La lotta politica in Italia, Volume 2 (of 3)

By Alfredo Oriani

The Project Gutenberg eBook, La lotta politica in Italia, Volume II (of
3), by Alfredo Oriani


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Title: La lotta politica in Italia, Volume II (of 3)
       Origini della lotta attuale (476-1887); Quinta edizione


Author: Alfredo Oriani



Release Date: June 24, 2013  [eBook #43023]

Language: Italian


***START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK LA LOTTA POLITICA IN ITALIA,
VOLUME II (OF 3)***


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ALFREDO ORIANI

LA LOTTA POLITICA IN ITALIA

ORIGINI DELLA LOTTA ATTUALE (476-1887)

QUINTA EDIZIONE

Curata e riveduta sul manoscritto da A. MALAVANI e G. FUMAGALLI

VOLUME II.







FIRENZE
SOC. ANONIMA EDITRICE «LA VOCE»
1921




ORIGINI DELLA LOTTA ATTUALE

(476-1887)




LIBRO QUARTO

IL RISORGIMENTO




CAPITOLO PRIMO.

I moti del 1821


                                  Influenze europee.

L'Europa era anche più agitata dell'Italia dai moti sotterranei del
liberalismo.

Il patto della Santa Alleanza uscito da una tragedia pareva prossimo ad
attirarsi gli scherni di una farsa: il dispotismo dei re, per quanto
agguerrito, non bastava ad atterrire la libertà dei popoli. La
individualità civile e politica creata dalla rivoluzione francese col
dogma della sovranità popolare, sorpassata la necessaria antitesi della
dittatura napoleonica, passava dal cittadino alla nazione, dalla Francia
all'Europa. Un nuovo diritto era proclamato tutti i giorni dai giornali
e dalle cattedre, dalle esigenze industriali e commerciali, politiche e
sociali. La rivoluzione francese avendo più o meno rivelato se medesima
a tutti i popoli, ognuno di essi impadronendosi del proprio problema
badava a trovarne la soluzione. E il problema era il medesimo per tutti
attraverso ogni differenza di grado: emanciparsi dal passato
costituendosi nell'indipendenza e nella libertà e mutando i propri
despoti in funzionari.

La Carta conquistata dalla Francia nella propria sconfitta metteva il
principio dell'elettorato popolare al disopra della monarchia: questa
per combatterlo si logorerebbe fatalmente; mentre la nazione,
percorrendo in mezzo secolo tutta la gamma delle monarchie
costituzionali quasi a convincere il mondo della loro inconciliabilità
colla moderna libertà, riconquisterebbe la republica. L'Inghilterra,
rappresentante di un parlamentarismo nel quale la sovranità nazionale
era ancora limitata al doppio patriziato dei lords e dei ricchi,
guadagnata al contagio della democrazia francese, si preparava con
discussioni di popoli e reazioni di governo alla grande rivoluzione
legale del 1829; l'Irlanda s'insanguinava nell'eroica caparbietà di una
emancipazione mal definita; interclusi dalla Russia dall'Austria e dalla
Turchia, i Principati Danubiani, quasi anella fracassate dell'immenso
dragone slavo, erano agitati da moti convulsi di congiunzione e
cercavano sottrarsi alla tirannia turca invocando la libertà francese.
Erano popolazioni quasi barbare che si avventuravano alla libertà
coll'energia di una indipendenza selvaggia, mescolando sentimenti e
tradizioni medioevali ad istinti meravigliosi di modernità. Dopo
l'antica civiltà del Mediterraneo e del Baltico fermentava in essi
quella del mar Nero. La Slavia del sud, avanguardia della Slavia del
nord, combatteva precipuamente Turchia ed Austria, il potere più barbaro
e la potenza più dispotica d'Europa, le due negazioni più assurde
dell'individualità cristiana e moderna.

La Grecia, piccola, smembrata, appena colla popolazione d'una grande
città, senza denaro e senz'armi, si scagliava sull'immane colosso dei
Dardanelli: tutti i suoi figli erano eroi. Gli antichi poemi di Omero
ammutolivano agli echi delle nuove gesta: le vecchie storie leggendarie
diventavano pedestri dinanzi ai racconti delle presenti imprese; persino
la tragedia napoleonica nella sua vastità non uguagliava questa angusta
epopea, nella quale tutto un popolo si mutava in esercito, mentre tutte
le sue città affogavano nel sangue, e flottiglie di brulotti
incendiavano le armate nemiche incalcolabilmente numerose, e falangi di
donne superavano d'ardimento gl'invincibili battaglioni dei klefti.

La Spagna si ribellava contro il tradimento di Ferdinando VII, re così
ribaldo che al suo paragone quelli d'Italia sembravano magnanimi.
Quiroga e Riego alla testa di una insurrezione militare lo forzano al
rispetto della costituzione proclamata spontaneamente dalla nazione nel
1812 durante l'interregno e da lui accettata al ritorno nel 1814. Ma il
costituzionalismo è impossibile anche alla Spagna troppo incolta e
bigotta; quindi il partito liberale si spezza e, mentre i moderati
aggirati dalla corte e dal clero mirano a sminuire rivoluzione e
costituzione, i radicali esasperati mantengono la rivolta. La guerra
civile avvampa sublime di orrore e di eroismo. Il moto si propaga al
Portogallo: il colonnello Sepulveda vi si solleva, i costituzionali
entrano trionfanti a Lisbona, e Giovanni VII vi sbarca dal Brasile per
accettare la costituzione, lasciando quello emanciparsi e proclamare don
Pedro imperatore.

L'Europa freme. La Polonia, ostinata nel sogno assurdo d'una rivoluzione
aristocratica, nella quale al popolo viene sempre offerto il dispotismo
dei propri signori in cambio della tirannide russa, affila le armi; la
Germania si agita nelle società segrete, scuotendo con brividi poderosi
i limiti dei propri molteplici stati come disadatte congiunture di
troppo vecchia armatura.


                                  La rivoluzione napoletana.

L'Italia, sempre da tre secoli accodata all'Europa, rabbrividisce al
vento della rivolta, che soffia da tutte le sue sponde e discende dalle
Alpi a sferzare i vapori del suo cielo sonnolento.

La carboneria cresciuta ad incredibile numero di adepti non poteva non
risentirne. Nella dissoluzione dell'immensa unità, napoleonica, fra il
doppio crepuscolo di un'epoca che finiva e di un'altra che incominciava,
dopo aver sopportato la protezione e la persecuzione regia, non aveva
ancora trovato il problema pel quale era nata. Il cosmopolitismo,
togliendole la precisione degli obiettivi e il carattere nazionale,
invece di una forza diventava una debolezza. Quantunque si reclutasse
anche nelle file del popolo e fosse borghese per studi e tendenze,
subiva ancora così il fascino dell'aristocrazia da cercare in essa i
propri capi. Quindi anelava a sostituirsi nel governo anzichè a vera
emancipazione politica; i suoi più illustri capitani furono Carlo
Alberto di Carignano e Francesco duca di Calabria; avevano scritto sulla
propria bandiera -- Indipendenza, Libertà, e poi Unione invece di Unità --
sfuggendo così al problema primordiale della ricostituzione italica. Del
come stringere la federazione o fondare una republica una monarchia
unitaria non discuteva, quasi di secondaria conseguenza lasciata alla
decisione del capo al capriccio della vittoria. Moralmente la carboneria
era nobile e generosa; ma intellettualmente retriva, affettava il
classicismo nelle idee e nelle forme letterarie, romanticheggiava sulla
tradizione italica, invanendo nel segreto teatrale delle proprie
iniziazioni e nella rapida diffusione delle vendite. Se la sua forza
avesse corrisposto alla sua cifra, la quale raggiungeva quasi il
milione, e la sua fede fosse stata profonda, avrebbe potuto, mutandosi
in esercito al momento della riscossa, assicurare la rivoluzione: invece
non ne fu nulla. Questa cominciò come una insubordinazione, visse fra
una festa e un'accademia, rinnegò nell'insulsaggine di un egoismo
regionale l'unità italiana, si affidò ingenuamente ridicola alla parola
di un re spergiuro, per finire fortunatamente in un massacro di
reazione, che la riabilitò avvalorando con ineffabili dolori il
carattere politico nazionale.

Come sètta politica la sua debolezza stava nel suo stesso numero
eccessivo, giacchè prima di raggiungerlo avrebbe dovuto affermarsi per
insurrezione; e peggiori erano le qualità dei suoi adepti in gran parte
preti. Questo invece di essere un carattere religioso significava che
l'antinomia del vaticanismo colla rivoluzione non era ancora sentita.

I primi fatti avvennero a Napoli. Guglielmo Pepe, strenuo soldato ma
inetto generale e più inetto politico, vi sfoggiò teatralmente.
Compromesso quasi da fanciullo in due cospirazioni, processato e gittato
nelle orribili fosse del Marittimo e della Favignana, poi soldato a
Marengo e nelle Spagne; di republicano mutato in costituzionale;
colonnello al servizio di re Giuseppe e di Murat; contro questo
mescolato nelle ultime cospirazioni per strappargli una costituzione;
finalmente rimasto generale sotto Ferdinando di Borbone, era l'eroe
della carboneria. Lo splendore delle sue gesta soldatesche, le sue prime
congiure, la sua ultima conversione al costituzionalismo, i suoi pregi e
i suoi difetti, lo destinavano a rappresentare il nuovo moto. Si sapeva
che Pepe nel 1819, quando Francesco I d'Austria e Metternich vennero
ospiti del re Ferdinando, aveva tramato di catturarli tutti ad una
rivista che poi fallì. Ma la carboneria, dopo la costituzione della
Vendita suprema di Salerno, incalzata dalla rivoluzione spagnuola,
affretta le disposizioni per la rivolta: tradita da un miserabile
Acconciagiuoco le precipita: l'esercito è quasi tutto carbonaro. Due
sottotenenti del reggimento Borbone cavalleria, Michele Morelli e
Giuseppe Silvati, sospinti dal canonico Menichini, lo sollevano al grido
di: viva Dio, viva il re, viva la costituzione, ma il popolo non capisce
quest'ultima parola. Il tenente colonnello Concili aderisce, si canta
trionfalmente col vescovo il _Te deum_ in Avellino. Di qui la colonna
degli insorti s'avvia a Monforte, altri canonici carbonari la
rinfiancano con bande raccogliticce; la Corte sgomentata deputa Pepe ai
ribelli, poi, malcerta della sua fede, manda loro il generale Carrascosa
senza soldati. Questi tratta coi rivoltosi aspettando rinforzi per
batterli, ma l'insurrezione si propaga, altri reggimenti si ribellano
eccitati da Pepe, la Corte trema, e cinque settari col duca Piccolelli
alla testa, quasi nel finale di un melodramma, vi penetrano intimando al
re di concedere la costituzione fra tre ore.

E Ferdinando la dà.

Allora è un'ebrezza: Pepe, dichiarato salvatore del re, fa retrocedere i
calabresi già in marcia su Napoli, quindi vi entra, 9 luglio 1820,
caracollando alla testa degli insorti fra nembi di fiori e cantici di
osanna. L'eccitabile immaginazione del popolo lo paragona a Murat.
Disceso a corte, bacia umilmente la mano al vecchio re Ferdinando che lo
abbindola con volgari complimenti.

La costituzione giurata all'indomani dal re con invocazioni di fulmini
divini sul proprio capo, se mai avesse a tradirla, esalta al delirio le
fantasie: la costituzione era spagnuola e si era voluta fanaticamente
quella, benchè nessuno la conoscesse e in tutta Napoli solamente
l'ambasciatore spagnuolo ne avesse una copia. La Corte s'inganna, la
carboneria s'illude, il popolo festeggia. Il poeta Gabriele Rossetti
lancia la più bella delle sue odi a questa incruenta rivoluzione senza
accorgersi che se adesso non vi è stilla di sangue su tante migliaia di
spade, nel giorno prossimo della battaglia le stesse spade ricuseranno
d'insanguinarsi. Tutti si affigliano alla grande setta: il duca di
Calabria vi si fa iniziare da monsignor Marcello, i lazzari vi si
arruolano a frotte. Ma la camorra, eterna peste di Napoli, vi si mesce,
vendendo diplomi di carboneria agli stessi sanfedisti, intenti così al
doppio scopo di salvarsi da possibili vendette e di penetrare nella
rocca del nemico.

La diplomazia estera osteggia la rivoluzione: Sir William A' Court e il
duca di Narbonne la disonorano nei propri rapporti, onde a mezzo agosto
due flotte francesi ed inglesi compaiono nelle acque di Napoli per
difendere la famiglia reale. I grandi maestri della carboneria
congregata per avvisare ai nuovi pericoli ordinano ai carbonari e alle
milizie di muovere su Napoli, e stabiliscono un comitato di salute
publica di cinque membri col potere degli Efori spartani, eterno ricordo
classico, che vigilino sui generali, sui ministri, sulla corte, su
tutti.

Ma siccome la polizia reagisce contro la setta arrestandone qualcuno,
questa non ardisce spingersi all'insurrezione.

Intanto la Sicilia, ostinata nella propria autonomia e sobillata dalla
corte, profitta della rivoluzione di Napoli per ribellarsi; orribili
scene di sangue disonorano Palermo. Mentre il re riconcede la
costituzione del 1812, e il popolo reclama quella spagnuola proclamata a
Napoli, mirando precipuamente a costituirsi in stato indipendente sotto
la stessa dinastia, la guerra scoppiata fra soldati di presidio e
popolani costringe il nuovo governo di Napoli ad intervenire. Le
antinomie politiche si aggrovigliano: la Sicilia vuole essere
indipendente secondo le tradizioni federaliste italiane e non comprende
che a questo le occorrerebbe prima decretare la decadenza dei Borboni ed
eleggersi altro re o costituirsi in repubblica; a Napoli la rivoluzione
inspirata da un vago liberalismo cosmopolita, che sino alla vigilia
della sommossa aveva sempre parlato d'Italia, si chiude con insipiente
egoismo nella formula regionale contro le proprie inconscie tendenze
nazionali sino a ricusare, per timore di Roma, la fusione con Benevento
e Pontecorvo, città pontificie internate nelle terre napoletane. Ma
verso la Sicilia, che vorrebbe usare a Napoli il trattamento da questa
tenuto coll'Italia, l'antico orgoglio di capitale protesta in nome
dell'unità. Così Florestano Pepe, fratello di Guglielmo, generale egli
pure, viene deputato a soggiogare Palermo, e sbarca a Milazzo,
s'accentra a Messina rimasta fedele a Napoli per tradizionale rivalità
con Palermo. Senonchè scarso a soldati, tratta di componimento col
principe di Villafranca; questi troppo ben disposto ad arrendersi è
infamato subitamente dalla plebe col nome di giacobino, tanto nell'isola
è ancora odiata la rivoluzione francese! Il tumulto cresce, si
scarcerano i galeotti, si tempesta nelle guise più strane. Pepe,
astutamente longanime, arriva nullameno a concludere un accordo, che
Napoli infatuata della propria superbia di capitale cancella, mandando
il Colletta, generale che poi doveva rimanere illustre come storico, a
schiacciare la ribellione.

Il Colletta vinse, disciolse la giunta ribelle, fe' giurare la
costituzione spagnuola, convocò gli elettori, ma indarno. Nella riottosa
isola solo i pubblici funzionari giurarono e votarono: i deputati al
parlamento di Napoli ricusarono il mandato.

Intanto a Napoli la rivoluzione stagna. Malgrado le dichiarazioni di
cosmopolitismo e di nazionalismo la carboneria, anzichè eccitare la
rivolta nel resto d'Italia, si racchiude nel regno come nella speranza
di salvarsi, quindi fallisce al di fuori e peggiora al di dentro. Le
vanterie teatrali della setta sull'esempio dei frammassoni di Spagna
trasformano la Vendita di Napoli in un'assemblea permanente rivale del
parlamento: rivoluzione di setta che pretende naturalmente a governo di
setta! Il parlamento ricalcitra, ma ricusando il consiglio impostogli di
armare i carcerati non osa e non può accettare il conflitto. Le minaccie
d'Europa aumentano lo scompiglio; solo la Spagna, i Paesi Bassi, la
Svezia e la Svizzera hanno riconosciuto il nuovo governo; la Francia,
malgrado ogni speranza di giovarsene per riacquistare in Italia la
perduta influenza, rattenuta dal principio legittimista del proprio
governo, tergiversa; l'Inghilterra s'astiene e s'aggronda; lo czar
sfugge alle insistenze liberali di Capodistria per arrendersi ai maneggi
di Nesselrode e di Metternich, il quale ricusa di ricevere a Vienna
l'ambasciatore napoletano. L'Austria, sempre insidiosa, sollecita tutte
le corti italiane a dichiarare che la rivoluzione, mettendole in
pericolo, accetteranno una guarnigione austriaca; e queste consentono
alla prima parte della dichiarazione, ricusando il pericoloso presidio.
S'adunano congressi: a quello di Troppau (ottobre 1820), non ostante le
ipocrite riserve dell'Inghilterra, si afferma il principio
dell'intervento armato in tutti gli stati, nei quali la rivoluzione
rovesci il governo legittimo; quindi all'altro di Lubiana, cui
intervengono il cardinale Spina per la Santa Sede, il conte d'Agliè e il
marchese di San Marzano pel Piemonte, il principe Neri Corsini per la
Toscana, il conte Molza per Modena; si stabilisce la guerra contro
Napoli. Solo il legato pontificio ne dissente, per timore che le truppe
austriache, passando sul territorio romano, non vi si fermino.

Re Ferdinando, riuscito nei preliminari di questo secondo congresso a
farvisi invitare dagli alleati, ottiene il permesso di andarvi a
patrocinare la causa della rivoluzione dalla miracolosa insipienza del
proprio parlamento. Lo stesso Poerio decide l'assemblea a questa
scempiaggine: Guglielmo Pepe francamente convertito al costituzionalismo
rimane fedele al re, il generale Carrascosa si dichiara persino pronto a
ripetere la scena del diciotto brumaio contro l'assemblea.

Intanto giù nella piazza si urla freneticamente: la costituzione di
Spagna, o morte!

Ferdinando parte. Appena giunto in Firenze vi rinnega col duca la
giurata costituzione, scusandosene come di violenza patita: da Lubiana
manda il conte Del Gallo a significare il volere degli alleati; il
reggente si trincera dietro la volontà del padre per sottrarsi a quella
del parlamento, che convocato a sessione straordinaria, superando se
stesso nell'ingenuità, dichiara il re prigioniero e coartata la sua
lettera al figlio.

La guerra è dichiarata con frasi epiche, ma l'esercito, quantunque
numeroso, poco vale: gli aiuti del generale Wilson inglese, offerentesi
di comporre 4 reggimenti di volontari, per non essere stati accolti in
tempo, non giovano; i volontari accorsi da altre parti d'Italia non
bastano; i generali sono discordi e non sinceri. Carrascosa, regio di
sentimento, sostiene la difensiva; Pepe, costituzionale inetto ma
soldato impetuoso, declama di eroismi disperati; il Colletta ministro
della guerra, invido di Pepe e sfiduciato forse di ogni resistenza,
soffiando sul loro dissidio, disunisce la loro azione. Pepe, spintosi
con mossa avventata su Rieti, è battuto: il corpo di Carrascosa si
sbanda all'avvicinarsi del nemico; gli austriaci entrano in Napoli senza
colpo ferire, mentre Poerio con incredibile puerilità protesta contro
l'invasione, dichiarando «incostituzionale e quindi impossibile
traslocare il parlamento senza il concorso del potere esecutivo,
invocando la saviezza di sua altezza reale e del suo augusto genitore».

Questa fu la suprema affermazione della rivoluzione napoletana.

Ferdinando ritornato livido d'ira richiama il Canosa: grandinano le
condanne di morte; nuovi patiboli s'inzuppano del sangue dei più
generosi rivoluzionari che non seppero o non vollero fuggire; l'esodo
degli esiliati, respinti dalle frontiere pontificie con cattolica
crudeltà e vaganti nel terrore dell'abbandono e della morte, desola le
provincie; la polizia infellonisce con sì sfacciata barbarie che lo
stesso generale austriaco Frimont minaccia il re di ripassare la
frontiera se non cacci il Canosa. E questi va ministro presso non
migliore tiranno, Francesco IV di Modena.

Così finiva questa rivoluzione settaria, egoisticamente regionale
malgrado alcune prime intenzioni nazionaliste, ferocemente unitaria
contro la Sicilia, scioccamente costituzionale nella fede al re,
ridicolmente guerriera nella resistenza all'invasione, senza che il
popolo delle provincie e delle città v'intendesse cosa alcuna.


                                  Rivoluzione piemontese.

Nessuno degli errori della rivoluzione napoletana fu evitato in
Piemonte.

Bonapartisti e carbonari l'accesero senza accordi con Napoli, mentre la
più volgare esperienza politica avrebbe dovuto suggerirli anche senza il
lontano magnanimo scopo dell'unità d'Italia. Napoli aveva armato
quarantamila uomini alla difesa, e quarantamila erano gli austriaci
all'attacco: piombare alle spalle di questi ringagliardendo gli altri
con una diversione, sollevare la Lombardia, gettare un grido alle
Romagne sempre pronte ad ogni moto, tendere la mano alla Toscana,
congiungere con una medesima parola di riscossa Venezia e Genova,
antiche rivali di mare ora affratellate dalla sventura della servitù,
doveva essere l'inevitabile programma della rivoluzione piemontese dopo
gli errori commessi a Napoli. Invece non solo non si ebbe idea di una
vera rivoluzione, ma nemmeno un concetto dell'impresa che ne uscirebbe.

Siccome qualche diplomatico come il Crotti di Brusasco, legato sardo a
Pietroburgo, per ravvivare la tradizione della monarchia piemontese,
consigliava al re di prendere con larvate riforme costituzionali la
direzione delle forze liberali latenti nella penisola, così l'agitazione
rivoluzionaria cominciò colla forma ingenua di due indirizzi al sovrano.
Si sperava in tal modo di strappargli la benda dagli occhi e di
persuadergli la costituzione spagnuola. Poi l'11 gennaio 1821 gli
studenti di Torino tumultuavano per l'arresto di alcuni di loro comparsi
al teatro d'Angennes con berretti rossi alla greca. La carboneria,
sempre più accademia che setta, bizantineggiava ancora sulla scelta
della costituzione da proclamarsi, perdendo tempo e circostanze per
l'insurrezione: finalmente mandava deputati alla grande Vendita di
Parigi, specie di sinodo europeo, cui convenivano i liberali di Spagna,
i radicali d'Inghilterra, l'eterie di Grecia e ogni altra setta
politica. I deputati, traditi forse dalla polizia francese, furono
catturati al ritorno e i disegni di ribellione scoperti.

Carlo Alberto di Carignano, presunto erede dei Savoia rimasti tutti
senza prole, era da tempo il capo e l'eroe predestinato della carboneria
piemontese. Aveva ricevuto educazione cittadinesca a Ginevra; a 15 anni
era entrato volontario nell'esercito napoleonico; poi richiamato dalla
restaurazione del 1814 sui gradini del trono e odiato dalla corte meno
ancora per la sua inevitabile qualità di erede che per la sua
affettazione di sentimenti liberali, pareva a tutti l'uomo del destino
italiano. Monti, servile ed incorreggibile retore, lo aveva già salutato
come l'astro sorgente della patria: più tardi un altro poeta doveva
colpirlo col fulmine di una maledizione che scosse tutta Italia. Carlo
Alberto, senza fede nella libertà e senz'amore per la patria,
tergiversava fra la gloria di compiere una rivoluzione e il timore di
perdere un trono. La sua indecisione finiva di paralizzare il processo
già lento della carboneria. La corte avvertita non osava risolversi;
l'Austria più pronta mandava il generale Bubna a chiedere di occupare
Alessandria: a questa domanda il re, già fanaticamente ostile alla
rivoluzione tramata nel suo nome per farlo re costituzionale di tutta
l'alta Italia, si riaffermava nei propositi di resistenza. Dalla
Lombardia l'altra setta della federazione italiana, raccolta sotto la
maschera della scienza o della letteratura nelle sale dei conti
Gattinara e Confalonieri, spingeva il Piemonte all'insurrezione giurando
seguirlo, ma non voleva essere prima all'esempio. Finalmente Alessandria
si solleva al grido di: viva la costituzione, morte ai tedeschi!
costituendo una _Giunta della Federazione italica_. Asti, Pinerolo ed
altre città sono trascinate nel moto: a Torino un colpo di mano rende i
federati padroni della fortezza. Carlo Alberto, che nel vile egoismo
dell'anima dubbia aveva già tradito i rivoluzionari rivelando i loro
disegni al ministro della guerra, non può sottrarsi alla propria parte
di cospiratore; e mentre Torino si decide davvero in favore della
rivoluzione, e Vittorio Emanuele si dimette per non rispondere
all'appello che lo proclama re dell'alta Italia, diventa reggente per
Carlo Felice succeduto al trono e residente in Modena.

Le antitesi della sua posizione come rappresentante della dinastia e
delegato della rivoluzione trionfante, finiscono di scombuiarlo.
Incalzato a scoprirsi, indugia, largisce amnistia come di una colpa alle
truppe che lo hanno sollevato al nuovo governo; finchè, vinto da
pressioni di ogni sorta, promulga la costituzione spagnuola «salvo le
modificazioni che dalla rappresentanza nazionale in una con Sua Maestà
il re verranno deliberate». Si crea una giunta provvisoria di governo,
chiamando a capo del nuovo ministero Ferdinando Dal Pozzo, un regio che,
dopo aver giustificato il tradimento di Carlo Emanuele III al Giannone,
doveva poi vendere la penna all'Austria scrivendo un libro _Sulla
felicità che gli italiani possono e debbono dal governo austriaco
procacciarsi_.

Ma Carlo Felice, più retrivo e tiranno di Vittorio Emanuele, ordina alla
truppa di concentrarsi a Novara sotto il generale Latour, fulmina da
Modena condanne di ribellione contro tutti i sudditi aderenti al nuovo
governo. Carlo Alberto, sempre falso ed incerto, non ha ancora nè
convocati i collegi, nè dichiarata la guerra all'Austria; posto quindi
nella necessità di ribellarsi o di sottomettersi, non sa essere nè
francamente ribelle, nè astutamente traditore. Ricusa di ricevere
Santarosa venuto da Alessandria per eccitarlo alla guerra; poi,
vedendolo sostenuto dalla pubblica opinione, lo nomina ministro della
guerra, e la medesima notte, fingendo di mandare il cardinale Morozzo a
Carlo Felice per indurlo a mutar consiglio, fugge a Novara presso il
generale austriaco Bubna, donde emana un proclama di ubbidienza al nuovo
re.

Era un'infamia ed avrebbe potuto essere una fortuna. Ma la rivoluzione,
libera dagl'intoppi della reggenza, non osa nè il proprio principio, nè
i propri modi. Tutto peggiorava intorno ad essa: lo czar ordina al
generale Jermolov di mettersi in marcia; quindici mila austriaci si
avanzavano chiamati da Carlo Felice. A Torino non si pensa nemmeno a
bandire la guerra popolare e si lasciano al conte Latour il governo di
Novara e al conte di Andezeno quello della Savoia, sebbene entrambi
nemici della rivoluzione; i carabinieri della capitale minacciano di
sollevarsi in favore dell'assolutismo, il popolo assiste spettatore;
Genova rivale tumultua per separarsi dal Piemonte; Nizza, ricovero di
Vittorio Emanuele, tace; e le notizie di Napoli, finendo di prostrare
gli spiriti, persuadono la sommessione. La Giunta incapace di alzarsi al
disopra della legalità costituzionale decretando la decadenza del re,
discende a trattare col conte Mocenigo, ambasciatore russo, del perdono,
e avrebbe acconsentito ad ogni più duro patto senza la nobile fierezza
del Santarosa, che dopo aver cercato inutilmente di risollevare gli
animi perfino con false novelle d'insurrezioni lombarde e di vittorie
napoletane, vedendo che tutto è perduto, vuole almeno salvare l'onore. E
il suo fu salvo; ma la rivoluzione si disciolse dopo lo scontro di
Novara, nel quale i generali Ferrero e San Marzano furono dispersi dopo
fiacca resistenza dalle truppe austriache. Il 9 aprile il generale
Latour entrava trionfante in Torino, mentre Carlo Alberto, salutato
oltraggiosamente dai tedeschi col titolo di re d'Italia, trattato come
valletto da Carlo Felice che respingesse le sue lettere sbattendole sul
volto dei corrieri, riparava in Firenze sotto la protezione
dell'ambasciatore francese, malgrado questi dichiarasse di
accordargliela solo nel nome della legittimità.


                                  Repressioni assolutiste.

Frattanto la Lombardia, per non aver osato muoversi, subiva egualmente i
rigori della più feroce repressione. Già ai primi rumori della
rivoluzione napoletana, l'Austria dichiarava rei di alto tradimento
tutti i carbonari, e correi quanti omettessero di denunciarli; quindi si
moltiplicarono gli arresti, mirando a colpire gli uomini più celebrati.
Alessandro Andryane affigliato alla società dei maestri sublimi fondata
a Ginevra da Buonarroti, còlto a Milano con tutte le carte, compromise
un numero stragrande di liberali; altri accusarono Carlo Alberto di
averli denunciati; i nuovi inquisitori Bolza e Salvotti peggiorarono con
incredibili perfidie il disastro. Fra gli arrestati più insigni furono
Pietro Maroncelli, Silvio Pellico, Melchiorre Gioia, Giandomenico
Romagnosi, il conte Giovanni Arrivabene, il conte Confalonieri, il
principe Pallavicini. Nel terribile dramma non tutti perirono: Gioia e
Romagnosi si salvarono, Laderchi s'infamò eternamente come delatore,
Silvio Pellico, Maroncelli, Oroboni, Foresti, don Fortini, Confalonieri
furono seppelliti vivi nella rocca di Spielberg. In Piemonte le condanne
di morte salirono a novantadue, per fortuna quasi tutte contumaciali;
molte furono eseguite in effigie e fra esse quella del principe della
Cisterna, una discendente del quale doveva poi arricchire coi propri
milioni un nipote di Carlo Alberto. Più terribili ancora furono le
misure contro gli uffiziali che avevano partecipato alla rivoluzione.

Negli Stati pontifici, focolare del Sanfedismo, la repressione scoppiò
senza che rivoluzione vi fosse stata: di quattrocento processati molti
vennero condannati specialmente per opera del Rusconi e del Sanseverino,
legati a Ravenna ed a Forlì, alla pena capitale commutata poi nella
reclusione. In Toscana il granduca non volle processi; Maria Luigia
invece li permise a Parma e vi furono coinvolti Ferdinando Maestri e
Jacopo Sanvitale illustri professori, cui le pene vennero commutate in
esilio. A Modena la reazione s'infamò nel supplizio del prete Andreoli,
simpatica figura di apostolo, che aprì il martirologio dei preti
patrioti. Gli alleati, commossi al rapido trionfo, lo ascrissero «al
terrore, onde la provvidenza colpì le ree coscienze», ed annunziarono
con ingenua baldanza all'Europa che d'ora innanzi «i cambiamenti utili o
necessari nelle legislazioni e nelle amministrazioni non devono emanare
che dalla libera volontà, che Dio rese responsabile del potere».

Così l'assolutismo, separandosi dal diritto, giustificava qualunque
futuro eccesso della rivoluzione.

L'Italia era oramai tutta soggetta all'Austria. Re Ferdinando, dopo aver
nominato con abbietta gratitudine il generale austriaco Frimont principe
di Antrodoco con duecentoventimila ducati di dote, per timore di nuovi
pronunciamenti militari sciolse l'esercito affidando la custodia del
regno a quattro reggimenti svizzeri e a trentacinquemila austriaci. Alla
sua morte nel 1826 Carlo Felice, per compiacere a Metternich, si
affrettò a persuadere re Francesco di prolungare l'occupazione
austriaca, ma questi, sicuro del proprio stato e corto a quattrini, non
potè consentirvi: nullameno il regno di Napoli dipendeva direttamente
dall'Austria. A peggio ancora, per opera di Carlo Felice, era disceso il
Piemonte. Il nuovo re, tirannicamente inflessibile coi sudditi, fu così
servile verso l'Austria che non solo il generale Bubna, occupata
Alessandria, potè mandarne la chiave della cittadella all'Imperatore, e
questi pubblicarne la notizia nella gazzetta ufficiale, ma dopo tale
insulto il legato sardo, conte di Pralormo, ebbe incarico di offrire
all'Austria i più amichevoli accordi per mantenere la pace nella
penisola contro lo spirito rivoluzionario. A questo intento Metternich
propose un supremo magistrato d'inquisizione a Modena per cercare ed
impadronirsi delle fila della cospirazione: i re di Sardegna e di Napoli
si affrettarono ad aderire; ma le corti di Toscana e di Roma, sempre
diffidenti dell'ingerenza, vi si ricusarono.

Metternich portò la questione al congresso di Verona.

Questo terzo congresso, come complemento di quelli di Troppau e di
Lubiana, avrebbe dovuto decidere su la rivoluzione di Spagna,
l'indipendenza delle colonie spagnuole, la tratta dei negri, la
pirateria d'America, le controversie della Russia colla Turchia per
l'Oriente, la rivoluzione greca e le condizioni interne dell'Italia.

Ma a questo congresso di cristiani, nel quale il pontefice di Roma aveva
per legato il cardinale Spina, gli ambasciatori greci non furono nemmeno
ricevuti. Gloria d'eroismi, santità di religione, ineffabili dolori di
stragi patite, nulla valse a vincere l'egoismo politico dei congregati,
tementi in ogni moto di popolo una ribellione al diritto divino.

Per l'Italia si decise lo sgombero degli austriaci dal Piemonte, che lo
sollecitava meno per alterezza di regno che per sgravio delle finanze;
poi si volle imporre alla Svizzera l'infamia di consegnare tutti i
fuorusciti politici rifugiativisi sulla fede dell'onore republicano.
L'accanimento del legato sardo conte Della Torre nel triste proposito, e
la facile adesione di Chateaubriand, il nobile bardo cristiano che aveva
saputo resistere alla seduttrice prepotenza di Napoleone, rivoltarono
ogni spirito onesto. La Svizzera resistette degnamente; la Toscana, meno
forte di essa, fu anche più magnanima, e respinse la codarda
persecuzione ai vinti della rivoluzione con parole che parvero eco dei
secoli morti, quando i magni spiriti de' suoi cittadini republicani
rispondevano con invincibile orgoglio alla superbia dei re. Quindi il
supremo magistrato d'Inquisizione in Italia fallì. Il cardinale Consalvi
e il Fossombroni, quegli da Roma e questi da Firenze, vi si opposero con
fortunata costanza. Per Napoli si convenne di ridurre l'occupazione a
soli 35,000 austriaci, e che le due consulte di stato, residenti a
Palermo e a Napoli, si accentrassero dietro istanza del principe Ruffo
in quest'ultima, unica capitale del regno.

Su tutti gli altri argomenti poco si discusse e meno si decise: la
tratta dei negri fu condannata platonicamente; sulle sollevazioni
dell'America, malgrado le insistenze dell'Inghilterra, non fu preso
alcun partito; su quella di Spagna si permise alla Francia la
malaugurata spedizione del duca di Angoulème per dare alla inonorata
orifiamma dei Borboni il battesimo della vittoria. Chateaubriand
perdette in quest'impresa tutta la propria gloria di poeta, giacchè,
sperando di riconciliare i Borboni colla Francia sul campo del trionfo,
li rese strumenti odiosi della Santa Alleanza contro un popolo
eroicamente ribelle al peggiore dei tiranni.

In Spagna erano già accorsi da ogni parte d'Italia i più generosi fra i
vinti rivoluzionari, quasi a punire se medesimi di aver fallito nelle
patrie rivoluzioni e ad apprendere dal più indomabile fra i popoli
d'Europa il segreto della resistenza invincibile. Gl'italiani, secondo
la dolorosa tradizione che li aveva sempre resi incomparabili come
avventurieri e partigiani, si copersero di gloria; il nome d'Italia fu
acclamato con ammirazione dagli spagnuoli così alteri del proprio
coraggio, mentre da lungi con più epico grido rispondevano i greci
raggruppati intorno a Santorre Santarosa e ad altri italiani. Ma nel
campo dei crociati francesi che s'avanzavano sotto Madrid gridando:
muoia la costituzione, viva il re assoluto!, Carlo Alberto di Carignano,
volontario della tirannide, combatteva nuovamente contro i traditi
compagni di cospirazione, per ottenere dalla Santa Alleanza il prezzo
del primo tradimento raddoppiato dall'infamia di tale espiazione.

E vinse, e il papa, italiano degno di lui, mandò al duca di Angoulème,
generale da palcoscenico, come premio delle vittorie spagnuole il
berrettone e lo stocco che avevano santificato i trionfi di Giovanni
d'Austria, di Sobieski e di Eugenio di Savoia contro i turchi.

Così cessarono i moti italiani del '20 e del '21. La insurrezione delle
Calabrie aveva provocato la rivoluzione di Napoli, questa affrettata
l'altra di Piemonte; la Lombardia inerte aveva lasciato agli austriaci
ogni facilità nelle repressioni, Genova e Venezia vi avevano assistito
spettatrici, la Toscana calma nella propria sicurezza, Parma sussultando
appena, Modena rabbrividendo, il regno pontificio nella più svogliata
disattenzione. L'Austria spalleggiata dalla Santa Alleanza doveva
vincere militarmente, ma vinse anche politicamente. La carboneria non
ebbe nè destrezza alla preparazione, nè audacia allo scoppio, nè dignità
nella sconfitta. La rivoluzione parve a tutti quello che era, cioè una
sommossa militare svanita al primo giungere in piazza. Vi si imitava la
Spagna, si attendevano ordini dalla Vendita di Parigi, si proseguì a
sperare negli aiuti della Francia. Il popolo, non consultato prima, non
fu armato poi: Napoli non pensò a Torino, Torino a Milano, Milano ad
alcun'altra città. L'Italia era così poco persuasa della propria
nazionalità politica che i rivoluzionari, malgrado l'affratellamento
delle sètte, entrando nella scena politica, ricadevano nelle abitudini
del regionalismo.

L'Austria, militarmente poco stimata fra le memorie ancora sfolgoranti
della grande epopea napoleonica, distendendo il proprio protettorato
sull'Italia, vi aveva adottato la più sapiente delle politiche.
Inesorabile ai liberali e ai demagoghi, frenava contemporaneamente gli
eccessi della controrivoluzione, imponendo a Ferdinando di Napoli per
due volte di cacciare il sanguinario Canosa: abbassava l'aristocrazia,
seduceva la borghesia colla regolarità di un'amministrazione superiore a
quella di ogni principe italiano, atterriva tutti colla vigilanza
instancabile di una polizia, alla quale i codici non erano ostacolo e
denari ed armi non mancavano mai. Il congresso di Vienna, dopo quelli di
Troppau e di Lubiana, aveva persuaso ai popoli che ogni loro moto
sarebbe inesorabilmente represso: ogni rivoluzione avrebbe quindi dovuto
sentirsi sorella delle altre, invece di isolarsi quasi a cercare salute
nella propria piccolezza.

L'esercito austriaco di occupazione si mostrava ammirabile per rispetto
alle popolazioni, mentre i francesi della prima rivoluzione e
dell'impero le avevano manomesse: i funzionari civili, ancora più
disciplinati, non avevano iattanza di padroni, ma la glaciale
terribilità di sudditi usi a non discutere mai gli ordini del sovrano e
ad eseguirli contro tutti. Infine l'Austria assicurava la pace
ardentemente voluta da tutte le classi, dispensando o quasi dalla
coscrizione e rendendo ridicola alla ragione volgare ogni speranza di
rivolta colla strapotenza del proprio impero. I due elementi
d'insurrezione, pretese aristocratiche ed idee liberali, erano del pari
combattute; distrutta ogni forma di vita politica, i municipii così
schiavi da non poter prendere alcuna iniziativa. Con abile intendimento
la letteratura fu da essa talmente disprezzata che il pensiero stesso ne
soffrì: l'istruzione discese a mestiere meccanico. Gli avvocati, sempre
pericolosi come classe e per lo studio del diritto e per la clientela
degli affari, perdettero il diritto di arringa, per discendere al grado
di procuratori soggetti alle regole di una carriera burocratica come i
giudici. Quindi proibito il viaggiare a tutte le persone sospette,
diffranta la società in un atonismo che lasciava ogni individuo solo
contro la vasta organizzazione e la granitica compattezza dell'impero.

Era più di quanto bastava. L'esaltazione lasciata dalle idee
rivoluzionarie e dalle imprese napoleoniche negli spiriti italiani non
poteva resistere nè al freddo del nuovo ambiente, nè alla logica di un
sistema opponente sempre la più innegabile realtà alla più incerta delle
ipotesi.

Ma questa compressione, assicurando all'Austria il presente, le
preparava un terribile futuro. Le franche dichiarazioni del congresso,
separando i re dai popoli e il diritto divino dal diritto popolare,
rendevano più chiare le idee nella coscienza dei popoli. La lotta si
presentava inevitabile. La vita, scissa nella propria unità,
ricominciava il processo dialettico della propria ricomposizione, e
poichè tutto era negato dall'autorità dei padroni, i servi si
persuadevano della razionalità di ogni muta aspirazione. La coscienza,
costretta a nascondersi dietro le proprie porte, vi ricostruiva
segretamente come ai primi tempi del cristianesimo un nuovo mondo
ideale, riconciliandovi le antitesi storiche contrastanti al di fuori la
vita dell'azione. Quindi la poesia e l'attività delle sètte non scemò.
Un elemento tragico purificò la giovinezza di tutti coloro, cui
l'eccellenza della natura non consentiva di putrefarsi nella inazione o
di obliarsi nella volgarità della vita materiale. L'idea dell'unità
d'Italia fu appunto suggerita dall'uniformità del dispotismo; non
essendovi più alcuno Stato di carattere italiano per alzare contro
l'Austria la bandiera della libertà, il popolo solo nell'unità della
propria storia, della propria lingua, della propria servitù, dei propri
dolori, delle proprie speranze, restava italiano. Allora ricominciò il
fermento delle idee rivoluzionarie recate dai francesi della prima
invasione; i prigionieri spariti nelle ròcche della Moravia, pei quali
non si era osato un grido al momento della condanna, diventarono
fratelli primogeniti di tutti gli oppressi; i fuorusciti corsi a
combattere nella Spagna e nella Grecia giganteggiarono eroi nelle
fantasie e nei racconti popolari; l'aristocrazia oppressa come il popolo
gli si avvicinò; la borghesia, troppo attiva per stancarsi nelle bisogne
materiali e anelante alla scienza e al potere, si dilatò riunendo in un
pensiero comune i due estremi sociali; la letteratura crebbe, la
filosofia si rialzò, le scienze ripresero l'interrotto lavoro.
L'autorità fu tirannide straniera: il pensiero dell'indipendenza
accomunò tutte le classi, ospitando nelle proprie pieghe tutte le
passioni della libertà.




