»

Emilia era oppressa dal colpo terribile ricevuto nel mentre appunto
rinascevale la speranza in cuore. Si vedeva perduta senza riparo.
Incapace di rispondere e quasi di riflettere, si abbandonò sur una
sedia, pallida e taciturna; era probabilissimo che in principio
Montoni l'avesse venduta a Morano, ma era chiaro che in seguito avesse
ritrattata la sua promessa, e la condotta del conte lo provava.
Appariva eziandio che un progetto più vantaggioso aveva solo potuto
decidere l'egoista Montoni ad abbandonare quel piano, che aveva sì
vivamente sollecitato. Queste riflessioni la fecero fremere delle
parole di Morano, ch'ella non esitava a credere. Ma mentre tremava
all'idea delle sventure che l'attendevano nel castello di Udolfo,
considerava che l'unico mezzo di uscirne era la protezione d'un uomo,
col quale non potevano mancarle sciagure più certe e non meno
terribili; mali in fine, di cui non poteva sostener il pensiero.

Il silenzio di lei incoraggì le speranze del conte, che l'osservava
con impazienza; ei le prese la mano e scongiurala a decidersi. «Tutti
gl'istanti di ritardo,» le disse, «rendono la partenza più pericolosa;
i pochi momenti che noi perdiamo, possono dare a Montoni il tempo di
sorprenderci.

--Per pietà, signore, non m'importunate» disse Emilia fiocamente; «io
sono infelice, e debbo continuare ad esserlo. Lasciatemi, ve ne prego,
lasciatemi al mio destino.

--Non mai,» gridò il conte con impeto; «io perirò piuttosto... ma
perdonate questa violenza: l'idea di perdervi mi altera la ragione.
Voi non potete ignorare il carattere di Montoni; ma potete ignorare i
suoi progetti, sì, voi li ignorate certo, chè diversamente non
esitereste fra l'amor mio ed il suo potere.

--Io non esito punto,» disse Emilia.

--Partiamo dunque,» soggiunse Morano baciandole la mano, ed alzandosi
in fretta. «La mia carrozza ci aspetta sotto le mura del castello.

--V'ingannate, signore; vi ringrazio dell'interesse che prendete per
la mia sorte, ma io resterò sotto la protezione del signor Montoni.

--Sotto la sua protezione!» sclamò violentemente Morano; «la sua
_protezione_! Emilia, deh! non vi lasciate ingannare... Ve l'ho già
detto quale sarebbe la sua _protezione_.

--Scusate se in questo momento non presto fede ad una semplice
asserzione, e se esigo qualche prova.

--Non ho il tempo nè il mezzo di produrne.

--Ed io non avrò nessuna volontà di ascoltarle.

--Voi vi beffate della mia pazienza e delle pene mie,» continuò
Morano; «un matrimonio coll'uomo che vi adora, è egli dunque così
terribile ai vostri occhi? Preferite questa crudel prigionia? Oh! c'è
qualcuno, per certo, che m'invola gli affetti che dovrebbero
appartenermi, altrimenti non potreste ricusare un partito che può
sottrarvi alla più barbara tirannide.» E correva smarrito su e giù per
la camera.

--Il vostro discorso, conte Morano, prova abbastanza che i miei
affetti non potrebbero appartenervi,» disse Emilia con dolcezza.
«Questa condotta prova abbastanza ch'io sarei ugualmente
tiranneggiata, caso fossi in vostro potere. Se volete persuadermi il
contrario, cessate di molestarmi davvantaggio colla vostra presenza;
se me lo negaste, mi obblighereste di esporvi alla collera del signor
Montoni.

--Ma ch'ei venga!» sclamò Morano furibondo; «ch'ei venga! Ardisca
provocare la mia! ardisca guardare in faccia l'uomo che ha così
insolentemente oltraggiato! Gl'insegnerò io cosa sia la morale, la
giustizia, e specialmente la vendetta! venga, ed io gl'immergerò la
spada nel seno.»

La veemenza colla quale si esprimeva, divenne per Emilia un nuovo
motivo d'inquietudine. Si alzò dalla sedia, ma le tremavano le gambe,
e ricadde. Guardava attentamente la porta chiusa del corridoio,
convincendosi di non poter fuggire senza esserne impedita.

«Conte Morano,» diss'ella finalmente, «calmatevi, ve ne scongiuro, ed
ascoltate la ragione, se non la pietà. Voi v'ingannate egualmente
nell'amore e nell'odio. Non potrò mai corrispondere all'affetto onde
vi piaceste onorarmi, e certo io non l'ho mai incoraggito. Il signor
Montoni non può avervi oltraggiato: sappiate ch'ei non ha diritto di
disporre della mia mano, quand'anco ne avesse il potere. Lasciatemi,
abbandonate questo castello, finchè potete farlo con sicurezza.
Risparmiatevi le terribili conseguenze d'una vendetta ingiusta, ed il
rimorso sicuro di aver prolungato i miei patimenti.

--Una vendetta ingiusta!» esclamò il conte riprendendo a un tratto la
furia della passione. «E chi mai potrà vedere questo volto angelico, e
credere un castigo qualunque proporzionato all'offesa che mi fu fatta?
Sì, abbandonerò questo castello, ma non ne uscirò solo. La mia gente
mi aspetta, e vi porterà alla mia carrozza; le vostre strida saranno
inutili; nessuno può ascoltarle in questo luogo remoto. Cedete dunque
alla necessità, e lasciatevi condurre.

--Conte Morano,» diss'ella alzandosi, e respingendolo mentre si
avanzava, «io sono adesso in poter vostro, ma riflettete che una
simile condotta non può acquistarvi la stima di cui pretendete esser
degno.»

Qui fu interrotta dal brontolìo del suo cane, che saltò giù dal letto
per la seconda volta; Morano guardò verso la scala, e, non vedendo
alcuno, chiamò ad alta voce _Cesario_.

«Emilia,» le disse, in seguito, «perchè mi obbligate ad usar questo
mezzo? Oh! quanto desidererei persuadervi, anzichè obbligarvi ad
essere la mia sposa! Ma giuro al cielo che Montoni non vi venderà ad
un altro. Intanto verrete meco. Cesario, Cesario!...»

Un uomo comparve. Emilia gettò un alto strido, mentre il conte la
trascinava. In quel punto s'intese rumore all'uscio del corridoio. Il
conte si fermò, come esitante tra l'amore e la vendetta; l'uscio si
aprì, e Montoni, seguito dal vecchio intendente e da parecchi altri,
entrò precipitoso nella camera dicendo: «Ah traditore! pagherai il fio
del tuo infame attentato; in guardia!»

Il conte non aspettò una seconda sfida; consegnò Emilia a Cesario, e
voltosi con fierezza: «Sono da te, infame,» gridò egli menandogli un
colpo da disperato. Montoni si difese valorosamente, ma furono
separati dai seguaci, mentre Carlo strappava Emilia alla gente di
Morano.