CAPITOLO SECONDO.

Trame ed insurrezioni del '31


                                  Incubazione liberale.

L'opposizione scoppiata in Francia fra liberali e realisti aveva aperto
una palestra a tutti gli ingegni d'Europa.

Una discussione sapiente ed appassionata, vasta e minuta, caustica fino
alla satira ed inesauribile come un pettegolezzo, obbligava tutti gli
antichi diritti a produrre i propri titoli contro il mondo nuovo
prodotto dalla rivoluzione e garantito dalla Carta. Le dispute delle
Camere insegnavano ai popoli le teoriche di una sovranità popolare, che
i disordini della rivoluzione e le guerre dell'impero avevano loro
impedito di comprendere. Il nuovo liberalismo borghese in lotta colle
ultime reazioni realiste appariva molto più bello e generoso di quanto
poi doveva mostrarsi. Si reclamavano tutte le libertà, si voleva tutta
l'uguaglianza legale. Gli antiquati privilegi, costretti a confessare il
proprio principio, diventavano ancora più ridicoli che odiosi; il re
prigioniero della Carta non era più che un funzionario insubordinato
contrastandone l'applicazione, meritevole di espulsione come ogni altro
se ardisse violarne i patti. L'aristocrazia, disonoratasi negli avari
reclami, coi quali aveva ottenuto dalla Francia esausta un miliardo
d'indennizzo, appariva codazzo di servitori a un re servo di stranieri,
più straniera del re avendo per vent'anni combattuta la patria sotto
tutte le insegne, ignorante di fronte alla nuova borghesia padrona di
tutte le scienze, spregevole dinanzi all'esercito che un'altra
aristocrazia di eroi aveva guidato alla vittoria su tutti i campi
d'Europa, odiosa al popolo che l'aveva veduta fuggire ai primi gridi
della rivoluzione e ritornare ai primi disastri dell'invasione. La parìa
non rappresentava quindi che la corte, mentre il parlamento, per quanto
l'elettorato ne fosse ristretto, rappresentava la nazione.

Aristocrazia e dinastia negavano rivoluzione ed impero: la Francia
riaffermando l'una e l'altro voleva essere sovrana di se stessa per
ritornare alla testa dell'Europa.

Laonde tutti i popoli agitati dall'idea rivoluzionaria miravano a lei,
come aspettando la parola di nuove rivoluzioni.

Giornali e libri, aiutati dalle nuove facilità di comunicazioni,
portavano ovunque la luce e il calore degli insegnamenti liberali. Una
letteratura senza esempio in alcuna epoca della storia illuminava dalla
Francia tutto il mondo, mentre il grande periodo filosofico della
Germania chiudendosi apriva quello più vivace delle applicazioni
politiche e scientifiche. La solidarietà, insegnata loro dalle guerre
napoleoniche, rendeva i popoli più pronti ad accogliere i nuovi
principii e ad intendersi nell'azione per trarne le conseguenze; la
borghesia, ancora sola a combattere, era costretta dalla dialettica
della storia ad affettare una democrazia migliore del proprio cuore e
maggiore del proprio interesse. Il parlamentarismo, barcollante sulla
doppia base della sovranità popolare e della regalità ancora consacrata
dal diritto divino, si esauriva, addestrandosi a più alte prove nello
sforzo quotidiano di conciliare le antitesi rinascenti da una
costituzione considerata dalla corte come una concessione e dalla
nazione come un diritto, nella quale il re si sentiva violato e il
popolo si aspettava di essere ad ogni ora tradito. Religione e clero,
ostili alla costituzione, vi si destreggiavano per comandare ed
impinguarsi; i costumi mutati proseguivano l'opera livellatrice della
rivoluzione; l'arringo politico, esigendo attitudini scientifiche e
abitudini popolari, diventava sempre più difficile all'aristocrazia,
mentre l'aumentata facilità dell'istruzione attirava il popolo a queste
battaglie del pensiero. Naturalmente la Francia, discutendo per tutti
dall'alto delle proprie tribune, congiurava per tutti nel segreto delle
proprie sètte afforzate dai veterani della rivoluzione e dai soldati
dell'impero coll'energia di gente usata a tutti i pericoli. Da Parigi
muovevano gli ordini e si attendevano soccorsi. Spagna, Grecia,
Germania, Polonia, Italia seguivano nell'armi contro tutti gli Stati
feudali. La Grecia si ostinava nella propria guerra contro i turchi,
aspettando nella sicurezza eroica dell'istinto da una contraddizione
europea l'urto necessario a frangere a suo favore l'unità dispotica
della Santa Alleanza; l'Italia, ricaduta dopo le meschine sollevazioni
di Napoli e di Torino nella prima soggezione, seguitava con più nobile
fervore l'opera segreta della propria ricostituzione.

Un fecondo disinganno era succeduto alla disperazione delle ultime
sconfitte. Nè la corte di Torino, nè quella di Napoli avrebbero mai
accettato di capitanare la rivoluzione; l'organismo delle sètte si era
addimostrato insufficiente, l'isolamento dell'insurrezione aveva loro
conteso persino l'onore di una morte eroica. Si cominciava a comprendere
che il malcontento militare dei residui napoleonici e le pretese
arcaicamente generose o ipocritamente egoiste dell'aristocrazia essendo
senza forza, la borghesia sola avrebbe dovuto fare la rivoluzione,
mentre il popolo seppellito nell'ignavia secolare vi assisterebbe quasi
impassibile. Si potrebbe calcolare su qualche sua collera, non sulla sua
fede rivoluzionaria; la miseria, l'ignoranza, un timore cieco
dell'Austria, un rispetto superstizioso per Roma, gl'impedivano di
comprendere l'idealità del mondo moderno. Le sue passioni erano ancora
quelle delle antiche plebi; molte sue abitudini, specialmente nelle
campagne infestate da banditi, si sarebbero prestate a virtù di guerra,
ma gli mancavano ancora la passione indispensabile al coraggio
d'insorgere e l'idea necessaria alla costanza di una rivoluzione. Lo
stesso dispotismo dei governi era quasi senza oppressione per il popolo
uso da secoli a servire, dacchè le nuove persecuzioni preferivano coloro
più alti per grado di classe o elettezza di natura.

Nullameno l'idea d'Italia cresceva, aiutata dalle idee liberali. Si
sentiva confusamente che qualche cosa doveva pur mutare, se
l'opposizione fra la coscienza dei migliori e la prepotenza dei
governanti aumentava ogni giorno d'intensità: ogni moto all'estero
diventava promessa, il progresso commerciale ed industriale conduceva
per la via sicura degl'interessi al liberalismo, la guerra al pensiero
lo costringeva ad alzarsi sino ai principii e a destreggiarsi
nell'abilità di espedienti che potessero sconfiggere la forza bruta dei
governi. Le sètte ristringevano nuovi vincoli di fratellanza, che gli
emigranti annodavano coll'estero; l'odiosità delle polizie irritando
anche il popolo allentava in esso i vincoli dell'antica soggezione; le
università si mutavano in focolari di congiura e in caserme, entro le
quali si preparavano armi per tutte le battaglie. Oramai la vanità
obbligava i giovani ad avversare i governi e ad evitarne gl'impieghi. I
libri parlavano tutti d'Italia, ogni parola era un appello, ogni
reticenza un'allusione. Quel bisogno di grandezza morale, eterno nella
coscienza pubblica, non trovando modo di appagarsi nella vita politica
dei governi mutati in prefetture austriache, rivolgeva gli spiriti
altrove, nello spettacolo dei popoli liberi, derivandone una passione
d'invidia, che era amore all'Italia e odio allo straniero.


                                  Condizioni uniformi dei governi.

Napoli e Torino erano le due sedi peggiori della tirannide paesana, la
Lombardia la provincia più serva, il regno pontificio il più spregiato e
sconnesso, la Toscana il migliore ducato. Infatti Ferdinando III,
ricondottovi dalla reazione del 1814, vi si mostrò così mite e generoso,
accordando ospitalità ai proscritti e resistendo all'Austria, che la sua
morte fu sinceramente pianta e il suo successore Leopoldo quasi amato
per lunghi anni. Però questi, ipocrita e malvagio per natura, essendosi
accordato segretamente con Vienna e con Modena contro i liberali, non li
ospitava più che per denunziarli segretamente. Intanto la tradizione
lorenese seguitava nelle migliorie amministrative e nell'abbandono di
ogni carattere politico. Non rappresentanze popolari, nessuna milizia
degna di tal nome, distrutta la marina; le scuole floride per ingenito
vigore, ma l'istruzione non riconosciuta strada a cariche eminenti;
nessun concetto di governo tranne quello della polizia; nessuna
coscienza nè toscana nè italiana.

Peggiore di lui, Carlo Lodovico di Lucca, succeduto alla propria madre
Maria Luisa di Borbone, si rotolava nelle più oscene demenze, nominando
lo stalliere Tommaso Ward a ministro delle finanze, e sperperando il
pubblico denaro con sì cinica rovina dello Stato che il granduca di
Toscana, nella propria qualità di erede del ducato per diritto di
riversione, dovette pubblicamente protestare di non riconoscerne i
debiti. E a questa mala condotta il giovane duca era spinto
dall'Austria, insignoritasi per mezzo del conte di Bombelles, destro ed
ignobile diplomatico, del governo nel piccolo ducato. A Parma la
duchessa Maria Luisa seguitava nelle eleganti dissipazioni, considerando
il proprio Stato come un feudo austriaco.

In Piemonte Carlo Felice vi aveva dai primi giorni meritato il nome di
Carlo Feroce. Reazionario sino alla crudeltà e fanatico oltre ogni
ignoranza, dopo essersi reso proconsole dell'Austria, le umiliò quella
corona, che la sua stirpe aveva sempre difeso con ogni maniera d'inganni
e di battaglie contro le pretensioni imperiali. Forse nessun re d'Europa
ebbe allora della propria regalità un concetto più antiquato ed angusto
di Carlo Felice, e nessuno fu meno re di lui. Ristabiliti tutti i
privilegi antichi, riconsegnò le scuole ai gesuiti quando nella stessa
Francia borbonica questi venivano sfrattati dalle scuole laiche; così il
Piemonte ripiombò in un'atonia intellettuale che gli sforzi di pochi
pensatori solitari non valsero a scuotere. Dell'esercito, antica gloria
e costante forza del Piemonte, non ebbe e non poteva avere concetto,
dacchè il vero presidio d'Italia, secondo il suo spirito reazionario,
era l'Austria. Per la nuova vita politica e civile non sentì che
ripugnanze; e repugnante a tal punto gli era Carlo Alberto di Carignano,
malgrado ogni suo pentimento ed umiliazione, che lo avrebbe escluso a
favore dell'Austria dalla successione, se la vittoria della nuova
rivoluzione francese (1830) e le minaccie del suo governo, pronto in tal
caso ad invadere il Piemonte, non lo avessero finalmente deciso a
serbare italiano il proprio trono. Così finiva la dinastia dei Savoia,
cresciuta illustre fra battaglie ed intrighi, senza che mai il Piemonte
fiorisse di quella civiltà che aveva reso immortali Firenze e Venezia,
Milano e Genova. L'ultima speranza d'Italia sembrava vanire con questa
dinastia abbastanza forte nel tramonto dei principati per costituirsi
regno, quasi a preparare con esso il passaggio dalla federazione
all'unità; mentre Napoli, separata dal resto d'Italia per l'enorme
muraglione dello stato pontificio e troppo diversa d'indole, si era
venuta a mano a mano isolando. Il centro ideale d'Italia passato da
Pavia a Milano, da Milano a Firenze, da Firenze a Venezia, da Venezia a
Torino, sul lembo estremo d'Italia, come nel luogo più adatto allo
scambio delle influenze europee per mezzo della Francia, si dissolveva
con questa dinastia di re guerrieri non mai distrutti da alcuna guerra,
e che nessuna guerra sembrava poter più rimettere alla testa d'Italia.

Carlo Alberto di Carignano, che doveva innestarsi sovra di essa, si era
già due volte infamato col tradimento e coll'espiazione.

A Napoli Francesco I, succeduto a Ferdinando, finiva colla più
incredibile corruttela di rovinare il regno martoriato da tanti anni di
guerra e di rivolte. L'ignominia del piccolo duca di Lucca nominante uno
stalliere ministro delle finanze sparve negli scandali del governo
napoletano trafficato da certo Michelangelo Viglia e da Caterina di
Simone, entrambi camerieri del re e della regina. Francesco I, più falso
e codardo del padre, ne ereditò gl'istinti feroci e la scempia
bigotteria. Francesco Del Carretto, carbonaro convertito al sanfedismo,
fu il più feroce de' suoi proconsoli; il Medici seguitò ad essergli
ministro, ma con infernale ironia re Francesco I si compiacque a
lasciare arbitro supremo del governo il proprio cameriere. Le rapine, le
malversazioni, le atrocità poliziesche, l'ipocrisia religiosa, la
miseria del popolo, l'oblio d'ogni legge, giunsero al colmo. Metternich
stesso ne fu così indignato che, seguitando nell'abile politica di
frenare gli eccessi della contro-rivoluzione per togliere al popolo ogni
pretesto d'insorgere, ammonì severamente il perverso monarca. Alcune
congiure, scoppiate piuttosto come esplosioni di dolore che quali
tentativi rivoluzionari, vennero represse con inaudita ferocia: il paese
di Bosco fu distrutto a cannonate da Del Carretto e fra le cruenti
rovine vi sorse una colonna a perpetuo ricordo e minaccia; altre
congiure furono simulate o fomentate dalla polizia, per atterrire
simultaneamente il re ed il popolo. Nel 1827 la povertà delle finanze
costrinse il re a rinunziare alla garanzia dell'occupazione austriaca,
per fidarsi ad una guardia di 6000 svizzeri così dimentichi della loro
antica libertà e così poco persuasi della nuova da servire come sicari
di ogni tirannide; ma anche questa spesa bastava ad opprimere il troppo
debole bilancio. La milizia napoletana, alquanto ritemprata dalla
educazione delle guerre napoleoniche, ricadde nella antica ignavia; la
marina, conservata piuttosto per fasto che per difesa, si coperse di
vergogna dinanzi ai corsari di Tripoli; la polizia sola usò le armi
contro il popolo della città e della campagna, insanguinandole per ogni
più lieve pretesto. L'aristocrazia, ligia alla corte, si gettò nella
corruttela per arraffarvi ricchezze; la borghesia abbandonata invilì
sotto le minaccie di processi non guarentiti da alcuna procedura, e di
condanne alle quali nessuna innocenza poteva essere ostacolo; il popolo
rimase plebe quasi selvaggia nelle campagne, oziosa e viziosa nelle
città.

La reazione proseguiva peggiorando giorno per giorno; fra governo e
paese si allargava un abisso sul quale nessuna costituzione avrebbe più
saputo gettare il proprio ponte, o gittandolo saldarlo così fortemente
sulle ripe che la storia vi passasse. Le due maggiori monarchie italiane
erano dunque decadute da ogni funzione politica, dopo avere per oltre
due secoli riassunto tutta la vita politica nazionale: e questa,
ricominciando non solo al di fuori ma contro di esse, accennava
chiaramente che principio e forma del suo futuro governo avrebbero ad
essere assolutamente diversi. Ma di questo principio e di questa forma
nessuno ancora fra gli spiriti magnanimamente ribelli sapeva precisare
qualcosa. Se i governi reazionari non erano più che una negazione
assurda e feroce, la rivoluzione ancor rudimentaria non era che la
negazione di questi governi, e nemmeno così vasta ancora da comprenderne
gli Stati; il rispetto alla tradizione storica e la soggezione a tutte
le autorità non permettevano che di sperare in piccole migliorìe
amministrative o in cambiamenti di re per l'appagamento dei più
immediati interessi. Occorrevano quindi molti altri anni di persecuzione
e di studi per educare la nazione alla fede della propria sovranità
politica.

Questo periodo fu il più torbido della storia italiana, perchè nè
governi, nè Stati, nè popoli vi ebbero coscienza: Roma stessa, che,
cosmopolita di carattere, avrebbe potuto ottenervi un forte significato,
inducendo col proprio principio ieratico una specie di unità nella
reazione monarchica, parve più meschina delle altre corti. Il cardinale
Consalvi, istrutto dalle traversie della rivoluzione e dell'impero,
avrebbe voluto nella ristorazione pontificia salvare qualcuna delle
conquiste moderne, ma la sua opera e la sua politica ostile all'Austria
furono tosto abbandonate. Un antico rancore diplomatico separava
l'illustre segretario di Pio VII dal nuovo pontefice Leone XII, pallida
ombra di Sisto V, che si accinse alla reazione senza accorgersi di
annullarvi i resti della politica del proprio Stato. Il problema imposto
dalla storia al papato sfuggì al pontefice. Nella reazione europea, che
rimetteva in tanto credito la religione, il papato avrebbe dovuto
costituirsi arbitro supremo delle monarchie per dirigerne e dominarne
l'opera.

Bisognava, sceverando i miglioramenti inevitabili ai tempi dai principii
rivoluzionari, contrapporre alla logica della rivoluzione la dialettica
di un'autorità capace di sorpassare l'opera angusta e contraddittoria
dei parlamenti con generose iniziative, nelle quali, dietro l'esempio
napoleonico, le monarchie si fondessero con una democrazia arditamente
progressista e al di sopra delle quali Roma cattolica brillasse come un
faro. Se il papato fosse stato ancora storicamente vivo, forse
quest'idea vi si sarebbe espressa, ma, rovesciato dalla conquista del
direttorio, cacciato dall'altra dell'impero, quasi schiacciato
dall'Austria al congresso di Vienna, poi ricondotto a Roma come un
simulacro fra i tanti dell'arte che la Francia restituiva alla città
eterna, non ebbe e non potè avere vita politica. Il papa non vi fu più
che un sovranello come Ferdinando e Vittorio Emanuele, sottomesso
all'Austria, timoroso dei propri sudditi, incapace di affrontare il gran
problema del secolo, respinto fatalmente nei regni del passato come
tutti coloro cui è chiuso l'avvenire. La reazione, invece che a Roma,
ebbe il proprio centro a Vienna; ma poichè questa minacciava di
assorbire nel proprio patronato tutti gli Stati italiani come la
rivoluzione intendeva a minarli, la condotta dei principi e del
pontefice si smarrì in un dedalo di contraddizioni inconciliabili. Roma
rimase appena una grossa città come Napoli e Torino; la sua antica
autorità non impose rispetto alla politica di Metternich, che intendeva
a sottometterla; il suo primato italico andò perduto, il suo governo
composto di preti e di vecchi fu vecchio di idee e di modi, la sua
reazione malvagia e puerile non sventò alcun pericolo e non suscitò
alcuna forza.

Leone XII, cominciando dal favoreggiare confraternite e congregazioni
religiose, ridusse tutti gli studi sotto la gerarchia ecclesiastica:
quindi, dietro il falso esempio dell'impero napoleonico che tentava
imporre il francese, rese obbligatorio il latino alle cattedre e ai
tribunali, cedette al clero ogni istituto di carità e gli riconfermò ed
ampliò immunità, privilegi, giurisdizioni. Vennero tolti agli ebrei i
diritti di proprietà e richiamati contro di essi i nefandi rigori
medioevali, chiusi i loro ghetti con portoni e sottoposta la loro
libertà all'arbitrio dei santo uffizio; si concessero nuove istituzioni
di maggioraschi, e si sarebbero ripristinate le giurisdizioni baronali
se il concistoro non vi si fosse opposto. Si distrussero i tribunali
collegiati per avere giudizi di un solo giudice e questi più ligio:
annullata ogni autonomia municipale, soppresso persino il magistrato
della vaccinazione.

Ma questa reazione essenzialmente formale come non irrobustiva il
governo, così non scemava le forze latenti della rivoluzione. Infatti
tutte le campagne romane erano così infestate da grosse squadre di
banditi che le milizie papaline ne andarono sconfitte come in regolari
battaglie: poi vi si deputarono cardinali, che dopo feroci esperimenti
dovettero scendere a patti coi briganti. Dall'altro canto la carboneria
seguitava ad estendersi, malgrado l'opposizione dei sanfedisti
organizzati a brigantaggio politico sotto la tutela del governo.

Un doppio lavorìo di società segrete minava quindi lo Stato pontificio:
i sanfedisti si congregavano presso i curati e i devoti; i carbonari
presso i nobili, i commercianti o i proprietari; ma la loro lotta a
colpi di fucile o di coltello, illuminata da drammi di tribunale nei
quali i vinti sparivano per sempre nelle carceri o spenzolavano dalle
forche, rivelava tutta l'insufficienza politica del governo.
Un'invincibile anarchia peggiorava ogni giorno lo Stato pontificio,
rendendolo scandaloso all'Europa nei racconti degl'innumerevoli
visitatori di Roma. Il giubileo (1825) inspirò deliranti angoscie al
Vaticano: si temeva che i carbonari vi prendessero parte travestiti da
pellegrini, e, occupata Roma, l'insanguinassero. Ma siccome Leone XII,
piuttosto per riottosità di natura che per sentimento di regale dignità,
recalcitrava agli imperiosi ammonimenti di Metternich, e la Francia lo
consigliava d'impedire ogni commozione liberale per evitare i pericoli
di un intervento tedesco, spiegò molta pompa di rigori contro il
liberalismo. Il cardinale Rivarola, mandato legato _a latere_ nella
Legazione di Ravenna, memore della sua venuta nei primi giorni del 1814,
v'insanì in persecuzioni ridicole malgrado la ferocia. Nell'agosto del
1825 vi condannò cinquecento e otto liberali, parecchi dei quali alla
pena capitale e al carcere perpetuo: ed erano per la maggior parte
nobili e borghesi, persone elette per nascita o per funzione.

Moltissimi altri subirono il _precetto politico_ consistente nel non
poter uscire di casa se non a certe ore, nell'obbligo di presentarsi
ogni quindici giorni ad un ispettore e di confessarsi tutti i mesi ad un
confessore approvato dalla polizia. Misure violente ed inefficaci, che
confondendo governo e religione abituavano al dispregio dell'uno e
dell'altra! Naturalmente i processi non avevano garanzia di sorta: i
codici napoleonici soppressi dalla ristorazione del 1814 non erano
ancora stati surrogati, i giudici venivano riconosciuti strumenti di
polizia; naturalmente le popolazioni si disgustavano più che non
s'intimorissero. Mentre il Rivarola finiva infatti d'impazzire volendo
conciliare i secolari odii tra Faenza e il Borgo d'Urbecco con matrimoni
imposti fra le più fiere famiglie d'ambo le parti, e la propaganda
sanfedistica del giubileo menava una campagna di spionaggi e di minaccie
contro le sètte liberali, queste attentarono per mano d'intrepidi sicari
alla vita del timido e feroce cardinale, costringendolo a riparare in
Genova. Gli successe monsignor Invernizzi con una commissione
straordinaria di legulei e di soldati, che più destro riuscì a
corrompere le sètte con una generale promessa di perdono a chiunque
facesse spontanea confessione delle proprie colpe. Ma se l'espediente
raggiunse in parte lo scopo, molti essendo stati i settari che vi si
avvilirono, in parte fallì costringendo le sètte a migliore
organizzazione: a Roma stessa si tentò una congiura, nella quale un
Targhini e il medico Montanari lasciarono la vita.

La reazione pontificia diretta dal cardinale Bernetti, successore al
Della Somaglia, non senza ingegno e temperandola con qualche
miglioramento amministrativo, ispirava così poca fiducia a lui stesso,
diplomatico rotto ai più difficili negozi e largamente istrutto degli
altri governi, che lasciò sfuggirsi col Chateaubriand il celebre motto:
Se campassi a lungo assisterei alla rovina del papato! Ma invece di
cercarvi riparo, persuase al pontefice lo sciagurato _motu proprio_ col
quale, rianimando le classe dei nobili, si sopprimevano affatto i
consigli provinciali.

Pio VIII dopo Leone XII trovò lo Stato senza codici e senza finanze in
piena reazione contro l'opera iniziata contraddittoriamente da Pio VII
per consiglio del Consalvi; quindi, reagendo sulla reazione del
predecessore, cassò quanto questi aveva fatto di meno cattivo per
abbandonarsi ciecamente nelle mani dell'Austria. Era l'ultima dedizione
di Roma: il papa ne ebbe appena il tempo, e morì; quasi
contemporaneamente cessavano di vivere Francesco I di Napoli e Carlo
Felice di Piemonte.

Nuovi attori si presentavano per l'imminente rivoluzione.


                                  La sommossa del centro.

La rivoluzione francese delle Tre Giornate di luglio rianimò in Europa
le speranze liberali. Belgio, Polonia, Italia risposero con altrettanti
moti, affidandosi a magnanime illusioni ben presto tradite: nella
Francia stessa la rivoluzione deviò presto dalla propria mèta
republicana per arrestarsi nell'insuperabile pantano di una nuova
monarchia. Qualunque fossero le intenzioni dei capi rivoluzionari e per
quanto facile si mostrasse l'Europa a riconoscerle, una republica
francese non poteva allora trionfare per difetto di republicani, giacchè
il popolo aveva piuttosto partecipato all'insurrezione parigina per
insofferenza della scempia tirannide borbonica che per una ideale
passione di libertà. Quindi la borghesia, prima iniziatrice della
rivolta e rimasta prontamente sola nella vittoria, si scisse in due
partiti: l'uno, composto di una immensa maggioranza inspirata da
interessi pecuniari, anelante al potere, diffidente del popolo per
egoismo di fortuna e per superiorità di coltura, imbevuta di
parlamentarismo inglese e di economia classica, badò a consolidare il
trionfo con una nuova dinastia sottomessa alle idee e ai voleri delle
Camere; l'altro, scarsissimo di numero, torbido nei concetti, generoso
nei sentimenti, innamorato del popolo e che pel popolo solo aveva
combattuto, si frazionò in mille opinioni invece di proseguire
nell'audacia rivoluzionaria, e, non trovando eco nelle masse incapaci di
comprendere il suo moto settario, abdicò per rituffarsi nelle congiure e
preparare una lontana republica.

Luigi Filippo d'Orléans, natura sordida ma ingegno destro, impersonò
l'ideale borghese della involuzione, che lo nominava re, facendogli
gettare sulle spalle un mantello republicano dal vecchio Lafayette, il
più ingenuo fra i republicani aristocratici. Quindi la sua politica fu
doppia. Sulle prime, incerto di ottenere dalle grandi corti d'Europa
sempre collegate nella Santa Alleanza, il riconoscimento della propria
nomina regale, liberaleggiò, prodigando promesse a tutti gli insorti e
proclamando il non intervento ai monarchi contro le rivoluzioni.
L'Europa sorpresa e mal preparata ad una rivoluzione continentale
nicchiò: la Francia, benchè spossata ancora dagli ultimi sforzi
dell'impero, atterriva le fantasie nordiche; le fiaccole rivoluzionarie
agitate da Madrid a Bruxelles, da Bologna a Varsavia, turbavano le viste
senili dei diplomatici: si temevano esplosioni; tutta l'Europa era
minata, la Francia poteva rinnovare i miracoli del '93. Ma Luigi
Filippo, che conosceva meglio di tutti la propria situazione, appena
carpito all'Europa il riconoscimento, mutando linguaggio e modi
aspreggiò la rivoluzione.

Quindi tutti i moti, che determinati dai primi impulsi francesi ne
aspettavano altri per proseguire, si arrestarono: vi furono delusioni e
sconfitte tragiche, abbiezioni e tradimenti senza nome. La Francia,
riapparsa così bella e grande nelle Tre Giornate, cambiò ancora
fisionomia, acconciandosi sulla magnifica testa rivoluzionaria la
maschera scialba e falsa di Casimiro Périer. La prima controprova
monarchica della grande rivoluzione era stata fatta dai Borboni del
primo ramo; la seconda cominciava con quello degli Orléans e non doveva
avere con più lunga vita miglior fortuna: l'ultima doveva essere quella
del secondo impero. Solo dopo aver logorato in successivi esperimenti
tutte le forme della monarchia, la Francia arriverebbe prima in Europa
alla conquista della republica pel proprio principio democratico.

L'Italia si scosse. Ma se alla rivoluzione spagnuola del '20 erano
insorte Napoli e Torino, i due maggiori regni nei quali più fermentavano
i residui militari del napoleonismo e la carboneria, alla nuova
rivoluzione francese non risposero che i ducati e le Romagne. Troppa era
la forza militare dei due regni e l'energia della loro reazione, perchè
si potesse contro di loro rinnovare il fallito tentativo. D'altronde se
in questo decennio le idee politiche avevano progredito teoricamente,
non si osava ancora iniziando una rivolta proclamare la decadenza dei
sovrani e un vero mutamento degli Stati. Il regno pontificio, più scarso
a soldati e più fiacco di ordini, si prestava meglio ad una sommossa,
che doveva esprimere piuttosto una generosa impazienza di sentimento che
un vero concetto politico. Ma anche questa volta la carboneria ripetè
l'errore del '21, fidandosi ad un principe.

Francesco IV di Modena, crudele tempra di tiranno, non poverissimo
d'ingegno e ricco d'ambizione, parve egli stesso cercare l'appoggio
della carboneria per costituirsi nella media Italia un grosso Stato. Era
il vecchio sogno dei Medici, dei Farnesi, degli Estensi colle stesse
invincibili difficoltà. La storia non ha ancora potuto accertare quanta
realtà di propositi e di mezzi fosse in questo ultimo sogno: i settari
traditi lo ingrandirono forse nelle invettive contro il tiranno, questi
spaventato lo negò. Nullameno fu chiaro che Francesco IV si era di
qualche guisa accontato con Ciro Menotti, eroica ed ingenua natura di
patriota, consacrato dal martirio all'onore della storia; e che,
sbigottito dalle rivelazioni fatte contro di lui dallo stesso Luigi
Filippo, già mescolato nelle sètte, al conte Appony ambasciatore
austriaco a Parigi, si gettò colla ferocia della paura nella reazione.
Parve, ed era una fazione medioevale. Ciro Menotti invano combattente
rimase prigioniero; ma all'eco della ribalda ducale aggressione Bologna,
agitata dalle novelle francesi, esplode: l'indomani (5 febbraio 1831)
Modena riavutasi dallo stupore caccia il duca, che ripara a Mantova
traendosi dietro Ciro Menotti, freno allora contro le vendette popolari,
sfogo più tardi alla vendetta del tiranno. Imola, Faenza, Forlì, Cesena,
Ravenna s'emancipano, Ferrara imita l'esempio; Parma, Pesaro,
Fossombrone, Fano, Urbino licenziano i propri governatori; poi Macerata,
Camerino, Ascoli, Perugia, Terni, Narni e finalmente Ancona seguono la
rivolta. Il 25 febbraio un popolo di due milioni e mezzo di italiani
liberi dovrebbe essere in armi e non vi è: Napoli, Torino, Milano,
Venezia non si muovono. Una congiura, tentata a Roma nell'interregno del
conclave dai principi Bonaparte, figli dell'ex-re d'Olanda, era fallita
inonoratamente; un'altra capitanata a Firenze dal Libri, mirabile
ingegno di scienziato cui la sordidezza del carattere doveva apprestare
così miserabile fine, concluse ad una ridicola dimostrazione di teatro.

Quindi il moto si concentrò a Bologna, nella quale era costituito un
governo provvisorio, ma giammai più nobile causa ebbe più inetti
rappresentanti. Lo componevano aristocratici, professori d'università,
grossi proprietari: Giovanni Vicini, volgare avvocato e peggiore
politico, lo presiedeva. Il governo pontificio aveva ceduto con
mollezza: i rivoluzionari furono anche più fiacchi. Del problema
politico, quale loro s'imponeva, non solo non intesero nulla, ma per
angustia di carattere ed insufficienza d'ingegno parvero intenti a
contraddirlo. Anzitutto affermarono di essersi costituiti in governo per
evitare l'anarchia dietro la dichiarazione di monsignor Clarelli
prolegato abdicante all'amministrazione della provincia; poi il
presidente Vicini diramò una sua scrittura di leguleio, nella quale,
desumendo la libertà di Bologna dalla convenzione stretta nel 1447 fra
la città e Niccolò V, finiva col paragonare le _Tre Giornate_ francesi
di luglio alle sei della creazione. Era una risurrezione del
ghibellinismo federale, senza modernità nemmeno nelle frasi. A Parma e a
Modena i governi costituiti si scusavano della propria esistenza,
accusandone i sovrani fuggiti senza nominare altro governo. Non si
pensava nè a leggi nè ad armi. La formula del non intervento, lanciata
dalla Francia, pareva presidio sufficiente; non si capiva il doppio
giuoco di Luigi Filippo, non si voleva aumentare la rivoluzione per non
accrescerne i pericoli. Le vanità municipali si sbizzarrivano nelle
teatralità di staterelli improvvisati: si mandavano deputazioni agli
Stati vicini chiedendo e promettendo amicizia; ogni provincia si reggeva
da sè; pareva una commedia e lo sarebbe stata, se gli austriaci
intervenendo bruscamente non l'avessero mutata in dramma. Ma il governo
non pensava più agli austriaci, che la formula francese del non
intervento avrebbe dovuto rattenere.

L'Italia non esisteva ancora; Roma stessa, capitale del regno pontificio
e quindi rivale di Bologna, era dimenticata, quantunque pel nuovo
governo l'assenso e l'opposizione di Roma fosse della massima
importanza. Ma l'Austria, così poco spaventata dal non intervento
francese che lo avrebbe affrontato magari a costo di una guerra
generale, uscì da Piacenza rimasta fedele alla duchessa per tradizionale
ostilità a Parma insorta, e con poco più di un migliaio di soldati
sbaragliò le scarse truppe rivoluzionarie a Firenzuola: questo bastò
perchè tutto il ducato tornasse alla duchessa. Quindi toccò a Modena,
che il generale Zucchi, buon veterano napoleonico disertato dagli
austriaci per mettersi alla testa della rivoluzione, tentò invano
difendere contro gli Estensi e gli austriaci vincitori a Carpi e a Novi.
Il governo di Bologna, sempre fidente nelle promesse estere, aveva
rinunciato non solo all'offesa ma alla difesa, quasi sperando dalla
propria nullaggine meritare il permesso di vivere. Non si erano volute
riattare le fortificazioni di Ancona; si era respinta l'idea di
Sercognani, temerario colonnello faentino educato nelle guerre
imperiali, che intendeva ad un'impresa decisiva su Roma; si era
oppugnato il disegno di Zucchi per la formazione di sei reggimenti di
fanteria e due di cavalleria. Quindi all'invasione di Modena il governo
provvisorio di Bologna, rispose stupidamente che le cose dei modenesi
non erano sue e che il non intervento era legge anche per lui: per
quella di Ferrara replicò nel _Precursore_, organo governativo, che il
non intervento non era stato violato perchè i trattati di Vienna vi
concedevano all'Austria diritto di guarnigione; e quando finalmente
Zucchi sconfitto si ripiegò su Bologna, il governo, che aveva ordinato
di disarmare e d'internare quanti stranieri si presentassero armati alle
frontiere, disarmò i 700 modenesi accorsi in suo aiuto. Poi il 20 marzo
gli austriaci, dimenticando le derisorie promesse prodigate a quel
ridicolo governo, si presentarono alle porte; e questo sempre eguale a
se medesimo, intimato al paese di star quieto e alla guardia nazionale
di mantenere l'ordine quale unico supremo intento, si ritirò ad Ancona
col cardinale Benvenuti catturato, nelle mani del quale abdicò
prontamente per chiedere amnistia. Nessuno dei membri del governo
provvisorio si ricusò a firmare l'ignobile atto, nemmeno Terenzio
Mamiani, anima ed ingegno tutt'altro che volgare. Il generale Zucchi,
divisa la propria truppa in due corpi, ordinò la ritirata per la via
Emilia e per la bassa Romagna. A Rimini, punto di congiunzione, avvenne
uno scontro che salvò l'onore della bandiera, il solo che rimanesse: e
poichè il generale Armandi, ministro della guerra, non aveva voluto
riunire le forze dello Zucchi con quelle di Sercognani per assalire
Roma, questi, spintosi fino a Rieti ed intesa la dedizione finale,
dovette dar volta per la Toscana e rifuggirsi in Francia.

La rivoluzione, morta come era vissuta, non meritava rispetto e non
l'ottenne. Gli austriaci violarono tosto la capitolazione, occupando
Ancona un giorno prima e catturando la nave sulla quale erano saliti lo
Zucchi e gli altri patrioti dirigendosi a Corfù. Comandava la corvetta
austriaca in questa triste cattura il barone Bandiera, padre di Attilio
e di Emilio, che dovevano dopo pochi anni immolarsi nella più arrisicata
delle imprese patriottiche. Gregorio XVI, asceso al pontificato,
richiamò il cardinale Benvenuti, e negò l'amnistia.

Quindi incrudelirono repressioni e vendette. Il duca di Modena chiamò al
governo della polizia il Canosa, che rinfrescò la propria infame
celebrità con nuovi orrori: Menotti, Borelli e troppi altri perirono; si
promulgarono editti feroci sino all'assurdo, le condanne non si
contarono più che a centinaia, mentre il popolo taceva allibito e il
vescovo della città bandiva una lettera pastorale per additare nel duca
un sovrano secondo il cuore di Dio. Maria Luigia di Parma con più mite
animo si contentò invece di sospendere i magistrati partecipi della
rivoluzione, e indi a poco perdonò a tutti. Gregorio XVI, dietro
consiglio del cardinale Bernetti, incaricò due commissioni, l'una civile
e l'altra militare, con pieni poteri di inquisire, e lasciando allo
stesso cardinale di raccomandare loro la più sommaria delle procedure
contro rei e sospetti: nè i giudici intesero a sordo. Un esodo di
illustri propalò le sventure e le abbominazioni d'Italia; altri illustri
nelle carceri meditarono e scrissero libri che valsero battaglie; molti
illustri seguitarono nell'ombra il lento e solido lavoro per ridare
all'Italia un pensiero nazionale.

Ma soffocata la ribellione, rimanevano a stabilire le provvidenze
controrivoluzionarie. Quindi le diplomazie si accordarono, seguendo
l'astuta politica dell'Austria in Italia, a chiedere con un
_Memorandum_, rimasto celebre, alla corte di Roma alcune guarentigie
municipali e giudiziarie a favore delle provincie pontificie fedeli o
ribelli. Si voleva secondo l'idea più o meno espressa nei precedenti
congressi ridurre lo Stato pontificio alle norme degli altri, senza
accorgersi che con quest'atto implicante una certa secolarizzazione del
governo papale si veniva a dar ragione ai rivoluzionari. Roma retriva e
gelosa della propria tirannia interna recalcitrò, fingendo aderire:
furono promesse l'elezione libera dei consigli comunali, l'istituzione
di consigli provinciali, nuovi codici, la riforma dei tribunali, delle
amministrazioni, delle finanze, l'ammissione dei secolari ai sommi
uffici: sarebbe stata, come si disse, una èra novella. Se non che
partiti gli austriaci Roma ritrattò ogni promessa; i liberali si
sollevarono, i sanfedisti si armarono a combatterli. Furono inviati
deputati a Roma per scongiurare la corte a mantenere la propria parola,
ma questa non trattò che per guadagnar tempo: intanto le bande
sanfediste ingrossavano. Il cardinale Albani, nominato legato _a latere_
per le Romagne, attaccò gl'insorti a Cesena, e li disciolse; quindi
infellonito invase Forlì, stuprando e uccidendo; gli austriaci
ripassarono la frontiera accolti come liberatori dalle popolazioni
tremanti per gli eccessi delle orde papaline. Al violato non intervento
la Francia rispose occupando Ancona: il papa protestò, la Francia diede
lo scambio ai due comandanti Combes e Galloy, troppo giacobini, col
generale Cubières che si offerse sicario alla curia ma non evacuò la
città. Nuovi processi si aggravarono sui vinti; gli ebrei d'Ancona
dovettero pagare 600,000 franchi per l'accusa di aver veduto con piacere
la rivoluzione del 1831; i sanfedisti vennero arruolati in corpi quasi
regolari risuscitando una istituzione soldatesca, che Sisto V aveva
cassato per ragioni di publica sicurezza. Questi strani volontari
seguitavano ad abitare nelle proprie case, esenti da certe tasse e col
permesso di tutto commettere. Tutto era loro consentito dalla polizia e
dai tribunali; quindi rozzi e fanatici, perversi e pervertiti ne
abusarono.

La diplomazia, fingendo riconoscerli sufficienti a garantire l'ordine
nello Stato pontificio e dimenticando il proprio _Memorandum_, lasciò al
papa ogni libertà di sgoverno: forse ella stessa aveva compreso
l'impossibilità di spingere l'immobile amministrazione papale sulla via
di una qualunque riforma, o forse la reazione universale la persuase in
favore dell'assolutismo pontificio. Solo il ministro inglese lord
Seymour si rifiutò di segnare la dichiarazione (gennaio 1832), colla
quale si affermava che, avendo il pontefice pienamente adempito le
proprie promesse di riformare lo Stato, occorrevano ora alla quiete
d'Europa le misure repressive da lui prese contro gl'incontentabili
ribelli.

Il risultato dell'intervenzione franco-austriaca negli Stati romani fu
di costringere carboneria e sanfedismo ad uscire dal segreto delle sètte
per combattersi all'aperto, precisando meglio l'antagonismo fra
rivoluzione e governo: la rivoluzione degli Stati romani per
contraccolpo modificò la condizione di tutti i partiti italiani. Quello
assolutista si scisse: i sanfedisti degli Stati pontifici inclinavano
all'Austria, mentre quasi tutte le altre società cattoliche d'Italia se
ne staccavano impaurite, volgendosi ai principi indigeni. Il
protettorato austriaco spaventò: si credette di poter resistere alla
rivoluzione colla forza paesana della religione e della legittimità: era
un primo passo all'emancipazione dello straniero, uno di quei mirabili
accordi fra le forze antagoniste di una società, nei quali sembra spesso
compiacersi la storia. Quindi il clero si alleò ovunque alle polizie
paesane.

Il partito confusamente nazionale, da bonapartista e militare come al
tempo della prima ristorazione, perdendo pressochè ogni spirito
bellicoso, si mutò in riformista. Con questo spirito aveva governato
l'ultima rivoluzione priva di forze soldatesche e quindi anche più
inetta di quelle del '21. Laonde, non potendo sperare ulteriormente in
sollevazioni o in costituzioni largite da principi, dei quali aveva
fatto tanto misera esperienza, si volse a patrocinare le forze più vive
della società, le lettere e le industrie, i congressi scientifici, le
strade e le ferrovie. Così formò un'opinione publica intelligente ed
operosa, che disarmò in parte il feroce terrore dei principi per ogni
riforma, e, divulgando con efficacia idee e sentimenti politici, potè
persino penetrare nelle corti. Il liberalismo, distinguendosi dalla
rivoluzione, divenne come un campo, nel quale i due eccessi politici
della nazione potevano incontrarsi per tentare qualche effimera
conciliazione. Ma clero e nobiltà tiravano l'assolutismo italiano a
nuove violenze, distruggendo i lenti e faticosi approcci del liberalismo
riformista, costretto a consumarsi nello sforzo di riprodurli ogni
giorno.

Il partito democratico invece fu rialzato vivamente dalla rivoluzione di
luglio, nella quale apprese la necessità delle armi e di fare da sè. Il
nuovo successo non fece che schiarirgli nella coscienza l'idea di una
rivoluzione veramente italiana e simultanea contro preti, nobili,
principi e stranieri. Gli ostacoli erano troppi e troppo forti.
Nullameno il distinguerli e misurarli era già un immenso vantaggio; si
usciva finalmente dalle ridicole teatralità della carboneria segreta, si
smettevano gli inutili vanti degli avanzi napoleonici, si cercava
sopratutto una nuova propaganda che affratellasse nella passione e nella
fede. Contro tanti e sì potenti nemici non era difficile comprendere che
solo il popolo, immenso di numero e di forze per quanto ignaro ed
incerto, poteva combattere.

Il grido di Ciro Menotti morente: non vi fidate a stranieri! doveva fra
poco essere raccolto dal genio eroico del risorgimento italiano.

Intanto le repressioni seguitavano infuriando. Il governo pontificio
difeso da francesi, austriaci, truppe indigene, due reggimenti di
svizzeri, volontari, centurioni, non avrebbe dovuto consigliarsi colla
paura; nullameno punendo insanì. Chiuse le università per consentire poi
l'insegnamento delle scienze a maestri privati, negò i gradi accademici
a tutti i giovani anche minorenni mescolati alla rivoluzione, molti
respinse dal fòro, a tutti attraversò ogni carriera onorata. Così
aumentava il numero dei settari. Disciolti i consigli comunali e
condannati quanti tale dissoluzione non approvassero, vennero mutate le
già arbitrarie rappresentanze municipali in congreghe servili e faziose;
perseguitati i liberali, negati i passaporti, sorvegliate le famiglie,
violati i domicili. Finanze, industrie, commercio, polizia, tutto
peggiorò.

La mite Toscana soppresse il giornale l'_Antologia_; fu bandito il
Colletta moribondo; incarcerati il Salvagnoli, il Bini, il Guerrazzi; e
si sarebbero perfino invocati gli austriaci, se il vecchio Fossombroni
opponendovisi non fosse stato ancora tanto stimato da poterlo impedire.
Nullameno altre condanne di esilio colpirono il La Cecilia, il Poerio,
il Giordani: l'antica ospitalità, che aveva fatto della Toscana il paese
più gentile ed amato d'Italia, cessò. Sull'animo poco schietto e meno
coraggioso del granduca Leopoldo II pesavano le minaccie di Vienna e i
suggerimenti del Piemonte, spingendolo a crudeli repressioni coll'accusa
di usare clemenza per sedurre i liberali e diventare con l'opera loro re
costituzionale di una Italia libera. Eroica ingiuria, che nessun sovrano
d'Italia poteva allora meritare! Così re Carlo Felice, al quale nei
primi rumori della rivoluzione di Bologna era stata presentata una
supplica, secondo il remissivo procedere dei liberali piemontesi, per
ottenere più liberi ordinamenti, rispose collo stringersi all'Austria
contro ogni istanza di lord Palmerston e col cacciare in carcere i
supplicanti: fra questi primeggiavano il Bersani, il Balestra, il
Brofferio. Carlo Alberto succedutogli (21 aprile 1831) li prosciolse, ma
lasciando nelle prigioni i traditi cospiratori del '21. Triste inizio di
regno che doveva finire più tristamente! Il nuovo re per unica riforma
diede un consiglio di stato di nomina regia e con voto consultivo su
materie dal governo proposte: come prima idea politica si accodò
all'Austria per sottrarsi ad ogni liberale influenza francese. Ma
all'indomani della sua assunzione al vecchio trono di Savoia, ridotto
negli ultimi anni ad insozzato predellino del trono imperiale degli
Asburgo, gli scoppiava sul capo, violenta come una bufera ed abbagliante
come un sole, la prima lettera di Giuseppe Mazzini, giovanissimo e già
esule dall'Italia, per ricordargli il tradimento del '21 e promettergli
il perdono da una vittoria italiana. Le più calde pagine di Machiavelli
diventavano gelide al confronto di questa lettera, che bruciò quante
coscienze la conobbero, e, passando anonima di mano in mano, parve
scritta dall'Italia stessa al nuovo re di Piemonte. Chi poteva mai,
scrivendo così, sottrarsi alla gloria del proprio genio?

A Napoli Ferdinando II, succeduto a Francesco I, sordidamente avaro e
non meno simulatore del padre, finse onesti sentimenti con un'anmistia
politica, che, alleviando le condizioni dei condannati, non mutò affatto
i criteri del governo. Questi, cresciuto dai gesuiti alle più assurde
idee del dispotismo, non ebbe e non potè avere alcun concetto politico.
La sua affettata passione pei soldati non era che sfogo di giovanile
iattanza e astuta misura per assicurarsi del loro favore dopo quello
della plebe; infatti l'animo suo stupidamente malvagio si rivelò nella
nomina di Del Carretto, il feroce incendiario di Vallo, il distruttore
di Bosco, a successore dell'Intonti nel supremo magistrato della
polizia, quando quest'ultimo per carpire al re una qualunque
costituzione simulò coi propri agenti e d'accordo coi liberali congiure
di rivolta. La nomina di Del Carretto fu la risposta del re, pronta ed
inesorabile. Poco dopo a Messina, nel luglio del 1831, Ferdinando II,
passando una rivista militare, ordinava una carica alla baionetta per
cacciare nel mare metà della popolazione intenta allo spettacolo. E rise
di questa sanguinaria ed imbecille imitazione di Caligola, che faceva
precipitare dal ponte fra Baia e Pozzuoli la stipata moltitudine
plaudente alla sua biga imperiale.

Questa rivoluzione del '31, se pure può chiamarsi così, chiuse il
periodo dei moti regionali, liquidando tutti gli avanzi della
rivoluzione e dell'impero francese. La sua inanità concettuale e
l'inettitudine del suo processo, inevitabili allora, persuasero che
nessuna indipendenza parziale sarebbe mai stata possibile in Italia,
finchè l'Austria vi avesse dominato tutte le corti e Roma rattenuti
nella servitù spirituale tutti gli spiriti. Naturalmente il progresso
delle idee doveva condurre nella necessità di una ricostituzione italica
a formule rivoluzionarie più vaste e positive: quindi la minoranza degli
intelletti più audaci e dei cuori più generosi, gittando ogni prudenza e
sorvolando ogni difficoltà, pensarono ad un'Italia una, libera,
indipendente, republicana in una rivoluzione concepita come fine e mezzo
a se medesima; confusero nello stesso sdegno eroico le tiranniche
intimazioni dell'Austria e le fallaci promesse della Francia, l'esoso
dispotismo dei principi e la subdola autorità di Roma. La maggioranza
della gente, desiderosa di un meglio senza il coraggio di arrischiare il
presente qualunque si fosse, e rispettosa dei diritti dei principi e dei
papi, mirò ad una rigenerazione lenta con un accordo di tutti i poteri
sociali, coi sovrani confederati contro lo straniero e largheggianti di
riforme coi sudditi, con Roma banditrice di libertà in nome del vangelo
e alla testa della confederazione. Ma erano ancora idee torbide e
sentimenti indecisi. L'imminente partito dell'unità doveva essere lirico
ed appassionato, ingenuo fino al ridicolo, ma parato sempre a
riscattarlo col martirio, intrattabile nei compromessi ed assurdo
nell'ostinazione: quello della confederazione invece calmo, dotto,
rimpinzito di storia per sostenere la propria tesi irrompente da tutto
il passato italiano, ma fiacco nell'azione, nascondendo nelle pieghe
della prudenza molte viltà, spesso falso nelle intenzioni e nelle opere.

Nullameno per legge storica esso doveva riempire il nuovo periodo,
perchè con un fallito esperimento di confederazione la coscienza
nazionale si staccasse dalla formula antica della propria vita,
avviandosi per quella dell'unità al conquisto del gran principio moderno
proclamato dalla rivoluzione francese del dogma della sovranità
popolare.




CAPITOLO TERZO.

Il pensiero politico nel moto letterario


                                  I primi gruppi.

Questi rivolgimenti politici si ripercuotevano nel pensiero nazionale.

Al tempo dell'impero napoleonico l'opposizione non era rappresentata che
da impiegati malcontenti e da giovani esaltati nelle classiche memorie
dell'antichità: pei primi tutte le questioni diventavano amministrative,
pei secondi svaporavano in prediche poetiche di ribellione indecisa
contro le cose e le persone; giù nella massa il sentimento nazionale,
volendo chiamarlo così, era intorbidato tanto dai benefizi delle nuove
idee liberali quanto dalle inevitabili vessazioni della dittatura
militare; peggio ancora pregiudizi regionali, religiosi e sociali
falsavano ogni giudizio. Ma colla ristorazione austriaca la scena
cangiò: alle angherie dei francesi, sempre larvate da promesse di un
regno italico o consolate da speranze di facili miglioramenti, successe
un'oppressione senza diritti e senza avvenire: l'Austria schiacciò
popoli e principi, cancellando ogni idea liberale della rivoluzione
francese. Naturalmente questo bastò perchè coloro medesimi, i quali da
principio non simpatizzavano troppo con essa, ne capissero tosto il
valore e la verità. Il pensiero si destò ai gridi di dolore della
coscienza italiana. Quindi nella nuova ricomposizione dei partiti
l'opposizione si spostò, formandosi a gruppi con elementi bonapartisti e
liberali d'ogni gradazione, per passare indi a poco in ogni forma di
letteratura. Al di fuori delle corti e delle polizie, nelle quali
interessi privilegiati e coalizzati toglievano di sentire la
contraddizione della politica governativa colla vita italiana per
risognare un passato, che gli eccessi medesimi della reazione
constatavano impossibile, ogni coscienza culta e disinteressata doveva
fatalmente accorgersi che l'Italia aveva bisogno di maggiore libertà e
di leggi migliori.

L'opposizione fu dunque in tutti, ma non si esplicò che nella azione dei
più forti.

La scuola di Monti agonizzava entro la scenica decorazione, nella quale
aveva ospitato con servile indifferenza avvenimenti e padroni d'ogni
sorta: quella di Foscolo, nobile d'intenzioni ed austera nel carattere,
cresceva nella passione dei giovani, che affacciandosi alla vita
sentivano ventarsi sulla fronte l'aria di un secolo nuovo. La grande
rivoluzione letteraria del romanticismo giunse anche in Italia a
sommuovere gli ultimi strati classici, che Foscolo stesso aveva
rispettati. Ma il romanticismo innovatore ed insieme reazionario,
ritogliendo l'arte alla tradizione delle scuole per rituffarla nella
vita del popolo e rivelarle con altra interpretazione tutto il passato,
implicava un ritorno alla religione; e questa contraddizione agli
istinti del secolo produceva una bizzarra ed intensa passione per tutte
le antichità medioevali. Quindi un'altra divisione di scuole venne a
scindere l'opposizione, che il dispotismo straniero avrebbe sempre più
condensato. La tormenta della grande rivoluzione francese placandosi
lasciava negli spiriti un immenso bisogno di pace e di fede; si
cominciava a comprendere la falsità del metodo rivoluzionario
altrettanto assoluto nella distruzione che assurdo nell'ateismo;
s'inorridiva degli eccessi francesi, si diffidava del popolo, nel quale
il carattere era ancora di plebe. Laonde la scuola francamente
rivoluzionaria non ebbe più rappresentanti; invece quella romantica,
malgrado le proprie inconciliabili antinomie, apportava una formula che
la costrinse a rapido e magnifico sviluppo. Il romanticismo era
anzitutto libertà letteraria.

In Italia il primo gruppo di combattenti si strinse a Milano, rimasta
come capitale momentanea del regno italico il maggiore centro
letterario, e fondò un giornale col titolo falso di _Conciliatore_. Lo
scrivevano Confalonieri, Pellico, Romagnosi, Rasori, Ermes Visconti,
Berchet, Borsieri e Pecchio. La loro prima battaglia fu contro la
letteratura vacua e pretenziosa degli ultimi classicisti, che, perduta
la pompa affascinante di Monti e la scarna austerità di Alfieri,
rimbambivano nella pedanteria dei precetti scolastici o nelle puerilità
armoniose della lingua. A costoro, che seguitavano ricantando i
classici, opposero Camoens, Shakespeare, Byron, Schiller, Goethe; poi
dalle questioni letterarie si discese alle pratiche, appassionando gli
animi pel mutuo insegnamento, pei battelli a vapore, per l'illuminazione
a gaz; si evocarono le memorie del regno italico: si toccò la linea che
separa la politica dalla letteratura. Ma la disputa rinfocolandosi
trasse i giovani combattenti fuori del campo, cosicchè si videro il
giornale soppresso (1819) da un ordine della polizia, mentre badavano a
combinare l'alleanza della politica colla letteratura accogliendo in un
bizzarro eclettismo le idee più disparate, dalla costituzione spagnuola
all'estetica tedesca e all'economia inglese.

Il gruppo si sbandò, molti perirono tragicamente. I processi del '21
dispersero nelle carceri o negli esigli gl'ingenui novatori: Rasori si
rituffò nella medicina, illustrandosi ed illustrandola; Romagnosi,
sfuggito alla condanna, si chiuse nell'operosità di studi filosofici;
Borsieri suo discepolo, Confalonieri, Silvio Pellico sparirono negli
antri dello Spielberg. Ma la breve propaganda aveva così poco toccato il
popolo che i condannati furono coperti d'ingiurie attraversando Verona:
quindi parvero dimenticati. Silvio Pellico, allora leggermente
volterriano, fors'anco materialista, di tratto in tratto economista come
scolaro di Gioia, amico di Foscolo, poeta più melodrammatico che
tragico, anima più sensibile che appassionata, si fiaccò nel carcere.
Quello sgomento, che già aveva sorpreso Manzoni meditando sulle
tempestose tragedie della rivoluzione francese, lo colse negli squallidi
silenzi della segreta, in quella eterna luce di tramonto che gli
scendeva dall'alto delle inferriate come un gemito. Il romanticismo che
covava nel suo spirito si sviluppò. Pellico si convertì alla religione
dei propri carnefici e scrisse _Le mie prigioni_, spaventevole poema,
con alcuni carcerieri, pochi personaggi muti, due o tre compagni
d'infortunio, una prigione buia, un imperatore invisibile al disopra di
tutti e Dio al disopra dell'imperatore. Il cospiratore era vinto, il
nuovo cristiano predicava coll'antico fervore del congiurato la
rassegnazione alla schiavitù, additando lo stesso cielo in nome del
quale tiranni e preti opprimevano. L'immenso successo delle _Mie
prigioni_, quando furono stampate nel 1831, rivelò lo stato della
coscienza nazionale ancora troppo soggetta alla codarda morale del clero
e troppo poco educata all'orgoglio delle battaglie.

Ma soppresso il _Conciliatore_, usciva a Firenze l'_Antologia_,
raggruppando altri ingegni e riprendendo la guerra. Dante, che Monti
aveva travisato in una sonante ed abbarbagliante imitazione, risorgeva
come poeta nazionale per opera specialmente di Foscolo: si
moltiplicavano le edizioni della _Divina Commedia_, nuovi commenti non
più informati a piccinerie filosofiche o erudite apparvero; Arrivabene e
Troya vi si distinsero, poi tutti vi si cacciarono falsando con
intenzioni patriottiche il significato del poema, che nullameno giovò a
ricostituire la coscienza letteraria. Un gran fervore di studi si
apprese alla gioventù: le Accademie si dettero a utili e nobili lavori,
si vollero forme moderne e idee nuove. L'antico tipo del letterato
pretensioso e disutile scomparve, ogni libro ebbe uno scopo sociale; non
fu più permessa la puerilità di quei diverbi letterari che avevano
divertito l'ozio delle passate generazioni. Ma gli scrittori erano
tuttavia divisi, oltre che per scuole, in gruppi regionali non senza
lievito di ostilità: i libri più divulgati in Toscana erano appena noti
in Lombardia, quelli di Napoli per giungere a Torino dovevano impiegare
molti anni. Nè il mestiere dello scrittore era senza pericoli e dolori:
i governi sospettosi vegliavano e censurando condannavano: la pubblica
opinione poco giovava: la stessa coscienza degli autori, combattuta da
principii inconciliabili di autorità e di emancipazione, non trovava
sempre in se medesima l'energia di una lotta, nella quale il riposo era
conteso e negato il trionfo.

Però un'intenzione italiana animava ogni scritto. I giornali scarsi, mal
redatti, diretti da gazzettieri ligi alla polizia, non potevano
diventare arma di battaglia contro i governi, o, tentandolo per opera di
giovani animosi, erano presto soppressi. D'altronde il popolo in gran
parte analfabeta non leggeva. I libri valevano meglio, perchè capaci di
lasciare più profonde impressioni e di educare opinioni più durevoli. La
grande massa del pubblico rimaneva nullameno svogliata: quelli che,
leggendo per ozio di vita o cultura di spirito, partecipavano col
pensiero alla vita spirituale della nazione, erano stati educati quasi
tutti dal clero o nell'abitudine di famiglie egoisticamente chiuse in se
medesime e timorose di ogni novità per troppo lunga esperienza di
servitù. La bigotteria, profittando del nuovo fervore romantico verso la
religione, affettava grande e signorile importanza; l'impossibilità
materiale d'una rivoluzione, che i ripetuti tentativi infelici
disonoravano nel timido buon senso dei più, rafforzava il rispetto ai
principi, mentre lo spionaggio delle polizie assiderava ogni calda ed
improvvisa risoluzione.


                                  Il dualismo letterario.

Quindi delle due grandi scuole letterarie, che allora si divisero il
campo, quella della rassegnazione e quella della rivolta, la prima fu la
più numerosa ed accetta. A capo di essa splendeva Alessandro Manzoni,
guidava la seconda Francesco Domenico Guerrazzi: entrambi poderosi
nell'ingegno, profondamente e largamente originali. Intorno a Manzoni si
strinsero Pellico, Grossi, Torti, Tommaseo, più tardi il Carcano e il
D'Azeglio; con Guerrazzi instava scettico ed appassionato il Bini,
tempestava il Berchet, poi folgoreggiò il Niccolini; da Napoli lanciava
inni simili a girandole il Rossetti, quindi stridè la satira del Giusti;
alto su tutti, più moderno e nulla meno antico quanto il dolore umano,
si librava Leopardi, quasi immagine disperata della patria che quegli
sforzi generosi non avrebbero salvato.

Ma se nel Manzoni un cattolicismo troppo più cristiano di quello
politico di Roma attutiva le passioni esasperate dall'oppressione
indigena e straniera, attirando l'egoistica prudenza dei molti piuttosto
a speranze di riforme graduate che alla necessità di una rivoluzione
nazionale, il sentimento di questa era pur così vivo nel grande poeta da
ispirargli tra gl'inni dell'Adelchi la più rovente rampogna di
battaglia. Nel suo stesso romanzo tanto lodato, attraverso la falsità di
caratteri popolari che allora parvero meravigliosi di esattezza, e sotto
il velo di una morale che sconsigliando la lotta conclude fatalmente
alla tirannia dei malvagi responsabili solo in faccia a Dio, si coglie
una onesta intenzione democratica, che riconosce unicamente nel popolo
la poca virtù capace di albergare sulla terra. Ma contro Manzoni, del
quale la coscienza religiosa e semi-rivoluzionaria, accordandosi con
quella della massa, doveva rimanere come specchio di quella della
nazione, sorgeva tempestando il Guerrazzi. Preso nell'orbita della
grande cometa di Byron, egli è fosco e solenne, impetuoso e compassato,
credulo e scettico: la sua collera come quella del mare gitta schiuma e
ruggiti, la sua parola scoppia come il baleno, la sua passione ulula
come una bufera. Libertà, odio allo straniero ed al prete, orgoglio
italiano, antagonismo regionale, amore democratico e rancore plebeo,
pessimismo ateo e deismo biblico, tutto fermenta nel suo spirito;
incapace di misura, nullameno conserva sempre l'atteggiamento
scultoriamente classico di un gladiatore; tribuno, fonde la veemenza
dell'apostolo con quella del profeta. I suoi libri spesso pensati e
scritti nelle carceri sono battaglie: il suo disprezzo per la gente è un
tonico che la fortifica, le sue invettive hanno il vigore di
un'argomentazione, la sua teatralità abitua ai pericoli delle parate per
giungere a quello degli scontri.

Nessun scrittore fu allora utile e potente più di lui, nessuno pure
doveva essere più presto dimenticato. E mentre il Guerrazzi, facendo
dell'arte una catapulta, scagliava i propri libri come macigni sui
nemici della patria, Berchet esule lanciava da lungi canzoni di guerra e
di maledizioni che facevano stringere convulsamente le mani cercando
un'arma a chiunque le ascoltasse; Niccolini risaliva sonante di lirica
sul teatro di Alfieri, mutando la tragedia in una battaglia per la
libertà, spesso a rovescio della storia, moltiplicando personaggi e
fantasmi che parlavano contro i tiranni, come irrompono i torrenti e
divampano gl'incendi; Giusti ravvolto nell'anonimo, come l'eterna satira
popolare, gittava fra quelle ardenti declamazioni lo stridore di un
sarcasmo che finiva di rendere spregevoli i nemici della patria, già
diventati odiosi a forza di essere odiati. Vivido, leggero, infallibile
nella malizia quanto l'antico popolo di Firenze, il nuovo poeta coglieva
il falso di ogni partito, spingendo alla rivoluzione collo scherno a
tutte le autorità, e con così intensa passione di patria da mutargli
spesso il lazzo amaro in un eroico urlo di sfida.

Ma sulle due scuole della rassegnazione e della rivolta, sui nuovi
guelfi e ghibellini, su coloro che non avrebbero voluto sacrificare il
cattolicismo alla rivoluzione, e quelli che dichiaravano la libertà
inconciliabile colla religione, Giuseppe Mazzini, alto nello sforzo di
riassumere le due opposte tendenze, predicava l'insurrezione in nome del
diritto e il martirio in nome di una religione che del cristianesimo
accettava quasi tutta la parte essenziale. Scrittore politico più
rivoluzionario ed efficace di tutti, dava corpo agl'incerti fantasmi
delle due scuole colla doppia formula dell'unità e della republica
italiana in una prosa serrata come una falange e nullameno sinuosa come
un'onda, balenante e melodica, esatta come una geometria e capziosa come
una pittura, italiana più che quella medesima di Machiavelli e tanto
moderna che oggi pure nessun'altra ha ancora saputo ripeterne l'animosa
ed animatrice naturalezza.

In tanta effervescenza di novità si rivangava naturalmente il passato; a
ciò spingeva la passione romantica, e quella dialettica storica che
costringe i popoli ad estrarre il futuro dalla coscienza del proprio
passato. La morta erudizione si animava d'intenzioni creatrici, i
congressi scientifici fingevano assemblee nazionali, i canti del popolo
erano sfide alla tirannide, le allusioni dei libri e dei discorsi
avevano l'improvviso e la precisione delle coltellate. La stessa
questione della lingua dibattuta con tanto accanimento si mutava in
problema nazionale, giacchè l'insurrezione di tutte le provincie contro
la primazia toscana e la confusa difesa di quest'ultima menavano
all'unità di un linguaggio piuttosto parlato che scritto, non più
imbalsamato nella tradizione, ma vario e mobile come la vita. La
critica, trascinata dall'istinto novatore della letteratura, cangiava i
vecchi canoni delle scuole per accoglierne altri dalla storia e dalla
filosofia; l'arte ribattezzata da Canova nel classicismo greco, spezzava
con Bartolini il sacro fonte per avventarsi a mal comprese originalità;
si moltiplicavano le storie regionali, s'investigavano gli archivi, si
cercava il segreto delle epoche trascorse quasi per indovinare quello
dei fatti imminenti.

Il contatto e la diffusione delle letterature europee spronavano a
grandi cose col confronto umiliante dello stato attuale italiano,
giacchè la boria del passato, diventando argomento contro l'oppressione
straniera, non toglieva di sentire a quanta distanza si fosse ancora
dalle nazioni che guidavano il movimento europeo.

Bisognava tutto rinnovare e tutto fu miracolosamente rinnovato. Giammai
l'Italia ebbe più grande operosità spirituale; dalla ristorazione del
'15 alla rivoluzione federale del '48 il numero dei grandi italiani è
tale che fa battere il cuore di nobile orgoglio.


                                  Colletta e Botta.

Nella letteratura politica, dopo il _Conciliatore_, le opere di
Guglielmo Pepe e di Santorre Santarosa rivelano meglio di ogni altra le
idee d'allora negli uomini d'azione, che, separati dalla vita nel
segreto delle sètte, non solo vi diventano incapaci di afferrare il
significato storico di un momento, ma non v'imparano nemmeno l'abilità
necessaria alle cospirazioni. Al disopra di esse levasi per senno
politico la storia della rivoluzione napoletana di Vincenzo Coco: dopo
di essi il Colletta e il Botta, fra la turba degli storici accumulanti
in lavori parziali l'immenso materiale della futura grande storia
d'Italia, esprimono un altro momento dell'opinione publica italiana.
Quegli bonapartista, nemico della carboneria e uomo del potere
anzitutto, giudica la rivoluzione napoletana del '20 come una serie
gratuita di errori, senza afferrare la causa recondita di un movimento
storico, che pure riceve contraccolpi da tutto un moto europeo; non
sente la fatalità dell'antitesi in quel processo rivoluzionario, al
quale mancano i due grandi principii dell'unità e della sovranità
nazionale; ma, nemico implacabile della monarchia borbonica, la trascina
alla gogna dell'immortalità colla paziente passione di una analisi, cui
nulla sfugge. Senonchè il suo pensiero si offusca alla fine: fra i regii
sempre carnefici, e i rivoluzionari sempre inetti, l'avvenire è
impossibile. Il bonapartismo fallito non può ripetersi; la religione
ridotta dai preti ad arma di battaglia non saprebbe mutarsi in sostegno;
il popolo non esiste e non esisterà; l'Italia non è, non fu, non sarà
mai che una regione spezzata in singoli Stati; e lo storico,
rifugiandosi indarno nell'angustia di un concetto puramente napoletano,
muore senza risolvere il problema impostogli dalla propria storia.
Quando questa uscì, il successo ne fu immenso: si parlò di Tacito, si
ammirò la severa grandezza dello stile classico, al quale avevano
collaborato il Giordani, il Niccolini e il Capponi; ma di nobile e
d'importante davvero non ne scaturiva che l'odio alla monarchia
borbonica, così intenso da propagarsi in contagio contro ogni altra
monarchia.

La conclusione, che il Colletta non aveva osato di trarre dalla propria
storia, la cavò il Botta, e fu un odio profondo ed ingenuo contro la
rivoluzione francese venuta a turbare il naturale sviluppo della storia
italiana. Colletta era rimasto vittima della crisi nell'impossibilità di
conciliare la doppia impotenza dei regii e dei rivoluzionari in un'idea
di progresso; Botta si cacciò risolutamente indietro, isolando il
passato d'Italia ed isolandola da tutto il mondo. Egli non si domanda il
perchè della rivoluzione o dell'impero francese: le tempeste e le
disgrazie hanno forse sempre un perchè? Secondo lui la libertà era
antica in Italia, le repubbliche di Genova e di Venezia l'avevano
applicata coll'equa combinazione di un patriziato immobile e di una
democrazia municipale. Perchè dunque erano finite così tristamente?
Botta non se lo chiede. La Francia, compiendo di sopprimerle, non reca
in Italia che leggi geometriche; ma l'assoluta uguaglianza civile, che
sola può produrre la sovranità nazionale, ripugna al vecchio italiano.
La rivoluzione francese non ha che a presentarsi per vincere, e Botta
profondamente innamorato del proprio paese dimentica la propria autorità
di storico, colla quale aveva condannato la nullaggine infame di tutte
le corti italiane, per sposare subitamente la causa dei vinti contro i
nuovi barbari. Ogni mossa dell'esercito francese per lui è un errore,
ogni riforma una profanazione; i liberali sono parricidi, i reazionari
possono essere assassini, ma in fondo hanno ragione. La caduta del
potere temporale non soddisfa più in lui il giansenista, la sostituzione
di Murat a Ferdinando IV non lo compensa, il benessere prodigato dal
governo unitario dell'impero napoleonico non lo appaga. Il suo
patriottismo italiano trionfa della sua ragione: le republiche
improvvisate e morte eroicamente, come quella di Napoli, non vietano a
lui democratico il rimpianto delle vecchie dinastie cadute senza decoro
nè di diplomazia nè di battaglia. Quindi rifugiato nell'adorazione di
Torino, spia la caduta dell'impero aspettando il ritorno dei Savoia, dai
quali non chiede e non aspetta nulla, ma nei quali sembra sentire
istintivamente la continuità della storia italiana: e alla fine della
propria storia, scorato e confuso, conclude in un lamento
sull'incorregibile perversità umana e sull'inutilità di seguirne le
vicende.

L'esagerazione dell'odio alla Francia aveva già toccato gli ultimi
termini nel libro stravagante di un altro piemontese, il conte Galiani
di Cocconato, che paragonò l'invasione francese alle calate dei barbari.

L'influenza del Botta sul pensiero nazionale fu efficacissima. La sua
sincerità nel rivelare gli orrori delle corti italiane scemava l'effetto
del suo odio alla rivoluzione francese venuta a spazzarle, mentre il suo
patriottismo, che aveva resistito a tutte le speranze della libertà per
passione della patria indipendenza, rinfocolava l'odio all'Austria ben
più tirannica di Napoleone. La sua irreligione, i suoi istinti
democratici persistenti nella disperata difesa dell'aristocrazia per
opporla alla demagogia straniera giovavano nella nuova guerra contro
l'autorità dei papi e dei principi, cui il ravvivarsi della religione
per opera della reazione romantica ridava forze più minacciose. Che se
il suo scettico scoramento sminuiva nei lettori la fede ai destini della
patria, il nuovo pessimismo della scuola romantica, ebbro di violenze
patriottiche, bastava a temperarne l'effetto; mentre l'autorità dello
storico, allora immensa, serviva come arma contro coloro che avrebbero
voluto vedere la salvezza solo in un ritorno all'antico.

Il principio rivoluzionario abilissimo a giovarsi di tutto non derivava
dai due storici che gli effetti della loro critica al passato, lasciando
all'entusiasmo dei giovani scrittori aprire le porte del futuro colla
magica chiave dei sogni. Perché il presente di quella reazione
monarchico-austriaca fosse irremissibilmente condannato nella coscienza
della nazione bastava che nessuno dei magni spiriti, combattendo il
liberalismo per le tragiche ed incomprensibili contraddizioni de' suoi
primi momenti, si ergesse difensore del passato: e nel passato si poteva
come Botta condannare per patriottismo l'invasione francese, non
assolvere i principii dei vecchi governi in nome dei quali si pretendeva
ancora di governare.

Ma la corrente rivoluzionaria ingrossava tutti i giorni. Una turba di
minori letterati, accodandosi ai grandi, ne rinforzava e ne diffondeva
l'opera; il rispetto alla religione cresceva nei più per influenza della
scuola manzoniana; ma il nuovo sentimento religioso, sorto come reazione
contro l'empietà rivoluzionaria, non l'aveva al tutto dimenticata, e
separava involontariamente la religione dal clero: questo non poteva più
essere stimato che a patto di conformarsi interamente allo spirito di
quella. I nuovi credenti non avevano che a ricordarsi per ritornare
increduli: l'ingenuità della vecchia superstizione era finita; il
cattolicismo profittava della crescente religiosità delle anime senza
contenerla intera, giacchè la filosofia, la poesia e la patria stessa se
ne toglievano gran parte. L'eroismo ateo della rivoluzione passava nella
religione, che aveva ceduto così vilmente il campo alle prime bufere del
1793 per ritornare tremante fra i gendarmi dell'impero napoleonico e
soccombere daccapo alla loro violenza. L'opposizione del clero al
patriottismo liberale, costretta ad allearsi collo straniero oppressore,
disgustava anche i più arrendevoli fra i credenti: le stesse plebi
brutali malmenate dalla polizia cessavano di vedere nei liberali tanti
eretici. Solo i contadini, lontani da tutte le influenze civilizzatrici
dello spirito, rimanevano ligi al clero; ma, chiusi nell'inerte egoismo
della propria segregazione, non potevano offrire, e non offersero poi,
soldati nei giorni della battaglia.

La quale, diversificandosi per tutte le forme, che il pensiero può
assumere nell'azione, si rinnovava ogni giorno e in ogni luogo, nel
discorso e nel libro, nell'allusione e nella reticenza, negli scavi
dell'erudizione e nelle visioni della poesia, nelle proposte commerciali
e nelle ipotesi scientifiche, nell'italianità e nella nazionalità, che
uomini e cose, affermazioni e negazioni, esprimevano contro la reazione
monarchico-clericale guidata dall'Austria.


                                  Rosmini e Gioberti.

Ma come fondamento al vasto e confuso edificio letterario, che la nuova
coscienza nazionale alzava per disciplinarsi all'azione, una nuova
filosofia allargava con sapiente lavoro le basi del pensiero. Mentre il
Galluppi, fedele alla filosofia sperimentale inglese oppugnava la
_Genealogia del pensiero_ del Borelli attaccandosi a Kant senza troppo
comprenderlo; e il Poli, con tentativo più generoso che fortunato,
imbastiva un eclettismo universale per opporlo a quello prestigioso del
Cousin; e il padre Ventura, obbedendo inconsciamente al moto
risospingente gli spiriti nel passato per conquistare nuove idee, mirava
a risuscitare la scolastica innestando la filosofia sulla rivelazione; e
Terenzio Mamiani, ingegno forbito, mirabile per facilità di
dilettantismo in ogni ramo del pensiero, affrettavasi a sciogliere tutte
le questioni riducendole a quella sola del metodo, già noto secondo lui
in tutta la sua assoluta verità agli antichi italiani; due primissimi
intelletti stampavano nella storia del pensiero nazionale ben più vasta
orma. Contemporanei, dottissimi, diversi nell'ingegno e nel carattere,
furono avversari, e nullameno concorsero politicamente nello stesso
concetto. Rosmini si oppose al criticismo dissolvente di Kant, Gioberti
all'idealismo trascendente di Hegel; ma entrambi rimasero inferiori alla
logica del primo e alla sintesi del secondo. Rosmini fondò il metodo
psicologico con insuperata precisione di analisi; Gioberti salì
impetuosamente sull'ontologia per dominare da essa tutto lo scibile,
capovolgendolo spesso nelle più arbitrarie e bizzarre prospettive.
Quegli era un intelletto, questi una fantasia filosofica; l'uno un
carattere sacerdotale, l'altro un temperamento tribunizio
irresistibilmente facondo e ciarlatano; l'opera di Rosmini prosegue,
quella di Gioberti si è arrestata. Ambedue furono cattolici ed
agguerrirono il sistema cristiano contro gli assalti della metafisica
tedesca e della scienza moderna, per quanto era sistematicamente
possibile.

Politicamente conclusero al neo-guelfismo: Rosmini vi arrivava
lentamente e solidamente per deduzioni scolastiche lasciando la
creazione nel mondo, la ragione sotto la rivelazione, la storia sotto la
provvidenza, la politica sotto la morale, la morale sotto la religione,
la religione sotto la santa sede, e questa sotto il pontefice come sotto
la più alta, antica ed universale autorità italiana. Gioberti, sempre
oscillante nelle opinioni, rivoluzionario a Torino, poi esiliato ed
ultramontano nel Belgio, spregiatore d'ogni pensiero filosofico antico o
moderno non suo, intricato come una foresta e proteiforme come il mare,
nemico della Francia e poscia suo ammiratore, alleato di Rosmini quindi
suo implacato nemico, si spinse all'ultra-cattolicismo. Siccome il papa
era in Italia, a lui spettava, secondo Gioberti, di rialzarla, e a
questa di redimere i popoli d'Europa dalla barbarie, nella quale erano
piombati. «Roma essendo più ideale dell'Italia, l'Italia dell'Europa,
l'Europa dell'Oriente e l'Oriente del mondo, ciascuno di questi
aggregati viene ad essere il contenente ideale dell'altro, come l'anima
del corpo, l'idea dello spirito e Dio dell'Universo». «L'Italia è
l'organo della sovrana ragione, della parola regia e ideale, la
sorgente, la regola, la guardia di ogni nazione, d'ogni lingua, poichè
ivi risiede il capo che dirige, il braccio che muove, la lingua che
insegna, il cuore che anima la cristianità». «Roma deve dominare la
confederazione dei principi italiani, l'Italia deve sostituirsi alla
supremazia francese, riprendere la sua superiorità su tutti i popoli,
avere le proprie colonie, convertire la Russia, reintegrare la Germania
nell'antica fede, soccorrere l'Inghilterra nell'imminente sua crisi».
L'Italia diventava cosa universale, soprannaturale, sopranazione,
capopolo: gl'italiani erano i leviti della cristianità, Roma l'ombelico
della terra.

Era una risurrezione dell'antico primato cattolico prima che la grande
riforma di Lutero lo spezzasse, e le nazioni si individualizzassero
storicamente nel concetto della propria sovranità; ma doveva essere pure
l'inevitabile termine di quella scuola reazionaria-religiosa, che,
sbigottita dalla rivoluzione francese ed incapace di sbrogliarne i
principii, cercava nella storia nazionale un centro ove fortificarsi.
Infatti, rinunciando ai dogmi rivoluzionari dell'eguaglianza civile e
della sovranità individuale e nazionale, e discendendo nel passato
italiano, l'unica idea unitaria era ancora quella del papato. Per esso,
come centro del cattolicismo, l'Italia era ancora una originalità e un
valore nella storia moderna. Rosmini, meglio temprato e più equilibrato,
tendeva alla costituzione di un partito nazionale guelfo, senza
precisargli nè programma, nè fisonomia per opporlo all'oppressione
straniera, lasciando nella _Filosofia del Diritto_ il diritto politico
sulle vecchie basi, e quindi la storia contemporanea nella vecchia
assisa e colle immutate relazioni da suddito a sovrano di diritto
divino: così egli sperava si sarebbe potuto addivenire ad una
confederazione di principi italiani e ad una serie di riforme da essi
largite ai popoli, senza riconoscere a questi il diritto di discutere i
propri re. Per Gioberti, trascinato da un inconsapevole senso di unità,
che in Giuseppe Mazzini era già coscienza politica, il papa come anima
dell'Italia stretta intorno al papato come l'antica falange macedonica
troverebbe la libertà nella più assoluta disciplina religiosa; i
principi italiani non conservavano valore in faccia a Roma, lo straniero
lo perderebbe dinanzi al primato italiano necessario al mondo come
quello di Roma all'Italia; il popolo si comporrebbe nell'eguaglianza
religiosa e in una democrazia cattolica, che gli assicurerebbe una
specie di patriziato levitico.

Il genio latino, che, educato all'unità da oltre duemila anni di storia,
trovava la propria moderna unità politica in Mazzini capace di
comprendere nello stesso principio e nello stesso processo
rivoluzionario tutti i popoli servi d'Europa mentre più specialmente
s'adoperava al problema italiano, doveva così dare con Gioberti l'ultima
formula dell'unità italo-cattolica nello splendore di un paradosso
ingenuo a forza di fede, splendido nell'assurdo ed irresistibile di
logica.

Questa grande scuola cattolica, nella quale Rosmini era il filosofo e
Gioberti il tribuno, ebbe in Cesare Cantù lo storico mondiale. Giovane
ancora e con una operosità spaventevole, questi si accinse alla storia
universale accettandone per base i principii cattolici, il dualismo
degli ebrei col mondo antico, dei cristiani col mondo di mezzo, dei
cattolici col mondo moderno; e scrisse una opera immensa di mole,
naturalmente più vasta che profonda, superando Bossuet di quanto un
libro può superare un discorso, copiando, riassumendo, compilando,
servile ed originale, sincero e partigiano, nobile nell'intenzione,
altero nel metodo, fiacco nei criteri, ammirabile ed ammirato nella
disposizione della materia e nel vigore dell'interpretazione religiosa.
Egli fu ancora un campione di quell'unità che affaticava tutti gli
spiriti italiani, e un rappresentante della reazione romantico-religiosa
che gettava le coscienze in braccio a Roma col doppio spavento delle
negoziazioni rivoluzionarie francesi e del trascendentalismo germanico.

Ma a questa corrente presto si opposero in nome di un nazionalismo
scientifico e filosofico Giuseppe Ferrari e Carlo Cattaneo, ai quali
s'aggiunsero, minori d'ingegno e più veementi all'assalto,
Bianchi-Giovini ed Ausonio Franchi, questi dialettico poderoso, quegli
polemista stringato. Giuseppe Ferrari, ingegno di filosofo-storico ben
altrimenti superiore a Cesare Balbo, che lo fu nella reazione religiosa
investigando i primi secoli della letteratura cristiana, doveva poi dare
all'Italia nella storia delle sue rivoluzioni il più profondo ed
originale studio delle stesse, e vecchio tentare nella _Teoria dei
periodi politici_ l'estrazione della legge matematica dalla storia per
assoggettarne tutti i momenti alle previsioni del calcolo. Cattaneo,
filosofo della scienza, vi disseminò l'opera propria, richiamando
gl'ingegni divaganti alle fatali modernità della vita e propagando nel
disprezzo degli apriorismi metafisici le verità accertate
dall'esperienza per educare al culto di una ragione, che bastasse a se
stessa. Entrambi furono federalisti, iniziando una nuova scuola di
rivoluzionari, che dalle ardenti utopie dell'unità republicana o
cattolica e dalle timide sottomissioni dei riformisti ostinati a sperare
dalla conversione dei principi miglioramenti politici od amministrativi,
spingevano all'esame del passato italiano per associarlo non all'unità,
primo termine della rivoluzione moderna, ma all'associazione che,
essendone il secondo, ne diventerà il trionfo. Così dall'antica storia
federale italiana, saltando il processo violento dell'unità, necessario
a costituire la moderna individualità politica, arrivavano al futuro
federalismo etnografico che esprimerà davvero tutte le varietà del
popolo. Ma questo, che politicamente era allora un errore, diventava
rivoluzionariamente una colpa, dividendo le forze della rivoluzione.
Nullameno l'empietà del loro pensiero, illuminata dalla sincerità della
loro vita, giovava all'emancipazione del carattere nazionale dalla
schiavitù della morale religiosa, mutata in argomento politico dal clero
e riconsacrata dalle affermazioni della scuola neo-guelfa.