«È per questo,» disse Montoni con ironia, «è per questo ch'io vi
riceveva nel mio tetto, e vi permetteva di passarvi la notte? Voi
adunque veniste a ricompensar la mia ospitalità con un indegno
tradimento, e per involarmi mia nipote?

--Che chi parla di tradimento,» rispose Morano con rabbia concentrata,
«osi mostrarsi senza arrossire. Montoni, voi siete un infame; se qui
c'è tradimento, voi solo ne siete l'autore.

--Ah vile!» gridò l'altro sciogliendosi da chi lo tratteneva e
correndo addosso al conte. Uscirono dalla porta del corridoio. Il
combattimento fu così furioso, che nessuno ardì avvicinarsi. Montoni,
d'altra parte, giurava di trafiggere il primo che si fosse frapposto.
La gelosia e la vendetta aumentavano la rabbia e l'acciecamento di
Morano. Montoni, più padrone di sè stesso, ed abilissimo, ebbe il
vantaggio, e ferì l'avversario; ma questi parendo insensibile al
dolore e alla perdita del sangue, seguitò a battersi, e piagò Montoni
leggermente nel braccio, ma nell'istesso momento toccò una larga
ferita, e cadde in braccio a Cesario. Montoni, appoggiandogli la spada
al petto, voleva obbligarlo a chieder la vita. Morano potè appena
replicare con un gesto ed una parola negativa, e svenne. L'altro stava
per trafiggerlo, ma Cavignì gli trattenne il braccio: cedette però con
molta difficoltà, e vedendo l'avversario rovesciato, ordinò di
trasportarlo all'istante fuori del castello.

Emilia, che non aveva potuto uscire dalla camera durante lo spaventoso
tumulto, entrò nel corridoio, e patrocinando con coraggio la causa
dell'umanità, supplicò Montoni di accordare a Morano, nel castello, i
soccorsi che esigeva il suo stato. Montoni, il quale non ascoltava
quasi mai la pietà, parea in quel momento sitibondo di vendetta. Colla
crudeltà d'un mostro ordinò per la seconda volta che il suo vinto
nemico fosse trasportato subito fuori del castello nello stato in cui
si trovava. Quei dintorni, coperti di boschi, offrivano appena una
capanna solitaria da passarvi la notte. I servi del conte dichiararono
che non l'avrebbero mosso di lì, finchè non avesse dato almeno qualche
segno di vita. Quelli di Montoni stavano immobili, e Cavignì faceva
invano rimostranze: la sola Emilia, non badando a minacce, portò acqua
a Morano, e ordinò agli astanti di fasciargli le ferite. Montoni,
sentendo finalmente qualche dolore alla sua, si ritirò per farsi
medicare.

In quell'intervallo, il conte rinvenne. Il primo oggetto che lo colpì,
aprendo gli occhi, fu Emilia chinata su di lui coll'espressione della
massima inquietudine. Egli la contemplò dolorosamente.

«L'ho meritato,» diss'egli, «ma non da Montoni. Io meritava d'esser
punito da voi, e ne ricevo invece pietà.» Dopo qualche pausa
soggiunse: «Bisogna ch'io vi abbandoni, ma non a Montoni. Perdonatemi
i dispiaceri che vi cagionai. Il tradimento di quell'infame non
resterà impunito.... Non sono in istato di camminare, ma poco importa:
portatemi alla capanna più prossima. Non passerei la notte in questo
luogo, quand'anco fossi certo di morire nel breve tragitto che dovrò
fare.»

Cavignì propose di andare ad uniformarsi se vi fosse nelle vicinanze
qualche abituro, prima di levarlo di là, ma il conte era troppo
impaziente di partire. L'angoscia del suo spirito sembrava ancor più
violenta del patimento della ferita. Rigettò sdegnosamente la proposta
di Cavignì, nè volle che si ottenesse per lui il permesso di passar la
notte nel castello. Cesario voleva far venir innanzi la carrozza, ma
Morano glielo proibì. «Non potrei sopportarla,» diss'egli; «chiamate i
miei servitori: essi mi trasporteranno sulle braccia.»

Finalmente, calmandosi alquanto, acconsentì che Cesario andasse prima
in cerca di un ricetto. Emilia, vedendolo risensato, si disponeva ad
uscire, quando Montoni glie l'ordinò per mezzo d'un servo, aggiungendo
che se il conte non era partito, dovesse allontanarsi immediatamente.
Gli sguardi di Morano sfavillarono di sdegno, e si fece di fuoco.

«Dite a Montoni,» soggiunse, «che me n'andrò quando mi converrà.
Lascerò questo castello ch'esso _chiama il suo_, come si lascia il
nido di un serpente; ma non sarà l'ultima volta che udrà parlar di me.
Ditegli che, per quanto potrò, non gli lascerò _un altro omicidio_
sulla coscienza.

--Conte Morano, sapete voi bene quel che dite?» disse Cavignì.

--Sì, lo so benissimo, ed egli intenderà ciò ch'io voglio dire. La sua
coscienza, su questo punto, seconderà la sua intelligenza.

--Conte Morano,» disse Verrezzi, che fin allora stava zitto, «se
ardite insultare ancora il mio amico, v'immergo la spada nel cuore.

--Sarebbe azione degna dell'amico d'un infame,» disse Morano, e la
violenza dello sdegno lo fe' sollevare dalle braccia de' servi; ma la
di lui energia fu momentanea, e ricadde spossato. La gente di Montoni
tratteneva Verrezzi, il quale pareva disposto a compiere la sua
minaccia. Cavignì, meno irritato di lui cercava di farlo uscire,
Emilia, trattenuta fin allora dalla compassione, stava per ritirarsi,
quando la voce di Morano l'arrestò. Le fe' cenno di avvicinarsi. Ella
si avanzò timidamente, ma il languore che sfigurava la faccia del
ferito, eccitò la di lei pietà.

«Vi lascio per sempre,» ei le disse; «forse non vi vedrò più. Vorrei
portar meco il vostro perdono, e, se non fossi troppo importuno,
ardisco chiedere la vostra benevolenza.

--Ricevete questo perdono,» disse Emilia, «coi voti più sinceri per la
vostra pronta guarigione.»

Scongiuratolo quindi ad uscir tosto dal castello, recossi dallo zio.
Egli era nel salotto di cedro su di un sofà, e soffriva molto della
sua ferita, ma la sopportava con gran coraggio.

Emilia tremava nell'avvicinarsegli; ei la rampognò forte per non aver
obbedito subito, e attribuì a capriccio la di lei pietà pel ferito.

La fanciulla, punta da quelle oltraggiose parole, non rispose.

In quella Lodovico entrò nella stanza, riferendo che trasportavano
Morano su d'una materassa ad una capanna poco distante. Montoni parve
placarsi, e disse ad Emilia che poteva tornare alla sua camera. Ella
andossene volentieri; ma l'idea di passar la notte in una stanza che
poteva esser aperta a tutti, le fece allora più spavento che mai.
Risolse di andare da sua zia a chiederle il permesso di condur seco
Annetta.