Intanto l'efficacia della propaganda letteraria, che i capi della scuola
della rivolta aumentavano ogni giorno scrivendo nuovi libri o patendo
nuove torture, conciliava le divergenze dello stesso pensiero
rivoluzionario nello scopo comune di un'indipendenza italiana. In questo
convenivano tutti, meno i preti e i più abbietti cortigiani. E
d'indipendenza fremevano i giovani infiammati dall'arte della parola,
del pennello o della musica a più alti propositi; Bezzuoli dipingeva
_Carlo VIII_ come protestando; Sabbatelli malediceva nell'_Aiace_;
Rossini dalla commedia di _Figaro_, vibrante d'immortale giocondità,
saliva nel _Mosè_ alla tragedia di un popolo schiavo, esalando nel pieno
de' suoi cori la passione di un odio e di una speranza, che solo la
morte dell'oppressore poteva consolare. Poi nel _Guglielmo Tell_ la
tragedia diventava radiosa epopea: il popolo era passato dalle congiure
alle battaglie, e la sua vittoria squillava superba di balza in balza
sino ai piani d'Italia ove quello stesso straniero invasore la sentiva
rabbrividendo come una sfida. Bellini, strappato dal ciclone
rivoluzionario alla soavità di un idillio ineffabile, e gittato come un
sonnambulo in mezzo alle terribili tribù druidiche, ne ripeteva nella
_Norma_ gl'irresistibili inni di guerra contro Roma; mentre l'Italia
fremente d'entusiasmo guerriero guardava alle Alpi lontane se i Galli le
discendessero un'altra volta a combattere austriaci, principi e preti
dietro un nuovo Napoleone.

La Francia non pensava forse sempre all'Italia? Lamennais non aveva
esclamato, rivolgendosi dalle Alpi a contemplare gli incantevoli piani
lombardi; «Dormi, bella Italia, dormi tranquilla su quello che chiamano
il tuo sepolcro; io so che è la tua culla»? E questo augurio del grande
apostolo non valeva la desolata ingiuria di Lamartine così baldamente
rimbeccata dalla satira del Giusti? Napoleone I morente a Sant'Elena non
aveva affermata la futura unità d'Italia? Byron morente a Missolungi non
aveva proclamato la necessità d'una republica universale?

Intanto che la poesia ferveva nelle anime migliori, una rettorica
inesauribile scorreva per ogni scritto o discorso a riscaldare i più
freddi e ad eccitare i più restii; il romanticismo vi cooperava colle
proprie smanie, la moda la consacrava colla propria irresponsabilità. Si
declamava di guerre, di congiure, d'eroismo, di passioni, di genio; i
giovani si drappeggiavano nei mantelli, portando con vanitosa voluttà
armi nascoste; le poesie incendiarie sequestrate dalle polizie si
leggevano nel segreto di circoli come in convegno di congiurati, il
contrabbando dei libri proibiti dava loro il valore d'una battaglia
vinta contro il nemico, gli esuli e i martiri diventavano santi nelle
menti più fresche, l'odio allo straniero cresceva a furore mal
rattenuto, quello al prete inveleniva nel disprezzo. Nelle scuole si
coglievano a volo le allusioni dei professori liberali per esagerarle
con strepitose ovazioni, le imprudenze abituavano al coraggio, il
coraggio vero si addestrava al pericolo. Ma poichè il popolo non
partecipava a questa effervescenza spirituale della borghesia,
naturalmente la rettorica doveva esserne il difetto, quella ampollosità
del pensiero e della parola, del sentimento e dell'azione, che
sgonfiandosi al cozzo della realtà lascia tanto disgusto anche nei
migliori; e nullameno quella rettorica, oggi così ridicola per la
maggior parte de' critici, era allora non solamente l'inevitabile
malattia d'un'idea costretta ad esagerare la propria passione per
diffondersi, ma un vero ed efficace modo di diffusione nelle masse
incapaci di sentirne la verità nella nuda ideale bellezza.




CAPITOLO QUARTO.

Giuseppe Mazzini e la Giovine Italia


La rivoluzione dell'Italia centrale nel 1831, chiudendo il periodo dei
tentativi regionali iniziato coi moti del '20 e del '21, aperse l'altro
più fecondo del federalismo e dell'unità. Questa ebbe a campione
Giuseppe Mazzini, del quale l'apparizione politica colla lettera anonima
indirizzata a Carlo Alberto fu come uno scoppio di fulmine
nell'atmosfera torbida della vita italiana, che diradandola lasciò
vedere nell'avvenire un'idea precisa.

Niuno prima lo conosceva; all'indomani era già celebre.

La sua prima ed incancellabile impressione di fanciullo era stata
l'esodo dei rivoluzionari vinti nel 1821; nel 1828 fondava un giornale
letterario a Genova sua patria, l'_Indicatore Genovese_; soppresso
questo, l'anno dopo con Guerrazzi e con Bini ritentava a Livorno
l'_Indicatore Livornese_, agitandovi, fra questioni letterarie che
rivelavano già una critica superiore, idee politiche incredibili di
temerità e di precisione. Incarcerato alla rivoluzione di luglio con
altri liberali come reo di carbonarismo, e lo era, quindi esigliato per
sempre, riparava a Marsiglia. La continua pensierosità e il pallore, che
lo avevano reso sospetto al governatore genovese Venanson, esercitavano
sino d'allora uno strano fascino su quanti lo conoscevano. Quindi la
fallita rivoluzione dell'Italia centrale lo rivela a se medesimo:
l'Austria aveva già occupato metà della penisola, il governo papale,
protetto da essa, si abbandonava a feroci reazioni, la Francia di Luigi
Filippo tradita tradiva: gli italiani disperavano per l'ultima volta. Il
momento è ineffabilmente tragico; a Torino, a Milano, a Modena, a
Firenze, a Napoli il dispotismo si rialza spavaldo nella coscienza di
essere invincibile; la forza morale dell'idea soccombe alla violenza
brutale dei fatti. I più lucidi intelletti si abbuiano, i più forti
cuori si accasciano. La carboneria esaurita nel ridicolo di tre
sconfitte si disperde negli esigli, offrendo a popoli più capaci
d'insorgere i più intrepidi fra i propri cospiratori; dalle corti
nessuna lusinga di riforme costituzionali, nessuna possibilità di
accordo federativo contro lo straniero. La bandiera nazionale, difesa
strenuamente a Rimini dall'ultimo pugno di ribelli, è rimasta sotto un
mucchio di cadaveri, lenzuolo troppo breve e non abbastanza glorioso per
salvarli dalla ferocia del vincitore e dall'ironia del popolo educato al
codardo rispetto di ogni tiranno.

Quindi Mazzini, afferrandola improvvisamente, la sbatte sul volto dei
moderati, che l'avevano lasciata cadere nel fango, a Parma, a Modena, a
Bologna, ad Ancona: si separa dalla carboneria, e solo, senz'altra
autorità che la propria coscienza, altra forza che il proprio genio,
sconosciuto a tutti, tratta quasi minaccioso con Carlo Alberto, nuovo re
e vecchio traditore, gettandogli il perdono e la corona d'Italia, se la
purghi dai despoti indigeni e stranieri; si rivolge alla sconosciuta
gioventù, che educata fra il disastro di due rivoluzioni, vergine ed
incolpevole, può sola ripararvi col trionfo di una terza. Le nuove
persecuzioni che esasperano ogni onesta coscienza, e l'emigrazione di
coloro che non possono e non vogliono sottomettersi all'insaziabile
tirannide delle polizie, gli porgono le prime attenzioni e i primi
compagni: lo stesso slancio republicano della Francia non era ancora al
tutto represso. Qualche brivido scuoteva tuttavia l'Italia: Belgio e
Polonia, l'uno vittorioso e nullameno in cerca di un padrone
costituzionale, l'altra eroicamente ostinata in una insurrezione
nazionale ma aristocratica e quindi senza speranza, contraddicevano alle
affermazioni della Santa Alleanza; la recente monarchia di Luigi
Filippo, nata di rivoluzione, conteneva in germe un'altra rivoluzione;
un periodo storico stava per aprirsi alla gioventù, che, non avendo
conosciuto la democrazia imperiale di Napoleone, era spinta dal moto del
secolo verso la democrazia republicana.

Mazzini si gettò nella tormenta, fondando simultaneamente il giornale e
la società della Giovane Italia.

L'uno e l'altra erano e dovevano restare la maggiore originalità
politica e letteraria di questo secolo in Italia.

La sua idea è semplice ed universale.

All'unità romana che abbracciava tutto il mondo antico, all'unità
cattolica che involgeva ancora il mondo moderno oltrepassando sempre
l'Italia ed immobilizzandosi in Roma, all'Italia federale dei comuni,
delle signorie, dei principati, dei regni, egli contrappone l'Italia
una, individuata in nazione, colla sovranità del popolo, libera,
originale nella modernità dei principii proclamati dalla rivoluzione
francese, cancellando con ingenua ed eroica astrazione tutte le
differenze storiche, gli antagonismi regionali, i dissidi politici, le
rivalità economiche, le varietà etnografiche, che vecchie di tremila
anni le componevano ancora tutto il presente. Nessuno non nato nel
secolo può quindi appartenere alla nuova società, che sostituisce la
carboneria sorta nell'impero e succeduta alla massoneria del medio evo.
Questa non è condizione di capitano, che esige reclute giovani per
arrivare a marcie più rapide, ma un distacco storico di principî e di
epoca. Il passato è conchiuso: l'Italia o non sarà, o sarà nella
rivoluzione e per la rivoluzione francese. Veterani e residui non sono
più vitali; la libertà della nazione non può derivare che da quella
dell'individuo come l'individualità collettiva dalla singolare; la
sovranità popolare mena inevitabilmente alla republica. Ogni transazione
sarebbe contraddizione, tappa inutile, consumo gratuito di forze. Il
mito della redenzione di Cristo deve sostituirsi colla realtà di
redenzione operata da ognuno in se stesso: tutti gli sforzi debbono
concordarsi, ma nessuno può salvare un altro. Ogni individuo singolo o
collettivo deve creare se stesso: l'Italia farà da sè.

Principi, governi, leggi, ogni forza pubblica del suo passato cessano di
appartenerle, giacchè, cassate dalla rivoluzione francese e riconfermate
dalla reazione della Santa Alleanza, hanno perduto persino la
legittimità della tradizione: la storia non ha ripetizioni perchè la
vita non può avere risorti. La rivoluzione sarà quindi contro spettri.
L'Italia dominata da fantasmi non è più sottomessa che a pregiudizi:
basterà pensare per non credere, sentire per resistere, muoversi per
vincere. La coalizione degl'interessi come non arrestò mai così non
arresterà l'espansione delle idee. La coscienza italiana fatta solamente
di passato non ha che memorie; la coscienza rivoluzionaria le darà colle
idee i sentimenti della vita moderna. Ma Dio è nella coscienza
rivoluzionaria, perchè Dio è eterno, e la rivoluzione francese perì per
averlo dimenticato.

La rivoluzione francese secondo Mazzini, è l'ultimo trionfo
dell'individualismo, la formula suprema del diritto, alla quale deve
succedere quella del dovere sociale.

La nuova società è dunque politica e religiosa: una riforma vi dovrebbe
precedere la rivoluzione; l'educazione ne sarà mezzo e scopo, poichè la
personalità morale è il primo e ultimo termine della storia e della
vita. Se le altre sètte politiche non avevano mirato sino allora che a
rimutare governi, opponendo coalizioni di diritti costituzionali a leghe
di privilegi regali, e, costrette a concentrarsi nell'ombra, si erano
poi miseramente disperse affacciandosi alla luce; la Giovane Italia si
annunzia per proclami, publica statuti, battaglia nei giornali, si
effonde in predicazioni. Parrebbe un moto religioso: la sua forma
letteraria è biblica e romantica, la sua passione puritana, il suo
proposito educatore, le sue armi le virtù. Dio, presente nella coscienza
e nell'opera, è al tempo stesso rivelazione e ragione. Mancano dogmi,
riti, l'esteriorità di una nuova religione, ma il principio cristiano vi
si riconosce al primo sguardo nell'espressione vaga, che poi si
condenserà senza precisarsi nella setta oggi celebre dell'unitarismo;
deismo precettivo e morale, poesia fervida e pedante, generosità ed
equità ammirabili.

Il mondo storico nelle sue varie composizioni politiche vi perde colla
nettezza dei contorni ogni imponenza materiale; le difficoltà di mutarlo
entro la nuova idea rivoluzionaria non hanno valore dal momento che il
sacrificio diventa dogma e il martirio apoteosi; l'identità morale
degl'individui cancella le rivalità storiche; ovunque e sempre,
nell'individuo e nel popolo, la vita è missione cosciente e subordinata
a un decalogo sempre morale anche nei mezzi, indirizzata al bene col
bene, senza ricompensa sulla terra e senza premio nel cielo, collo scopo
di un progresso senza meta, nel quale nessun grado potendo essere
stazione, nessuna felicità è possibile a nessuna generazione. Non
importa. La trascendenza dell'idea morale in Mazzini alza il nuovo
politico ad apostolo: la sua visione non è di un'Italia libera e ricca,
che si riunisca alle altre grandi nazioni per fare anzitutto il proprio
interesse e guadagnare fra esse il posto migliore, ma di un popolo già
schiavo e rigenerato da un'idea religiosa, il quale si levi sacerdote ed
esempio all'umanità. L'utopia di Gioberti traspare sotto quella di
Mazzini: l'uno è ultra-cattolico, l'altro ultra-morale, entrambi
cristiani; quegli nel dogma, questi nei concetti; Gioberti nella
tradizione, Mazzini nella rivoluzione: per ambedue la religiosità è base
della politica, e la rigenerazione unico modo di risurrezione.

Impetuoso come Lutero, austero come Knox, inflessibile come Calvino,
riformatore prima che rivoluzionario e nullameno separato dal secolo che
vuol guidare, solitario come tutti gli apostoli malgrado la folla che lo
circonda, malinconico e casto, poeta e filosofo, temerario ed incerto,
ingenuo ed astuto, con istinti infallibili e colla percezione falsa o
sublime del reale che distingue i profeti, Mazzini è al tempo stesso il
padrone e la vittima della propria rivoluzione. Vi è della donna e del
prete nel suo cuore. Artista incompiuto e pensatore eccelso quantunque
angusto, rimane e rimarrà sempre inconciliabile colla sua stessa vita
politica; così attraverso ammirabili vicende, che riveleranno in lui
eccezionali virtù, non avrà mai l'irresistibile inconscio degli uomini
d'azione come Napoleone I e Garibaldi, la serenità artistica di Goethe,
l'impassibilità divina di Hegel, la duttilità infrangibile di Cavour,
l'elasticità tribunizia di Gambetta; ma nullameno la sua parola si
propagherà come un contagio, la sua purezza religiosa rischiarerà
l'anima nazionale, l'eroismo della sua utopia spronerà alla vittoria
dopo il martirio, la sua fede vincerà tutti i dubbi, la logica della sua
argomentazione repubblicana, smentita in ultimo dal fatto della
monarchia dei Savoia, avrà sconfitto la federazione coll'unità e ridotto
il principio monarchico a non essere più che un accessorio dell'idea
democratica.

Al pari di ogni novatore, Mazzini sarà al tempo stesso rivoluzionario e
reazionario, respingendo e negando quante idee non s'accordino colla
sua: credente nel popolo sino alla credulità, invece di coglierlo nella
sua vera e sconfortante fisonomia di allora, lo vedrà sempre nel
miraggio di una astrazione, e quindi capace d'insorgere ad ogni ora e
d'intendere le nuove rivelazioni. Così egli accusa delle rivoluzioni
fallite nel '21 e nel '31 solamente i capi: le masse erano tutte
italiane, parate alla morte e alla vittoria. Nella sua democrazia
geometrica quanto quella di Rousseau, col quale ha religiosamente molte
somiglianze, egli concepisce l'uguaglianza politica come nel _Contratto
Sociale_; tutti elettori e tutti eleggibili, rappresentanza unica e
quindi costituente in permanenza: non classi e perciò non equilibrio e
contrappesi parlamentari fra loro, educazione nazionale, dovere sempre
superiore al diritto e la capacità nel popolo di compierlo sempre.
Quindi l'utopia italiana, raddoppiata in lui dalla tradizione delle
unità mondiali d'Italia, lo trae all'utopia europea: alleanza santa dei
popoli contro quella dei re, qualunque differenza di grado nella civiltà
e nella storia di ogni popolo cancellata, insurrezione europea
concordata e simultanea. L'efficacia della sua riforma deve trionfare di
tutto; imperi, regni, dinastie, diplomazie, antagonismi di razze,
diversità di religione e di costume, tutto si dissolverà colla
rivelazione del nuovo verbo. Il suo fervore religioso arriva al lirismo
più poetico, sfolgora in formule di filosofia socratica e cristiana, che
hanno la luce di un baleno e la soavità di un sorriso.

Poi, discendendo all'azione ed inculcandola, prosegue imperterrito
nell'illusione dell'opera propria: la sua società della Giovine Italia,
cresciuta a Giovine Europa, deve compiere il miracolo della
trasformazione universale: egli non tien conto nè dello stato delle
scienze nè di quello della filosofia; come incredulo di tutti i culti,
non li calcola; sempre assorto nelle altezze della propria democrazia,
giudica la rivoluzione francese piuttosto conclusione che inizio di
epoca. Ma quando il socialismo gli si parerà dinanzi colla terribilità
delle sue negazioni atee e passionate, inevitabili in tutte le
novazioni, Mazzini indietreggerà inorridito, additando il cielo reso da
lui stesso deserto coll'espulsione del Dio cattolico.

Ma in questo misticismo politico-religioso ferve l'anima più italiana
che dopo Dante e Michelangelo sia apparsa nella storia. Le sue
contraddizioni stesse formano la sua gloria, rispecchiando
l'incalcolabile mistura del popolo da lui incarnato. Quindi Mazzini
vuole essere tutto, si crede avere le più disparate attitudini:
letteratura, critica, arte, filosofia, economia politica, poi la guerra,
la cospirazione, l'erudizione, la filologia, la bibliografia; sentenzia
su tutto, subordina tutto alla propria idea, livella tutto col traguardo
di un solo teorema. Passioni, interessi, vizi per lui non sono forze e
nemmeno realtà, perchè il difetto non è mai che negazione: li trascura,
non s'accorge che, non mutandoli in armi per la rivoluzione, saranno
armi contro di essa. Nella sua fede non vuole e non può ingannare il
popolo; e la politica è l'inganno sublime, che il genio fa al buon senso
angusto delle masse e all'avarizia del loro interesse, conducendole dove
non intenderebbero o non saprebbero andare. In lui il riformatore vizia
il rivoluzionario. Gli manca l'odio, questa forza suprema delle
rivoluzioni: ha lo sdegno del profeta e il perdono del martire; se
qualche volta sacrifica pochi cospiratori a un'impresa pericolosa, non
giunge mai all'impassibilità pessimista di considerarli semplici
strumenti. La moralità del suo cuore e del suo sistema lo inceppa; può
arrivare al regicidio non alla strage, all'insurrezione non alla guerra
civile, alla dittatura non al terrore; tradito non sa tradire, e si
arrochisce in predicazioni spesso sublimi ed inutili; si batte inerme,
ma sempre ferito non si arrende mai. Laonde isolato a poco a poco si
falsa, la divinazione delle prime ore non gli si ripete più che a lunghi
intervalli; profeta ed apostolo, pontefice e martire, non può essere il
capitano delle moltitudini, delle quali non ha le passioni effimere e
colle quali gli mancano le affinità irresistibili della vita. Invece di
cogliere i fatti per adagiarsi in essi, bada a collocarvi le proprie
formule e ad attuarvi il proprio sistema: è un poeta dell'azione che
cerca uno scenario al proprio dramma, un accompagnamento al proprio
canto.

Ma la sua influenza sulle anime è irresistibile. Alfieri, Foscolo,
Berchet, Guerrazzi, gli spiriti più ardenti e sdegnosi paiono larve
vicino a lui: egli solo è uomo; la sua penna gronda sangue, le sue
lagrime abbruciano, la sua parola abbaglia. È impossibile non credere
all'Italia, non sentirsi democratico, non voler soffrire e vincere con
lui, dopo averlo letto o udito. Per quanto insufficienti le sue
argomentazioni, e discutibili i suoi espedienti rivoluzionari, e poco
probabile il disegno totale dell'impresa, e assurda ogni speranza nel
risultato, bisogna credergli e seguirlo. Quindi nel giorno della
battaglia tutti i volontari saranno suoi neofiti; quando si organizzerà
la rivoluzione tutti i partiti politici, che lo tradiranno, saranno
stati educati da lui. Ma allora il temperamento religioso e il genio
poetico tradiranno Mazzini peggio de' suoi medesimi adepti; egli non
saprà essere nè parlamentare, nè diplomatico; gli antagonismi politici
lo coglieranno sprovveduto, le passioni e gli interessi non si
accorderanno nella sua opera; parrà confuso, incerto, quasi piccolo,
finchè il vento della catastrofe, dissipando il polverio delle
quotidiane contraddizioni, non scopra nella caduta della repubblica
romana la più grande tragedia della storia moderna. Allora Mazzini ne
dirà gli ultimi versi, ed esulando da Roma, dopo avervi distrutto il
papato, apparirà grande quanto S. Pietro, che diciotto secoli prima vi
arrivava esule da Gerusalemme per distruggere Roma pagana e fondarlo.

Costituendo la Giovine Italia Mazzini afferma l'Italia una e
repubblicana: il voto di Alfieri, di Parini, di Foscolo, di Monti, di
Manzoni, di Berchet, di tutti i poeti si condensa in programma: l'unità
accennata dal Romagnosi, propugnata confusamente dal Gioia in un
opuscolo, non solo si muta in dogma, ma è finalmente sostenuta con fede
incrollabile e con disciplina di argomenti storici e politici contro
tutti i partiti italiani. Unità e repubblica: dunque guerra a tutta
Italia e l'Europa di allora. Il passato è respinto; non esiste più che
l'avvenire. La logica di Mazzini è tanto meravigliosa di lucidezza e di
passione, quanto deboli le sue proposte per concretare la rivoluzione.
Le antinomie della sua natura religiosa e rivoluzionaria peggiorano la
sua già debole posizione. Rivoluzionario come Robespierre e Danton, non
dovrebbe pensare che a distruggere, sbrigliando le passioni e versando
veleno sulle piaghe del popolo: nel suo primo momento una rivoluzione
non può essere che negativa, l'odio solo è la sua formula, tutte le
armi, specialmente se cattive, le servono. Invece Mazzini è religioso, e
mira piuttosto a rigenerare il popolo che ad emanciparlo: la rivoluzione
politica per lui è mezzo, e i mezzi delle rivoluzioni, essendo
fatalmente immorali, gli sfuggono. Egli non pensa nemmeno alla
possibilità di giovarsi con interessi monarchici o aristocratici: non sa
blandire le altre società liberali moderate per assalirle poi: non gli
rimangono dunque che la propaganda degli scritti, la grandezza dell'idea
e l'eroismo della vita.

Nell'esame storico, che egli fa dell'Italia, coglie bensì lo stato di
putrefazione avanzata di tutte le monarchie, ma non indovina perchè il
Belgio vittorioso nella propria rivoluzione s'imponga un re, perchè la
Francia, dopo le trionfali giornate di luglio, si sottometta a Luigi
Filippo, perchè la Grecia emancipata dal Turco accatti un re in
Germania, perchè la Spagna in preda ad una rivoluzione permanente non
voglia rinunciare alla propria infame dinastia. Per lui queste
contraddizioni delle vittorie repubblicane, che concludono sempre
all'elezione di un re, sono l'opera ribalda di pochi politicanti: il
popolo schiettamente democratico è sempre stato tradito. Ma chi può
tradire un popolo? Chi imporglisi? Di questa triste verità, che il
popolo ancora dominato dalla tradizione autoritaria non può nè
comprendere nè volere la repubblica, egli nemmeno sospetta: quindi non
suppone che l'Italia, sorpassando la federazione, possa acquetarsi in
una unità monarchica quanto la stessa federazione distrutta. E questo
che era il termine più prossimo di progresso per allora, e che poi
trionfò, gli pare non solo assurdo ma un regresso. Per lui la conquista
d'Italia operata da una monarchia sarebbe un raddoppiamento di tirannide
nel re e di abbassamento nel popolo.

L'unità è per Mazzini indipendenza, la repubblica libertà: inutili
entrambe e paradossali se non siano unite.

Il programma della Giovine Italia non è dunque quello di un partito, ma
di un sistema: anzi il partito è poco più di una scuola politica, con
questo incalcolabile vantaggio sulle altre di essere una scuola in
azione.

La nuova società si sviluppò vivacemente: i fratelli Ruffini, l'uno
immortalatosi col suicidio, l'altro più tardi nelle lettere,
corrispondevano da Genova con Marsiglia; da Livorno aiutavano il
Guerrazzi e il Bini benchè per diversità d'indole poco inclini alla
religiosità del nuovo moto: presto in Francia, in Spagna, in Svizzera,
ovunque fossero emigrati, sorsero le nuove congreghe. Intorno a Mazzini
stavano stretti il La Cecilia, il Modena moderno Roscio, il Campanella,
il Benza ed altri. Il loro giornale, presto guerreggiato da Luigi
Filippo, accontatosi colla santa alleanza per ottenere il proprio
riconoscimento, dovette celarsi ed uscire di contrabbando. Tale lotta
drammatica fu sostenuta dai giovani collaboratori con virtù pari
all'ingegno.

La società, attraverso il misticismo un po' vuoto di formule morali e
religiose, ricopiava nell'organizzazione segreta le sètte antecedenti,
solo diminuendone la teatralità delle iniziazioni: il suo motto «ora e
sempre» valeva la più bella delle odi patriottiche; la sua bandiera
bianca rossa e verde, che diventò poi nazionale, era dono della duchessa
Trivulzio, donna illustre per ingegno e per amori anche più illustri, e
da un lato recava «Libertà Uguaglianza Umanità», dall'altro «Unità ed
Indipendenza». Vi erano due gradi nella società, iniziato e propagatore,
poi un giuramento lirico come un inno e rettorico come una declamazione,
segni di riconoscimento, gerarchie di congreghe, tutto un organismo
imitato dalla carboneria. Scopi della società erano la repubblica una ed
indivisibile, la distruzione dell'alto clero per sostituirvi un semplice
sistema parrocchiale, l'abolizione di ogni aristocrazia, la promozione
illimitata della pubblica istruzione, una specie di nuova dichiarazione
dei diritti dell'uomo, considerando transitori tutti i governi non
repubblicani.

I mezzi d'azione consistevano nell'unanimità dei propositi, nella
propaganda fra il popolo, nell'armamento di ogni confederato, pel quale
era già stabilita l'assisa, con previdenza teatrale, nella speranza di
costituire bande e di sedurre milizie regolari.

Evidentemente la nuova società non era un gran progresso sulle altre, nè
come organismo nè come mezzi, ma il suo programma politico, sceverato
dal paralogismo religioso, era una rivelazione. Per la prima volta in
Italia intenzione, volontà, concetto, disegno, tutto era schiettamente
democratico. Italia e repubblica, unità e libertà; il resto era
romanticismo del tempo e che il tempo avrebbe guarito.

Mazzini stese il programma, dichiarando guerra a tutti i principi
italiani e indirizzandosi al popolo. La nuova idea utopistica si divulgò
colla rapidità di un uragano. Le declamazioni letterarie di tutti gli
altri scrittori aiutavano: si poteva temerne impossibile l'applicazione,
non ricusarsi a sperarla. I principi risposero male all'attacco,
calunniando e perseguitando i nuovi rivoluzionari, che la persecuzione
abbellì e fortificò. Il giornale, spedito con ammirabili sotterfugi, fu
ricevuto e diffuso con rischi di morte; Mazzini grandeggiava di stile,
sfolgorando nella passione delle battaglie e badando a scendere in campo
davvero con una spedizione nell'alta Savoia. Le simpatie dell'Europa
rivoluzionaria si rivolgevano a questa Giovine Italia, che nel proprio
slancio poetico comprendeva già il problema della libertà europea in
quello della liberazione italiana; le vecchie sètte liberali erano
screditate dagl'insuccessi patiti e senza idee, le corti più odiate che
temute, tutti i loro governi senz'altro programma che la reazione.

Il giornale della Giovine Italia dichiarò i sottintesi e compiè le
reticenze degli scrittori, che rimasti in patria dovevano per forza
conservarsi guardinghi: la sua sfida alla coalizione monarchica
inorgoglì l'oppressa dignità di tutti gli italiani. Un uomo solo aveva
osato dire e fare quello, cui un'intera nazione non era bastata. Il tono
mistico di Mazzini, concordando colla religiosità della reazione
cristiana succeduta alla rivoluzione francese, rendeva più accette le
arditezze della sua democrazia; il suo coraggioso abbandono di ogni
spirito regionale sollevava le anime dal peso di una tradizione, nella
quale l'idea era morta. Se i governi non si sentirono istantaneamente
scrollati dalla nuova setta, avvertirono però subito la giustezza
terribile della nuova propaganda, senza potervi riparare efficacemente.
La stessa debolezza del partito mazziniano ad agire lasciava più libera
l'espansione delle sue idee, quasi non fosse che una propagazione
letteraria. L'irritazione delle vecchie sètte liberali, spodestate dal
favore crescente di questa nel popolo, bastò a condannarle nel
sentimento generoso della gioventù.

Mazzini intanto facevasi nel giornale eco di tutti i lagni d'Italia,
denunciando le infamie delle polizie e trattando ogni sorta di
questioni; rimbeccava la gazzetta del duca di Modena, discuteva con
Sismondi, allora riverita autorità, e passava oltre; annullava con
critica superba di sdegno patriottico tutti i capi delle passate
rivoluzioni, affermando nella propria idea della repubblica italiana il
segreto di una imminente vittoria. Ma sopratutto parlava di popolo col
popolo, che nessuna setta aveva ancora degnato di calcolare come
elemento rivoluzionario; predicava una democrazia, che solo nelle masse
poteva ottenere il proprio trionfo, perchè esse sole erano il popolo.
Quindi, svisando storia e letteratura nazionale con una incomparabile
sofistica, sincera a forza di essere passionata, mostrava a tutte le
epoche il principio della libertà e della unità italiana e repubblicana
come anima del popolo e di tutti i grandi, denunciava combattendole le
fatalità tiranniche della monarchia e del papato, difendeva il
cristianesimo e lo epurava, proponeva e stringeva alleanze a modo dei
governi colla Giovine Allemagna e colla Giovine Francia, spiegava la
missione degli individui e dei popoli in un vangelo contro il quale
nessuna critica poteva prevalere. Naturalmente i liberali moderati
ricalcitravano, ma i loro propositi troppo prudenti e le loro idee di
federazione fra i principi italiani, egualmente utopistiche che
l'immediata repubblica di Mazzini, non potevano lottare con questa
nell'animo bollente della gioventù. Poi Mazzini tuonava alto
sull'Europa, ed essi balbettavano appena, e nessuno di loro era ancora
abbastanza italiano per posporre l'interesse della propria provincia a
quello della nazione.

Nessuna figura di principe, di prete o di ribelle era allora in Italia
che potesse rivaleggiare con quella di Mazzini: la sua popolarità
divenne quindi immensa. Non si discusse, non si temè, non si sperò che
in lui: la coalizione monarchica, guidata da Metternich, aiutata dal
papa e da Luigi Filippo, non bastava contro questo profugo, di cui ogni
scritto era una battaglia e ogni battaglia una vittoria.

Allora che il giornalismo in Italia era meno che rudimentario, l'opera
di Mazzini, che vi discendeva collo splendore di una letteratura più
potente di quella del Guerrazzi stesso e del Manzoni, avendo dell'uno
una passione anche più nobile e dell'altro uno stile anche più vivo,
ebbe i trionfi irresistibili del più originale fra i capolavori.

Forse la prima volta in Italia uno scrittore fu acclamato anzi che la
critica lo avesse accolto; ma anche questa volta Mazzini, creando la
prosa moderna, ripetè il miracolo di Machiavelli, che aveva trovata la
propria dimenticando nella passione delle idee i lenocinii e le
tradizioni delle scuole letterarie.




CAPITOLO QUINTO.

Conati ed imprese rivoluzionarie


                                  La spedizione nella Savoia.

La rivoluzione dell'Italia centrale aveva lasciato nei patriotti un
fermento, del quale Mazzini fu pronto a profittare. Oramai si cominciava
a comprendere che i moti rivoluzionari non potevano essere nè spinti nè
diretti da principi, e che senza un largo concorso di popolo non
sarebbero mai per riuscire. Il nuovo programma della Giovine Italia
aveva almeno il vantaggio di principii e di obiettivi fin troppo chiari:
anzichè sognare l'indipendenza da impossibili combinazioni diplomatiche,
la domandava a tutte le virtù degli individui e del popolo. Se la forma
delle passate rivoluzioni era stata l'insurrezione, quella della
imminente non sorpasserebbe naturalmente la sommossa, giacchè la grossa
massa, popolare, incapace di assecondare la spinta rivoluzionaria,
abbandonerebbe daccapo i nuovi ribelli.

Il lavoro di ricostituzione nella coscienza nazionale procedeva ancora
troppo lentamente, malgrado la generosità dei molti che vi cooperavano,
perchè il problema della patria indipendenza si presentasse solubile.
L'Austria, immensa ed agguerrita, teneva l'Italia inerme tra le forti
branche; tutte le corti italiane per codardo ed inevitabile egoismo si
stringevano sotto il suo protettorato, preferendo la propria miserabile
vita di prefetture imperiali ai pericoli di una rivolta, nella quale
avrebbero dovuto assoggettarsi al popolo. Questo sentiva bensì gli
incomodi materiali del dispotismo indigeno, ma la sua inesauribile
pazienza di schiavo vi resisteva senza troppo dolore, mentre non
intravedeva affatto le necessità ideali di una rivoluzione contro
eserciti addestrati nelle armi e di tutte le armi muniti. L'antico
rancore contro i privilegi dei grandi e quella poesia indefinibile, che
lo attrae sempre verso l'avvenire, non bastavano a scuotere l'enorme
massa della sua moltitudine entro l'àmbito angusto dei mestieri. Anzi
nelle campagne, ove l'opera del clero era più efficace e più spontanea
la superstizione, i villani odiavano i liberali come eretici, godendosi
per egoismo avaro di mezzadri o invidia implacata di braccianti alle
persecuzioni contro i padroni: a Napoli la plebaglia dei lazzaroni,
sempre ostile ai signori, gettava con selvaggia compiacenza i propri
lazzi sui condannati politici, come scorgendo nel feroce trattamento
loro usato dal governo una tarda parificazione a quello sempre sofferto
da essi.

D'altronde gli eserciti napoletani e piemontesi, quand'anche i loro re
si fossero decisi alla rivoluzione, non avrebbero bastato contro
l'Austria, potenza militare che Napoleone stesso non era riuscito a
fiaccare. Mai l'Italia era stata militarmente in peggiori condizioni: il
breve addestramento delle guerre napoleoniche, producendovi capitani di
valore, non aveva creato nella penisola una scuola militare capace di
mantenervi così grande tradizione. I principi richiamati dalla
ristorazione si erano affrettati ad espellere i migliori soldati come
sospetti giustamente di ostilità, riconfermando negli antichi gradi
l'aristocrazia delle proprie corti: d'allora non più battaglie. Il
nemico era diventato la rivoluzione, e l'esercito un accessorio della
polizia: quindi fra esso e il popolo quella diffidenza fra cacciatore e
selvaggina, che è sempre passata fra popolo e polizia.

Dopo la rivoluzione del '31 la reazione crebbe: il duca di Modena, la
più forte testa di tiranno che fosse allora in Italia, spingeva al
terrore; Ferdinando di Napoli, il più lontano e il più saldo sul trono,
affidava il governo al truce Del Carretto; a Roma Gregorio XVI, energica
e biliosa natura di teologo, riassumendo con vigore la rilassata
autorità, si preparava a una suprema battaglia contro il liberalismo
religioso che minacciava di sommergere Roma per purificarla; Carlo
Alberto, arrampicatosi a stento sul vecchio trono dei Savoia,
s'accingeva a cancellare le tracce sanguinose del proprio liberalismo
giovanile con altro sangue, inebriandosi del nuovo potere di re, che la
libertà da lui tradita minacciava nuovamente; l'Austria, proseguendo
nell'astuta politica, dopo aver diviso amministrativamente la Venezia
dalla Lombardia quasi a risuscitarvi le antiche rivalità, ed ingrossata
Verona a massimo centro militare e come a terza capitale, vigilava con
una polizia ammirabile di disciplina ed aiutata nell'opera da tutte le
polizie d'Europa.

La situazione era disperata: Mazzini, temperamento lirico e religioso,
trovò appunto in essa la propria forza.

Vessato, calunniato d'assassinio dalla polizia francese, quindi espulso,
egli dovette riparare in Svizzera. L'opera della Giovine Italia si
dilatava: in Lombardia, nel Genovesato, in Toscana, negli Stati
Pontifici il fervore cresceva mirabilmente; più molle si mostrava la
Venezia, più remoto e retrivo restava il Napoletano, malgrado il suo
solito numero miracoloso di congiurati. Si pensò ad agire; i pareri
oscillavano naturalmente: si prescelsero a campo le Provincie sarde.
Giuseppe Garibaldi, arruolatosi a Nizza nella Giovine Italia, proponeva
coll'infallibile istinto dell'uomo di guerra, di cominciare da Genova.
Mazzini sostenne una invasione di esuli nella Savoia. Ma le trattative
tiravano in lungo; le polizie sarda ed austriaca, sempre vigilanti,
poterono per mezzo di spie scoprire la trama; Carlo Alberto, reso alacre
dalla paura e feroce dalla coscienza degli antichi tradimenti,
moltiplicò gli arresti, denigrò nella spaurita immaginazione della gente
i cospiratori, condusse i processi con inaudita perversità; le condanne
di morte e le esecuzioni capitali fioccarono; vi furono condannati nel
capo, solo per aver letto il giornale della Giovine Italia, altri per
aver avuto sentore di qualche trama e non averla tosto rivelata: alla
morte si aggiunsero sevizie come pel povero Vochieri. Jacopo Ruffini
arrestato a Genova, dalla quale aveva generosamente ricusato di porsi in
salvo, si suicidò scrivendo col proprio sangue sulle mura del carcere:
«la mia vendetta ai fratelli»; l'abate Gioberti fu esiliato. Mazzini
condannato in contumacia e dichiarato nemico della patria. Carlo
Alberto, ubbriacato dal sangue, conferiva le maggiori onorificenze ai
carnefici: il conte Galateri, peggiore di tutti, ebbe persino il collare
dell'Annunziata, che concede di salutare il re col nome di cugino.

A Milano, quasi contemporaneamente (1833), l'Austria sventava un disegno
di cospirazione iniziato specialmente da un Albèra e un Tinelli. Il
commissario Zajotti, scribacchiatore venduto all'Austria, infellonì, e
nullameno parve mite in confronto del Galateri: diciannove furono i
condannati a morte, ma a tutti fu commutata la pena nel carcere; così
l'Austria dava lezioni di benignità al Piemonte. Napoli non si mosse: il
Del Carretto arrestò un Leopardi e un Dragonetti, sospettati capi di
vasta congiura, ma poi, non scoprendosi altro, le pene si limitarono a
pochi esigli.

Veramente queste repressioni furono piuttosto una mossa poliziesca che
un riparo contro un disegno di cospirazione politica. Nessun accordo di
mezzi o di ordini aveva riunito i vari centri di congiura: erano
impazienze che si scoprivano quasi spontanee prima di sapersi affermare,
sogni d'imprese che ondeggiavano nella penombra romantica delle
conventicole rivoluzionarie, senza precisarsi nemmeno nel concetto dei
capi.

Quindi un tentativo colle armi parve a tutti come inevitabile rivincita.
Mazzini, trasferitosi a Ginevra e accontatosi coi repubblicani di
Francia per esserne spalleggiato, raccolse una mano di esuli polacchi,
come primo e miglior nucleo di battaglia; poi vi si aggiunsero tedeschi,
svizzeri, quanti italiani erano in Ginevra. Si sperava di sollevare la
Savoia; e si era deciso che, vincendo, si sarebbe lasciato al voto della
popolazione di serbarsi all'Italia o dichiararsi francese o congiungersi
alla confederazione Svizzera. Mazzini consigliava quest'ultima
soluzione: così la prima battaglia vinta dai patriotti avrebbe tolto
all'Italia una provincia. Ma, infervorato nel pensiero di una
ricostituzione europea, Mazzini, riconoscendo la Savoia non italiana,
intendeva farne una federazione alpina colla Svizzera e il Tirolo
tedesco come antemurale d'Italia contro la Francia e la Germania: buona
idea di filosofo della storia, ma allora grosso errore politico, che
avrebbe indebolito contro l'Austria il Piemonte, offendendo le
suscettibilità italiane sull'integrità del territorio politicamente
nazionale. Si congiurava in un albergo; mancavano i denari e le armi. I
pareri divisi fra i maggiorenti imposero forse per invidia a Mazzini che
generale dell'impresa fosse il Ramorino, avventuriero ritornato dalle
guerre di Polonia con molta ma dubbia fama. Mazzini accusato d'orgoglio,
perchè avverso a questa nomina, pianse come un poeta e se la lasciò
imporre. Senonchè Ramorino, ottenute le prime 40,000 lire per formare la
colonna, fuggì a Parigi a dissiparle nei bagordi; passarono altri mesi,
le spie formicolavano fra i cospiratori; Buonarroti, l'inflessibile
carbonaro, si dichiarava improvvisamente avverso all'impresa; finalmente
Ramorino tornò (1834), ma, accontatosi forse colla polizia francese
interessata al disastro della spedizione, la condusse così male che finì
ad una ridicola dimostrazione militare a Bossey e ad Annemasse.

Mazzini, che sospettava giustamente il generale di tradimento, non ebbe
l'energia di cacciarlo e mettersi al suo posto: poi, sorpreso dalla
febbre, quasi ne morì. La sua prima spedizione aveva ripetuti
peggiorandoli tutti gli errori da lui rinfacciati ai capi rivoluzionari
del '21 e del '31: il popolo della Savoia non si era mosso, i volontari
non si erano battuti, il generale aveva tradito; uno sbandamento aveva
finito di disonorare un'impresa assurda nel disegno e nei mezzi.
Bisognava insorgere a Torino o a Genova, meglio in questa che in quella
per la vecchia tradizione republicana, sorprendere la corte, aver
complici buona parte delle guarnigioni, o non insorgere perchè il popolo
delle campagne non avrebbe certo secondato, come non secondò,
l'insurrezione.

Mazzini invece s'illudeva sullo spirito popolare: l'energia e la
fecondità del suo apostolato derivavano appunto da questa illusione, che
lo rendeva così impari ad una vera azione di guerra o di sommossa.

Contemporaneamente il moto, che Garibaldi intendeva eccitare a Genova,
veniva impedito dalla novella del disastro in Savoia, cosicchè egli potè
appena scampare travestito da contadino e inseguito da una condanna a
morte. Mazzini, abbandonato da quasi tutti gli amici, svillaneggiato dai
gazzettieri, accusato di viltà dai settari e di tentato regicidio dalla
corte francese mediante la più ignobile falsificazione di documenti,
resistette eroicamente, rispondendo a tutti con un ammirabile opuscolo,
_Fede ed avvenire_; ma, sottoscritto indi a poco in Berna il patto della
Giovine Europa, dovette esulare a Londra. La Svizzera lo espelleva,
cedendo finalmente alla pressione di tutte le diplomazie europee. Gli
altri si dispersero: Nicola Fabrizi e Manfredo Fanti andarono a
combattere in Spagna, Garibaldi valicò l'oceano per conquistare in
America la più originale gloria di soldato in un secolo, che,
cominciando con Napoleone, doveva chiudersi con Moltke.

La catastrofe della spedizione in Savoia rinforzava il partito dei
riformisti liberali, togliendo a molti unitari la fede di una possibile
iniziativa italiana. Il giudizio del Buonarroti, inspirato allora da
troppa passione francese e giudicato empio da Mazzini nella bocca di un
italiano, che l'Italia non potesse muoversi se non dietro la Francia
antesignana della rivoluzione in Europa, era tanto giusto che tutte le
rivoluzioni susseguenti lo verificarono. Una capacità di iniziativa
politica nelle condizioni d'Italia vi avrebbe supposto un popolo così
fortemente temprato e intensamente rivoluzionario, da non avere prima
accettato senza guerra il mal governo di tutte le proprie corti.

Il moto rivoluzionario italiano era bensì spontaneo, ma, subordinato al
francese, non trascinava ancora che la parte migliore e meno numerosa
della borghesia.

Nullameno l'espansione liberale non si arrestava: il numero delle
società politiche cresceva; a Milano si costituiva la _Pantenna_,
mascherandosi d'intenzioni carnevalesche; Fabrizi fondava la _Legione
Italiana_ a Malta, reclutandola fra i soldati che specialmente avevano
combattuto nelle Spagne; il carbonarismo riformato teneva centro a Pisa,
i _Veri Italiani_ a Livorno. Per contro i governi cercavano di stringere
altre sètte: se ne tentò una borbonica col nome di _Ferdinandea_,
persino un'altra austriaca, ma indarno.

Le condizioni politiche d'Italia, malgrado il lento formarsi di una
nuova opinione politica, restavano le stesse, anzi parevano peggiorate
in una più stretta lega di tutte le corti coll'Austria. Quindi ogni
tentativo di rivolta doveva fatalmente rivelarsi altrettanto falso nel
disegno che impari nei mezzi, e cadere abbandonato dal popolo.
L'operosità delle sètte segrete, mirabile di ardire e di costanza, non
poteva sostituirsi allo spontaneo accordo del popolo per fare una
rivoluzione: i settari o precursori, o martiri, o arruffoni, secondo
l'indole dell'animo, finivano a costituire una specie di segreto
patriziato politico, che, vivendo separato dalla moltitudine, non ne
rappresentava i bisogni e non ne comprendeva lo spirito. L'orgoglio di
un principio politico superiore ai tempi e alle masse, lo stesso nobile
rischio della vita, prolungato per anni e raddoppiato ad ogni ora da
circostanze drammatiche, rendevano i cospiratori meno adatti che mai ad
acquistare quella cieca confidenza del popolo così necessaria in ogni
vera insurrezione. D'altronde il popolo non soffriva abbastanza per
rivoltarsi contro gli antichi padroni, e la borghesia non voleva
arrischiare di soffrire per un meglio, del quale non sentiva la
grandezza che nell'immaginazione. Così, malgrado le declamazioni degli
scrittori liberali, la vita nazionale in Italia non appariva agli
stranieri molto peggiore che nei tempi andati, mentre qualche
miglioramento materiale vi si veniva pure a grado a grado introducendo:
la passione rivoluzionaria invece vi si mostrava così scarsa che non uno
solo dei tanti suoi moti aveva saputo arrivare all'onore di una piccola
battaglia. Questa dolorosa contraddizione fra tanto bollore di frasi e
tanta freddezza di atti, tra la falange sacra degli scrittori e dei
cospiratori che gettavano ogni fiore della loro anima sull'altare della
patria per purificarlo dal contatto dei carnefici, e il popolo che non
dava un grido nemmeno quando i martiri penzolavano dalle forche o i
ribelli si presentavano audacemente armati alle porte della città
urlando: Rivoluzione!, impressionavano sinistramente gli stranieri,
attirando sull'Italia dispregi, che il genio e l'orgoglio di pochi
grandi non bastavano a respingere. E l'Europa si ricordava che la Spagna
sola era bastata contro Napoleone vincitore dell'Europa, che la Russia
si era bruciata volontariamente perchè il suo invincibile invasore
perisse per mancanza di ricovero, che la Grecia piccola come un
villaggio e non più numerosa aveva resistito per cinque o sei anni a
tutto l'impero turco: ricordava le lotte non antiche di Fiandra e la
recente vittoria del Belgio, l'eroica caparbietà della Polonia, nella
quale ogni insurrezione vampeggiava in guerra e ogni guerra
s'insanguinava di battaglie senza paura e senza pietà; e, ascoltando i
garriti d'Italia e vedendola sempre così inerte, sorrideva d'insultante
compassione.

Nullameno l'eroismo italiano, per essere piuttosto individuale che
collettivo, non era meno bello, e prometteva attraverso una tragedia
ancora incompresa una incomparabile originalità di epopea.

Infatti, mentre l'accordo delle corti coll'Austria moltiplicava
all'infinito le difficoltà di una qualunque vittoria per i cospiratori
insorgenti, e la condiscendenza dell'Europa alla diplomazia austriaca
toglieva ogni speranza in altra iniziativa europea, e lo stesso partito
liberale, scindendosi in moderati e rivoluzionari, condannava fra le
approvazioni dei più qualunque impresa ribelle col denunciare alla
pubblica esecrazione i capi delle sètte, che, riparati nell'esilio o
nell'ombra del mistero, votavano alla morte i più giovani adepti, il
coraggio drammatico della rivolta aumentava tutti i giorni. Una nuova
generazione di rivoluzionari cresceva, i quali, anzichè essere spinti
dai capitani, li trascinavano essi medesimi all'azione. Quella poesia
alta e severa dei migliori libri animava molte giovani vite, tirandole
alla morte attraverso un pessimismo, nel quale il martirio riconfermava
con nuove speranze le eterne verità dell'ideale. Come all'inizio di
tutte le epoche rivoluzionarie, pullulavano i precursori: l'incertezza
politica dei principii, che rendeva così contraddittori e spesso così
assurdi i libri politici del tempo, scomponeva naturalmente anche i
disegni delle cospirazioni, riducendoli piuttosto a scene drammatiche
che a canti epici, traendoli ad appagare le infrenabili baldanze dei
forti esasperati dall'ignavia dei più, anzichè a concordare le molte e
disseminate forze per la penisola. L'oligarchia dei comitati sparsi in
tutte le città, intendendo a combinare i mezzi, finiva più spesso a
sperperarli per invidie e gelosie reciproche dei capi: le diffidenze
delle molte spie intralciavano ogni accordo; nessuna classe di
cittadini, nessuna corporazione di mestieri, nessuna provincia, nessuna
città, nessun villaggio era unanime ad insorgere, pronto a capitanare
una vittoria o a seppellirsi sotto la rovina di una sconfitta.
L'iniziativa restava quindi individuale e romantica. Peggio ancora
l'ignavia generale era siffatta che persino il danaro mancava sempre per
ogni più piccola spedizione; e poco sarebbe bastato a ritentare quella
fallita da Mazzini nella Savoia, che non aveva costato più di 50,000
lire.


                                  Stato generale della penisola.

Così passarono quasi dieci anni, nei quali nessun fatto politico potè
riempire di sè medesimo la vacua e malinconica storia d'Italia.

Nella sempre mite Toscana la reazione seguitava ad insinuarsi, evitando
i rigori e contrapponendo alla febbre delle nuove idee i narcotici di
una politica modellata sull'amministrazione d'una buona fattoria. Ma
l'influenza del Fossombroni, ostile all'Austria per antico orgoglio
paesano, decresceva sempre più nell'indirizzo del governo, quantunque il
popolo si conservasse quieto e le stesse idee liberali inclinando alla
federazione non minacciassero seriamente nè la dinastia nè il
granducato. Le seconde nozze del granduca Leopoldo con Maria Antonietta
di Napoli, e la nascita del principe ereditario, furono quindi
solennizzate a Firenze con grande favore da tutti per abborrimento
all'Austria, cui la Toscana sarebbe scaduta allo spegnersi della
dinastia. Ma questa, sentendosi istintivamente separata dalla vita nuova
d'Italia, guardava a Vienna come al gran centro della reazione e del
dispotismo. Chè se l'agitazione di molti liberali toscani in favore del
Walewski, figlio naturale di Napoleone, per farlo re costituzionale
d'Italia, concludeva ad un povero manifesto incompreso dal popolo e
ridicolo per coloro che l'intendevano, cosicchè bastarono al governo
poche ammonizioni severe e pochi sfratti per trionfarne, nullameno il
granduca come ogni altro sovrano d'Italia si accorgeva tratto tratto di
non essere più sicuro in Toscana come il grande avo. Infatti quanti in
essa pensavano, anche rivolgendosi al governo per invocarne riforme, le
oltrepassavano, toccando quello stesso ideale de' rivoluzionari da loro
oppugnati. Nella propria maggior perfezione d'istituti e di vita la
Toscana era già arrivata da tempo a un punto che ogni vera riforma
avrebbe dovuto esprimervi il principio rivoluzionario della sovranità
popolare.

In Piemonte i pochi senati di Torino, di Casale e di Nizza eletti dal re
non avevano che scarse e contraddittorie attribuzioni giuridiche:
vigevano ancora le antiche legislazioni, producendo insoffribili
contrasti di giurisprudenza e di sentenze. I governatori generali
esercitavano l'autorità militare e politica; ovunque apparenza e
affettazione guerresca: arma più odiata i carabinieri. Ma la polizia
sola riassumeva tutto il governo, concedeva e toglieva, dietro anonime
ed irreparabili informazioni, impieghi, onori, cattedre, passaporti;
rovistava cinica e bugiarda nelle famiglie, violava segreti di lettere e
di professioni, imprigionava per sospetti e liberava per capricci,
comprava anime e corpi, vendeva infamie e tradimenti. Una dolorosa
disformità amministrativa rendeva le provincie troppo vaste od anguste,
soggette o libere dall'imposta prediale, fornite o prive di censimento;
in alcune duravano ancora privilegi antichissimi e diritti regali. Più
antiquata e meno italiana fra tutte la Savoia, culla della dinastia e ad
essa vivamente affezionata malgrado un'irresistibile tendenza francese.
Benchè le imposte non fossero gravi, era grave la miseria peggiorata da
forti dazi e mal ripartite gabelle; commercio ed industria rantolavano
stretti nelle fascie della tradizione, ignorato il credito, giudicate
utopie ogni nuova grande opera o istituzione, l'alta burocrazia
ignorante, lenta l'intermedia, bruta la bassa.

La censura civile ed ecclesiastica, assurda ed intrattabile nella
sofisticheria, v'inceppava pensieri e scritti, così che nessuno dei
migliori e più moderati libri stampati in Lombardia sarebbe stato
permesso a Torino: non ultima superiorità questa dell'Austria sul
Piemonte. L'aristocrazia altezzosa e ligia al clero spregiava plebe e
popolo, pensatori e produttori, liberali d'ogni colore e valore,
precipitandosi con voracità d'arpie sopra ogni carica civile e militare
ben retribuita o capace di dare adito a corte. L'antico orgoglio
guerriero animava ancora i suoi membri migliori, ma, ridotta a cenacolo
di parassiti e di privilegiati, non vedeva più nella nazione che se
stessa e nel re tutto il diritto e tutta l'autorità. Quei pochi fra
essa, tratti dall'ingegno alle lettere o dalla forzata pratica di
governo verso le idee moderne, considerava quasi transfugi e puniva con
insani dispetti. La borghesia, laboriosa e scarsa d'ingegno, ignorava
per mancanza d'esperienza la cosa pubblica e odiava l'aristocrazia
bersagliata dal popolo con epigrammi senza veleno.

Carlo Alberto, ambiguo nelle idee e nei sentimenti, ora secondava il
moto latente ed universale del progresso, ora ricalcitrando si impuntava
per arrestarlo. Rispettoso agli averi altrui, era abbastanza savio
amministratore; pedante e rigido nel dovere materialmente precisato,
altero sino al ridicolo poichè alla grandezza dell'orgoglio gli mancava
quella dell'ingegno, non ammetteva ai propri circoli che nobili
autentici: nemmeno il segretario generale del governo, massimo fra tutti
gl'impiegati, poteva penetrarvi. Leggeva e conosceva gli scrittori
paesani. Tratto dalla sfrenata e sentimentale ambizione verso la marea
delle idee per esserne sollevato ben alto, s'atterriva poi subito al
dubbio di perdervi qualche briciola del proprio assoluto potere. Mentre
nella prima giovinezza era stato galante e scioperato, ora un bigottismo
non senza rimorsi lo spingeva a digiunare perennemente e a portare sulle
vive carni un segreto cilicio. Della propria ammalata incertezza nelle
opinioni si scaricava sulla responsabilità dei ministri, riunendo in un
solo ministero i più disparati caratteri e le più opposte tendenze
politiche. Il suo odio e al tempo stesso la sua paura erano verso
l'Austria e la libertà. Nullameno il moto lo trascinava. Nel 1836 abolì
la giustizia feudale nella Sardegna togliendovi i privilegi di fòro e
d'asilo e la servitù del pabarile, peste dell'agricoltura, sradicando
d'un sol colpo tanti vecchi abusi che i lagni dei danneggiati superarono
le stesse ovazioni del popolo. Nel 1837 concesse finalmente i codici:
nel civile unificò la giurisdizione cassando gli statuti locali, ed
abolì le istituzioni fidecommissarie, che poi ripermise in un editto;
nel criminale, ricalcato in parte sul francese e stupidamente spietato
d'intolleranza religiosa, prodigò ogni sorta di pene, specialmente
quella di morte, conservando le immunità ecclesiastiche e gli arbitrii
dei giudici, proclamando obbligatoria la delazione sino contro i parenti
nei delitti politici; ma non promulgò il codice di procedura così
necessario alla buona applicazione degli altri. In quello militare, per
istinto di despota e forse anche per nordica imitazione, stabilì la pena
delle verghe sino a mille e ottocento colpi, mentre poi spendeva oltre
un terzo delle rendite dello stato per la costituzione dell'esercito.
Malgrado l'incomparabile postura del porto di Genova implacata nell'odio
contro il Piemonte, la marina sarda rimase così povera che parve gran
fatto quando una sua nave da guerra fece finalmente per la prima volta
il giro del globo. A tale era discesa la grande nazione marinara che nel
più fitto medio evo trasportava già le crociate in Terra Santa.

Qualche migliorìa ottennero pure le due università di Genova e di
Torino, ma Carlo Alberto non vi concesse mai cattedra di storia, forse
intendendo così di vietare a questa il diritto di giudicare anche i re
morti; e negò persino a Silvio Pellico, malgrado la sua tanto acclamata
conversione al più rigido cattolicismo, quella di eloquenza. Il
consiglio di stato, eletto per discutere bilanci, contratti e ogni altra
operazione di finanza, non aveva alcuna autorità nel governo; la
statistica non esisteva o quasi, e così il catasto, onde si continuava
l'imposta personale senza riguardo alla condizione del contribuente.

Nonpertanto le finanze erano così floride che secondo il conto del Revel
(4 marzo 1848) le rendite superavano le uscite, e il debito di 95
milioni vinceva di poco l'entrata d'un anno.

Sui confini del Piemonte l'Austria, potenza eminentemente conservatrice,
accettava i progressi materiali del tempo senza confessarli e vietandone
ogni discussione. Il suo governo era burocraticamente un modello a
paragone di tutti gli altri d'Italia, ma, per quanto vago di
centralizzazione amministrativa, non pretendeva all'uniformità e
rispettava molti costumi ed usi locali. In esso l'imperatore era tutto e
la polizia unico mezzo; si provvedeva sempre per decreto imperiale; il
popolo non poteva chiedere che per suppliche; i diritti civili
chiaramente definiti e conservati incolumi, quelli politici non
riconosciuti che dal codice criminale che li colpiva tutti con procedure
arbitrarie e pene feroci. L'antico ordinamento municipale sopravvissuto
alle rovine rivoluzionarie ma ridotto a mera burocrazia, funzionava con
robusta regolarità, senza permettere mai alla vita paesana di
rivelarvisi nell'originalità dei propri bisogni. Milano, nuova capitale
austriaca in Italia, brillava d'ingegni piuttosto trascurati che
malmenati dal governo: la censura vi era meno stupida che altrove,
florido il commercio dei libri esteri, frequenti i congressi
scientifici, abbastanza viva l'istruzione, i gesuiti ammessi ma
sottomessi al clero ed al governo; nessuna eccezione di fòro o influenza
di sagrestia. Il paese naturalmente florido prosperava materialmente
sotto un governo che, conculcando ogni ispirazione nazionale, favoriva
per sapiente egoismo d'economia politica lo sviluppo delle ricchezze e
il perfezionamento dell'amministrazione: così la Lombardia vantava casse
di risparmio, associazioni industriali e commerciali, eccellenti strade,
buone norme idrauliche e forestali, mentre gli altri Stati d'Italia,
all'infuori della Toscana, soffrivano ancora nell'antica incuria. Se le
prime società ferroviarie nel 1837 vi fallirono, la colpa fu meno del
governo austriaco che delle gelosie municipali.

Venezia invece, malgrado la sistemazione della sua laguna colla diga di
Malamocco e l'ampliazione de' Murazzi, soccombeva alla concorrenza di
Trieste diventata fatalmente il miglior scalo austriaco pel commercio
orientale.

Se Francesco I a Lubiana aveva detto: «voglio sudditi obbedienti e non
cittadini illuminati», il suo motto trasformato in programma politico
era stato applicato nel Lombardo-Veneto col massimo rigore. L'eccessiva
perfezione burocratica menava dritto all'automatismo: non si volevano nè
originalità nè varietà, nè libertà di sorta, quindi si surrogava il
sistema italiano di peso, misura e monetazione col tedesco, s'imponeva
al commercio di trattare coll'impero rinunziando ai propri sbocchi
naturali colle altre nazioni, e vi si creava così un esercito di
contrabbandieri maggiore di quello dei doganieri. Si teneva la chiesa
sottoposta come i comuni, al punto che parroci e vescovi, nominati sopra
informazioni della polizia, non potevano comunicare con Roma senza il
visto di un impiegato provinciale. Nella coscrizione invece di
costituire corpi italiani s'incorporavano le reclute nei reggimenti
tedeschi disseminandole a tutte le estremità dell'impero, ma concedendo
la surrogazione per denaro: con questo l'Austria evitava di addestrare
contro se stessa un esercito italiano, e l'Italia cansava il disonore
d'essere tiranneggiata da forze proprie.

Morto Francesco I (1835), suo figlio Ferdinando salendo al trono
concesse un'amnistia così insolita nelle abitudini del governo che in
parte vi rimase impedita. Nullameno quando il nuovo imperatore venne a
farsi coronare in Milano, vi furono grandi feste con tale concorso e
vivezza di popolo che stupirono gli stranieri credenti nel patriottismo
italiano, ed umiliarono i pochi grandi spiriti eroicamente votati alla
resurrezione della patria. Ma il popolo minuto e la plebe delle
campagne, anzichè essere allora ostili all'Austria, dovevano molti anni
dopo la grande guerra del 1859 meravigliare Garibaldi di non poter
trarre dalla bocca di un villano nessuna informazione sul nemico, mentre
gli austriaci apprendevano subito dai contadini tutte le sue.

A Napoli invece le condizioni erano più tristi.

Le lustre di bonomia e di buon governo fatte dal nuovo re Ferdinando II
durarono ben poco: il suo riordinamento dell'esercito, non essendo che
vanità di principe e non mirando a scopo italiano, divenne un aggravio
assurdo per le finanze e scisse ancora maggiormente il paese già troppo
lacerato da tradizioni e idee antagoniste. Re Ferdinando non vide
nell'esercito che una guardia contro il popolo, e quindi badò a
separarnelo con privilegi: i soldati furono molti, bene armati,
abbastanza ben addestrati, ma senza spirito nè militare, nè patriottico.
La riforma finanziaria, provocata in lui da istinto avaro e annunciata
clamorosamente colla rinunzia ai 360 mila ducati, che il padre percepiva
a titolo di borsa privata per le elemosine, e colla tassa sugli stipendi
degli alti impiegati che giungeva fino al cinquanta per cento, non ebbe
nè criteri scientifici, nè basi morali. Infatti questa tassa non era che
provvisoria per quindici anni, mentre i grossi impiegati seguitavano a
rubacchiare sugli _incerti_, somme indefinibili nell'amministrazione e
nell'economia politica, che si attribuivano con ingenuo cinismo. E
siccome il re domandava a tutti i ministri i residui di cassa per
ingrossarne la propria lista civile, i ministri ad ingraziosirsi col
sovrano affettavano turpi sparagni compiendo ogni sorta di ladrerie nel
suo nome. Ma Ferdinando, avidissimo di denaro, credeva assioma che
nessun uomo potesse resistere alla tentazione dell'oro, e scherzava
cinicamente sulla nota disonestà dei propri ministri come il Santangelo,
finendo egli stesso più tardi a frodare con immane truffa, la quale per
poco non gli attirò guerra dall'Inghilterra e rovinò molti commercianti,
la società delle solfare di Sicilia.

La bigotteria, ingenita nella sua casa e in lui sviluppata da malvagi
educatori gesuiti come l'Olivieri e il Cocle, vescovo di Patrasso e che
fu poi suo direttore spirituale e politico, crebbe nel matrimonio con
Cristina di Savoia sino alle adorazioni d'un lercio mantello attribuito
dal Cocle a sant'Alfonso de' Liguori; ma queste nozze, che per un
momento avevano lusingato le speranze dei riformisti, i quali vedevano
già l'Italia riunita in due grossi regni del nord e del sud sotto l'alta
direzione di Roma, furono di troppo breve durata. Nullameno bastarono ad
introdurre nella corte maggiore costumatezza e a lenire la ferocia delle
repressioni contro le prime congiure dei Rosaroll e di frate Peluso.
Morta Cristina, e si disse sconciata da uno scherzo brutale del re,
invelenirono a corte le dissenzioni tra fratelli, tutti perversi di
indole, e che produssero quasi una guerra civile: quindi il re sposò
un'arciduchessa d'Austria, per la quale si ridestarono nelle irritate
fantasie napoletane i sanguinosi ricordi di Carolina. Finalmente lo
scoppio del colera (1837) spinse il popolo alla disperazione, allorchè
farneticandosi di veleno propinato dal governo si vide questo per odio
verso la Sicilia, nella quale era stato proibito persino il monumento a
Vincenzo Bellini, invertire contro di essa ogni misura di precauzione.
Vampeggiarono fra l'enorme funerale tumulti ed insurrezioni prima a
Messina poi a Siracusa e a Catania: Mario Adorno, illustre
giureconsulto, capitanava la rivolta sempre ispirata da ricordi di
autonomia e col grido: Viva la costituzione del 12! La corte fu pronta
al riparo: Del Carretto sbarcò in Sicilia, la sommossa svampò, il popolo
ricadde nel terrore di un doppio flagello. L'inumano ministro rinnovò le
gesta di Fra Diavolo, fucilando, ardendo, straziando, spingendo
l'artistica raffinatezza della ferocia sino ad ordinare che ad ogni
esecuzione di condanne le bande militari suonassero il tragico motivo
della _Norma_: «_In mia mano alfin tu sei!_».

Al Del Carretto succedettero il duca di Laurenzana scempio e bisbetico,
poi il generale Tschudi, che parve umano. Del Carretto era passato nelle
Calabrie e negli Abruzzi, per sopirvi collo spavento di morte peggiore i
tumulti provocati dal colera.

Ma, cessato il colera, le condizioni del regno rimanevano pur sempre
tristi. L'assolutismo della polizia, la dilapidazione della
amministrazione che, se non scomponeva il bilancio governativo,
isteriliva il paese, la poca viabilità, la nessuna istruzione tranne nei
massimi centri ove i gesuiti, di essa padroni, non bastavano ad imporsi;
la nobiltà dispotica e feudale, la borghesia corrotta e servile, il
popolo depravato e selvatico, gli ordini religiosi ricostituiti in forte
massa e disseminati ovunque come soldati d'una tirannide spirituale e
politica senza riparo, i banditi sempre in armi e così potenti che il
governo doveva scendere con essi a patti, l'isolamento dal resto
d'Italia, per la quale le comunicazioni con Napoli erano più difficili
che con Vienna e con Parigi, tutto concorreva a rendere miserabile un
regno, che la natura sembrava aver prediletto, e sul quale la storia
pesava da migliaia d'anni come una sventura. I pochi miglioramenti
promossi dal governo e vantati da' suoi accoliti, come il primo saggio
italiano di battelli a vapore, il primo ponte di ferro sul Garigliano,
la prima ferrovia da Napoli a Caserta, giocattolo di sovrano anzichè
nuovo tramite commerciale, la prima illuminazione a gaz, il riattamento
del porto di Brindisi, i pochi favori alla marina mercantile, furono
piuttosto capricci di fantasia regale che propositi politici. Nessuna
legge veramente nuova mirò a curare le vecchie piaghe del paese. Corte e
Governo, considerandosi in istato permanente di ostilità col popolo, non
badavano che a fortificarsi colla corruzione e col terrore. Se le
congiure erano frequenti e moltissimi i congiurati che corrispondevano
colle altre sètte italiane, lo spirito pubblico napoletano restava
nullameno regionale e non poteva nemmeno nel pensiero acconciarsi ad una
rivoluzione, nella quale Napoli dovesse sottostare al Piemonte. Quindi i
moti erano sempre paesani, provocati da ricordi e perduti da vanità
indigene. Non si aveva abitudine alle armi, per quanto il brigantaggio
fosse diffuso; non si intendeva se non da pochi una rivoluzione unitaria
e liberale che mutasse radicalmente le condizioni della vita napoletana.

La Sicilia, implacabile nell'odio, risognava la propria indipendenza;
sul continente Napoli, sudicia e bella, ricca ed oziosa, era il cuore e
la testa del regno, assorbendovi quasi tutte le forze ed illanguidendone
gli spiriti. Le fantasie pronte ad eccitarsi inchinavano a mutamenti
come a genialità di teatro, ma la coscienza morale e politica necessaria
all'energia disperata della lotta, il vigore del pensiero indispensabile
a comprendere il fine e a coordinarne i mezzi, mancavano in una
popolazione capace d'improvvisi eroismi e di più subite viltà, tenace
nell'obbedienza malgrado un'incurabile insubordinazione, e chiusa in se
medesima con una vanità egualmente intrattabile nel principe e nel
lazzarone. Se Napoli avesse saputo fare la rivoluzione contro una corte
non difesa che da pochi svizzeri e da una polizia sempre pronta a
tradirla nel pericolo, non vi avrebbe avuto le stesse difficoltà di
Torino, di Milano e di Firenze, più vicine e soggette all'Austria; lo
Stato Pontificio, che la divideva dal resto d'Italia, sarebbe stato un
momentaneo baluardo contro gli austriaci, e la corte avrebbe piegato a
una rivoluzione. Ma con tanti vantaggi apparenti Napoli doveva esser in
Italia il paese meno rivoluzionario, che non si scosse nemmeno alla
guerra del 1859 e si lasciò poco dopo conquistare alla rivoluzione
dall'epica apparizione di Giuseppe Garibaldi.

Roma rimaneva immobile: il suo governo dopo aver resistito alle
influenze diplomatiche, che gli consigliavano nel celebre _Memorandum_
le più miti ed urgenti riforme, reagiva ancora con Gregorio XVI. Il
nobile tentativo di Lamennais per riconciliare in una nuova
interpretazione il papato colla libertà e ridare così a Roma un'altra
signoria cattolica, fallì contro la durezza del pontefice, il quale non
vi scorse che una eresia. Quindi il partito liberale-religioso si
scompaginò in sul formarsi. Roma rimaneva come uno scoglio alto sul mare
agitato della storia. Il suo governo si ricompendiava nell'aristocrazia
dei prelati, invariabile, inaccessibile, impeccabile: essi soli
disimpegnavano tutte le funzioni; il clero minuto delle parrocchie,
imbozzacchito nelle abitudini sedentarie di una cura senza pericoli e
senza poesia, non conservava valore. La corte era come nel secolo XV: lo
stesso fasto, la stessa etichetta, le stesse spese, la stessa
amministrazione; ma le entrate erano troppo diminuite restringendosi a
quelle del piccolo Stato. Idee politiche, scientifiche, religiose, erano
in Roma reazionarie: nel 1828 il cardinale Giustiniani vescovo d'Imola
condannava ancora i bestemmiatori alla perforazione della lingua,
accordando dieci anni d'indulgenza ai loro delatori; nel 1834
l'inquisizione di Forlì condannava la negromanzia, l'astrologia, le
cerimonie maomettane e pagane e _la madre che offre il suo seno ad un
lattante ebreo_; il cardinale Cavalchini aveva restituito la tortura nei
tribunali, il Consalvi l'aveva soppressa, poco più tardi il Pacca la
surrogava col cavalletto. Certo i costumi fatti più miti e la pubblica
opinione impedivano o limitavano in gran parte l'applicazione di tali
idee, ma corte e governo pontificio non vi avevano ancora rinunciato.

Intanto con lo scemare delle rendite religiose a Roma crebbero
naturalmente le esazioni sul popolo: ogni cardinale menava treno di re,
ogni prelato affettava ricchezza ed importanza di principe. L'alta
nobiltà romana orgogliosa della propria tradizione oligarchica si
mostrava reverente al papato come ad istituzione, dalla quale
riconosceva gradi, privilegi ed immunità di ogni sorta: qualunque grossa
famiglia principesca era come uno Stato nello Stato che dominava comuni
e talvolta intere provincie; ma nessuna virtù o sapere brillava in
questa aristocrazia, che, drappeggiandosi nella storia di Roma, guardava
dall'alto in basso tutti i patriziati d'Europa. Quella minore delle
provincie, contendendo di primazia col clero ed essendo in maggior
contatto col popolo e colla borghesia, facilmente liberaleggiava,
inebriata nella gloriola di capitanare i cospiratori e di ottenere chi
sa quale importanza paesana. Poca in Roma la borghesia indipendente per
stato, e questa non ligia al governo, ma il resto erano clienti,
impiegati, servitori prelatizi trafficanti di abusi; la curia servile e
pettegola; nulla l'industria e il commercio; senza fede, senza
carattere, tutti. Artigiani e popolo erano più devoti al pontefice che
al principe, alteri del nome romano, ignavi, rissosi, inetti all'armi e
al lavoro. Migliori d'assai i popolani delle provincie si mescolavano
alle sètte, e scaltriti e resi ardimentosi dal contrabbando promettevano
e mantennero poi audacie di guerra. I contadini quietavano dappertutto,
devoti superstiziosamente al papa, brutali ma rispettosi al sacerdozio,
scontenti delle tasse troppo grevi, incapaci, nonchè di comprendere, di
bramare miglior governo. Il clero minore della capitale e delle
provincie, rozzo ed indotto, mormorava degli abusi romani piuttosto per
invidia di povertà che per sdegno di coscienza: rilassato nei costumi,
inetto a sentire la poesia della propria missione e a prevedere la
tempesta del proprio tempo. Il clero straniero, carezzato a Roma,
peggiore di ogni altro, più turpe di passioni, fervido di intrighi,
ignobile di propositi, ribaldo nella prepotenza. E in mezzo a questo
clero qualche teologo solitario agitato dal dramma, che dopo Lamennais
doveva travolgere Gioberti affaticando quanti pensatori fossero allora
di cose divine, o qualche curato che schiettezza d'indole e salda bontà
di carattere traevano inconsciamente a simpatizzare coi cospiratori
nella speranza d'un meglio per la patria e pel popolo.

L'organismo politico era quale un'aristocrazia e un governo di prelati
avevano potuto comporlo: nel comune, centro delle famiglie e delle
proprietà, il governo stesso nominava prima i consiglieri cernendoli dai
ceti dei nobili, dei possidenti, dei dotti e capi di arte; poi i
gonfalonieri, i priori e gli anziani alle permanenti magistrature
municipali. Nella stessa guisa venivano eletti i consiglieri provinciali
scegliendone prima gli elettori: naturalmente candidati ed eletti erano
sempre dell'opinione del governo. Questo accollò alle provincie e ai
comuni le sue stesse spese maggiori, come strade, canali, porti di mare;
e comuni e provincie subirono. Il governo non governava. In ogni
distretto vi erano governatori laici, carica mista di questore e di
sottoprefetto, che dipendevano dal prelato reggente la provincia; la
polizia era massima funzione politica, ma quella segreta del clero
contrastava e sovrastava a quella palese del governo; non garanzie pei
sospettati, non difese per gli accusati. I tribunali erano così
complicati e strani, che riesce difficile spiegarne evidentemente il
meccanismo: la Sacra Rota ne era come la cassazione suprema, ma più
spesso fungeva da accademia giuridica; la Sacra Consulta era il massimo
tribunale criminale e politico; l'una e l'altra avevano procedure
arbitrarie e si componevano esclusivamente di prelati. Poi un tribunale
minore collegiale per ogni capoluogo, che giudicava di materie civili e
criminali, ma in quelle erano permessi i dibattimenti, in queste no. Il
tribunale della Sacra Inquisizione e del Santo Uffizio, mantenuti nella
terribilità scenica dei tempi andati, vigilavano, inquisivano,
incarceravano, condannavano segretamente ed inappellabilmente in materia
di dogma e di fede: nullameno, per la rilassatezza del costume
religioso, non era più che uno spauracchio e un luogo comune per la
rettorica rivoluzionaria. Alla passione religiosa Roma aveva sostituito
da un pezzo quella politica. Gli altri tribunali ecclesiastici
mantenevano ai chierici il privilegio di fòro, mentre lo toglievano in
parte ai laici colla polizia dei costumi e della religione.

Il Sacro Collegio dei cardinali era una specie di senato con voto
consultivo, la prelatura uno stato maggiore politico, dal quale uscivano
governatori e diplomatici, grossi impiegati e grossi giudici; le finanze
erano governate da un prelato tesoriere insindacabile. L'ultima
amministrazione del Tosti sotto Gregorio XVI fu un vero disastro per
l'incredibile sua incapacità finanziaria: vi si contrasse persino un
prestito col Rothschild al 65%; l'erario ne rimase quasi deserto,
orribili disordini straricchirono molti furbi per usure, appalti e
monopolii. Le tasse si aggravarono e la miseria peggiorò. Il
contrabbando annullava i dazi, i barattieri scemavano le rendite.
Nessuna nozione di scienza economica, nessuna statistica: le tasse quasi
tutte sulla proprietà immobiliare, maggioraschi e conventi stagnanti nel
moto agricolo già troppo contrastato; assoluta mancanza di codici,
disuguaglianza dei cittadini nella legge, il governo chiuso ad essi,
ovunque immunità e privilegi, la giustizia indefinibile, l'istruzione
peggio che nulla nelle scuole e contesa ai privati colla proibizione dei
libri; la milizia composta di stranieri mercenari o reclutata in bande
facinorose di sanfedisti; ogni carriera ostacolata, la censura
assurdamente severa sulla stampa, la polizia arbitra di tutti,
commissioni militari in permanenza, vietata ogni associazione, a
migliaia gli esigliati, gli ammoniti, i condannati politici; la vita
morale depressa, quella politica negata, nel pensiero combattuta,
nell'azione impedita ovunque e sempre. Da un canto il clero, dall'altro
il popolo: non Stato e non governo, ma un dominio di prelati sopra una
gente senza passato, senza presente e senza avvenire, mentre su Roma
lontana stava il papa, re e demiurgo, onnipotente nella religione e
prepotente sulla legge.

Allorchè Gregorio XVI scomunicò i polacchi morenti con disperato eroismo
contro i russi, l'infamia dell'atto fu tale che anche le più timorate
coscienze cattoliche ne rimasero offese; nullameno, quando più tardi a
Roma rimproverò lo czar delle persecuzioni alla chiesa cattolica
polacca, e non era che un battibecco fra due pontefici, tutti scordarono
la perfidia di quella prima scomunica e la continuata viltà della
diplomazia papale colla corte di Russia per non ammirare che un nuovo
Leone davanti ad un altro Attila.


                                  I fratelli Bandiera.

Intanto che la politica italiana del papato si restringeva coll'Austria,
e per influsso di questa al cardinale Bernetti succedeva nel
segretariato il Lambruschini, nel 1837 scoppiava il colera, e nel 1838,
essendo ministro di Francia il Molé, i francesi si ritirarono da Ancona
e gli austriaci dalle legazioni con molta allegrezza del popolo. Così
cessava pure in Bologna il commissariato generale di contaminata memoria
per opera dei cardinali Albani, Spinola e Brignole: i nuovi subentrati
al governo parvero giustamente miti nel confronto. Laonde ne
ringagliardirono d'animo i cospiratori, che, sollecitati dalle voci di
grandi preparativi di rivolta nel regno delle due Sicilie, si accinsero
a nuove imprese; Mazzini esule spronava cogli scritti e cogli emissari;
a Bologna un comitato della Giovane Italia era all'avanguardia del moto
spingendo i restii. Una passeggiata falsamente trionfale del pontefice
attraverso le provincie pontificie, ma evitando le Romagne, parve nuovo
segno di paura nel governo. Al solito i cospiratori correvano da uno
Stato all'altro, sciupando tempo ed energia senza concludere a nulla. Le
popolazioni attendevano fra svogliate e curiose: la polizia vigilava.
Livio Zambeccari, ardito figlio dell'arditissimo aeronauta, aveva corso
il Napoletano deludendo ogni vigilanza per concordare un moto generale,
e ne era ritornato con grandi promesse. La Romagna doveva dare
l'esempio, ma la trama fu scoperta anzi tempo. Quindi un medico
Muratori, gettatosi all'Appennino con piccola squadra per tentare una
sollevazione, dovette presto riparare in Toscana e di là in Francia; un
Ribotti, ritornato con falso nome dalle guerre spagnuole ove s'era
coperto di gloria, arrischiò una seconda impresa con grossa mano
d'armati verso Imola, ma fu costretto a sbandarsi presso Ancona. Il
governo implacabile nella repressione condannò venti dei cospiratori a
morte: nullameno la sentenza non fu eseguita che sopra sette: e i
maggiori capi avevano potuto mettersi in salvo.

Per tagliare un'altra radice alle speranze liberali, il governo
(1843-44) comprò mediante nuovi debiti tutti i beni dell'appannaggio,
che il figlio di Beauharnais conservava nello Stato pontificio: così
veniva a mancare nel principe l'occasione di favorire i ribelli e in
questi la fisima di costituirlo re dell'Italia centrale.

Alle sommosse romagnuole seguivano le napoletane. Prima era stata Aquila
a ribellarsi contro il proprio governatore militare, un ribaldo delle
bande di Ruffo, e a gridare: Costituzione e libertà! Soffocato ad Aquila
nel sangue, poco appresso il tumulto scoppiò a Cosenza. Questa volta era
provocato dalla congrega centrale di Napoli, nella quale sedevano fra
gli altri Carlo Poerio e Francesco Bozzelli; ma al solito la congiura
era stata fiutata dalla polizia. Vi furono ritardi ed equivoci fra i
cospiratori, due bande di essi scontrandosi di notte si combatterono, la
popolazione non si mosse, le truppe regie trionfarono dopo breve
combattimento, nel quale Salfi, uno dei capi ribelli, morì; gli altri
fuggirono.

Un ordine del governo, comunicato per telegrafo ai giudici della
commissione militare, impose che degli arrestati si fucilassero non meno
di sei e non più di nove: e fu eseguito. A Napoli intanto venivano
imprigionati i maggiorenti della congrega centrale, ma il dualismo
scoppiato fra il marchese di Pietracatella, ministro dell'interno, e il
Del Carretto, ministro della polizia, li salvò.

Pochi mesi dopo i fratelli Emilio ed Attilio Bandiera, ritentando la
stessa impresa, perivano nella più magnanima tragedia del risorgimento.