Nell'avvicinarsi alla galleria, udì voci di persone che parevano
altercare; riconobbe ch'erano Cavignì e Verrezzi; quest'ultimo
protestava di voler andare ad informar Montoni dell'insulto fattogli
da Morano. Cavignì parea cercar di calmarlo.

«Non si deve badare,» diceva egli, «alle ingiurie d'un uomo in
collera; la vostra ostinazione sarà funesta al conte ed a Montoni; noi
abbiamo ora interessi molto più seri da discutere.»

Emilia unì le sue preghiere alle ragioni di Cavignì, e riuscirono in
fine a distoglier Verrezzi dal suo progetto.

Entrata dalla zia, la di lei calma le fece credere che ignorasse
l'accaduto; volle raccontarglielo con cautela; ma la zia l'interruppe
dicendole che sapeva tutto. Benchè Emilia sapesse benissimo ch'ella
aveva poche ragioni per amare il marito, pur non la credeva capace di
tanta indifferenza. Ottenne il permesso di condur seco Annetta, e si
ritirò subito. Una striscia di sangue, rigando il corridoio, conducea
alla sua stanza, e nel luogo del combattimento il suolo erane tutto
coperto. La fanciulla tremò, ed appoggiossi alla cameriera nel
passarvi. Giunta in camera, volle esaminare dove mettesse la scala,
dipendendo molto la sua sicurezza da questa circostanza. Annetta,
curiosa e spaventata insieme, acconsentì al progetto; ma
nell'avvicinarsi alla porta, la trovarono chiusa al di fuori, talchè
dovettero accontentarsi di assicurarla nell'interno, appoggiandovi i
mobili più pesanti che poterono smovere. Emilia andò a letto, e la
cameriera si mise sur una sedia presso al camino, ove fumava ancora
qualche tizzone.




CAPITOLO XXI


Fa duopo riferir ora qualche circostanza di cui l'improvvisa partenza
da Venezia e la rapida sequela di casi susseguiti nel castello non ne
concessero d'occuparci.

La mattina istessa di quella partenza, Morano, all'ora convenuta, andò
a casa Montoni per ricevere la sposa. Fu sorpreso non poco dal
silenzio e dalla solitudine de' portici, pieni al solito di servitori;
ma la sorpresa fece luogo immediatamente al colmo dello stupore ed
alla rabbia, allorchè una vecchia aprì la porta, e disse che il suo
padrone e tutta la famiglia erano partiti di buonissim'ora da Venezia
per andare in terraferma. Non potendolo credere, sbarcò dalla gondola
e corse nella sala ad informarsi più minutamente dalla vecchia, la
quale persistè nella sua asserzione, e la solitudine del palazzo lo
convinse della verità. L'afferrò pel braccio, e parve volesse sfogare
sulla poveretta la bile che l'ardea. Le fece mille interrogazioni in
una volta, accompagnati da gesti così furibondi, che colei,
spaventatissima, non fu in grado di rispondergli. La lasciò, e si mise
a scorrere il portico e i cortili come un insensato, maledicendo
Montoni e la propria dabbenaggine.

Quando la donna si fu riavuta dal terrore, gli raccontò quanto sapeva;
per verità era poco, ma bastò a far comprendere a Morano come Montoni
fosse andato al suo castello degli Appennini. Ei ve lo seguì tostochè
la sua gente ebbe fatti i necessari preparativi, accompagnato da un
amico e da numerosa servitù. Era deciso di ottenere Emilia, o
sacrificare Montoni alla sua vendetta. Quando si fu alquanto calmato,
la coscienza gli rammentò alcune circostanze che spiegavano abbastanza
la condotta di Montoni. Ma in qual modo quest'ultimo avrebbe mai
potuto sospettare un'intenzione ch'egli solo conosceva, e che non
poteva indovinare? Su questo punto però era stato tradito
dall'intelligenza simpatica che esiste, per così dire, fra le anime
poco delicate, e fa giudicare ad un uomo ciò che deve fare un altro in
una data circostanza. Così infatti era accaduto a Montoni. Aveva
alfine acquistata la certezza di quanto già sospettava: che la
sostanza, cioè, del conte Morano, invece di esser ragguardevole, come
l'aveva creduto in principio, era al contrario in cattivissimo stato.
Montoni avea favorito le sue pretese sol per motivi personali, per
orgoglio, per avarizia. La parentela d'un nobile veneziano avrebbe
sicuramente soddisfatto il primo, e l'altro speculava sui beni di
Emilia di Guascogna, che doveangli esser ceduti il giorno stesso delle
nozze. Aveva già concepito qualche sospetto per le sregolatezze del
conte, ma non aveva acquistata la certezza della di lui rovina, se non
la vigilia del matrimonio. Non esitò dunque a concludere che Morano lo
ingannava per certo sull'articolo dei beni di Emilia, e questo dubbio
confermossi, quando, dopo aver convenuto di firmare il contratto la
notte medesima, il conte mancò alla sua parola. Un uomo così poco
riflessivo, così distratto come Morano, nel momento in cui s'occupava
delle sue nozze, aveva facilmente potuto mancare all'impegno senza
malizia; ma Montoni interpretò l'incidente secondo le proprie idee.
Dopo avere aspettato un pezzo, egli aveva ordinato a tutta la sua
famiglia di star pronta al primo cenno. Affrettandosi di arrivare al
castello d'Udolfo, voleva sottrarre Emilia a tutte le ricerche di
Morano, e sciogliersi dall'impegno senza esporsi ad alterchi. Se il
conte, al contrario, non avesse avuto che pretese onorevoli, com'ei le
chiamava, avrebbe certamente seguito Emilia, e firmata la cessione
concertata. A questo patto Montoni l'avrebbe sacrificata senza
scrupolo ad un uomo rovinato, all'unico scopo di arricchir sè
medesimo. Si astenne nullameno dal dirle una sola parola sui motivi di
quella partenza, temendo che un'altra volta un barlume di speranza non
la rendesse indocile ai suoi voleri.

Fu per tai considerazioni ch'era partito improvvisamente da Venezia;
e, per motivi opposti, Morano eragli corso dietro attraverso i
precipizi dell'Appennino. Allorchè seppe il di lui arrivo, Montoni,
persuaso che venisse ad adempire la sua promessa, si affrettò di
riceverlo; ma la rabbia, le espressioni ed il contegno di Morano lo
disingannarono tosto. Montoni spiegò in parte le ragioni della sua
improvvisa partenza; e il conte, persistendo a chiedere Emilia,
colmollo di rimproveri senza parlare dell'antico patto.

Il castellano finalmente, stanco della disputa, ne rimise la
conclusione alla domane, e Morano si ritirò con qualche speranza
sull'apparente di lui perplessità; quando però, nel silenzio della
notte, si rammentò il loro colloquio, il di lui carattere e gli esempi
della sua doppiezza, la poca speranza che conservava l'abbandonò, e
risolse di non perder l'occasione di possedere Emilia in altro modo.
Chiamò il suo confidente, gli comunicò il proprio disegno, e
l'incaricò di scoprire fra i servi del castello qualcuno che volesse
prestarsi a secondare il ratto di Emilia: se ne rimise in tutto alla
scelta e prudenza del suo agente, e non a torto, poichè questi non
tardò a trovar un uomo stato recentemente trattato con rigore da
Montoni, e che non pensava se non a tradirlo. Costui condusse Cesario
fuori del castello, e per un passaggio segreto l'introdusse alla
scala, gl'indicò una via più corta, e gli diede le chiavi che potevano
favorirne la ritirata; fu anticipatamente ben ricompensato, ed abbiamo
veduto qual riuscita ebbe l'attentato del conte.

Il vecchio Carlo, frattanto, aveva sorpreso due servitori di Morano, i
quali avendo avuto ordine di aspettare colla carrozza fuori del
castello, comunicavansi la loro maraviglia sulla partenza improvvisa e
segreta del padrone. Il cameriere non aveva lor confidato, del
progetto di Morano, se non ciò ch'essi dovevano eseguire; ma i
sospetti eran destati, e Carlo ne trasse il miglior partito. Prima di
correre da Montoni, procurò di raccogliere altre notizie, ed a tal
uopo, accompagnato da un altro servo, si pose in agguato alla porta
del corridoio della camera di Emilia; nè vi restò indarno, giacchè,
poco dopo, sentì giunger Morano, ed essendosi accertato de' suoi
progetti, corse ad avvertire il padrone, contribuendo così ad impedire
il ratto.

Montoni, il giorno dopo, col braccio al collo, fece il solito giro
delle mura, visitò gli operai, ne fece aumentare il numero, e tornò al
castello, ov'era aspettato da nuovi ospiti. Li fe' venire in un
appartamento separato, e Montoni restò chiuso seco loro per quasi due
ore. Chiamato poscia Carlo, gli ordinò di condurre i forestieri nelle
stanze destinate agli uffiziali della casa, e di farli immediatamente
rifocillare.

Frattanto il conte giacea in una capanna della foresta, oppresso da
doppio patimento, e meditando una terribil vendetta. Il servo di lui,
spedito al villaggio più vicino, non tornò che il dì dopo con un
chirurgo, il quale non volle spiegarsi sul carattere della ferita, e
volendo prima esaminare i progressi dell'infiammazione, gli amministrò
un calmante, e restò con lui per giudicarne gli effetti.

Emilia potè nel resto di quella notte riposare un poco. Destandosi, si
rammentò che finalmente era stata liberata dalle persecuzioni di
Morano, e si sentì sollevata in gran parte da' mali che l'opprimevano
da tanto tempo. L'affliggevano ancora però i sospetti esternatile dal
conte sulle mire di Montoni: egli aveva detto che i suoi progetti
erano impenetrabili, ma terribili. Per iscacciarne il pensiero, cercò
le sue matite, si affacciò alla finestra, e contemplò il paese per
iscegliervi una bella veduta.

Così occupata, riconobbe sui bastioni gli uomini giunti di fresco nel
castello. La vista di quegli stranieri la sorprese, ma ancor più il
loro esteriore: avevano essi una singolarità di vestiario, una
fierezza di sguardi, che cattivarono la di lei attenzione. Si ritirò
dalla finestra mentr'essi vi passavano sotto, ma vi si riaffacciò
tosto per osservarli meglio. Le loro fisonomie accordavansi così bene
coll'asprezza di tutta la scena, che, mentre esaminavano il castello,
li disegnò come banditi nella sua veduta.

Carlo, avendo procurato a coloro i rinfreschi necessari, tornò da
Montoni, il quale voleva scoprire il traditore da cui, la notte
precedente, Morano aveva ricevute le chiavi; ma Carlo, troppo fedele
al suo padrone per soffrire che gli nuocessero, non avrebbe però
denunziato il camerata, neppure alla giustizia. Accertò che
l'ignorava, e che il colloquio de' servi del conte non gli avea
svelato altro che la trama. I sospetti di Montoni caddero naturalmente
sul guardaportone, e lo fece venire. Bernardino negò con tanta
audacia, che lo stesso Montoni dubitò della sua reità, senza poterlo
credere innocente; infine lo rimandò, talchè sebben fosse il vero
autore del complotto, ebbe l'arte di sfuggire ad un severo castigo.

Montoni recossi dalla moglie, ed Emilia non tardò a raggiungerli; essa
li trovò in una violenta contesa e voleva ritirarsi, ma la zia la
richiamò.

«Voi sarete testimone,» diss'ella, «della mia resistenza. Ora
ripetete, o signore, il comando al quale ho tante volte ricusato
d'obbedire.»

Egli ordinò severamente alla nipote di ritirarsi. La zia insistè
perchè restasse. Emilia desiderava sfuggire alla scena di
quell'alterco; voleva servire la zia, ma disperava di calmare Montoni,
nei cui sguardi dipingeasi a tratti di fuoco la tempesta dell'anima.

«Uscite,» gridò egli infine con voce tuonante, Emilia obbedì, e andò
sul bastione, dove non erano più gli stranieri. Meditando
sull'infelice unione fatta dalla sorella di suo padre, e sull'orrore
della propria situazione, cagionata dalla ridicola imprudenza della
zia, avrebbe voluto rispettarla quant'erale affezionata; ma la
condotta della Montoni aveaglielo sempre reso impossibile. La pietà
però che sentiva pel cordoglio di quella infelice, le faceva obliare i
torti dei quali poteva accusarla.

Mentre passeggiava così sul bastione, comparve Annetta, che, guardando
intorno con cautela, le disse:

«Mia cara padroncina, vi cerco dappertutto; se volete seguirmi, vi
farò vedere un quadro.

--Un quadro!» sclamò ella fremendo.

--Sì, il ritratto dell'antica padrona del castello. Il vecchio Carlo
mi ha or detto ch'era dessa, e pensai farvi cosa grata conducendovi a
vederla: quanto alla signora, voi sapete che non si può parlargliene.

--E perciò tu ne parli con tutti.

--Sì, signora; cosa farei qui, se non potessi parlare? Se fossi in un
carcere, e mi lasciassero chiaccherare, sarebbe almeno una
consolazione: sì, vorrei parlare, quand'anco fosse ai muri. Ma venite,
non perdiamo tempo: bisogna che vi mostri il quadro.

--È forse coperto da un velo?» disse Emilia dopo una pausa; «non ho
nessuna voglia di vederlo.

--Come! signora Emilia, non volete vedere la padrona del castello,
quella signora che sparve così stranamente? Quanto a me, avrei
traversate tutte le montagne per veder il ritratto. A dirvi il vero,
questo racconto singolare mi fa fremere al solo pensarvi, eppure è
l'unica cosa che m'interessa.

--Sei tu poi certa che è un quadro? l'hai tu veduto? È coperto da un
velo?

--Buon Dio! sì, no e sì: son certa che è un quadro. L'ho veduto, e non
è coperto da alcun velo.»

L'accento e l'aria di sorpresa con cui Annetta rispose, rammentarono
ad Emilia la sua prudenza, e con un sorriso forzato, dissimulando la
commozione, acconsentì ad andar a vedere il ritratto posto in una
stanza oscura attigua al tinello.