Figli di quell'ammiraglio, che nel 1831 catturava la nave dei
rivoluzionari fuggenti da Ancona a Corfù, i due fratelli, uffiziali
della marina austriaca a Venezia, prima tentarono con mirabile accordo
di animi di spingere i compagni a ribellarsi; quindi, entrati in
corrispondenza con Mazzini, vi si compromisero coraggiosamente sperando
nel fermento rivoluzionario, che allora sollevava inutilmente tutta la
penisola. Ma sospettati e costretti a salvarsi fuggirono a Corfù. Di là
ricusarono il perdono, resistendo eroicamente alle preghiere della
madre, si ostinarono contro i consigli di Mazzini, che fiaccato dalle
disillusioni dell'esilio non osava accettare il loro olocausto di una
spedizione nelle Calabrie. Nicola Ricciotti, uomo per l'adamantina
semplicità dell'anima degno di Plutarco, mandato a dissuaderli si
strinse ad essi; Domenico Moro e pochi altri li seguirono. Mancavano i
denari, le polizie braccheggiavano, il governo inglese, questa volta
peggiore d'ogni altro, tradiva il segreto delle proprie poste rivelando
ai Borboni e all'Austria le lettere dei proscritti a Mazzini. Le spie
formicolavano a Corfù: un Boccheciampe còrso, nipote di quelli che
iniziarono la sanguinaria reazione di Ruffo nelle Calabrie, si mise
traditore nell'impresa. I cospiratori non erano più di venti e speravano
di sollevare tutta l'Italia!

Sbarcati a Cotrone, e tosto denunciati dal Boccheciampe, sono catturati
dal popolo medesimo insorto contro di essi: tradotti prigionieri a
Cosenza e giudicati sommariamente, rispondono e muoiono con epica
serenità. Ma il popolo nel quale avevano sperato, se da ultimo si pentì
di averli imprigionati e li rimpianse morti, non si accinse per allora a
vendicarli. L'impresa aveva conchiuso ad un sacrificio, che il
tradimento da un lato e una impossibile ingenuità dall'altra resero
sublime.

Il governo borbonico accrebbe la propria infamia coll'eccidio dei
generosi, dei quali più tardi nella reazione del 1848 profanò le ossa
mescolandole a quelle dei giustiziati volgari: la rivoluzione si giovò
del martirio, che infiammando tutti i cuori, li predispose ai pericoli
di una imminente riscossa.

Alle vinte sollevazioni napoletane seguivano infatti altri moti
romagnoli (1845). La robusta fibra del popolo e il suo spirito ribelle
prevalsero ancora una volta alla prudenza dei più fra i molti
congiurati. L'arresto di un Galletti e di un Montecchi, perpetrato dal
governo, parve provocazione: le condanne della commissione militare
mandata a Ravenna dal cardinale Massimi ruppero col terrore gl'indugi,
precipitando una mano di patriotti dietro Pietro Renzi, che occupò
Rimini e ne disarmò il presidio. Ma i nuovi ribelli erano così poco
rivoluzionari che si affrettarono a pubblicare un manifesto dettato dal
Farini nello stile classicamente pedante della scuola letteraria
romagnola, col quale si riconosceva il diritto divino del pontefice e
s'invocavano solo alcune riforme amministrative dal suo cuore di re e di
padre. Fortunatamente poco dopo Aurelio Saffi, allora giovanissimo e
sconosciuto, dettava con due canonici commissari di riforme una fiera
protesta, che, affermando l'unità d'Italia, manteneva l'onore romagnolo
compromesso dal manifesto del Farini. Naturalmente la sollevazione
abortì: falsa nell'idea e nel processo, non fu intesa dalle popolazioni,
spiacque ai veri rivoluzionari, sbigottì inutilmente la grassa
borghesia. Pietro Renzi riparato con altri fuorusciti in Toscana fu poi
dal granduca con ignobile tradimento consegnato al governo pontificio.

Quest'ultimo tentativo romagnolo, così erroneo nel concetto e povero nel
risultato, rivelò lo stato della coscienza politica nella maggior parte
di coloro che di politica si occupavano.


                                  I riformisti.

Se la predicazione profondamente rivoluzionaria di Giuseppe Mazzini
aveva nell'intelletto nazionale diradato le nebbie delle vecchie
dottrine scolastiche, traendolo quasi a forza nell'idea del proprio
secolo, la coscienza politica d'Italia non aveva potuto accordarvisi.
Troppo era il peso della tradizione autoritaria e debole il fondamento
morale del carattere perchè, accogliendo nel pensiero l'austerità eroica
della nuova dottrina, i più sapessero trasmutarla in sentimento per
discendere con essa all'azione. Mentre la letteratura echeggiava di
fanfare guerresche, e i congressi scientifici moltiplicati a pretesto
simulavano assemblee nazionali, e le congiure insistenti addestravano il
coraggio a rischi di morte con una coreografia troppo spesso
insanguinata, l'immensa maggioranza della nazione vi assisteva come ad
uno spettacolo, nel quale il fulgore della poesia non toglieva di
sentire la fragilità della trama. Si odiavano i governi, ma se ne
riveriva ancora l'autorità; si chiedevano riforme, ma non s'intendeva
una rivoluzione che spostando i termini della storia collocasse la
sovranità dai principi nel popolo; si temeva che sguinzagliando questo
nella rivoluzione si avessero a ripetere le atroci scene del '93 rese
ornai famigliari da ogni forma di racconto e di critica. La reazione
cattolica signoreggiava ancora quasi tutti gli spiriti, l'immane potenza
militare dell'Austria li prostrava. Se i frequenti martirii dei giovani
più animosi rinvigorivano con nuova passione le anime migliori,
sbigottivano invece la massa, traendola a conclusioni malinconicamente
assennate sull'inutilità di tragedie individuali in un problema, che
tutta Italia era inetta a risolvere. Avarizie e codardie si coprivano
quindi di questa prosaica assennatezza, servendosi della stessa altrui
disperazione eroica per rifiutarsi nell'ignavia di una vita solleticata
da tutte le lussurie della servitù. Quindi la voce fatidica di Mazzini
passava su quelle coscienze sonnolente, irritandole senza destarle: la
tragica magnanimità della sua vita e la stoica semplicità della sua
predicazione erano con abile ipocrisia trattate di paradosso e di
gloriola. Si rinfacciava al grande esule di spingere a mortali
sacrifici, stando al sicuro in Londra. Lo si accusava di ambizione
dittatoria, di assassinio sistematico, di demenza rivoluzionaria. Non si
voleva intenderlo perchè intendendolo si sarebbe dovuto agire contro
ogni prudenza egoistica nell'interesse supremo della patria.

Quindi sorsero altre voci ad accarezzare la debolezza nazionale,
giustificandola colle tristi condizioni del presente. Rifiutati i
principii fondamentali della rivoluzione francese e pigliando le mosse
dallo stato attuale d'Italia, parecchi scrittori formularono i voti e le
speranze della nazione in assurdi sistemi, che parvero allora miracoli
di senno. Il problema nazionale era duplice, indipendenza dallo
straniero e libertà interna; ma ambedue questi termini si sdoppiavano in
una serie infinita di altri, moltiplicando le difficoltà per ognuno di
essi sino all'impossibilità di una qualunque soluzione. Il problema
dell'indipendenza imperniato sull'Austria traeva seco la guerra civile
contro tutti i principi italiani, giacchè nessuno di essi avrebbe osato
combattere l'Austria per timore di restare poi preda della rivoluzione.
Una confederazione tra essi era egualmente impossibile, mentre il papato
ligio a Vienna e fanatico di assolutismo non vi avrebbe convenuto, e il
napoletano remoto e compatto sotto i Borboni non avrebbe nulla a
guadagnarvi, e gli Stati centrali, grossi feudi austriaci rosi da
gelosie intestine, vi avrebbero ripugnato: solo il Piemonte, ingordo del
Lombardo-Veneto, vi avrebbe forse aderito, ma appunto per questo
sospetto da tutti gli altri sarebbe stato respinto. Poi le corti essendo
tutte egualmente reazionarie, una lega fra esse non sarebbe stata che
conseguenza dell'idea rivoluzionaria; ma allora, mutando i consigli
principeschi con uomini nuovi, scelti fra i liberali, il problema della
libertà interna veniva improvvisamente a tempestare in quello
dell'indipendenza dallo straniero. Fra popoli e governi non correva
fiducia. Per combattere l'Austria si sarebbe dovuto armare il popolo, ma
nessun governo lo avrebbe osato, perchè solo la parte rivoluzionaria era
battagliera e si sarebbe servita delle armi per tentare l'unità e la
libertà della patria. Finalmente dietro l'Austria stava l'Europa
monarchica vigile ed ostile ad ogni mena di rivoluzione, terribilmente
armata e pronta a qualunque eccesso.

Il problema dell'indipendenza era dunque insolubile. Quello della
libertà presentava difficoltà anche più profonde. La libertà, fuori dei
termini della rivoluzione francese che consacrava la sovranità nazionale
ed individuale, era un non senso: circoscritta alle concessioni dei
principi non avrebbe conciliato loro la fede del popolo, nè soddisfatto
alcun vero bisogno di questo. D'altronde le riforme avrebbero dovuto
chiamare al potere uomini popolari, proponendo così il quesito della
loro elezione: ora ogni elezione implica il quesito del diritto
elettorale, nel quale risiede tutta la sovranità; chiamati dal principe
non avrebbero rappresentato il popolo; mandati da questo avrebbero
annullato il diritto regio. Un inevitabile conflitto sarebbe scoppiato
fra i due poteri, e la rivoluzione procrastinata dalle riforme si
sarebbe servita di esse medesime per scoppiare più prontamente.

Solo la teorica mazziniana, dichiarando inseparabili la libertà e
l'indipendenza, l'unità e la republica, era rigorosamente logica, ma
appunto per questo merito sistematico non si prestava ad una immediata
applicazione, mentre la storia a somiglianza della vita procede
destreggiandosi fra antitesi apparentemente inconciliabili e traendo
spesso dalla morte e dall'assurdo le proprie forze più vive. Contro i
mazziniani, ultimi e più originali fra i giacobini, sorsero gli
scrittori riformisti a tentare la conciliazione dei contrasti nazionali,
fortificando coll'illusione d'incredibili sistemi il fiacco liberalismo
della maggioranza.

Fondamento dei nuovi scrittori furono l'autorità papale e il diritto
regio: la loro argomentazione derivò tutta dal passato, la loro
rettorica dal romanticismo. Alcuni come il Gioberti ingigantirono il
problema entro una visione sinteticamente poetica; altri come il
D'Azeglio lo distrussero in un'analisi frammentaria: si dissero pratici
in confronto ai mazziniani e nessuno di essi ebbe il senso della realtà,
non compresero il popolo e svisarono i principii, per concludere
nullameno a maturare la rivoluzione spingendo la nazione alla prova di
una libertà statutaria e di una guerra federale contro l'Austria.

Anzitutto il giovamento della loro opera fu appunto nel combattere le
teoriche rivoluzionarie, che spaventavano il senno volgare delle masse.
Per essi si potè cominciare ad essere liberali senza compromettersi in
rischi mortali di congiure, a separarsi dalla vita dei più. La classe
aristocratica e la media, condannate dalla teorica mazziniana, che
s'indirizzava schiettamente al popolo, riconoscendo in lui solo la fonte
di tutti i diritti, si riconciliarono alla causa della libertà: i
dissidi regionali, ancora così appassionati, si calmarono nell'illusione
di un accordo federale che rispettasse tutte le vecchie autonomie, la
religione accarezzata come fondamento della libertà si rasserenò
lasciando a nudo il fanatismo reazionario del clero che parve tristo
anche ai più indulgenti. Non si minacciarono più i principi, ma s'intese
a persuaderli: si propose loro di essere più grandi, più liberi, più
uniti ai loro popoli, confederati contro lo straniero, guidati da Roma
nella santa crociata. Gioberti esule scriveva nel _Primato_ un mostruoso
poema politico intercalato di ditirambi, sonoro ed abbagliante: in esso
l'Italia schiava diventava la nazione delle nazioni, e per una terza
volta il centro della storia. Il papato, incomparabile ed immortale
originalità della storia, doveva compiere il miracolo di una terza
risurrezione italica; il papato che aveva rovesciato l'impero romano,
guidato il medio evo, resistito a tutti gli scismi, trionfato della
rivoluzione francese, assicurava l'avvenire d'Italia. I tempi erano
maturi; l'Europa non poteva procedere oltre senza l'Italia: il papato
era la stella polare della storia. Il libro si diffuse come un contagio,
inebriò come una musica. Tutti gli elementi della reazione cattolica si
addensarono in un partito guelfo, che l'erudizione storica venne a
rinfiancare di antichi argomenti: la monarchia, rappresentante nel
proprio maggiore significato l'antico mondo coi privilegi e le
differenze di classe, rifulse anch'essa come un principio; l'ordine
sociale non si comprese più al di fuori della monarchia e della
gerarchia di classe, la rivoluzione parve sacrilegio mentre le riforme
esprimevano lo svolgersi lento ed armonico del processo sociale. Quindi
il popolo avrebbe partecipato al loro beneficio non alla loro opera:
questa doveva esser fatica e merito delle classi colte. Non si pensava a
guerra, si sperava nell'indipendenza cansando il problema militare e
sognando combinazioni diplomatiche al tempo stesso favorevoli e
difficili come quelle del lotto.

Cesare Balbo, letterato guelfo, storico e politico reazionario, si
cacciò nell'arduo tema col celebre libro su _Le Speranze d'Italia_. Se
Gioberti aveva delirato sul papato, Balbo vaneggiò sulla monarchia:
nell'Italia non vide che il Piemonte, nella storia che il passato, evitò
tutti i problemi dell'indipendenza, della libertà, della sovranità
nazionale, dell'unità e della federazione, limitandosi a predicare ai
popoli l'obbedienza e ad insegnare come scopo politico la consolidazione
di tutti i governucoli peninsulari, guardando al papato come alla legge
suprema d'Italia, e sperando che l'Austria coll'impossessarsi di una
parte della Turchia potrebbe cedere graziosamente al Piemonte il
Lombardo-Veneto. Intanto bisognava abborrire la rivoluzione,
disciplinarsi e credere esclusivamente nella monarchia, qualunque ne
fosse il sovrano. Più tardi nelle _Lettere politiche_ inculcò il
liberalismo moderato con volo più basso di fantasia politica, ma con più
servilità di propositi e non meno torbida intuizione della realtà. Anzi
le sue lettere alla vigilia dell'azione raggiunsero lo scopo opposto
inasprendo il dissidio dei partiti, quantunque il Montanelli, benevolo
spirito liberale, agile nei maneggi ma non resistente di fibra e sempre
incerto nell'idee, corresse in aiuto, proclamando una specie di tregua
finchè lo straniero non fosse cacciato d'Italia.

Più chiaro apparve il Durando nel libro sulla _Nazionalità Italiana_,
dichiarando che il solo principio unificatore d'Italia era nel
principato e il rigeneratore nella libertà, proponendo così una lega
sincera fra popoli e principi per costituire la nazione in due regni
della regione eridanica sotto casa Savoia, e del mezzogiorno sotto i
Borboni. Roma col proprio Stato resterebbe al papa, gli altri principi
spodestati troverebbero compensi nelle isole e nella Savoia. Ma questa
divisione troppo facile veniva nullameno oppugnata dall'anonimo
lombardo, che nei _Pensieri_ sull'Italia dichiarava incompatibile
coll'indipendenza italiana la sovranità temporale del papa, e opera vana
ogni tentativo di riforma su questa. Quindi consigliava la formazione di
tre regni: il primo col Piemonte, il Lombardo-Veneto e Parma con Torino
residenza della corte e Milano sede del congresso nazionale; il secondo
colla Toscana, Modena e lo Stato pontificio avrebbe Firenze per sede del
principe e Bologna per quella del congresso; il terzo con Napoli sede
del sovrano e Palermo sede del congresso. Roma città libera resterebbe
al pontefice sotto la protezione dei tre sovrani. Uno statuto uniforme e
una lega doganale dovevano stringere i tre regni. Altri, come il
Galeotti nel libro della _Sovranità temporale_, erano invece d'avviso
che a riformare gli Stati pontifici bastasse il richiamo delle antiche
leggi e principalmente dei capitoli di Eugenio IV; Gino Capponi nelle
_Attuali condizioni della Romagna_ non dubitava nemmeno della necessità
del governo temporale e si limitava ad augurare migliorie e riforme; il
D'Azeglio nel celebre opuscolo sui _Casi di Romagna_, dopo una critica
calma dell'orribile sgoverno di quelle provincie, concludeva poveramente
a consigliare maggior pazienza ai sudditi e minore durezza al sovrano,
non sospettando nemmeno che lo scopo dell'imminente rivoluzione nello
Stato pontificio sarebbe appunto la doppia proclamazione della
repubblica romana e dell'abolizione del potere temporale.

In tanti disegni nessuna idea chiara o proposta concreta. Nè il problema
dell'indipendenza, nè quello della libertà erano posti nei loro veri
termini. Se il concetto della federazione fosse stato organico avrebbe
prima rampollato nelle corti che nel popolo, atteggiando diversamente la
loro politica: invece corti e popoli erano così divisi dal sentimento
inconscio della rivoluzione che la federazione proposta doveva
risolversi in un agguato per entrambi. Se l'idea della libertà fosse
stata cosciente nei popoli e nei principi, la loro doppia politica non
si sarebbe svolta in così triste antagonismo e le costituzioni sarebbero
state invocate e concesse con uguale sincerità e col magnanimo proposito
di combattere l'Austria; ma la libertà era invece odio pei
rivoluzionari, ribellione pei governi, peccato pei preti, disordini per
la plebe, martirio pei pochi generosi che la ritentavano ogni giorno in
tragedie isolate. E di libertà seguitava a fremere la letteratura coi
drammi del Niccolini e colle satire del Giusti fra l'imbroglio di
transazioni assurde e di combinazioni impossibili, di reticenze perfide
e di sottintesi indicibili, mentre Mazzini sempre terribilmente limpido
guidava il battaglione sacro delle idee e delle poche forze
rivoluzionarie su per l'erta di una nuova epoca storica.




LIBRO QUINTO

L'ULTIMA RIVOLUZIONE FEDERALE




CAPITOLO PRIMO.

I prodromi


                                  Effervescenza dell'opinione.

Il fermento rivoluzionario cresceva.

Tutta l'Europa era corsa da fremiti di rivolta: in Francia l'ibrida
monarchia di Luigi Filippo, logora da oltre quindici anni di corruzione
e senza base nella coscienza del paese, era ridotta alla vita precaria
dei propri ministeri; la democrazia accresciuta di tutte le forze del
socialismo, che dalla gloria di un'ammirabile letteratura passava
intrepidamente alla tragedia dell'azione, l'assaliva da ogni parte
rivelandone con implacabile critica la perfidia delle trame e l'inanità
delle idee. In Germania il lavoro della ricostituzione nazionale,
avviluppato nel panneggiamento di troppi sistemi storici e filosofici,
si veniva sbrogliando coll'aiuto delle idee francesi più terribilmente
logiche e chiare. L'Austria, rappresentante dell'assolutismo e del più
eteroclito impero europeo, veniva quotidianamente assalita dalla
democrazia tedesca nel nome della nazionalità e della libertà, mentre la
Prussia, incapace di comprendere ancora la propria missione storica, si
vedeva al tempo stesso blandita e oppugnata dai rivoluzionari a seconda
del loro metodo costituzionale o giacobino. La Polonia scuoteva tratto
tratto le proprie catene con impeti disperati; l'Ungheria ligia alla
propria aristocrazia magiara resisteva con minacciosa energia alla
depressione uguagliatrice della burocrazia viennese, che mirava a
stringere l'unità dell'impero schiacciandovi tutte le differenze
etnografiche e nazionali; l'Italia, terra mista e campo aperto a tutte
le idee più disparate, si sollevava con fede improvvisa verso un trionfo
indefinibile che avrebbe dovuto risolvere miracolosamente tutti i suoi
centenari problemi.

Le riforme concesse dopo il 1814, come espediente di governo per
combattere la rivoluzione, sembravano ad un tratto divenute l'unico
ideale dei popoli. L'indipendenza dallo straniero, nella quale si
accordava ogni partito, era una tregua convenuta fra governo e
rivoluzione nell'inconfutabile coscienza d'una necessità comune, una
specie di campo chiuso al valore di tutti i combattenti e sventolante
gioiosamente delle più varie bandiere. Il concetto di patria, così
chiaro nella letteratura nazionale degli ultimi 30 anni e nullameno
ancora così torbido nella coscienza delle masse, si effondeva
improvvisamente come una poesia irresistibile nelle parole di tutti: non
si ciarlava, non si cantava, non si ballava più che per l'Italia. Il
sentimento nazionale educato dalla lunga opposizione all'Austria aveva
finalmente conquistato la coscienza di se medesimo; nessuno osava più
essere apertamente austriacante, poichè la logica del pensiero e
l'onorabilità del carattere se ne sarebbero offese. Comunque l'Italia
fosse infelice od oppressa, anzi per questo medesimo, bisognava essere
italiani: l'orgoglio nazionale ridesto dal valore spiegato nei libri e
nelle congiure degli ultimi tempi, osava finalmente riaffacciarsi alla
storia. L'Italia ignota persino a se medesima nel secolo passato, poi
invasa dallo strepito della rivoluzione francese come un immenso
dormitorio, nel quale tutto un popolo d'infermi e di poveri sonnecchiava
nell'ozio e nella fame, quindi riordinata violentemente a caserma dal
primo impero, ridivenuta albergo dei propri principi fuggiti e degli
antichi padroni stranieri nella ristorazione del '15, era adesso una
terra inerme che parlava di armi, piena di dotti e di poeti, di
congiurati e di politicanti, con una aristocrazia stretta intorno ai
troni come per difenderli dalle estranie influenze, con una borghesia
destatasi all'immenso moto europeo e confusamente conscia che ogni fatto
futuro sarebbe per lei una conquista, con un popolo al quale il rombo
delle idee e le frequenti percosse della polizia avevano messo l'orgasmo
della ribellione contro l'autorità senza giustizia e senza carattere
nazionale.

La necessità delle riforme, accresciuta tuttodì dall'esame delle
condizioni politiche ma abbellita dalla improvvisa giocondità di un
accordo fra popoli e governi, non presentava ancora nulla di troppo
pericoloso; non si minacciavano più i principi; le classi non si
astiavano più fra loro, una specie di benevolenza, metà ingenua e metà
perfida, addormentava le diffidenze degl'interessi e le ripugnanze dei
principii. Si capiva e si diceva che le riforme avrebbero condotto alle
costituzioni, ma questa parola non molto meglio determinata delle altre
non palesava ancora tutto il proprio contenuto rivoluzionario.
L'aristocrazia sperava di conservarvi quasi tutti i vecchi privilegi, la
borghesia di guadagnarvi parecchi diritti colla doppia forza del censo e
della coltura, il popolo di liberarvisi da molte angherie. I veri
rivoluzionari, ostinati nell'unità e nella republica, venivano giudicati
alla stregua degli incorreggibili sanfedisti ed austriacanti: ogni
regione d'Italia si accingeva al rinnovamento conservando nella vanità
inevitabile della nuova opera le vecchie superbie delle autonomie.
L'unità della patria, così bene affermata dalla letteratura, diventava
unione nell'idea politica d'allora: si parlava di dieta, di lega
doganale, di statuti uniformi; era una risurrezione medioevale che
lasciava a Roma il papato, come se la rivoluzione e l'impero francese
non l'avessero due volte soppresso, e tutte le antiche capitali nel loro
storico antagonismo. Palermo risognava di emanciparsi da Napoli pur
conservandone la dinastia, Genova vaneggiava contro Torino nei ricordi
dell'antica repubblica, Firenze rimuginava i propri secolari disegni
d'ingrandimento contro i ducati limitrofi, il Piemonte mirava al
Lombardo-Veneto come a preda troppo lungamente agognata, mentre Milano
rammentava, con palpiti superbi di donna, la sua ultima gloria di
capitale del regno italico, e Venezia, isolata nel silenzio delle
lagune, fantasticava la libertà dinanzi alla gloria immortale dei propri
monumenti.

Era un idillio politico. Nessuna di quelle terribili passioni che covano
le vere rivoluzioni, trapelava dalla scompostezza del nuovo moto: non
fede religiosa, giacchè in Italia fu sempre scarsa, e il papato non fece
che diminuirla e la religione cattolica era piuttosto ostile che
favorevole ad ogni forma di rivoluzione italiana: non tradizione regia,
capace di difendere le centenarie dinastie contro disegni giacobini e
prepotenze imperiali; non odio al principato, disonoratosi nell'ultimo
secolo con ogni bassezza morale e politica; non amore alla repubblica,
che non fu mai italiana; non orgoglio di libertà, della quale era
mistero il significato moderno; ma una irritazione prodotta dalla
politica austriaca ed austriacante, e una velleità d'emancipazione che
facesse senz'altre fatiche rifiorire il benessere materiale paesano. E
il moto non era solamente federale per tradizione ma per un sottinteso
ipocrita che, giudicandolo meno osteggiato così dai principi che
dall'Austria, lo sperava più facile: forse quest'ultima, preoccupata da
altre necessità interne, lo avrebbe lasciato passare e la rivoluzione si
sarebbe svolta come una festa. Poi il caso o la fortuna d'Europa
avrebbero aiutato.

Si desiderava da suddito diventare cittadino, ma si aspettava questo da
una concessione generosa di principe; si sarebbe voluta l'espulsione
dell'Austria, ma si ripugnava alla coscrizione, alle enormi spese e agli
immensi disastri, che una guerra nazionale avrebbe costato. Idea e
passione politica non erano limpide ed ardenti che nei pochi
rivoluzionari: il grosso partito riformista non aveva come tale nè l'una
nè l'altra, e non pensava ai problemi della nazionalità, della sovranità
e del papato; sottomesso ai principi non vedeva in loro un principio ma
un buon espediente contro l'avvento rivoluzionario del popolo; imbevuto
di cattolicismo non ammetteva libertà religiosa, e ripugnava all'unità
specialmente per terrore superstizioso di Roma; nemico dell'Austria, non
la odiava abbastanza da accettare contro di essa una qualunque
rivoluzione.

A quella federale, che si veniva preparando, dovevano quindi mancare
l'idea, il sentimento e lo scopo. Se l'antica federazione aveva
significato l'individualizzarsi dei comuni nella disgregazione
dell'impero, ed era stata invincibile come tutti i progressi, la nuova
dopo la rivoluzione francese, che tende a costituire i popoli prima per
nazioni e poscia per razze, non avrebbe avuto altro significato che di
un esperimento rivoluzionario, nel quale l'Italia liquidasse il proprio
passato. Mentre i moti del '21 e del '31 erano stati egoisticamente
regionali, l'imminente rivoluzione del '48, svolgendosi federalmente con
concessioni di statuti e lega di principi e una egemonia del pontefice,
doveva essere la loro inevitabile conclusione. Così svanirebbero tutte
le resistenze del mondo storico; e l'Italia, ricredutasi nell'inutilità
di questo sforzo supremo, al quale era inconsciamente spinta dallo
spirito moderno, aprirebbe il proprio terzo periodo storico della
nazionalità.

Nulla mancherà dunque dell'antica Italia in quest'ultima rivoluzione
federale. Una stessa illusione vi accorderà tutti i partiti,
costringendoli a fallare nel processo dell'azione rivoluzionaria perchè,
meglio fusi da una sconfitta comune, si trovino nella necessità di
ritentare più tardi una vera rivoluzione. Tutte le monarchie costrette a
concedere lo stesso statuto, avanzandosi sul ponte infido del
costituzionalismo verso la democrazia popolare, faranno la loro ultima
riprova, ma quella solamente fra esse che saprà resistere
all'esperimento costituzionale, avrà un avvenire. Naturalmente ciò
dipenderà meno dalla sincerità del loro carattere in tutte egualmente
ostile al riconoscimento della sovranità popolare, che dall'ambiente
politico nel quale si compierà l'esperienza: quindi fra i due grossi
regni napoletano e piemontese, intorno ai quali potrà agglomerarsi
l'Italia futura, il vantaggio sarà per quest'ultimo.

Ma poichè l'imminente rivoluzione federale dovrà esaurire le secolari
forme storiche d'Italia, il suo impulso apparente verrà dal papato.
L'Italia, tentando rinnovarsi nella modernità, non poteva essere che
neoguelfa e riassumersi entro la più antica delle proprie istituzioni
con uno sforzo d'unione senza unità e di nazione senza individualità.
Dacchè l'impero francese sfasciandosi l'aveva lasciata ricadere nel
passato più povera e più divisa da interessi inconciliabilmente rivali,
solo la grandezza del papato, assicurandole una primazia cattolica, le
dava ancora una ideale unità. Quindi basterebbe al papa il cenno più
lieve ed ambiguo di riscossa perchè a tutti sembrasse più chiaro d'ogni
più esplicita affermazione. Qualunque parola di Roma parrebbe contenere
un programma, ogni sua promessa sembrerebbe maggiore dello stesso fatto
compiuto. L'effervescenza classica, la superstizione religiosa, l'antica
fede, l'immutata soggezione, galvanizzate dall'indefinibile senso
rivoluzionario del secolo, si condenserebbero intorno al papato per
spingerlo inconsapevole ed inconsapevolmente sulla via della
rivoluzione: si vorrebbe con esso una crociata politica, gli si
domanderebbero come molti anni addietro benedizioni ed anatemi
miracolosi, gli s'imporrebbe di costringere Dio alla complicità di
combinazioni diplomatiche che nessuna scienza di stato o volgare
prudenza d'individuo potrebbe approvare. Il papato, idealmente ucciso
dalla rivoluzione francese, oscillerebbe quindi sotto la pressione del
pubblico sentimento, compiendo di suicidarsi coll'accordare una
costituzione inconciliabile colla propria essenza, finchè, di
cosmopolita fatto italiano e costretto a tradire l'uno e l'altro
carattere, finirebbe abrogato da una republica romana, assurda ed
effimera quanto la stessa rivoluzione federale.

Intanto le corti italiane, travolte dall'impulso del papato
all'esperimento delle costituzioni e di una impossibile lega militare
contro l'Austria, si dibatteranno fra perfidie mostruose: la
sollevazione contro lo straniero, precisando all'interno tutti coloro
che non l'avranno aiutata o peggio l'avranno tradita, li designerà come
nemici; l'impossibilità dell'unione spingerà all'unità, l'accordo
giubilante coi principi si muterà in dissidio mortale coll'abrogazione
degli statuti, il nuovo contatto colla rivoluzione europea spazzerà
dalla coscienza nazionale gl'informi antichi concetti storici, i
martirii delle successive congiure colpiranno molti riformisti divenuti
rivoluzionari, mentre il Piemonte mantenendosi costituzionale diventerà
il nocciolo della nazione futura.


                                  Pio IX.

Alla morte di Gregorio XVI (1º giugno 1846) le popolazioni dello stato
pontificio, come presaghe dei tempi nuovi, respirarono gioiosamente. Al
conclave tosto adunato furono spediti _Memorandum_ e petizioni, che,
sebbene male accolti, non scemarono la pubblica aspettazione; siccome si
temevano sommosse, e il generale austriaco Radetzky si disponeva già ad
occupare le Legazioni, grande era il fermento degli animi, ma il
conclave, sbrogliandosi più sollecitamente del solito, proclamò
pontefice contro ogni previsione il cardinale d'Imola, Mastai Ferretti.
Era questi nuovo alla vita politica, senza nè partito nè capacità
politica. Il Lambruschini, candidato austriaco, e il Gizzi, candidato
popolare, rimasti esclusi, rappresentavano le due più grosse parti del
conclave, che, inette a vincersi, avevano dovuto accordarsi sopra un
nome neutro.

Il nuovo pontefice, che si chiamò Pio IX, doveva, malgrado la inanità
del proprio spirito, lasciare nella storia del papato una delle orme più
profonde. Mite di temperamento e gioviale nel carattere, vanitoso quanto
un attore e facile come un dilettante, era l'uomo più adatto al
carnevale del momento, che intendeva a fare di tutto una festa scordando
i problemi della politica nel fracasso della rettorica e avanzando per
una fantasmagoria di illusioni sceniche verso la scabra realtà d'una
rivoluzione presto soffocata nel sangue d'una guerra. Se Gregorio XVI
era stato un teologo ed un tiranno, Pio IX fu un retore della teologia e
della politica, egualmente incapace di comprendere la posizione del
papato nel secolo e in Italia. Quindi invece di una vera riforma
religiosa, quale l'invocavano i più grandi spiriti cattolici, non mirò
che alla teatralità di affermazioni dogmatiche, atte a sbalordire la
plebe e tendenti a condensare l'assolutismo papale senza prevederne i
contraccolpi politici. L'ultimo dogma dell'infallibilità pontificia, che
annulla il potere legislativo dell'episcopato, contradice infatti ben
stranamente alla concessione dello statuto, che doveva rendere il papato
parlamentare. Ma nessun papa svolse nel proprio pontificato più ricco
repertorio di scene. Riformatore, poi rivoluzionario colla promulgazione
dello statuto, eroe nazionale e banditore della crociata contro
l'Austria, quindi reazionario, traditore e fuggiasco a Gaeta sotto
l'egida del peggior tiranno d'Italia; decaduto dal trono per decreto
della republica romana che aboliva il potere temporale, e ricondottovi
da una coalizione monarchica che preludeva al secondo impero: più tardi
battuto dalla conquista savoiarda aiutata da Napoleone III, e nullameno
protetto da questo entro Roma; due volte assalito da Garibaldi ad
Aspromonte e a Mentana, e rovesciato finalmente dalla monarchia italiana
l'indomani di Sedan, Pio IX dovette fingersi prigioniero entro il
Vaticano dichiarato inviolabile. Gloria ed infamia, nulla gli fu
risparmiato. Sollevato a tutte le apoteosi dalla illusione politica di
un momento, e percosso poco dopo dagli anatemi di tutte le coscienze
italiane, potè proclamare il dogma dell'infallibilità pontificia in un
concilio ecumenico, che la rivoluzione del 1870 disperse; accattone
d'aiuti parricidi dopo le più ingenue vanterie patriottiche, imbrattato
di stragi come le perugine malgrado la gioviale bonarietà d'animo,
dominato da ministri concussionari come Antonelli, aggirato dai liberali
e dai gesuiti, fu l'ultimo condottiero del papato, e ne divenne il
becchino fra la più scettica indifferenza mondiale.

Ma il mattimo del suo pontificato apparve così bello all'accesa fantasia
d'Italia che tutto il mondo salutò acclamando.

I primi atti politici del pontefice, benchè per se stessi non
meravigliosi, destarono i più fervidi entusiasmi. Concesse un'amnistia
così umiliante per la formula che alcuni, come il Mamiani, sentirono di
doverla ricusare; nullameno questo perdono di papa parve ultimo miracolo
del cattolicismo. Quindi una indefinibile ed unanime congiura lo circuì.
Lo si vantò più buono e liberale che davvero non fosse, apponendo le sue
dichiarazioni assolutiste ai segretari; il partito clericale medesimo si
scisse in due, dei gregoriani e dei pïani a seconda delle tendenze
reazionarie o novatrici. Ambasciatori da ogni parte del mondo, persino
del sultano, venivano a congratularsi dell'opera riformatrice col nuovo
pontefice; ma ad essere riformatore gli mancavano insieme genio e
carattere.

Infatti le prime commissioni consultive con ammissione di qualche laico
illustre, come i giuristi Silvani e Pagani, l'una per lo studio della
riforma processuale, l'altra con propositi meschini di educandato per la
correzione dei costumi publici, e una terza per la costituzione del
municipio romano, scoprirono tutta l'inanità de' suoi concetti politici.
Ma il publico non potè e non volle accorgersene. Al suo entusiasmo
bastavano alcuni mutamenti nel personale legatizio, poche e tenui
modificazioni nella costituzione dei tribunali, e lo spiraglio aperto
alla stampa colla nuova legge sulla censura, che parve illiberale
persino al D'Azeglio.

Intanto il delirio delle feste e delle acclamazioni cresceva. Una poesia
carnevalesca avvolgeva la figura del pontefice, mettendo nel suo nome
misericordioso il significato di tutte le perfezioni. Ogni giorno recava
nuovi spettacoli di adorazione; la piccola e la grande letteratura
bamboleggiava in panegirici al papa; invece di osservarle,
s'indovinavano attraverso i suoi atti e le sue parole le più spampanate
promesse liberali. Pio IX era tutto, religione, patria, autorità e
libertà fuse nel più stupendo accordo di genio e di santità. I giornali
improvvisati, come il _Contemporaneo_ e la _Bilancia_ a Roma, il
_Felsineo_ e l'_Italiano_ a Bologna, questo diretto dal Berti-Pichat
insigne agronomo, e quello dal Minghetti, che divenne poi celebre
parlamentare, ditirambeggiavano con patriottica e comica ingenuità.
Persino Garibaldi dall'America e Mazzini da Londra credettero buona
tattica del momento scrivere a Pio IX due lettere assurde
d'incoraggiamenti e di devozione. Così, la fede al nuovo papa liberale
si radicava nell'opinione non solo d'Italia ma d'Europa, malgrado la
contraddizione di molti suoi atti, attribuiti puerilmente alla sua
posizione di capo di una istituzione vecchia di diciotto secoli e quindi
atteggiata da abitudini, che nessuno sforzo avrebbe potuto mutare in un
giorno. Il pontefice, ebbro di tanta popolarità, vi si abbandonava con
gioia di attore. La sua stessa bellezza fisica, la potenza musicale
della sua voce, per la quale invaniva almeno quanto pel grado di primo
fra i cattolici, l'ammirazione d'Europa, la costanza di un trionfo che
sembrava dilatarsi di giorno in giorno, tutto contribuiva a trascinarlo
giù per la lubrica china della rivoluzione. Il grande tentativo
liberale, iniziato nel cattolicismo per opera di Chateaubriand, e spinto
con sì ammirabile vigore di stile dal Lamennais alle ultime conseguenze,
favoriva la nuova interpretazione liberale del papato.

I riformisti gongolavano. Gioberti era stimato profeta, Mazzini sembrava
aver piegato, i principi guatavano stupiti il pontefice come attendendo
un suo cenno per seguirlo, il mondo applaudiva, solo i più
incorreggibili rivoluzionari tacevano soffocati dall'entusiasmo
universale.

Intanto con editto del 14 aprile 1847, ispirato dal famoso _Memorandum_
del 1831, s'instituiva la consulta di stato: tutti i legati e delegati
dovevano presentare una terna, dalla quale il sovrano avrebbe scelto un
consultore per ogni provincia: i consultori siederebbero due anni in
Roma e darebbero voto consultivo sulla sua amministrazione,
l'ordinamento del municipio e gli affari interni dello stato. Era una
lustra, che non riconosceva al popolo nessun diritto d'elezione e non
gli offriva alcuna guarentigia. Poco dopo un motuproprio ordinava il
consiglio dei ministri costituendolo del segretario, presidente e
ministro degli affari esteri ed interni, del camerlengo per l'industria
e il commercio, del prefetto delle acque e strade, del prelato
presidente della guerra, del tesoriere e del governatore di Roma per la
polizia. Il governo pontificio restava adunque sulle vecchie basi e col
medesimo organismo prelatizio. Nemmeno questo bastò. Il popolo,
infallibile nell'istinto politico, sentiva che il pontefice sarebbe
andato più oltre, e che questi decreti erano piuttosto l'espressione del
partito vaticano che dell'inevitabile compromesso già stretto fra il
papa e la rivoluzione. Infatti l'Austria spaventata aumentava in
Lombardia l'esercito di occupazione facendo subdole proposte a Guizot,
ministro francese, perchè si adoperasse presso il pontefice a frenare il
moto delle riforme e ad impedire quindi sommosse rivoluzionarie in
Italia. Nel Vaticano era scoppiato il dissidio fra il Gizzi segretario e
il papa: questi alle provocazioni dell'Austria rispose istituendo la
guardia civica a Roma e promettendola alle provincie. Il Gizzi si dimise
profetando la caduta del papato; i gregoriani già ringalluzziti dagli
aiuti austriaci allibirono e tacquero momentaneamente nell'odio.
Frattanto lo stato male ordinato in passato peggiorava fra il vecchio e
il nuovo; sanfedisti e rivoluzionari, gregoriani e pïani, nelle
provincie si percuotevano a morte; le commissioni governative eternavano
i propri lavori, l'azione governativa sprovveduta degli antichi terrori
polizieschi procedeva molle ed incerta, l'azione popolare cresceva
gagliarda.

Al Gizzi successe il cardinale Ferretti, legato a Pesaro. Quindi, per
l'anniversario della concessa amnistia, una congiura, piuttosto
desiderata che ordita dai residui polizieschi del governo gregoriano
contro Pio IX, provocò tumulti liberali, che s'immaginarono di salvare
il pontefice vincendo una battaglia cittadina. Così il popolo
s'impossessò delle armi e il governo cadde in sua tutela, mentre
l'Austria, troncando le ambagi, occupava risolutamente Ferrara. La prima
grande scena del dramma era incominciata. Roma e Vienna inimicate
avrebbero acceso la guerra fra l'Austria e l'Italia. Roma protestò
energicamente, il gabinetto inglese la appoggiò; ma l'Austria tenne
duro, giovandosi della Francia che per mezzo di Guizot consigliava al
papa di restare amico dell'imperatore a qualunque costo. Senonchè la
mossa spavalda di Metternich, anzichè frenare il papa sulla via
pericolosa delle riforme, ve lo spinse più vivamente; le popolazioni
frementi di sdegno all'odiosa provocazione si stringevano più fortemente
al pontefice; tutti i municipii gli offrivano uomini e danari per una
impresa di liberazione; la stampa, rompendo i confini della censura ed
ampliando la questione, pindareggiava di unione d'Italia e
d'indipendenza nazionale. Per la prima volta dopo tanti secoli
un'ingiuria fatta al pontefice re di Roma veniva raccolta come un guanto
da tutta la nazione.

Pio IX, trascinato dalla logica segreta della rivoluzione a farsi
iniziatore di una lega doganale, che avrebbe naturalmente preluso ad una
lega politica, segnava un trattato doganale con Firenze e con Torino,
costituiva il municipio romano, riordinava il ministero precisando le
attribuzioni e la responsabilità di ogni ministro, apriva la consulta
tentando inutilmente di scemarle nel discorso inaugurale il significato
politico. Infatti i consultori nell'indirizzo di risposta gli esposero
nella forma più rispettosa un largo programma di tendenze costituzionali
e patriottiche. La loro inattuabilità non compresa dal popolo, pel quale
tutto era segno di rivoluzione, non sgomentava i consultori: si andò
fino a pretendere che il papa scomunicasse l'imperatore; e la
_Bilancia_, giornale dell'illustre Orioli, affermava essere la scomunica
un'arma superiore a tutte le altre di guerra.