«Eccolo qua,» disse Annetta piano, mostrandole il quadro. Emilia
l'osservò, e vide che rappresentava una signora nel fior dell'età e
della bellezza. I lineamenti n'erano nobili, regolari e pieni d'una
forte espressione, ma non di quella seducente dolcezza che avrebbe
voluto trovarvi Emilia, nè di quella tenera melanconia che tanto
l'interessava.

«Quant'anni sono scorsi,» disse Emilia, «dacchè è sparita questa
signora?

--Venti anni circa, a quel che dicono.»

La fanciulla continuò ad esaminare il ritratto.

«Io penso,» ripigliò Annetta, «che il signor Montoni dovrebbe situarlo
in una camera più bella. A parer mio, il ritratto della signora, della
quale ha ereditate le ricchezze, dovrebbe stare nell'appartamento
nobile. In verità, era una bella donna, ed il padrone potrebbe, senza
vergognarsi, farlo portare nel grand'appartamento dove c'è il quadro
velato. (Emilia si volse). È vero che non lo si vedrebbe meglio: ne
trovo sempre chiusa la porta.

--Usciamo,» disse Emilia; «lascia, Annetta, che torni a
raccomandartelo; procura di esser riservatissima nei tuoi discorsi, e
non far sospettare che tu sappia la minima cosa, a proposito di quel
quadro.

--Santo Dio, non è già un segreto: tutti i servitori lo hanno veduto
più volte.

--Ma come può essere?» disse Emilia sussultando; «veduto! quando?
come?

--Non c'è nulla di sorprendente: già noi siam tutti un pochetto
curiosi.

--Ma se mi dicesti che la porta era chiusa?

--Se così fosse, come avremmo potuto entrare?» E guardava da per
tutto.

--Ah! tu parli di questo quadro qui,» disse Emilia calmandosi. «Vieni,
Annetta. Non vedo altro degno d'attenzione. Andiamo via.»

Avviandosi alla sua stanza, essa vide Montoni scendere nella sala, e
tornò nel gabinetto di sua zia, cui trovò sola e piangente. Il dolore
e il risentimento lottavano sulla sua fisonomia. L'orgoglio aveva
trattenuto fin allora le sue doglianze. Giudicando Emilia da sè
medesima, e non potendo dissimulare ciò che si meritava da lei
l'indegnità del suo trattamento, credeva che i suoi affanni avrebbero
eccitata la gioia della nipote, anzichè qualche simpatia. Credeva che
la disprezzerebbe, nè avrebbe, per lei la minima compassione; ma
conosceva assai male la bontà di Emilia.

Le pene vinsero finalmente l'orgoglioso carattere. Quando Emilia era
entrata la mattina nelle sue stanze, le avrebbe svelato tutto, se il
marito non l'avesse prevenuta; ed or che la di lui presenza non
glielo impediva, proruppe in amari lamenti.

«O Emilia,» esclamò ella, «io sono la donna più infelice! Vengo
trattata in un modo barbaro! Chi l'avrebbe preveduto, quando aveva
dinanzi a me una sì bella prospettiva, che proverei un destino così
terribile? Chi avrebbe creduto, allorchè sposai un uomo come Montoni,
che mi sarei avvelenata la vita? Non c'è mezzo d'indovinare il miglior
partito da prendere; non ve n'ha per riconoscere il vero bene. Le
speranze più lusinghiere c'ingannano, ingannando così anche i più
saggi. Chi avrebbe preveduto, quando sposai Montoni, che mi pentirei
così presto della mia generosità?»

Emilia sapeva bene che avrebbe dovuto prevedere tutti questi
inconvenienti, ma non essendo quello il momento di farle inutili
rimproveri, sedette presso la zia, le prese la mano, e con quell'aria
pietosa che la faceva somigliare ad un angelo custode, le parlò con
infinita dolcezza. Tutti i suoi discorsi però non bastarono a calmare
la signora Montoni, la quale non volle ascoltar nulla; essa aveva
bisogno di sfogarsi ancor prima di essere consolata.

«Ingrato!» diss'ella, «mi ha ingannato in tutte le maniere. Ha saputo
strapparmi dalla patria, dagli amici; mi chiuse in questo antico
castello, e crede costringermi a cedere a tutti i suoi voleri; ma
vedrà che si è ingannato, vedrà che nessuna minaccia basterà ad
indurmi a... Ma chi l'avrebbe creduto? Chi l'avrebbe mai supposto che,
col suo nome, la sua apparente ricchezza, costui non avesse nulla
affatto? No, neppure uno zecchino del suo! Io credeva far bene: lo
credeva uomo d'importanza ed opulentissimo, altrimenti non lo avrei
sposato. Ingrato! Perfido! Mostro!...

--Cara zia, calmatevi; il signor Montoni sarà forse men ricco di
quello che credevate, ma non è poi così povero. La casa di Venezia e
questo castello sono suoi. Posso io domandarvi quali sono le
circostanze che vi affliggono più particolarmente?

--Quali circostanze!» sclamò la zia furibonda. «Che! non basta? Da
molto tempo rovinato al giuoco, ha perduto anche tutto ciò che gli ho
donato, ed ora pretende che gli faccia cessione di tutti i miei beni.
Fortuna che la maggior parte di essi sono in testa mia: ei vorrebbe
dilapidare anche questi e gettarsi in un progetto infernale di cui
egli solo può comprendere l'idea; e... tutto questo non basta?

--Certo,» disse Emilia, «ma rammentatevi, signora, ch'io l'ignorava
assolutamente.

--E non basta, che la sua rovina sia compiuta, che sia pieno di debiti
d'ogni sorta al punto che, se dovesse pagarli, non gli resterebbe nè
il castello, nè la casa di Venezia?

--Sono afflittissima di ciò che mi dite...

--E non basta,» interruppe la zia, «che mi abbia trattata con tanta
negligenza e crudeltà, perchè gli ricusai la cessione; perchè
invece di tremare alle sue minacce, lo sfidai risolutamente,
rimproverandogli, la sua vergognosa condotta? Io l'ho sofferto con
tutta la dolcezza possibile. Voi sapete bene, nipote, se mi sfuggì mai
una parola di doglianza fino ad ora; io, il cui unico torto è una
bontà troppo grande ed una troppo facile condiscendenza! E per mia
disgrazia mi vedo incatenata per la vita a questo vile, crudele e
perfido mostro!»

Emilia, comprendendo che i suoi mali non ammettevano consolazione
reale, e spregiando le frasi comuni, stimò meglio tacere; la signora
Montoni però, gelosa della sua superiorità, interpretò quel silenzio
per indifferenza o disprezzo, e le rimproverò l'oblio de' propri
doveri e la mancanza di sensibilità.

«Oh! come diffidava io di quella sensibilità tanto vantata, quando
sarebbe stata messa alla prova!» soggiuns'ella; «io sapeva benissimo
che non v'insegnerebbe nè tenerezza, nè affetto pei parenti che vi
hanno trattata come loro figlia.

--Perdonate, zia,» disse Emilia con dolcezza, «io mi vanto poco, e se
lo facessi, non mi vanterei già della mia sensibilità, ch'è un dono
forse più da temere che da desiderare.

--A meraviglia, nipote, non voglio disputar con voi; ma, come io
diceva, Montoni minacciommi di violenze, se persisto più a lungo a
negargli la cessione; era appunto il soggetto della nostra contesa
quando entraste stamattina. Ora son decisa; non v'ha forza sulla terra
che possa costringermivici, e non soffrirò con calma tanti mal
trattamenti; gli dirò tutto ciò che merita, a dispetto delle sue
minacce e della sua ferocia.»

Emilia profittò di un momento di silenzio per dirle: «Cara zia, voi
non fareste che irritarlo senza necessità; non provocate di grazia, i
mali crudeli che temete.

--Poco men cale, ma non lo appagherò mai; voi mi consigliereste forse
a spogliarmi di tutto il mio?

--No, zia, non intendo dir questo.

--E che intendete voi dunque?

--Voi parlavate di far rimproveri al signor Montoni...» disse Emilia
titubante.

--Che! Forse non li merita?

--Certo; ma non credo sia prudenza il farglieli nella situazione
attuale.

--Prudenza! prudenza con un uomo che senza scrupolo calpesta perfino
le leggi dell'umanità! ed userò prudenza con costui? No, non sarò vile
a tal segno.

--Pel vostro solo interesse, e non per quello di Montoni,» disse
Emilia modestamente, «stimerei bene di consultar la prudenza. I vostri
rimproveri, quantunque giusti, riescirebbero vani, nè farebbero che
spingerlo a terribili eccessi.

--Come! Dovrei dunque sottoporrai ciecamente a tutto ciò ch'ei mi
comanda? Pretendereste ch'io me gli gettassi ai piedi per ringraziarlo
della sua crudeltà? Pretendereste che gli facessi donazione di tutti i
miei beni?

--Cara zia, io forse mi spiego male! non sono in caso di consigliarvi
sopra un punto tanto delicato; ma soffrite che ve lo dica: se amate il
vostro riposo, cercate di calmare il signor Montoni, anzichè
irritarlo.

--Calmarlo! è impossibile, ripeto, non voglio neppur provarmici.»

Emilia, benchè piccata dall'ostinazione e dalle false idee della zia,
sentiva pietà de' di lei infortunii, e fece il possibile per calmarla
e consolarla, dicendole:

«La vostra situazione è forse meno disperata che non crediate. Il
signor Montoni può dipingervi i suoi affari in uno stato più cattivo
di quello che lo siano realmente, per esagerare e dimostrare il
bisogno che ha della vostra cessione; d'altronde, finchè conserverete
i vostri beni, vi offriranno una risorsa, se la futura condotta di
vostro marito vi obbligasse a separarvi da lui....

--Nipote crudele e insensibile,» la interruppe impazientemente la zia,
«voi dunque tentate persuadermi che non ho motivo di querelarmi? Che
mio marito è in una posizione brillante? che il mio avvenire è
consolante, e che i miei affanni son puerili e romanzeschi come i
vostri? Strane consolazioni! Persuadermi che sono priva di criterio e
di sentimento, perchè voi non sentite nulla, e siete indifferentissima
ai mali altrui! Io credeva aprire il cuore ad una persona
compassionevole, che simpatizzasse colle mie pene; ma mi avvedo pur
troppo che le persone sentimentali non sanno sentire che per sè.
Andatevene.»

Emilia, senza risponderle, uscì con un misto di pietà e disprezzo.
Appena fu sola, cedè ai penosi pensieri che le faceva nascere la
posizione infelice della zia. Le proprie osservazioni, le parole
equivoche di Morano, l'aveano convinta che il patrimonio di Montoni
mal corrispondeva alle apparenze. Vedeva il fasto di lui, il numero
de' servi, le sue nuove spese per le fortificazioni, e la riflessione
aumentò la di lei incertezza sulla sorte della zia e la propria,
pensando al truce carattere dello zio che andava ognor più spiegandosi
nella sua ferocia.

Mentre versava in questi affliggenti pensieri, Annetta le portò il
pranzo in camera. Sorpresa da tal novità, domandò chi glielo avesse
ordinato. «La mia padrona,» rispose Annetta. «Il signore ha comandato
ch'essa pranzi nel suo appartamento ed ella vi manda il pranzo nel
vostro. Ci sono state forti discussioni fra loro, e mi pare che la
cosa si faccia seria.»

Emilia, poco badando alle sue ciarle, si mise a tavola, ma Annetta non
taceva sì facilmente: parlò dell'arrivo degli uomini da lei già veduti
sul bastione, e della loro strana figura, non meno che della buona
accoglienza lor fatta da Montoni. «Pranzano essi con lui?» disse
Emilia.

--No, signorina; hanno già mangiato nelle lor camere in fondo alla
galleria settentrionale. Non so quando se ne andranno. Il padrone ha
ordinato a Carlo di portar loro il bisognevole. Hanno già fatto il
giro di tutto il castello, e dirette molte interrogazioni ai manovali.
In vita mia non ho mai veduto ceffi così brutti; fanno paura a
vederli.»

La fanciulla le domandò se avesse udito riparlare del conte Morano, e
se vi fosse per lui speranza di guarigione. Annetta sapeva solo che
trovavasi in una capanna, e molto aggravato. Emilia non potè
nascondere la commozione.

«Signorina,» disse la ciarliera, «come le donne sanno ben nascondere
l'amore! Io credeva che voi odiaste il conte, e mi sono ingannata.

--Credo di non odiar nessuno,» rispose Emilia sforzandosi al sorriso;
«ma non sono innamorata certo del conte Morano; e sarei egualmente
dispiacentissima della morte violenta di chicchessia.»

Annetta tornò a parlare de' dissensi fra i coniugi Montoni. «Non è
cosa nuova,» diss'ella, «giacchè abbiamo inteso e veduto tutto fino da
Venezia, sebbene non ve ne abbia mai parlato.

--E facesti benissimo, ed avresti fatto meglio a continuare a tacere;
abbi dunque prudenza, che questo discorso non mi garba.

--Ah! cara signora Emilia, vedo qual rispetto avete per persone che si
occupano sì poco di voi! Io non posso soffrire di vedervi illusa in
tal modo; debbo dirvelo unicamente pel vostro interesse, e senza alcun
disegno di nuocere alla mia padrona, quantunque, a dir vero, abbia
poca ragione di amarla.

--Tu non parli certo di mia zia,» disse Emilia con gravità.

--Sì, signora; ma io sono fuori di me. Se voi sapeste tutto quel che
so io, non andreste in collera. Spesso, spessissimo ho inteso lei ed
il padrone che parlavano di maritarvi al conte: essa gli diceva sempre
di non lasciarvi cedere ai vostri ridicoli capricci, ma di saper
costringervi ad obbedire. Mi si straziava il cuore all'udire tanta
crudeltà; parendomi che essendo ella stessa infelice, avrebbe dovuto
compatire le disgrazie altrui e....