                                  L'agitazione negli altri stati.

Una protesta dei professori allo studio di Pisa contro l'installazione
delle monache del Sacro Cuore cresceva tutto dì nelle stampe clandestine
di Toscana, che invocavano riforme fingendo motupropri dai quali fossero
accordate; il granduca Leopoldo, prima rattenuto dal terrore cieco
dell'Austria, era adesso trascinato dall'irresistibile esempio di Pio
IX. Tutto diventava pretesto di unione con Roma, la sottoscrizione per
gli amnistiati poveri dello stato romano, il terremoto di Pisa e
l'inondazione di Roma stessa. In questa si istituì una ambasciata
toscana distinta dall'austriaca, si stabilì a Pisa una scuola normale,
si nominarono commissioni per diffondere l'istruzione elementare.
L'Austria premeva sul granduca a spaventarlo; i rivoluzionari si
servivano del nome di Pio IX come di una salvaguardia per ogni
dimostrazione liberale. Una nuova legge sulla stampa, colla quale si
concedeva l'esame degli atti governativi, abilmente maneggiata dal
Montanelli in un opuscolo, diventò arma contro il governo: questo,
sempre più stretto dal blocco, ordinò nuovi codici, promise
l'allargamento della consulta, una revisione organica dei municipi.

I giornali pullularono: Salvagnoli nella _Patria_ propugnava l'accordo
della libertà col principato e quindi una lega di principi per la difesa
dell'indipendenza italiana, La Farina nell'_Alba_ republicaneggiava,
Montanelli sognava nell'_Italia_ dietro al papato di Gioberti. La prima
grossa battaglia giornalistica fu per l'istituzione della guardia
civica, alla quale il duca ripugnava per istinto e per minaccie
austriache, ma nella quale dovette consentire, travolto dalla marea
assordante della publica opinione. L'armamento del popolo era il primo
passo del principato all'abdicazione, gli altri furono segnati dai
preparativi e dalla concessione finale dello statuto. All'agitazione
liberale crescevano adepti ed aiuti: il barone Bettino Ricasoli, che fu
poi la più onesta ed altera figura fra i successori del conte di Cavour,
scriveva petizioni al governo, guidando contro di esso la parte più
assennata del paese, ma sperando tutto dalla persuasione; Gino Capponi,
austero gentiluomo ed elegante letterato, capo di un'altra frazione del
partito moderato, si riprometteva maggiormente da legali agitazioni. Il
partito radicale aveva sede a Livorno, ove Guerrazzi ne era l'idolo e
Bartelloni il più efficace tribuno; Centofanti e Montanelli guidavano
l'università di Pisa. Intanto le scosse di Roma propagandosi, eccitavano
le popolazioni e sbaldanzivano i governi: ogni avvenimento diventava
festa, ogni festa dimostrazione; l'anniversario della morte dei Bandiera
e della cacciata dei tedeschi da Genova, l'assunzione del papa, la morte
a Genova del celebre agitatore irlandese O' Connell e di Confalonieri a
Milano, la sconfitta del Sonderbund a Lucerna, i ricevimenti per tutte
le capitali italiane di Cobden e di Cormenin, provocavano esplosioni di
rettorica rivoluzionaria e patriottica. Guerrazzi, commemorando a
Gavinana la morte di Ferruccio, produsse quasi una rivolta: il principe
Bonaparte di Canino, volgare ma coraggioso istrione politico, traversò
la Toscana, poi Genova e finalmente Venezia, vestito da guardia civica
romana, arringando e tirando il publico a teatrali giuramenti colle
spade sguainate nel nome d'Italia. Le riforme concesse troppo tardi, mal
volentieri e a sbalzi, anzichè placare il fermento l'accrescevano; il
nome d'Italia, gridato da tutti, minacciava di morte i governi
regionali; da Livorno si mandò a Garibaldi, divenuto glorioso in America
per battaglie vinte, una spada d'onore, e una medaglia d'oro ad Anzani
che con lui aveva colà organizzato la legione italiana.

A Lucca, siccome Carlo Lodovico seguitava nei più turpi disordini,
ricusandosi con insolente spavalderia a qualunque riforma liberale, il
popolo offeso impegnava contro di lui una lotta, nella quale ebbe presto
il sopravvento. Allora il duca, spaurito e vessato dagli enormi debiti,
precipitò la cessione del ducato alla Toscana; l'Austria intervenne in
nome dei vecchi trattati per ottenere al duca di Modena la Lunigiana,
chiave strategica della media Italia. Corsero ribalde trattative da
tutte le parti, ma la regione restò momentaneamente a Modena
spalleggiata da Vienna. La mala condotta di Leopoldo verso gli abitanti
di Fivizzano, che gli si erano rivolti per non essere ceduti al duca di
Modena ed avevano poi invocato persino Carlo Alberto e Pio IX,
determinarono a Livorno una esplosione popolare, nella quale soffiò il
Guerrazzi. Ne venne quasi una guerra civile, ma il duca fu sollecito al
riparo, invadendo con grosse soldatesche la città ed arrestandovi tutti
i caporioni. Il moto si disse sedato, però il governo non ne divenne più
forte.

Frattanto essendo morta (17 dicembre 1847) la duchessa di Parma, Maria
Luigia, l'Austria ne profittò per prender maggior piede in Italia contro
l'imminente rivoluzione. L'ex-duca di Lucca, divenuto duca di Parma per
diritto di riversibilità, ne prese momentaneamente possesso,
riconfermando dietro monito austriaco gli odiati ministri della defunta
duchessa e rispondendo alle petizioni popolari, invocanti migliori leggi
e municipii elettivi, col darsi in braccio a Vienna. Così, dopo aver
venduto i propri sudditi di Lucca al granduca di Toscana al prezzo di
uno scudo per testa, il 24 dicembre firmava un trattato coll'imperatore,
concedendogli di occupare militarmente lo stato per interesse di comune
difesa: al quale trattato avendo tosto acceduto il duca di Modena,
l'Austria contro i patti del 1815 era fatta padrona del Po e degli
Appennini. Quindi col pretesto di scortare il cadavere della duchessa
trasportata alle tombe imperiali di Vienna, Metternich fece occupare
colle artiglierie Parma, poi Modena.

Ma tutta Italia guardava insistentemente a Carlo Alberto. L'istinto
politico della rivoluzione intuiva che solo il Piemonte avrebbe potuto
guidare una guerra d'indipendenza contro l'Austria, qualunque fosse il
passato e il carattere del suo re. Carlo Alberto, attorniato dai gesuiti
e dominato dal conte Solaro della Margherita, il più reazionario fra i
ministri italiani, si sentiva passare entro l'anima assiderata il vento
caldo della rivoluzione a risvegliarvi vecchi rimorsi e speranze.
L'orgoglio tradizionale della sua casa, la sua stessa alterigia
romantica di re assoluto e di cavaliere, lo traevano alla fortuna di una
guerra che gli raddoppiasse i dominii, dandogli una vera supremazia su
tutti i principi della penisola; ma il terrore delle idee
rivoluzionarie, la bigotteria regia e cattolica, l'inguaribile dubbiezza
del suo spirito incapace di affrontare risolutamente alcun problema, lo
rattenevano sulla china delle riforme, irritando la sua gelosia per Pio
IX. Quindi proibiva persino le funzioni ecclesiastiche celebranti il
nuovo pontefice, pure offerendoglisi cavaliere contro l'Austria già
discesa a Ferrara e minacciosa al Piemonte con un nuovo aumento di dazi
sopra i suoi vini, quasi a sfida: accoglieva trionfalmente l'inglese
Cobden apostolo del libero scambio, e seguiva la dottrina opposta del
List, che aveva fondata in Germania la lega doganale; si ricusava alle
riforme e scriveva una lettera ai comizio agrario di Casale,
provocatrice come un bando di guerra contro l'Austria. Perplesso fra la
diplomazia inglese, che per mezzo di lord Minto lo incuorava ad una
rivoluzione costituzionale, e la politica francese che per mezzo del
conte de Mortier tirava a riconciliarlo coll'Austria, non si risolveva
per nessuna delle due: avrebbe voluto la guerra senza rivoluzione,
guidando l'esercito e tenendo il popolo nella stessa calma obbedienza
mediante poche riforme concesse per decreto reale. Nullameno il moto lo
travolse. Il suo scudo fantastico col leone di Savoia straziante
l'aquila di Asburgo e il motto scritto in francese da lui italiano
«_J'attends mon astre_» esprimeva tutta la torbida poesia del suo
pensiero: una visione di cavaliere antico, chiuso nell'angustia del
proprio spirito e della propria corazza, concependo la rivoluzione come
una festa di popolo e la guerra come il glorioso capriccio di un prode.
Ma la storia, sempre più forte di ogni disegno individuale, lo trasse
irresistibilmente alle riforme, che dovevano in tutti i principati
italiani precedere gli statuti; onde, fra gli osanna del popolo, i
suggerimenti ingenui o perfidi dei liberali e le querimonie della
reazione, dovette con una serie di ordinanze modificare la legge
comunale mettendovi a principio l'elezione popolare, abolire le
giurisdizioni eccezionali, unificare con una nuova corte di cassazione
la giurisprudenza del regno, frenare l'arbitrio della polizia affidata
al ministro della guerra, slargare la legge sulla stampa, stabilire
registri per lo stato civile, democratizzare le promozioni militari.

Naturalmente queste riforme, anzichè recare immediati benefizi,
sconvolsero il vecchio sistema politico, sollecitando le voglie
rivoluzionarie dei liberali. La logica delle cose traeva
irresistibilmente a maggiori concessioni: si denunciavano tutti gli
abusi; l'orgoglio piemontese, vellicato dalla proclamazione nazionale
del proprio re a generalissimo contro l'Austria, domandava
insistentemente un altro più difficile primato colla promulgazione di
uno statuto. Le questioni più vitali, dibattute quotidianamente nei
giornali, esaltavano meglio che non illuminassero le menti; Valerio e
Brofferio, l'uno nella _Concordia_, l'altro nel _Messaggero_, guidavano
la falange più ardita dei liberali; Balbo e Cavour nel _Risorgimento_ si
destreggiavano in un liberalismo più tenero del principato che della
libertà, più preoccupato dei mezzi che del fine. Il vecchio assetto
della società sommossa da tante agitazioni politiche si screpolava;
difettavano uomini e idee; la riforma scesa dai libri e dalle riunioni
accademiche nelle strade non vi diveniva rivoluzione per difetto di
passione e d'intelligenza nel popolo. Il sentimento più vivo di questo
era l'avversione all'Austria, ma non l'odio vero capace dei miracoli di
Grecia e di Spagna; la tradizione più salda era ancora regia, le
aspirazioni liberali salivano dalla borghesia e si confondevano
nell'incertezza della sua cultura e nella imperfezione del suo
carattere. Tutta la violenza era di parole e tutta l'opera di feste. Si
temeva pazzamente dei gesuiti, le fazioni inviperivano nelle più astiose
e stolide polemiche, la diffidenza scendeva e saliva dal popolo al
principe, la vertigine del vuoto faceva turbinare tutte le teste. Due
soli vedevano chiaro in tale tramestio, Mazzini e Metternich: quegli
affermando recisamente che tutti gli ordigni dei moderati crollerebbero
ben presto, e il popolo proromperebbe con manifestazioni da obbligare
l'Austria ad invadere i paesi vicini; questi scorgendovi una sovversione
rivoluzionaria che avrebbe forse guidato alla republica, ed
affrettandosi a dichiarare in un _Memorandum_ alle potenze che l'Italia
era _una semplice espressione geografica_ e non sperando più che nelle
inevitabili divisioni italiane. «Gli italiani fortunati s'invidieranno,
sfortunati si malediranno, discordi sempre vincitori o vinti». E fu
profezia.

A Napoli, terra votata da secoli al più efferato dispotismo, l'impulso
dato inconsciamente da Pio IX alla rivoluzione vi peggiorò il governo.
Il re, impantanato nella più scempia bigotteria, lasciava compiere a
ministri truci o rapaci, come il Del Carretto e il Santangelo, qualunque
infame prepotenza: unica politica la repressione. Nullameno
l'opposizione dei patriotti, quantunque più napoletani che italiani,
sempre egualmente scarsi di idee e di coraggio, si ostinava al cimento.
Infatti nella celebre protesta elaborata dal comitato rivoluzionario e
scritta dal Settembrini, forma e sostanza erano del pari insufficienti.
Prolissa come una requisitoria, sparsa qua e là di frasi pietiste a Pio
IX, minuta e pedante nell'accusa, non esciva dal popolo e al popolo non
si rivolgeva: pareva un appello all'Europa e non era che un'arringa
d'avvocato senza severità di stile e veemenza di passione; negava e non
riaffermava; uscita dall'anonimo si perdeva nel vago, più lamento ancora
che protesta, troppo lunga per un proclama e troppo scomposta per un
_Memorandum_, non abbastanza rivoluzionaria nell'intenzione e troppo
poco italiana nel sentimento. Non pertanto parve ai liberali un
capolavoro e un pericolo al governo. Questo, infellonito dalle accuse
consegnate così a tutta la stampa europea, cercò a morte gli autori, che
esularono o si nascosero. Ma il fermento aumentava minaccioso nelle
provincie. Ai primi di settembre (1847) una sommossa scoppiava per opera
dei fratelli Plutino e di Romeo a Reggio e a Messina, prontamente e
ferocemente repressa. I generali Landi e Nunziante vi si copersero
d'obbrobrio; Domenico Romeo vi fu trucidato e un suo nipote costretto a
portarne la testa in giro per le ville. Ma quasi l'immanità della
repressione fosse insufficiente, il re con editto dell'otto settembre
invitava tutti i cittadini a farsi spie del trono dando sicurtà «che i
loro nomi resterebbero sepolti negli arcani della polizia, che
proporzionata all'utile sarebbe la ricompensa, e che la sovrana clemenza
non lascierebbe alcun servigio senza premio». Un altro editto poco dopo
prometteva trecento ducati a chi uccidesse, e mille a chi consegnasse
dieci ribelli, dei quali si davano i nomi. A queste tiranniche empietà
rispondevano, elogiando, le corti di Vienna, di Berlino e di
Pietroburgo, mentre Ferdinando II, come impazzito di ferocia e atterrito
da una ovazione fattagli per il licenziamento del ministro Santangelo,
proibiva con nuova ordinanza al popolo di gridare persino, Viva il re!
Naturalmente l'ordinanza non fu obbedita e ne nacquero risse sanguinose
fra il popolo e la sbirraglia.

La Sicilia, sempre implacabile nell'odio al governo napoletano, ne
approfittava per insorgere un'altra volta. Uno scritto diffuso per
Palermo il 12 gennaio 1848, vi chiamava tutti i siciliani alla rivolta,
sfidando il governo come ad un torneo mortale. Il governatore militare
bombardò prima la città; poi, trovata la resistenza troppo dura, tentò
accordi; il conte d'Aquila sopraggiunto s'interpose chiedendo
concessioni al re; Ferdinando spaventato alcune ne diede, molte altre ne
promise; ma Palermo, fidente nel proprio sogno di autonomia, le respinse
per tentare d'organizzarsi a governo. I comitati costituitisi nella
prima ora della rivolta si restrinsero in uno solo: Ruggero Settimo ne
fu presidente, Mariano Stabile segretario. La lotta proseguì feroce
d'ambo le parti, ma le truppe napoletane dovettero indi a poco levare il
campo. Per ultima orribile rappresaglia di guerra il generale De Sauget,
prima d'imbarcarsi, fece aprire le carceri della città sguinzagliandovi
dentro cinquemila galeotti. Frattanto la rivoluzione si era diffusa;
solo qualche fortezza restava ancora ai regii nell'isola.

Il primo scoppio della rivoluzione federale vampeggiava dunque dalla
Sicilia, che la storia non aveva mai potuto congiungere all'Italia, e
nella quale nessuna conquista si era mai saldamente stabilita.


                                  Gli statuti.

I fati incalzavano. L'insurrezione vittoriosa della Sicilia, atterrando
la corte di Napoli, inanimì i liberali; l'Austria, inabilitata a
soccorrere i Borboni, giacchè il papa offeso dell'occupazione di Ferrara
vietava ogni transito pel proprio territorio, non bastava più a
proteggerli; le provincie di terraferma tumultuavano, la plebe delle
città era incerta, l'esercito per quanto numeroso non abbastanza solido.
Il Cilento era in fiamme; Constabile Carducci con forte mano d'insorti
minacciava Salerno; la resistenza avrebbe acceso la guerra, questa
spaventò il re. A scongiurarla con vecchia abilità di famiglia,
Ferdinando II pensò di concedere più che non gli si domandava, e diede
la costituzione incaricandone Ferdinando Bozzelli, antico liberale che
doveva poi disonorarsi nella cortigianeria di troppi tradimenti. I truci
funzionari polizieschi furono congedati, s'instituì un nuovo ministero.
A tanta prodigalità liberale il popolo esaltato proruppe in ovazioni:
odii ed infamie furono dimenticate. I capi rivoluzionari al solito
credettero nella lealtà del re, non si pensò al tradimento, si riprese
l'idillio politico del '20 colla stessa ingenuità. La costituzione
imitata sulla francese non era troppo liberale, e nullameno eccedeva
forse la capacità politica del paese: unica religione riconosciuta la
cattolica, il potere legislativo nel re e nel parlamento diviso in due
bracci, senato a nomina regia e a numero illimitato, la camera dei
comuni per elezione popolare. I collegi elettorali erano di 40,000
abitanti, gli elettori culti o censiti, ma entrambe queste loro qualità
ancora indeterminate; liberi i comuni, vietato l'assoldamento delle
milizie straniere, istituita la guardia nazionale, riconosciuto il
diritto di petizione, uguaglianza dei cittadini in faccia alla legge;
libera stampa meno che sovra argomenti religiosi; cancellato ogni
precedente e condanna politica. Il potere esecutivo risiedeva nel re e
nei ministri da lui nominati.

Questo, che stordiva i napoletani, non bastò alla Sicilia ostinata nella
propria autonomia o nella fede alla costituzione del '12. Così la guerra
proseguiva con vantaggio crescente degl'insorti, che il 20 febbraio 1848
indissero il proprio parlamento.

Ma la costituzione, concessa dal re con traditrice riserva e accettata
dai liberali con fanciullesca ingordigia, poco adatta ai costumi e mal
compresa dalle masse, non funzionava. La corte segretamente alla testa
del partito retrivo moltiplicava gli ostacoli: v'erano due governi,
l'uno palese e l'altro invisibile, quello debole ed impacciato, questo
attivo e spregiudicato; il parlamento stava per diventare, come sempre,
un'accademia, il ministero fra astrattezze liberali e servili
cortigianerie mal poteva imporsi al paese e alla corte; i vecchi poteri
restavano con nomi nuovi disobbedendo e falsando ogni mutazione; nelle
campagne insubordinate e spinte a tumulti si rapinava; la guardia
nazionale poco o punto armata, organizzata appena per qualche rivista e
incapace di alcun vero servizio, non giovava; l'aristocrazia invecchiata
negli usi dispotici ricalcitrava all'obbedienza della borghesia
trionfante; il popolo aspettava lautezze e sbraitava profittando della
nuova licenza. Dimostrazioni succedevano a dimostrazioni, peggiorando il
disordine e disonorando la nuova libertà. Si espulsero i gesuiti; la
stampa abbietta ed irruente insudiciò ogni più illibata reputazione.

Tra il tumulto senza la rivoluzione e il mutamento senza la
rinnovazione, d'Italia non si parlava ancora: appena s'erano aggiunti
alla bandiera borbonica i tre colori resi nazionali dalla propaganda
della Giovane Italia.

La costituzione di Napoli scrollò tutti i principati italiani. La antica
rivalità fra Napoli e Torino si riaccese fatalmente, mentre la logica
della storia trionfava d'ogni loro egoistica resistenza. Carlo Alberto
tentò indarno di reagire contro questa suprema necessità degli ordini
costituzionali, che pure avevano fatto la potenza mondiale
dell'Inghilterra e permesso alla monarchia di ripiantarsi in Francia sul
terreno ancora rovente della rivoluzione. Quindi, scrivendo a Leopoldo
di Toscana, che lo richiedeva di consiglio, gli scopriva tutto un
disegno di riforme atte ad appagare le più insaziabili esigenze del
popolo, senza scemare d'una dramma l'autorità assoluta del re: secondo
lui la monarchia parlamentare era il peggiore dei governi. Ma il fiotto
della rivoluzione saliva urlando e schiumando intorno al suo trono;
Toscana e Romagna barcollavano, Roma sembrava in preda al delirio, il
Piemonte fremeva. I libri di Gioberti avendo popolarizzato l'odio ai
gesuiti, nei quali l'infallibile istinto popolare vedeva l'ultima
milizia del dispotismo, tutti i paesi insorgevano per espellerli. Napoli
li aveva cacciati tumultuando, Fano si levava contro di essi a furore,
Ancona e Sinigaglia si avventavano contro gli Ignorantelli loro
propaggine. Faenza, Camerino e Ferrara seguivano l'esempio, la Sardegna
li prendeva a sassate, Genova e Torino si ammutinavano contro di loro.
Era una nuova crociata contro gli ultimi giannizzeri del papato, una
violenza della libertà costretta a diventare dispotica per potersi
stabilire. Carlo Alberto, che fino allora aveva governato coi gesuiti,
resistè: nullameno, per ovviare i tumulti, dovette armare la guardia
nazionale, mentre i tumulti crescevano egualmente e la passione popolare
trascinava tutte le classi. Il re cedette: cominciato l'abbrivo, il
resto precipitò. La stampa, non emancipata che a mezzo, chiese in
quell'immunità del momento la costituzione; i liberali urlavano libertà,
i moderati indicavano il parlamento come l'unico asilo ove risolvere le
questioni imbrogliate dalla piazza, la diplomazia inglese aiutava coi
consigli, la Francia stava per rovesciare l'avvilente monarchia di Luigi
Filippo per ritentare un infelice esperimento repubblicano. I due grandi
municipii di Genova e di Torino presero l'iniziativa domandando al re
uno statuto: Carlo Alberto chiese consiglio al confessore, s'inabissò in
penitenze, e finalmente lo concesse di regia autorità per cansare
l'obbligo di giurarlo. Il triste congiurato del '21 non era ancora morto
nel nuovo re costituzionale.

Ma poichè la patria, come la religione, non conosce peccati inespiabili,
il popolo proruppe all'entusiasmo: tutto fu dimenticato per non
ricordarsi che della nuova costituzione e delle parole bellicose, colle
quali il re minacciava l'Austria. Infatti all'indomani (5 marzo 1848)
chiamava sotto le bandiere tre classi dei contingenti militari. Non era
ancora una sfida, ma era già più che una precauzione di guerra. Il nuovo
statuto, alquanto più liberale del napoletano, non ne differiva
nell'essenza; però, sorto in ambiente politico migliore, potè,
dilatandosi in una costante interpretazione liberale, emendarsi di molti
difetti e neutralizzare qualcuno dei principii dispotici che lo
rendevano piuttosto simile ad una capricciosa elargizione di re, che ad
un patto fra questo e il popolo.

La Toscana, presa così tra due fuochi, dovette ardere anch'essa.
Malgrado le minaccie del Metternich, il quale veniva ripetendo al
granduca di non riconoscergli, come semplice usufruttuario di un
patrimonio imperiale, la facoltà di scemarvi i diritti con colpevoli
concessioni al popolo, Leopoldo II, atterrito dai casi di Livorno,
spinto, sospinto, respinto d'ogni parte, s'arrese a discrezione del
popolo, preparandosi a salvarsi colla fuga appena i tempi ingrossassero.
Lo statuto toscano, ricalcato su quello napoletano e piemontese, fu
migliore d'entrambi nella libertà religiosa.

Maggiori feste, perchè più profondo era il contrasto dei due principii
politici ecclesiastico e civile, occupavano Roma senza stancarla. Le
riforme concesse, ma non ancora praticate e nella più parte
impraticabili, avevano rotto la decrepita compagine dello Stato, senza
spirarvi dentro nessun alito di vita nuova. Come per lo innanzi i
prelati soli reggevano il governo e dovevano guidare un popolo riscosso
dal rombo di molte rivoluzioni. L'entusiasmo pel pontefice,
infervorandosi ogni giorno più, lo metteva così alto che quasi lo
disinteressava dal governo: e questa inconscia abilità dello spirito
publico ingannava papa, corte e piazza. Il giacobinismo inveiva
ragionacchiando di tutto: le imprecazioni ai gesuiti si mescevano cogli
osanna a Pio IX, la guardia civica decorava teatralmente ogni
processione politica, mentre molti moderati cominciavano già a
spaventarsi di un moto, nel quale tratto tratto si sentiva la
rivoluzione, e i mazziniani vi si cacciavano invece soffiandovi come
sopra un polverìo che nascondesse al governo la direzione della strada.
Una protesta per il riordinamento della milizia come risposta alle
provocazioni dell'Austria fu quindi mandata alla consulta; questa la
trasmise al governo, che credette rispondere mostrando ai tre milioni
dei propri sudditi gli altri 200 milioni di cattolici pronti in caso di
guerra a morire per il papa. Vecchia rettorica, che avrebbe dovuto far
sorridere anche coloro che la usavano! Ma il governo cedette ancora, e
finì col nominare un principe romano a ministro della guerra. Ogni
giorno crescevano le difficoltà; le riforme concedute sembravano
giustamente scarse dopo la promulgazione degli statuti negli stati
vicini; il segretario cardinale Ferretti si dimise; il Bofondi, che lo
sostituì, non potè fare di meglio; il governo scese a patti col popolo
in un proclama nel quale si promettevano ministri laici. Proruppero
altre feste: Pio IX dal proprio balcone arringò la moltitudine, che gli
giurò fede in un urlo di demenza e si acquetò come per incanto alla
benedizione papale.

L'antico governo prelatizio era dunque abbattuto, ma il fatto enorme non
fu ben compreso in quella inesauribile baldoria. Il nuovo ministero, nel
quale brillarono per ingegno Marco Minghetti e monsignor Morichini, non
era già più moderato avendo ceduto la direzione della polizia al
Galletti, rivoluzionario bolognese compromesso nei moti del 1844 ed
affigliato ai circoli mazziniani. Tale ultima nomina era dovuta alla
grande popolarità di questo, dietro la quale il neonato ministero
provava già il bisogno di riparare. Galletti alla polizia e il tribuno
Ciceruacchio in piazza formavano la parentesi della rivoluzione, che
doveva soffocare il governo papale.

Ma poichè questo, non sentendo dentro di sè alcun principio di vita,
aspettava come forma viscida e morta dal di fuori l'impronta, che doveva
atteggiarlo in una nuova sembianza di vita, a Roma pure si cominciò a
parlare altamente di costituzione. Era la pretesa dell'impossibile. Il
partito moderato vi conveniva gongolando, i rivoluzionari con abile
perfidia spingevano alla prova. I disegni fioccavano: l'illustre padre
Ventura ne dette fuori uno, nel quale con ingenua serietà proponeva due
camere, l'una eletta dai comizi, l'altra costituita dal collegio dei
cardinali; Pellegrino Rossi, ammirabile ed ammirato letterato di scienze
sociali, mandato da Luigi Filippo al papa come ambasciatore e
consigliere, faceva pompa d'esperienza costituzionale in avvisi al
pontefice e ai prelati sulle forme e sulle funzioni di un papa
parlamentare. La utopia del Gioberti stava quindi per prendere corpo: la
storia, per uccidere più sicuramente il papato, gl'imponeva
coll'impossibile prova d'una costituzione il più mostruoso dei suicidi.

Al solito una rivoluzione di Parigi decise dell'ultima ambage del
pontefice, e lo statuto fu promulgato.

I suoi principii politici, inconciliabili nell'essenza e nella forma, vi
si urtarono entro le più inattuabili disposizioni: le camere invece di
due furono tre, e la terza veniva formata dal collegio dei cardinali
costituito in senato, e che discuteva e votava a scrutinio segreto. Le
camere elettive non duravano in carica più di tre mesi: gli elettori
erano una cerna assurda di censo e di capacità, che non rappresentava
alcuna classe di popolo, e impediva anzi al popolo ogni rappresentanza.
L'altro consiglio alto era vitalizio e di nomina sovrana; così i senati
erano due, l'uno ecclesiastico e l'altro laico, entrambi ingranati nella
stessa costituzione. Alle due camere erano vietate le leggi riguardanti
gli affari ecclesiastici o misti, e tutto era misto nelle teoriche di
Roma e nello stato romano: non dovevano influire sulle relazioni
diplomatiche o religiose della santa sede, non potevano introdurre per
qualsivoglia bisogno, alcuna variante nello statuto. Così l'immobilità
caratteristica del governo papale si riaffermava nella nuova formula
parlamentare essenzialmente progressiva. Lo statuto esprimeva il
beneplacito del sovrano anzichè il diritto del popolo. Pio IX,
concedendolo, aveva confessato di cedere all'andazzo dei tempi, ma,
nonostante la promessa consegnata nell'ultimo articolo dello statuto,
che questo sarebbe inserto in una bolla concistoriale secondo l'antico
rito a perpetua memoria, non ne fu nulla. Pio IX, come Carlo Alberto e i
Borboni, si teneva aperta una via al tradimento.

L'assurdità di tale esperimento costituzionale non parve evidente che a
ben pochi: l'antitesi delle due sovranità popolare e papale sfuggiva
all'inesperienza dei molti e veniva negata per odio alla rivoluzione.
Non si pensava ancora alle conseguenze di sviluppo. Come avrebbe potuto
ammettere la chiesa l'emancipazione degli acattolici, l'abolizione delle
proprie leggi sul sacrilegio, la bestemmia, l'eresia, le immunità, i
privilegi, le giurisdizioni, la sorveglianza episcopale ai beni delle
opere pie? Come avrebbe consentito i matrimoni e i funerali civili, la
libertà di religione e d'istruzione? Come lo stato vi si sarebbe
determinato in faccia alla chiesa? Nel caso di un conflitto fra l'alto
consiglio e il concistoro dei cardinali, chi avrebbe deciso? Il papa? E
allora uno dei due corpi consultivi era inutile. In un conflitto più
terribile, fra la camera elettiva e il papa, chi avrebbe sentenziato?
Fatalmente gli elettori; e allora una rivoluzione avrebbe distrutto il
barocco e artificioso edificio di questo statuto. Naturalmente il
conflitto sarebbe scoppiato anche troppo presto. Nella imminente guerra
coll'Austria Pio IX avrebbe agito da principe o da papa? Come pontefice
era al di fuori e al di sopra di essa, come principe avrebbe dovuto
guidarvi l'Italia. La distinzione fra questi due caratteri come si
sarebbe espressa? Il mondo l'avrebbe intesa? All'Italia sarebbe bastata?
Se lo statuto era una concessione del sovrano, non riconosceva diritti
nel popolo; riconoscendogliene, il sovrano non era più che un
rappresentante di esso come il parlamento. Ma allora il popolo aveva
diritto di mutare anche questa nuova forma di governo, proclamando la
repubblica: infatti questa fu proclamata molto più presto che gli stessi
esaltati non si pensassero.

Intanto il partito moderato vaneggiava al governo col più giovanile
entusiasmo: giù nelle piazze il baccano delle feste assordava gli
orecchi anche più duri. Il nuovo ministero si accinse all'opera con
eccellenti intenzioni, ma senza idee rivoluzionarie, quantunque la
rivoluzione straripasse per tutta l'Europa. A mezzo il mese si sapeva
già che il cantone di Neuchâtel si era mutato per sollevazione, la dieta
di Francoforte aveva sancito la libertà di stampa per gli stati della
confederazione germanica, il re di Baviera concedute più libere
istituzioni: Amburgo, Vittemberga, Sassonia tumultuavano, Vienna era in
fiamme; se ne diceva espulsa la dinastia, l'Ungheria in armi.

L'ora fatale per l'Italia era dunque discesa sul quadrante della storia.
Unità o confederazione e guerra allo straniero, ecco il programma;
armare il popolo, sollevarlo, profittando del suo entusiasmo,
precipitarlo come una valanga sull'Austria atterrita e scomposta.
riconquistare tutta Italia dimenticando in questa conquista ogni gelosia
di principato, ogni riserva di statuto, ogni egoismo di regione, e
l'Italia trionfante si ricomporrebbe, a seconda del proprio diritto.
Solo una vera rivoluzione avrebbe potuto far questo, ma non era
nell'anima nè dei popoli, nè dei principi. Così non si raggiunse nè
l'unità, nè la federazione, e la guerra regia fu lombarda nelle
sommosse, piemontese nelle battaglie, republicana negli assedi, italiana
solo nei tradimenti e nelle sconfitte. Il numero dei volontari vi fu
scarso, quasi nullo il carattere popolare, breve la durata, epico il
valore dei rivoluzionari, infelice la condotta di tutti i governi
traditori o traditi; gli statuti apparvero tranelli, la confederazione
una lustra, le republiche un sogno, il principato piemontese
insufficiente, quello napoletano straniero; Roma sola rappresentò tutto
il mondo nell'abolizione del potere temporale, ma, accecata dal proprio
lampo, volle essere romana anzichè italiana. Non vi fu rivoluzione
interna giacchè nessuna classe ne sostituì un'altra al governo,
carnevale e diplomazia viziarono la guerra, le campagne si scopersero
austriacanti o clericali, l'idea rivoluzionaria impedì l'opera regia,
questa vietò l'accordo nazionale, mentre libertà ed indipendenza si
contraddicevano nella stessa impossibilità di attuazione, affrettando la
disfatta di quest'ultima rivolta federale e costituzionale.

Intanto che tutta Italia si sbizzarriva nel baccanale degli statuti,
sciupandovi forze preziose, nel Lombardo-Veneto la tensione degli
spiriti cresceva tutto giorno. Il problema rivoluzionario, così involuto
negli altri stati, si semplificava sulle terre occupate dallo straniero
nella suprema necessità della sua espulsione. Il dibattito delle future
forme politiche vi era piuttosto querela di accademia che di partito: la
tirannide austriaca era troppo dolorosa per concedere agli spiriti
l'ozio necessario ad una simile discussione. Il conte Fiquelmont,
mandato a sorreggere il fiacco vicerè Ranieri, aveva reso più triste
l'azione della polizia proibendo le ovazioni al nuovo pontefice,
insidiando, violando coscienze e case. Una guerra si era accesa fra
popolo e polizia, accanendosi coi più futili pretesti: i liberali
immaginarono d'impoverire l'Austria non giuocando al lotto, non fumando
e proibendo di fumare.

Erano rappresaglie piuttosto di scolari che di uomini, e parvero eroismi
e alcuni ne produssero. Ma se la diplomazia europea commossa a queste
violenze sanguinose s'intrometteva a placarle, e il vicerè scendeva a
bugiarde promesse, il vecchio Radetzki invece con indomabile baldanza
stringeva la spada pronto a colpire. Sui confini intanto il Piemonte
raddoppiava le guardie; il clero, esacerbato contro l'Austria per la
ferrea disciplina impostagli e per gli sfregi usati a Pio IX, si
schierava dal canto del popolo; persino la rappresentanza municipale,
sempre modello di servilità amministrativa, osava sporgere una protesta
contro l'ultimo editto minacciante tutti i cittadini della deportazione.
Ma il governo austriaco, quantunque minacciato in tutta la varietà delle
proprie provincie dalla stessa rivoluzione e forte solamente nella
propria unità dinastica e burocratica, non cedeva. La sua politica di
mezzo secolo, rendendolo inetto ai sùbiti cambiamenti imposti
dall'opinione dei piccoli principati d'Italia, lo tirava piuttosto al
rischio di una guerra che alle conseguenze imprevedibili degli agguati
costituzionali. Così, mentre Milano si preparava con orgasmo minaccioso
ad un supremo tentativo di riscossa, e Venezia sempre più mite
cominciava appena con Manin e con Tommaseo l'agitazione legale
domandando per mezzo della propria congregazione centrale qualche
riforma, la cancelleria imperiale rispondeva con truce risolutezza e
promulgava la legge stataria incarcerando Manin e Tommaseo come ribelli.

La tensione era estrema in tutto l'impero. La rivoluzione scoppiata
inaspettatamente a Vienna fugò prima l'onnipossente ministro, poi il
debole imperatore.




CAPITOLO SECONDO.

Le sommosse popolari e la guerra regia


                                  Le cinque giornate di Milano.

Alla notizia della rivoluzione viennese il vicerè Ranieri (17 marzo
1848) fugge sbigottito a Verona; Milano, stupita, invece d'insorgere
profittando delle agitazioni di quell'ora, parlamenta; i più autorevoli
fra i patrioti moderati sognano ancora un principato autonomo in una
specie di consorzio politico delle nazioni componenti l'impero, mentre
il governo, falsificando dispacci, largheggia di promesse che tradiscono
il suo timore. Nullameno l'ispirazione popolare guadagna i capi: ogni
ora precipita le decisioni, si aduna un comitato senza nome, nel quale
non si osa ancora la rivolta e si ricusano come insufficienti tutte le
concessioni. Una dimostrazione sotto il palazzo del governo degenera in
lotta, il governatore messo alle strette firma l'ordine che destituisce
la polizia e affida al municipio la guardia della città, ma il
maresciallo Radetzki, niente atterrito dal caso, sguinzaglia parte delle
truppe nelle strade per atterrire la popolazione. Allora l'opposizione,
già cresciuta a lotta, prorompe a mischia. In ogni canto sorgono
barricate costrutte da inermi coll'infallibile ispirazione del momento,
mentre di sui tetti, dai campanili, dalle finestre scoppia una battaglia
ardente come un incendio, nella quale tutto il popolo è al tempo stesso
capitano e soldato. Le campane, suonando a stormo con instancabile
impeto, sembrano gettare all'Italia un appello disperato, il palazzo
municipale preso e ripreso s'insanguina d'eroici cadaveri, ma la
insurrezione domata in un punto vampeggia su tutti gli altri. Invano
Radetzki minaccia di bombardare la città accerchiandone coi propri
soldati i bastioni, più invano il municipio presieduto dal conte Gabrio
Casati, obliqua figura di aristocratico liberale, vorrebbe patteggiare
col nemico, giacchè Carlo Cattaneo, la mente più poderosa della città,
cinto da uno stuolo di giovani, fra i quali primeggia Enrico Cernuschi,
dirige con mirabile alacrità la battaglia. Teatri e musei privati
forniscono le prime armi, che, troppo scarse al bisogno, sono sostituite
da qualunque arnese di morte: nulla sgomenta i ribelli, si bruciano
edifizi, si conquistano cannoni, ogni casa diventa fortezza, si
assaltano le caserme con valore irresistibile e una scienza improvvisata
di guerra. Il popolo potente di concordia supera se stesso nella
generosità, rispettando prigionieri i più truci capi della polizia
austriaca; non un misfatto guasta la vittoria, che Anfossi col proprio
sangue e Luciano Manara con un eroismo foriero di eroismi maggiori
consacrano: e mentre il municipio inguaribilmente timido sta per cadere
nell'agguato tesogli da Radetzki con una proposta di armistizio, e si
muta all'ultima ora in governo provvisorio a frenare l'impeto della
rivoluzione che potrebbe forse salvare l'Italia, battaglioni di
volontari cacciano gli austriaci dalla città. Governo provvisorio e
comitato di guerra vi rimangono padroni e rivali.

Intanto Como è già insorto patteggiando col proprio comandante Baumüller
che la custodia della città sia divisa fra la guardia civica
improvvisata e il presidio militare, ma questo capitola dopo due giorni;
Bergamo e Brescia costringono gli austriaci alla fuga; Cremona induce il
battaglione italiano Ceccopieri a fraternizzare col popolo; Verona,
assediando il vicerè Ranieri rifuggitovisi, lo obbliga ad accordare
l'armamento della guardia civica; Mantova costringe il proprio
governatore Gorczkowsky alla stessa concessione.

Pare una leva in massa contro lo straniero e nullameno la rivoluzione
fallisce: si combatte l'Austria, ma non si afferma ancora nettamente
l'Italia, il concetto della nazionalità s'intorbida nella lotta, non si
sa quale governo costituire o a chi darsi. La secolare soggezione allo
straniero dura in fondo a quasi tutte le coscienze, il movimento
municipale rimane frammentario e contradittorio, manca la bandiera ai
combattenti e l'idea ai rivoluzionari. Quasi tutte le città sono insorte
al grido di Viva Pio IX, che non può essere nè il loro sovrano nè quello
d'Italia: la rivolta, incapace di sorpassare la propria negazione, si
contradice nelle intenzioni e vien meno nelle misure. Così Bergamo e
Brescia si lasciano sfuggire l'arciduca Sigismondo, Cremona manda libero
il comandante austriaco, Mantova abbindolata dal proprio vescovo non
occupa i fortilizi e non cattura l'arciduca d'Este fuggiasco
dall'insurrezione di Modena, Verona non osa impadronirsi del vicerè
Ranieri. Modena si è sollevata contro il proprio giovane duca, più vile
ma non meno tristo del padre Francesco IV; Parma si è ammutinata contro
il duca Lodovico, mentre Piacenza sempre rivale ha già formato un
governo provvisorio separato, e la loro ribellione non mostra ancora
carattere nè rivoluzionario nè militare. Il duca vi delega una reggenza
per compilare una costituzione; quindi, colpito da vecchie e legittime
diffidenze, vi rimane semiprigioniero qualche giorno, finchè esula,
commettendo al municipio la nomina di un governo provvisorio ed
invocando sullo stato la tutela di Carlo Alberto.

Mentre Milano al quinto giorno interrompe la propria insurrezione colla
minaccia dello straniero, Venezia riscossa dal rombo della battaglia
lombarda, si era già precipitata alle carceri per liberare Tommaseo e
Manin. Prima gli operai dell'arsenale vi trucidano un colonnello, Manin
con poche guardie civiche s'impossessa dei cinquantamila fucili che vi
sono in deposito e punta le artiglierie contro la caserma dei croati,
lasciando il municipio stringere dappresso il governatore per
costringerlo a capitolare. Gli austriaci, ritirandosi con tutti gli
onori delle armi, odono il formidabile urlo popolare ripetere per tutte
le isole della laguna il grido di Manin: viva la republica! Le antiche
glorie paesane rifiammeggiano nelle fantasie, Manin acclamato presidente
sarà l'ultimo doge di questa suprema scena repubblicana, che cancellerà
col sangue di molti prodi l'onta di Campoformio. Padova, Treviso,
Vicenza, Rovigo, Udine, Belluno si ribellano; pochi insorti espugnano i
forti d'Osoppo e di Palmanova, ma anche le città venete ripetono
l'errore delle città lombarde. Verona resta in mano al nemico, Venezia
tentando impadronirsi della squadra austriaca di Pola, montata da
marinai veneti, con un dispaccio annunziante loro la rivoluzione, si
serve di un vapore del Lloyd e permette al Palffy dianzi governatore di
salirvi. Naturalmente questi fa rotta per Trieste e le autorità di Pola,
informate a tempo, impediscono l'ammutinamento delle ciurme.