--Ti ringrazio della tua pietà, Annetta; ma mia zia era infelice, e
forse le sue idee erano alterate. Altrimenti io penso... son persuasa
che... Ma via, lasciami sola, Annetta, ho finito di pranzare.

--Voi non avete mangiato quasi nulla; prendete un altro boccone...
Alterate le sue idee? affè! mi pare che lo siano sempre. A Tolosa ho
inteso spesso la padrona parlare di voi e del signor Valancourt alla
signora Marville e alla signora Vaison in un modo poco bello: diceva
loro che durava fatica a contenervi ne' limiti del dovere, che
eravate per lei un gran peso, e che se non vi avesse sorvegliata bene,
sareste andata a scorrazzare per le campagne col signor Valancourt;
che lo facevate venir la notte, e....

--Gran Dio!» sclamò Emilia facendosi di fuoco; «è impossibile che mia
zia mi abbia dipinta così.

--Sì, signora, questa è la pura verità, sebbene non la dica tutta
intiera. Mi pareva che avrebbe potuto parlare in altra maniera di sua
nipote, anche nel caso che voi aveste commesso qualche fallo. Ma siate
certa che non ho mai creduto neppure una sillaba di tutti i suoi
discorsi. La padrona non guarda mai a ciò che dice, quando parla degli
altri.

--Comunque sia, Annetta,» disse Emilia, ricomponendosi con dignità,
«tu fai malissimo ad accusar mia zia presso di me; so che la tua
intenzione è buona, ma non parliamone più; sparecchia la tavola.»

La cameriera arrossì, chinò gli occhi ed affrettassi ad andarsene.

«È dunque questo il premio della mia onestà?» disse Emilia quando fu
sola. «È questo il trattamento che debbo ricevere da una parente, da
una zia, la quale doveva difendere la mia riputazione, invece di
calunniarla? Oh! mio tenero ed affettuosissimo padre, cosa diresti se
tu fossi ancora al mondo? Che penseresti della indegna condotta di tua
sorella a mio riguardo?... Ma via, bando alle inutili recriminazioni,
e pensiamo soltanto ch'essa è infelice.»

Per divagarsi alquanto, prese il velo, e scese sui bastioni, l'unico
passeggio che le fosse permesso. Avrebbe, sì, desiderato percorrere i
boschi sottoposti, e contemplare i sublimi quadri della natura; ma
Montoni non volendo ch'ella uscisse dal castello, cercava contentarsi
delle viste pittoresche cui osservava dalle mura. Nessuno eravi allora
colà; il cielo era tetro e tristo come lei. Però, trapelando il sole
dalle nubi, Emilia volle vederne l'effetto sulla torre di tramontana:
voltandosi, vide i tre forestieri della mattina, e si sentì un tremito
involontario. Coloro le si avvicinarono mentre esitava. Volle
ritirarsi, ed abbassò il velo, che mal ne nascondeva la beltà. Essi
guardaronla attenti, parlandosi tra loro: la fierezza delle fisonomie
la colpì ancor più del singolare abbigliamento. La figura in ispecie
di quello in mezzo spirava una ferocia selvaggia, truce e maligna che
l'atterrì. Passò rapida: quando fu in fondo al terrazzo, si volse, e
vide gli stranieri all'ombra della torretta, intenti a considerarla,
ed a parlare con fuoco tra loro. Ella affrettossi a ritirarsi in
camera.

Montoni cenò tardi, e restò un pezzo a tavola cogli ospiti nel salotto
di cedro. Gonfio del suo recente trionfo su Morano, vuotò spesso la
coppa, e si abbandonò senza ritegno ai piaceri della tavola e della
conversazione. Il brio di Cavignì parea al contrario scemato: guardava
Verrezzi, cui aveva stentato molto a contenere fin allora, e che
voleva sempre manifestare a Montoni gli ultimi insulti del conte.

Un convitato mise in campo i casi della notte scorsa, e gli occhi di
Verrezzi sfavillarono: si parlò poscia di Emilia, e fu un concerto di
elogi. Montoni solo tacea. Partiti i servi, la conversazione divenne
più libera; il carattere irascibile di Verrezzi mescolava talvolta un
po' di asprezza in quanto diceva, ma Montoni spiegava la sua
superiorità perfin negli sguardi e nelle maniere. Uno di essi nominò
imprudentemente di nuovo Morano; Verrezzi scaldato dal vino, e senza
badare ai ripetuti segni di Cavignì, diede misteriosamente qualche
cenno sull'incidente della vigilia. Montoni non parve notarlo e
continuò a tacere, senza mostrare alterazione. Quell'apparente
insensibilità accrebbe l'ira di Verrezzi, il quale finì a manifestare
i detti di Morano, che, cioè, il castello non gli apparteneva
legittimamente, e che non avrebbegli lasciato volontariamente un altro
omicidio sull'anima.

«Sarei io insultato alla mia tavola, e lo sarei da un amico?» gridò
Montoni pallido dal furore. «Perchè ripetermi i motti d'uno stolto?»
Verrezzi, che si aspettava di vedere l'ira di Montoni volgersi contro
il conte, guardò Cavignì con sorpresa, e questi godè della sua
confusione. «Avreste la debolezza di credere ai discorsi d'un uomo
traviato dal delirio della vendetta?

--Signore,» disse Verrezzi, «noi crediamo solo quel che sappiamo.

--Come!» interruppe Montoni con gravità; «dove sono le vostre prove?

--Noi crediamo solo quel che sappiamo, e non sappiam nulla di quanto
ci affermò Morano.»

Montoni parve rimettersi, e disse: «Io son sempre pronto, amici,
quando si tratta del mio onore; nessuno potrebbe dubitarne
impunemente. Orsù, beviamo.

--Sì, beviamo alla salute della signora Emilia,» disse Cavignì.

--Con vostro permesso, prima a quella della castellana,» soggiunse
Bertolini. Montoni taceva.

--Alla salute della castellana,» dissero gli ospiti, e Montoni fece un
lieve cenno di capo in segno d'approvazione.

«Mi sorprende, signore,» gli disse Bertolini, «che abbiate negletto
tanto questo castello: è un bell'edifizio.

--E molto adatto ai nostri disegni,» replicò Montoni. «Voi non sapete,
parmi, per qual caso io lo posseggo?

--Ma,» disse Bertolini ridendo, «è un caso fortunatissimo, ed io vorrei
che me ne accadesse uno simile.

--Se volete compiacervi d'ascoltarmi,» continuò Montoni, «vi
racconterò la cosa.»

Le fisionomie di Bertolini e Verrezzi esprimevano ansiosa curiosità.
Cavignì, il quale non ne esternava, sapeva probabilmente già la
storia.

«Sono quasi venti anni che posseggo questo castello. La signora che lo
possedeva prima di me, era mia parente lontana. Io sono l'ultimo della
famiglia: essa era bella e ricca, ed io le offrii la mia mano, ma
siccome amava un altro, mi respinse. È probabile che il preferito
abbia respinto lei, che fu assalita da una costante malinconia, ed ho
tutto il fondamento di credere che troncasse ella stessa i suoi
giorni. Io non era allora nel castello: è un caso pieno di strane e
misteriose circostanze ch'io vo' ripetervi.

--Ripetetele,» disse una voce.

Montoni tacque, ed i suoi ospiti, guardandosi reciprocamente, si
chiesero chi avesse parlato, e s'avvidero che tutti si facevano la
stessa domanda.

«Siamo ascoltati,» disse Montoni; «ne parleremo un'altra volta:
beviamo.»

I convitati guardarono per tutta la sala.

«Siamo soli,» disse Verrezzi, «fateci la grazia di continuare.

--Non udiste qualcosa?» sclamò Montoni.

--Parmi di sì,» rispose Bertolini.

--Pura illusione,» disse Verrezzi guardando ancora. «Siam soli.
Continuate, ven prego.»

Montoni ripigliò sottovoce, mentre i convitati si serravano intorno a
lui.

«Sappiate che la signora Laurentini da qualche mese mostrava i sintomi
d'una gran passione e d'un'immaginazione alterata. Talvolta si perdeva
in una placida meditazione, ma spesso farneticava. Una sera di
ottobre, dopo uno di questi accessi, si ritirò sola nella sua camera,
vietando di sturbarla. Era la camera in fondo al corridoio, ch'è stata
il teatro della scena d'ieri sera: da quell'istante non la videro
più.

--Come! Non fu veduta più?» disse Bertolini. «Il suo corpo non fu
trovato nella camera?

--Non si trovò il suo cadavere?» esclamarono tutti unanimamente.

--Mai,» rispose Montoni.

--Quai motivi s'ebbero per supporre che si fosse uccisa?» disse
Bertolini.--Sì, quai motivi?» disse Verrezzi. Montoni gli lanciò
un'occhiata sdegnosa. «Perdonate, signore,» soggiunse l'altro; «non
pensava che la signora fosse vostra parente, quando ne parlai con
tanta leggerezza.»

Montoni, ricevendo questa scusa, continuò: «Vi spiegherò tosto il
tutto: ascoltate.

--Ascoltate!» ripetè una voce.

Tutti tacevano, e Montoni cambiò di colore.

«Questa non è un'illusione,» disse finalmente Cavignì.--No,» disse
Bertolini; «l'ho intesa anch'io.

--Questo diventa straordinario,» soggiunse Montoni, alzandosi
precipitosamente. Tutti i convitati si alzarono in disordine: furono
chiamati i servi, si fecero ricerche, ma non fu trovato nessuno. La
sorpresa e la costernazione crebbero. Montoni fu sconcertato.
«Lasciamo questa sala,» diss'egli, «ed il soggetto del nostro discorso;
è troppo serio.» Gli ospiti, disposti ad uscire, pregarono Montoni di
andare altrove a seguitare il suo racconto, ma invano; malgrado tutti
i suoi sforzi per parer tranquillo, egli era visibilmente
agitatissimo.

«Come!» disse Verrezzi; «sareste superstizioso, voi che vi burlate
dell'altrui credulità?

--Non sono superstizioso,» rispose Montoni «ma convien sapere cosa ciò
vuol dire.» Uscì, e tutti ritiraronsi.


  FINE DEL SECONDO VOLUME

  Milano, 1875--Tip. Ditta Wilmant.





NOTA DEL TRASCRITTORE

La presente edizione del libro è una traduzione abbreviata e priva di
quasi tutte le parti in poesia. La versione originale completa in
inglese si trova su Project Gutenberg: The mysteries of Udolpho
(http://www.gutenberg.org/etext/3268).

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo
senza annnotazione minimi errori tipografici. In particolare, l'uso di
trattini e virgolette per introdurre il discorso diretto, molto
irregolare e incoerente, è stato per quanto possibile regolarizzato.

I seguenti refusi sono stati corretti [tra parentesi il testo
originale]:

  P.  14 - col quale lo considerava. Alla perfine [perfino]
  "   17 - vedo bene che siete disposta [diposta] a
  "   17 - Tutti dormivano [dominavano] nel castello
  "   22 - a qual punto essa lo stimasse ed amasse [amassase]
  "   27 - cadde quasi esanime [esamine] sul seno. Non piangevan più
  "   52 - degli altri beni toccatigli [toccatagli]
  "   62 - o signore, che non accetterò [eccetterò] mai
  "   64 - Calmato alquanto il di lei spavento, Montoni [Monteni]
  "   76 - oltre Orsino, a questi conciliaboli notturni [nottorni]
  "   83 - disponevano non sortissero [sortiressero] il bramato esito
  "   86 - lasciar [lascir] entrare il suo signore
  "   87 - posta in faccia al [ad] grande specchio
  "   90 - per assistere [assistare] a sì bello spettacolo
  "  106 - ad idee grandiose, e, per una specie [spece]
  "  128 - colmollo di rimproveri [rimpoveri] senza parlare
  "  141 - e senza badare ai ripetuti segni di [di di] Cavignì

Grafie alternative mantenute:

  follia / follìa
  Saint-Aubert / Sant'Aubert





End of the Project Gutenberg EBook of I misteri del castello d'Udolfo, vol. 2,
by  Ann Radcliffe

*** END OF THIS PROJECT GUTENBERG EBOOK I MISTERI
DEL CASTELLO D'UDOLFO, VOL. 2 ***

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Project Gutenberg-tm is synonymous with the free distribution of
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including obsolete, old, middle-aged and new computers.  It exists
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Volunteers and financial support to provide volunteers with the
assistance they need, are critical to reaching Project Gutenberg-tm's
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remain freely available for generations to come.  In 2001, the Project
Gutenberg Literary Archive Foundation was created to provide a secure
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To learn more about the Project Gutenberg Literary Archive Foundation
and how your efforts and donations can help, see Sections 3 and 4
and the Foundation web page at http://www.pglaf.org.


Section 3.  Information about the Project Gutenberg Literary Archive
Foundation

The Project Gutenberg Literary Archive Foundation is a non profit
501(c)(3) educational corporation organized under the laws of the
state of Mississippi and granted tax exempt status by the Internal
Revenue Service.  The Foundation's EIN or federal tax identification
number is 64-6221541.  Its 501(c)(3) letter is posted at
http://pglaf.org/fundraising.  Contributions to the Project Gutenberg
Literary Archive Foundation are tax deductible to the full extent
permitted by U.S. federal laws and your state's laws.

The Foundation's principal office is located at 4557 Melan Dr. S.
Fairbanks, AK, 99712., but its volunteers and employees are scattered
throughout numerous locations.  Its business office is located at
809 North 1500 West, Salt Lake City, UT 84116, (801) 596-1887, email
[email protected].  Email contact links and up to date contact
information can be found at the Foundation's web site and official
page at http://pglaf.org

For additional contact information:
     Dr. Gregory B. Newby
     Chief Executive and Director
     [email protected]


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