Radetzky, respinto dall'insurrezione di tutti i paesi, si era dovuto
chiudere nell'imprendibile quadrilatero di Mantova, Verona, Legnago e
Peschiera. L'Austria, sconquassata dalla rivoluzione di Vienna e
aggredita da quella d'Italia, dominava ancora sulla penisola dall'alto
di fortezze, alle quali solamente eserciti regolari potevano porre
l'assedio. I lupi ammassati negli antri spaventerebbero quindi fra poco
quegli stessi cacciatori, che li cacciavano con gioconda intrepidezza
pei campi.

A Milano la rivoluzione vittoriosa dello straniero soccombe al proprio
problema. Poichè il moto italiano è federale, Milano non può che
incorporarsi al Piemonte o erigersi in seconda repubblica: ma nel primo
caso la dedizione contrasta ai sentimenti liberali e al legittimo
orgoglio del popolo tuttora insanguinato della propria vittoria, nel
secondo un'altra repubblica Cisalpina con Milano capitale sarebbe
osteggiata da tutte le altre città minori insorte, dai principi d'Italia
e dall'Europa monarchica. D'altronde un nuovo stato lombardo non avrebbe
radice nè nella tradizione troppo remota, giacchè alla Cisalpina di
fondazione francese mancarono sempre autonomia e libertà, nè nell'idea
rivoluzionaria inconsciamente aspirante all'unità. L'insurrezione contro
l'Austria, determinata da feroci angherie di governo straniero, non
aveva ancora in se stessa abbastanza odio per mutarsi in vera
rivoluzione. Infatti le campagne partecipavano ben poco al moto delle
città; queste, contente alla cacciata del nemico, non lo inseguirono,
rispettarono gli agenti di polizia prigionieri, accettarono per capi
molti di quella aristocrazia che aveva sempre più o meno servito
all'Austria. Non si osò di colpire gli arciduchi, si credette alla
parola dei vescovi, non si ardì negare assolutamente lo straniero,
inseguendolo colle spade alle reni, trucidando i suoi adepti,
precipitando la guerra civile coi falsi liberali, e cogli aperti
austriacanti. Si rifuggì da una dichiarazione francamente republicana,
non si comprese la necessità del terrore. Il grido di viva Pio IX, col
quale cominciò l'insurrezione, non poteva essere il grido di nuovo
Vespro Lombardo: la supremazia lasciata al municipio reazionario era già
una confessione di servitù, la guerra non proseguita immediatamente
indicava la stanchezza succeduta ai primi sforzi. Il comitato stesso di
guerra non seppe schiacciare il municipio, assumere l'immensa
responsabilità della rivoluzione, e spingendo il popolo all'estremo
tagliargli la ritirata. L'esempio della Convenzione francese o non fu
ricordato o atterrì anche i più audaci. Si volle essere generosi quando
nell'implacabilità stava la salute; non si capì che ad una rivoluzione
occorre una passione eslege e un'idea chiara. Milano, insorgendo contro
gli austriaci non fu nè lombarda, nè italiana, nè republicana, nè regia:
quindi la vittoria insperata, costringendola a rivelarsi, la confuse. Se
la grande metropoli avesse avuto ancora l'antica supremazia, sentendosi
viva nel cuore la superbia del proprio comune, si sarebbe gridata
republica, e la Lombardia l'avrebbe seguita: ma ciò non fu e non poteva
essere. Se la federazione fosse stata nella sua coscienza avrebbe fino
dalla prima ora invocato il Piemonte, gridando il nome di Carlo Alberto
invece di quello di Pio IX, costituendo un'Italia del nord, e Venezia
forse trascinata dall'esempio avrebbe dimenticato il proprio passato
aderendovi.

Ma la rivoluzione federale di allora, falsa nell'idea e nel processo,
doveva avvolgersi per tutte le provincie d'Italia nelle stesse
contradizioni: Mazzini, che pronto a rimpatriare cospirava da Parigi
fondandovi una nuova associazione nazionale, si lasciò soverchiare dal
moto: combattè cogli scritti l'illusione monarchico-papale, e vi
cedette, invece di spingere i propri aderenti ad un'azione schiettamente
rivoluzionaria, quantunque tragico ne fosse poi il risultato. Il suo
temperamento di moralista e la sua tempra di apostolo non erano da
tanto: sarebbe stato un tentativo inutile ma logico, e non uno dei
capiparte si mantenne logico in quella tormenta. Dei due problemi della
libertà e dell'indipendenza, così profondamente compenetrati, nessuno
doveva essere sciolto, perchè in nessuno vi poteva essere accordo di
tutti. Infatti nemmeno in quello dell'indipendenza, che pareva il più
facile, si convenne. I governi italiani assisterono allo scoppio della
ribellione lombardo-veneta senza decidersi; l'aborrimento ai tedeschi
nelle provincie, non da questi occupate, era nel popolo poco più di una
antipatia: il caso di Milano non riguardava che il Piemonte, il quale
solo poteva profittarne, incorporandosela.

Così fra il comitato di guerra e il governo provvisorio milanese
s'accese colla vittoria una infelice rivalità: questo avrebbe voluto
aderire subito al Piemonte per uscire dall'instabilità della sommossa,
ed era il partito dei nobili e dei ricchi inteso a profittare dei
risultati delle cinque giornate; quello, composto di coloro, che
realmente avevano vinto, rifuggiva da una dedizione incondizionata al
Piemonte. Il dibattito difficile si fece presto aspro. Piemonte e Carlo
Alberto non meritavano tale sacrificio, giacchè non avevano nè giovato
alla Lombardia, nè operato per l'Italia: ma la dedizione diventava
inevitabile senza la proclamazione di un'altra Cisalpina. Il comitato di
guerra, incapace di fare una vera rivoluzione, scelse un mezzo termine
inutile nel risultato ed ingenuo nella procedura, accettando il Piemonte
e lasciando in sospeso la decisione sulla forma di governo. A guerra
finita il popolo avrebbe deciso: come se col Piemonte vittorioso la
Lombardia avesse poi potuto evitare di esservi incorporata!

Ma quest'accademia ammansava le suscettibilità dei rivoluzionari, che
volevano salve le forme dei plebisciti.


                                  Adesioni di guerra.

Intanto in Piemonte governo e paese fremevano d'opposti sentimenti. Le
diplomazie europee, spaventate da tante rivoluzioni simultanee,
premevano sul piccolo stato sconsigliandolo dall'entrare nell'incendio
per non farlo maggiore: la corte, già inquieta per le novelle
repubblicane di Francia, si atterriva all'impreveduta insurrezione
lombarda, che poteva costituire sul confine orientale un'altra
republica, mentre il popolo, abbandonandosi alla propria avversione pei
tedeschi, urlava d'entusiasmo. Carlo Alberto, sempre più piemontese che
italiano, più tiranno che re, più ingordo di conquista che disposto a
servire l'Italia formandola in nazione, tentennava. Quindi le sue misure
oblique di governo confondono, poi esasperano la folla: ordina
d'arrestare quanti volontari tentino guadare il Ticino per soccorrere i
fratelli lombardi, ricusa di ricevere il conte Arese ambasciatore di
Milano, e deputa il conte Martini al governo provvisorio e al comitato
di guerra per offrire loro l'aiuto regio a patto di una dedizione
incondizionata. Ma il Cattaneo gli risponde con nobile alterezza. Poi
alla notizia che l'insurrezione è vittoriosa, Radetzky in fuga e Venezia
in armi, Carlo Alberto si decide vinto dalla paura di un'altra
ribellione piemontese. Genova già tumultuava, volontari armati passavano
malgrado ogni divieto il confine, la stampa alzava la voce, l'ora delle
esitanze era fatalmente trascorsa. Il re, che diceva segretamente
all'Europa di entrare in Lombardia per impedirvi una repubblica, mandò
quindi il proprio proclama agl'insorti chiamandoli fratelli e
dichiarando che l'Italia questa volta avrebbe fatto da sè. Era questa
una risposta a coloro che invocavano l'aiuto di Francia e di Svizzera,
una dichiarazione regia colla quale Carlo Alberto si affermava
aprioristicamente sovrano dell'impresa.

Il 25 marzo il generale Bes piemontese passava il Ticino, dando alle
proprie truppe il vessillo tricolore; il 31 Carlo Alberto s'accampava a
Lodi con 22,000 fanti, 2200 cavalli e 5 batterie. L'esercito era scarso,
male agguerrito, guidato da generali inetti. Il re, lasciando il
Piemonte, aveva ordinato al popolo di mantenersi quieto; la guerra
doveva essere regia anzichè nazionale perchè la rivoluzione non
soverchiasse.

L'insurrezione lombarda vittoriosa su tutti i punti, mentre le truppe
piemontesi s'inoltravano nel suo territorio, lambiva il Tirolo: Trento
si era profferta a Mantova per aiuti, ma non aveva avuto risposta;
battaglioni di volontari occupavano già le valli dell'Adda e dell'Oglio,
l'insurrezione veneta aveva dato in mano ai montanari della Carnia e del
Cadore i passi dall'Austria all'Italia. Nel primo entusiasmo della
rivolta una sottoscrizione aperta in Milano aveva fruttato in soli due
giorni quasi un milione: i ruoli dei volontari si allungavano, mentre i
soldati italiani al servizio dell'Austria disertavano. A questa non
rimanevano che 50,000 uomini rotti e sbigottiti nel Quadrilatero.

Il resto dell'Italia infervorato scriveva di aiuti, affrettandosi a
mandarli. Giuseppe Garibaldi, già salpato da Montevideo per confortare
questa guerra santa colla propria mirabile abitudine della vittoria,
stava per discendere a Genova. Una squadra di operai, reclutata a Londra
e a Parigi dal generale Antonini, vi era già stata arrestata dal governo
piemontese sempre più diffidente che mai della rivoluzione.

A Milano la lotta fra il comitato della guerra scioltosi volontariamente
e il governo provvisorio si accaniva sotto le apparenze di un accordo
patriottico. Cattaneo si era ritirato dall'arringo; Mazzini, entrato in
Milano fra immense ovazioni, aveva dichiarato la propria neutralità
perchè la nazione a guerra vinta decidesse poi della propria forma di
governo; ma l'antagonismo politico della rivoluzione popolare colla
conquista regia non poteva placarsi per riserve di capi o per espedienti
di costituzionalismo. I rivoluzionari spingevano con tutta possa
all'armamento del popolo per assicurare la cacciata dell'Austria da
tutta l'Italia e, cooperandovi gloriosamente, essere poi in grado di
resistere all'assorbimento della monarchia piemontese: questa, già
accordatasi col governo provvisorio, più aristocratico che italiano e
più monarchico che patriotta, contrastava ad ogni iniziativa popolare,
persuadendo che Milano aveva già fatto anche troppo e al resto
basterebbero gli eserciti piemontesi. Naturalmente la sincerità era
scarsa in tutti i partiti: i radicali, per quanto più fervidi nell'odio
all'Austria, non potevano così dimenticare i vecchi tradimenti di Carlo
Alberto da sacrificargli in questa ora suprema ogni speranza di libertà
e d'indipendenza: i moderati, consci della viltà mostrata nelle cinque
giornate e della propria costante servilità all'Austria, diffidavano di
una rivoluzione, nella quale sentivano che il primo atto avrebbe dovuto
essere la loro espulsione. Il popolo si veniva raffreddando in siffatta
lentezza di guerra e in quel dubbio umiliante che gli toglieva di
riconoscersi una patria e un governo. Carlo Alberto sempre teatrale
aveva dichiarato che non entrerebbe a Milano se non vittorioso, e
perdeva gl'inestimabili vantaggi di un primo assalto contro Mantova
ancora sguernita. I volontari capitanati da Teodoro Lechi, republicani i
più, venivano lasciati senz'armi, senza vestiario, senza denaro: si
cercava di limitare il numero delle loro iscrizioni; poi sospinti nel
Tirolo, ai passi delle Alpi, impediti di combattere, forzati ad
abbandonare quei luoghi e le insurrezioni nascenti, finalmente
richiamati, furono con malvagia umiliazione disciolti. Si ricusavano gli
esuli divenuti illustri combattendo per la libertà d'altri popoli:
Mickiewicz con pochi volontari polacchi era tenuto quasi prigioniero
nell'ozio increscioso di una caserma per timore di spiacere allo czar, e
non fu poi chiamato al campo che per impedirgli di accorrere a Venezia:
Enrico Cialdini, che diventò poscia generale del Piemonte, ributtato dal
Collegno, dovette andare a Venezia per battersi, e vi cadde ferito;
Giuseppe Garibaldi, generosamente dimentico della condanna capitale
ancora sospesa sul suo capo, fu indarno stancato dal ministro Sobrero
con ogni più bassa maniera d'infingimenti: il Fanti e il Cucchiari
respinti, il Cernuschi e l'Anelli imprigionati.

Carlo Alberto, più facile a sperare in maneggi diplomatici che nella
sorte delle armi, si acquetava già nel disegno segreto di un'Italia del
nord dimenticando il Tirolo, diffidando di Venezia risorta republica,
seguitando a trattare con Vienna, ordinando alla propria marina di non
commettere ostilità contro le navi da guerra austriache e di rispettare
tutti i bastimenti naviganti sotto bandiera tedesca. Il lavoro della
diplomazia piemontese, allora presieduta da Cesare Balbo, mirava a
precipitare le annessioni lombardo-venete senza offendere troppo
l'Austria, per ottenere, secondo i consigli del Gioberti, un
accomodamento fortunato. A ciò occorreva impedire la lega italica, della
quale il papa farneticava ancora, e non ammettere alla guerra troppe
altre armi.

Mentre la Toscana, sollevatasi all'annunzio della rivoluzione di Vienna
e della prima giornata di Milano, apprestava un piccolo corpo di
volontari esaurendosi nelle solite dimostrazioni patriottiche, il
granduca Leopoldo con vecchia arte di governo intendeva a profittare del
loro chiasso per occupare i territori estensi di Fivizzano, Massa
Carrara e Pontremoli. Ma, poichè il fermento cresceva, dovette bandire
la guerra nazionale carteggiando segretamente col Radetzky. I
provvedimenti monetari di guerra furono derisorii: non s'impose che una
tassa straordinaria sui fondi corrispondente alla terza parte
dell'ordinaria, e una ritenzione progressiva dell'uno al 5% sullo
stipendio degl'impiegati, entrate non esigibili che nel corso di
un'annata: allora si era di marzo. Per l'esercito non si ordinò che una
leva di 2000 uomini sulla coscrizione del 1819, lasciando sprovvisti di
ogni bisognevole i volontari.

A Roma gli echi delle insurrezioni trionfanti nel nome del pontefice
gettavano il suo governo nella crisi di problemi insolubili. Dopo le
riforme gli statuti, dopo gli statuti la guerra. L'inesorabile logica
della storia affrettava la catastrofe. Invano Pio IX credeva di poter
resistere alla scissura della propria duplice sovranità spirituale e
politica, coprendo la responsabilità del principe coll'infallibilità del
papa. La marea della publica opinione lo soverchiò, imponendogli di
concedere al ministro della guerra Aldobrandini la formazione di un
piccolo esercito, e tre giorni dopo (23 marzo) l'apertura dei ruoli per
l'iscrizione dei volontari, affidando la loro organizzazione al generale
Ferrari. La folla fu tale alle iscrizioni che si dovettero chiudere
entro 24 ore per mancanza di armi. Gli armati invece non superarono i
2300, e Giacomo Durando, generale piemontese mandato da Carlo Alberto,
ne assunse il comando supremo. Erano preparativi di guerra, mentre si
chiedeva scusa all'Austria degli stemmi imperiali abbattuti e bruciati
dal popolo, che aveva scritto sul portone dell'ambasciata tedesca:
Palazzo della Dieta italiana. Papa e ministri egualmente incerti non
avevano più che l'assurda idea di combinare diplomaticamente una dieta
italiana, quando la guerra ferveva contro lo straniero e alla guerra si
sarebbe dovuto aiutare con ogni sacrificio.

Ma le Provincie papaline tumultuavano. Bologna, sollevatasi per aiutare
Modena a cacciare il duca, era rimasta in armi per la guerra lombarda,
traendo coll'esempio tutte le Romagne. La guerra era nelle fantasie,
nelle coscienze, nei problemi, che sollevava ed imponeva, aggirando le
teste, confondendo simboli e fatti, principii e espedienti. Pio IX,
vinto ancora una volta dalla poesia del momento, dovette bandire ai
popoli d'Italia un ultimo proclama altrettanto incerto nelle frasi e
nelle idee, monito ed insieme benedizione che essendo di papa parve
essere di Dio, e venendo dal principe persuase che egli pure si
accordasse alla grande impresa contro lo straniero. L'entusiasmo crebbe:
i volontari mossero da Roma ai confini settentrionali dello stato
coll'ordine di difenderli, ma col proposito di varcarli. Era una festa,
si parlava di crociata, si distribuivano croci per coccarde ai soldati,
che per la maggior parte non credevano più nè alla religione del papa nè
al diritto del re. Infatti a Roma l'agitazione rivoluzionaria aumentando
di giorno in giorno forzò pontefice e ministero a scacciare i gesuiti.
Non era ancora la rivolta allo statuto, ma era già la negazione del suo
principio fondamentale ieratico.

Poco dopo, il Durando accampato sul confine di Ferrara, non riuscendo a
frenare l'impeto dei volontari e giovandosi di un assenso confuso del
papa e di un altro senza dubbio esplicito di Carlo Alberto, dichiarava
in un proclama furbescamente mistico, cristiana la guerra all'Austria, e
ne rigettava con molti fiori rettorici la responsabilità su Pio IX.
Questi, indignato che un generale parlasse nel suo nome di pontefice
protestò vivamente, senza accorgersi che il proclama di Durando fosse
l'ultima fatale espressione del concetto sul papato messo in voga dal
Gioberti e acclamato da tutti. Si era voluto il papato come strumento di
rigenerazione politica, e doveva quindi partecipare alla guerra che ne
segnava la prima crisi. L'anacronismo di un generale piemontese
proclamante a nome del papa una guerra di religione valeva l'altro dello
statuto concesso dal papa medesimo ai propri popoli e della lega fra i
principi italiani, cui il papa si ostinava tuttora. Una irresistibile
vanagloria lo faceva sognare questa lega, della quale Lamartine in nome
della Francia lo salutava già presidente: quindi, credendosi corrivo,
proponeva ingenuamente di ammettere al congresso anche i rappresentanti
dei governi provvisori, senza avvedersi di urtare nella politica
piemontese delle annessioni. Il granduca Leopoldo vi aderì per guadagnar
tempo ad abbindolare i propri popoli; il Borbone di Napoli mandò una
deputazione con ordine rigoroso di ricusare i ribelli deputati siciliani
e di esigere la presidenza come per lo stato più esteso e potente
d'Italia; Carlo Alberto dichiarò per mezzo del ministro Pareto che «in
vista dello stato provvisorio di governo, nel quale si trovavano
gl'Italiani sottrattisi al giogo dell'Austria, e per la guerra in corso
la lega non si poteva stabilire». Ma questa confessione, che rompeva la
neutralità giurata ai repubblicani milanesi, fu meglio intesa
dall'invidia dei principi che dall'ingenuità del popolo.

Napoli, lontana dal teatro della guerra, si esauriva intorno al proprio
problema costituzionale. Non si poteva credere, e da molti non si
credeva, al re; nullameno non si osava compiere la rivoluzione
detronizzandolo. La costituzione non funzionava; il ministro Bozzelli,
rinnegando il proprio liberalismo, secondava gl'infingimenti di
Ferdinando intesi a contristare la nuova vita politica. Così alle
notizie delle rivoluzioni di Vienna e di Milano, mentre il popolo
abbatteva gli stemmi austriaci e gridava armi per la Lombardia,
Ferdinando atterrito aveva permesso l'arruolamento dei volontarii,
scusandosene coll'Austria. Nella sua vecchia gelosia di tiranno soffiava
una nuova invidia di re. L'astro araldico di Carlo Alberto che sembrava
levarsi sulle Alpi lombarde, gli presagiva che una guerra piemontese
vinta contro l'Austria avrebbe annullato tutti gli altri principi
italiani: laonde contrastandovi intendeva a salvare se medesimo. Lasciò
quindi partire i primi volontarii colla principessa Belgioioso, mise a
presidente del nuovo ministero l'illustre storico Carlo Troya, di
carattere onesto ma di scarso valore politico, accettò persino Pepe,
tornato dall'esilio, a generale dei 14,000 soldati avviati verso il Po:
ma, trincerato dietro tutte queste apparenze liberali, ordiva
febbrilmente una congiura contro lo statuto e la guerra nazionale.
Intanto a Pepe si era ordinato di fermarsi al Po aspettando nuovi
ordini; e l'incorreggibile carbonaro, dimentico dei passati tradimenti,
non solo credette ancora, ma consigliò al re di mettersi alla testa di
60,000 uomini per correre sull'Isonzo a dettare la pace all'Austria.
Questo consiglio era l'ultima espressione del dualismo, che, dominando
inconsciamente la politica di Napoli e di Torino, concordava la loro
rivalità nell'interesse di un grande futuro stato italiano. Il Borbone
vi si ricusò, ma Napoli cedette così a Torino la gloria di mutarsi in
prima capitale d'Italia.

Napoli non era più che la più grossa città della penisola; Palermo,
ribellatasi ai primi moti, le si erigeva dinanzi provocatrice nell'odio
della riconquistata autonomia. Il parlamento, inaugurando il 25 marzo la
propria costituzione con una solennità religiosa nella chiesa di San
Domenico, avrebbe dovuto decidere finalmente della forma di governo; ma
gli animi divisi, l'antica tradizione regia e i nuovi istinti
democratici ne imbrogliavano il problema che sarebbe appena stato tale.
Poichè la rivoluzione aveva cacciato i Borboni, assurde diventavano le
pratiche tuttora aperte per trapiantare nell'isola un ramo della stessa
dinastia. Il governo presieduto da Ruggero Settimo, il più insigne e
popolare patriota, avrebbe dovuto gridarsi in republica, affrontando
coraggiosamente l'opposizione della grossa aristocrazia propensa ad un
re per conservare con lui gli antichi privilegi. Così consigliava con
singolare intuizione di libertà il padre Ventura allora legato siciliano
a Roma. Ma nonostante tutti i vantaggi d'aver guidato la rivoluzione e
di tenerne ancora in mano i poteri, il governo non osò. Anche in Sicilia
il moto era più separatista che rivoluzionario, senza vero concetto
democratico; quindi rimase allo stato di accademia politica, perdendosi
nelle più futili discussioni sul nuovo stemma dell'isola e sugli emblemi
di fraterna concordia da mandare a Roma e a Torino, mentre tutta
l'Europa era in preda alle rivoluzioni e in Italia inferociva già la
guerra. Unico aiuto, come vergognando, si mandò in Lombardia un
drappello di 100 siciliani comandati dal La Masa. Solamente più tardi a
nuove minaccie di re Ferdinando il parlamento si riscosse e decretò la
decadenza dei Borboni, per sostituirli con un'altra monarchia
costituzionale. Il nuovo re sarebbe eletto dopo una necessaria riforma
dello statuto, ma doveva essere italiano. Questo pomo di discordia
gettato fra i principi, e il manipolo di La Masa erano la maggior
concessione e il supremo sacrificio che la Sicilia potesse fare alla
causa della nazionalità italiana.


                                  La campagna piemontese.

Nullamento la guerra sembrava proseguire con crescente fortuna. La
Francia, già prodiga di consigli, si offriva generosamente compagna
all'impresa. Lamartine allora reggente il ministero addensava 60,000
uomini ai piedi delle Alpi, apprestando una flotta nel Mediterraneo; la
Svizzera si disponeva a mandare un grosso corpo di volontarii a Milano;
però il governo piemontese, temendo il contagio republicano, non solo
ricusò ogni aiuto, ma dichiarò che avrebbe considerato come caso di
guerra il passaggio di qualunque corpo armato alle proprie frontiere. Un
tentativo di sollevazione in Savoia per congiungersi alla Francia venne
a dargli ragione. Certo la Francia, intervenendo e cacciando d'Italia i
tedeschi, avrebbe chiesto come dieci anni più tardi a compenso i
territori di Nizza e di Savoia, questa prettamente francese di geografia
e di storia, quella dubbia di nazionalità come molte città di confine,
una volta francese, ora piuttosto italiana; e il governo sardo li
avrebbe consentiti. Ma nel fermento republicano d'allora e
coll'intenzione palese della Francia di costituire nel Lombardo-Veneto
due piccole republiche, Carlo Alberto ricusò. All'interesse d'Italia
egli, re del Piemonte, prepose naturalmente il proprio: Lamartine,
comunicando al proprio ministero la risposta di Carlo Alberto
minacciante d'armare i forti della Savoia contro i francesi, esclamò con
profetica pietà: «Gl'italiani sono ciechi e dementi!» Quindi la Francia
decise di non intervenire che invocata.

Mentre a Milano ferveva l'opera dell'annessione indarno contrastata dai
republicani, Radetzky bloccato nel Quadrilatero dall'esercito piemontese
sembrava a tutti prigioniero. Carlo Alberto, mal sicuro del proprio
ingegno militare, e sempre sospeso in maneggi diplomatici, dopo le
fortunate fazioni di Goito e di Monzambano, seguitava a perdere un tempo
prezioso in vane ricognizioni contro Peschiera e su Mantova. Così
Nugent, mandato da Vienna con grossi rinforzi, prima che gli si possa
contendere il passo, guada l'Isonzo indifeso, prende Udine difilandosi
su Verona; Belluno e il Cadore si difendono, ma il generale austriaco
passa il Tagliamento e, superata una fiacca resistenza di veneti, si
accampa a Conegliano. Per questa grave minaccia Carlo Alberto, mutando
consiglio, ordina al Durando di passare il Po colle truppe pontificie.
Questi, che con inesplicabile negligenza non aveva sloggiato gli
austriaci dalla cittadella di Ferrara, avrebbe voluto correre su
Venezia; ma Carlo Alberto, poco tenero della salute della nuova
republica, gl'impone di marciare sopra Ostiglia per fronteggiare Mantova
e coprire i ducati, dei quali spera l'annessione. Il governo di Roma,
prevedendo il caso che Durando passasse il Po, aveva cercato una scusa a
se medesimo, col risuscitare gli antichi diritti della chiesa sul
Polesine soppressi dai trattati del 1815. Nugent manovra per
congiungersi a Radetzky, Durando e Ferrari per impedirglielo; questi,
battuto a Cornuda con un corpo di volontari, si ritirava a Treviso,
Durando accorre per sostenerlo, senonchè Nugent rapidissimo passa La
Brenta ed investe Vicenza. Sebbene la piccola e coraggiosa città resista
strenuamente, Nugent può unirsi a Radetzky rialzando le sorti d'una
guerra che avrebbe dovuto esser vinta per l'Italia. Allora Carlo
Alberto, comprendendo finalmente la necessità di tagliare le
comunicazioni dell'esercito austriaco colla Germania, si risolve
all'azione. Il suo esercito è quasi di 70,000 uomini: 5000 toscani sulla
sua destra invigilano Mantova, egli minaccia Peschiera e Verona col
disegno di rendersi padrone nel lago di Garda e dei passi alpini. La
battaglia si mescola ai villaggi di Colà, Sandra e Santa Giustina per
decidersi a Pastrengo: il primo giorno (29 aprile) la fortuna arride
agl'italiani, che avrebbero potuto all'indomani sterminare il nemico se
Carlo Alberto, essendo di domenica, non avesse voluto che l'esercito
ascoltasse la messa prima di riprendere l'attacco; questo ritardo impedì
di cogliere i frutti della vittoria e permise al D'Aspre di rifuggirsi
in Verona, mentre il generale Manno stringeva vittoriosamente Peschiera
e il Sommariva ributtava gli austriaci da Sacca e da Sommacampagna.

Era la prima vittoria italiana, e doveva restare l'ultima.




CAPITOLO TERZO.

La reazione federale


                                  L'allocuzione papale.

Pio IX, spaventato da una minaccia di scisma germanico, che la
diplomazia tedesca, aiutata da molti cardinali e dai gesuiti, gli faceva
credere provocato dalle sue innovazioni politiche e dalla guerra
piuttosto fatta che intimata dall'Austria, il 29 aprile in una
allocuzione concistoriale la disdisse, rigettandone la responsabilità
sulla passione nazionale dei propri sudditi. Era un sofisma povero e
malvagio, giacchè questi erano stati irreggimentati dal governo, e la
guerra italiana avrebbe irremissibilmente sofferto di tale abiura del
pontefice. Naturalmente grande ne fu il fermento in tutta l'Italia: il
ministero Antonelli-Minghetti, che aveva dianzi domandato al pontefice
una franca dichiarazione di guerra contro l'Austria, si dimise; i
circoli politici di Roma tumultuarono; la guardia civica minacciò di
ricorrere alle armi, mentre Pio IX, sbigottito e nullameno fermo a non
recedere dall'allocuzione, mirava per guadagnar tempo ad attenuarne
l'impressione. Qualcuno gli suggerì di andare a Milano oratore di pace e
di un concordato con l'Austria, ma il legato milanese a Roma ne lo
dissuase; gli altri ambasciatori italiani presso la Santa Sede risposero
all'allocuzione con una nota, nella quale, fraintendendone il
significato, scongiuravano il pontefice a non abbandonare la causa della
nazionalità. Questi, compromesso dalle proprie dichiarazioni
concistoriali e persuaso dell'impossibilità per il papato di seguire il
corso della rivoluzione italiana, non cercava più che espedienti
momentanei. E due ne trovò incredibilmente contradditorii. Mandò
monsignor Morichini all'imperatore d'Austria con una lettera
d'esortazione a riconoscere la nazionalità italiana cessando dalla
guerra, e Luigi Carlo Farini, sottosegretario del ministero, al campo di
Carlo Alberto per offrire al re il comando delle truppe pontificie già
implicate nella guerra. Questi accettò con patto che fossero pagate dal
papa e conservassero bandiera papale: l'imperatore d'Austria rispose per
bocca dei propri ministri che il suo diritto sulla Lombardia basava
sopra trattati identici a quelli che garantivano i territori dello stato
pontificio. L'antinomia dei principii costringeva il governo pontificio
a tale assurdità di ripieghi.

Quindi per placare il popolo di Roma, incitato dai tribuni Sterbini e
Ciceruacchio a trascendere, si chiamò al ministero Terenzio Mamiani
venuto recentemente a Roma e divenutovi prontamente autorevole in molti
circoli liberali. Ma cospiratore, prigioniero, esule ritornato ricusando
l'amnistia, e segnato all'Indice per le proprie opere filosofiche, egli
riassumeva in se stesso tutto il ridicolo e il pericolo del
costituzionalismo pontificio. Il papa in lui chiamava un eretico per
affidargli lo stato, e l'eretico accettava il mandato, credendo
possibile un governo di libertà colla corte papale e col principio
ieratico romano. Però egli volle facoltà di proseguire la politica del
caduto ministero verso la guerra italiana, e che la segreteria degli
affari esteri temporali fosse data ad un ministro laico, che fu il poeta
bolognese Marchetti. La posizione politica del governo romano,
serbandosi immutata, peggiorava. Il ministero precedente aveva armato
volontarii e truppe regolari contro l'Austria, permettendo loro di
passare il Po e subordinandole poi a Carlo Alberto senza osare d'intimar
guerra all'Austria: il papa confessava in un'allocuzione concistoriale
la propria impotenza a distogliere i sudditi dalla guerra, e il suo
nuovo ministero la voleva mantenuta pure non dichiarandola. Luigi Carlo
Farini, rivoluzionario sbracato mutatosi in moderato intransigente,
prima di partire pel campo di Carlo Alberto, aveva consigliato molte
misure di repressione per salvare nella sovranità temporale e
costituzionale del papa l'arca santa della patria e della rivoluzione
italiana.

Ma l'effervescenza popolare non accennava a sedarsi, Ciceruacchio, che
aveva abbattuti i portoni del ghetto liberando gli ebrei dalla prigionia
millenaria d'ogni sera, lo Sterbini e il Fiorentino fautori della
propaganda rivoluzionaria spingevano a partiti estremi per rovesciare
quel grottesco simulacro di costituzionalismo papale: il malcontento dei
volontarii romani abbandonati in faccia al nemico come ribelli del
proprio sovrano, e quindi sbandatisi o per viltà di coscienza religiosa
o per difetto di coraggio militare, giungeva a Roma esasperando lo
spirito pubblico: si urlava al tradimento del papa, si parlava di
prigionieri romani impiccati dai tedeschi, si denunciavano congiure
liberticide di cardinali e di gesuiti, si cominciava a riconoscere nella
fisima politica dei moderati un pericolo capitale per la patria. La
polizia sempre governata dal Galletti assecondava la piazza invece di
frenarla; Mamiani, perduto nel sogno di un costituzionalismo pontificio,
nel quale il papa non entrasse più che in ogni altro governo il vescovo
della capitale, e combattuto dal partito dei chierici e dei
clericaleggianti, doveva appoggiarsi sulla parte avanzata, perdendo così
colla sincerità delle idee ogni sicurezza di base politica.


                                  Il tradimento di Ferdinando II.

Intanto gli effetti dell'allocuzione papale si facevano sentire per
tutta Italia. Primo ad approfittarne fu il Borbone di Napoli che, avendo
concesso proditoriamente la costituzione, spiava l'occasione per
cassarla: Pio IX gliela fornì. Già, il legato napoletano a Roma non
aveva voluto firmare la nota presentata al pontefice da tutti gli
ambasciatori italiani, perchè correggesse almeno con nuova
interpretazione il tristo significato dell'allocuzione: gli ordini di re
Ferdinando al generale Pepe e all'ammiraglio De Cosa, mandati alla
guerra, erano di non spingersi all'attacco se non dietro nuove
istruzioni subordinate agli accordi in corso con Carlo Alberto; ma anche
questa era una lustra, della quale il ministero essendo conscio
diventava complice per fiacchezza d'animo. Un ministro solo, l'Imbriani,
si dimise nobilmente; gli altri rimasero col Troya, e si macchiarono.
L'apertura del parlamento essendo fissata pel 15 maggio, la sua
inaugurazione col solito costume napoletano doveva aver luogo nella
chiesa di S. Lorenzo: solennità religiosa intesa a scemarne il carattere
civile. Ma scoppiarono dissidi fra il re e i deputati per la formula del
giuramento, che questi voleva rigorosamente cattolico comprendendo nello
stato la Sicilia già emancipatasi, e quelli non intendevano prestare
oltre i limiti della costituzione. Gli animi si accesero: i deputati
raccolti nella grande sala di Monteoliveto tempestavano, il ministero si
dimetteva, il popolo, vedendo le truppe regie circondare la reggia quasi
a difesa minacciosa, gridò: barricate! Allora il re parve cedere
accettando la formula proposta dal ministero, ma non era che un inganno
supremo; e, mentre la camera invitava il popolo alla calma e questo si
disponeva già a disfare le barricate, un colpo di fucile sparato ad arte
accese la battaglia. Il re cinto dagli svizzeri, che contrariamente al
disposto dello statuto non aveva mai voluto licenziare e che il ministro
Conforti gli aveva ingenuamente concesso quasi a guardia contro una
possibile sommossa repubblicana, e dei quali Pepe anche più ingenuamente
aveva sperato far soldati per la guerra d'Italia, alzava sulla reggia la
bandiera rossa, segnale ai forti di Castel Sant'Elmo di bombardare la
città. Nella battaglia orrenda infuriarono i lazzari istigati dalla
corte e dal clero: si rinnovarono le atrocità del '99, eroismi e
demenze, lubricità sanguinanti e sanguinarie di soldatesche senza patria
e senza legge. Si urlava: viva il re e muoia la nazione! Il massacro
procedeva, avvolgeva, copriva la battaglia. A Milano erano stati
rispettati i poliziotti prigionieri e i soldati austriaci; a Napoli si
scaraventavano dalle finestre bambini ed infermi, si stupravano donne
fra cadaveri, sotto gli occhi dei figli, ferite, moribonde, già morte.
Intanto i deputati incorreggibilmente accademici discutevano per
nominare un comitato di salute publica; solo quando un capitano
svizzero, entrando colla sciabola sguainata nella grande sala di
Monteoliveto, intimò loro di sciogliersi in nome del re, il vecchio
Cagnazzi gl'impose con irresistibile dignità d'uscire e l'assemblea si
sbandò firmando prima una fiera protesta del deputato Mancini. Epica
teatralità, alla quale mancò l'eroismo del fatto!

Dopo otto ore la battaglia era finita: il re aveva vinto.

La flotta francese ancorata nel porto aveva assistito impassibile
all'eccidio, perchè la politica della grande republica, pure offerendo
aiuti a Carlo Alberto in Lombardia, non voleva abbattuto a Napoli il
Borbone per gelosia di un grande regno che potesse unificare l'Italia.

Quindi il trionfo del re ebbe, fra i saturnali della plebaglia e le
benedizioni del clero, i complimenti di tutte le diplomazie.

Ma se nella battaglia i soldati regi erano stati atroci, i patrioti si
erano mostrati scarsi: il loro infelice valore non aveva compensato
politicamente la pochezza del numero, nel quale parve a tutti e
specialmente agli stranieri quanto ristretto fosse nel regno il
sentimento liberale contro il popolesco fanatismo monarchico-religioso.
L'imperdonabile remissività del ministero conscio dei tradimenti del re,
la solennità accademica del parlamento, il contegno della stampa,
l'indole stessa della costituzione conceduta e la sua sciagurata
applicazione nelle provincie, l'assoluta mancanza di patriottismo
nell'esercito e nel popolo, la strage seguita e le minime ed effimere
insurrezioni calabresi che vi risposero e a domare le quali bastò la
presenza dei generali Nunziante e Basacca, dovettero convincere anche i
più fiduciosi fra i rivoluzionari che le speranze della rivoluzione
italiana non avrebbero mai potuto fiorire al bel sole napoletano. Il
terzo esperimento di libertà vi era riuscito più meschino del primo e
più infelice del secondo: nè il re, nè l'aristocrazia, nè la borghesia,
nè il popolo, nè i rivoluzionari medesimi vi si erano mostrati con
migliori attitudini e più moderne idee. La corte aveva tradito,
l'aristocrazia era rimasta estranea o inconciliabile colla rivoluzione,
la minoranza magnanima ma scarsa della borghesia non aveva potuto
resistere al bestiale monarchismo del popolo, mentre l'ostinata
credulità dei rivoluzionari al re offuscava ancora dopo la strage nella
loro stessa coscienza gl'istinti dell'italianità.

Soffocata nel sangue l'opposizione costituzionale, Ferdinando non osò
sopprimere tosto la costituzione: la Sicilia era ancora ribelle, nelle
Calabrie Giuseppe Ricciardi alla testa di pochi insorti, ai quali si era
aggiunta una grossa schiera di siciliani guidata da Ribotti, bandiva un
proclama per radunare la dispersa assemblea e rovesciare la monarchia;
Guglielmo Pepe a Bologna con 8000 uomini, De Cosa colla flotta
nell'Adriatico, potevano ritornare ribelli su Napoli, rianimandovi la
rivoluzione. Quindi i primi decreti e il nuovo ministero, nel quale
ricomparve più tristo il Bozzelli, riaffermarono per meglio distruggerla
l'integrità della costituzione; ma quando Pepe, abbandonato vilmente da
quasi tutto l'esercito, andò a Venezia con un sol battaglione di
napoletani, e De Cosa, assentendo al voto dei propri ufficiali,
abbandonò l'eroica città alla tragedia dell'assedio imminente, il re,
fatto sicuro, stracciò lo statuto come una maschera insanguinata, che
gl'impediva di mostrare al popolo la feroce esultanza del proprio
tradimento.


                                  Le annessioni al Piemonte.

Alle notizie della crudele reazione napoletana la Sicilia ribelle e
presaga di morte si scosse: nel resto d'Italia gli animi già esaltati
dall'incessante battaglia di troppe contradizioni precipitarono nelle
decisioni estreme come ad un ultimo assalto. I moderati fecero ogni
opera per affrettare le annessioni al Piemonte; i republicani urlarono
al tradimento, additando nel Borbone il simbolo di tutti i principi
d'Italia. Carlo Alberto rimasto solo alla guerra, mentre l'Austria
veniva sedando i propri contrasti interni, peggiorava ogni giorno nelle
armi e nella politica; il disegno della federazione italiana, benchè
corresse ancora per le mani della diplomazia, non era più che un cencio
incapace di mutarsi in bandiera; la guerra popolare sognata dai
republicani non accennava a prorompere e, quantunque i governi
provvisori accontatisi col Piemonte rimanessero ad impedirla, non
sarebbe egualmente scoppiata per mancanza d'entusiasmo nel popolo, di
accordo nei capi e di concetti chiari e pratici in tutti. L'antico
disegno dei Savoia, dacchè il loro montano principato era cresciuto a
regno, di conquistare tutta la valle del Po diventava fatalmente il
supremo proposito del partito moderato, nemico del pari alla rivoluzione
e allo straniero. Dal concetto della federazione a quello di un'Italia
del nord il passo era breve: Milano non aveva saputo gridarsi in
repubblica, Venezia insorta per questo nome non vi aveva guadagnato
abbastanza vitalità per salvarsi in tanto pericolo di guerra. D'altronde
le altre grosse città di provincia non aderivano alle due capitali con
devozione incondizionata. Milano, interrompendo l'epopea delle cinque
giornate ed accordandosi con rilassatezza colpevole all'esercito del re
di Piemonte, si era suicidata; Venezia, affermandosi republica in un
impeto di classica rettorica, non aveva poi partecipato alla guerra
contro l'Austria con abbastanza gloria per resistere al confronto del
proprio passato e a quello più urgente dell'esercito piemontese.

Poichè l'Italia era in guerra contro l'Austria per riconquistare le
proprie Provincie, il solo re, il solo esercito, le sole battaglie, la
sola vittoria italiana, la sola speranza di una vittoria finale era
riposta in Carlo Alberto e nel Piemonte. La sospensione decretata dai
governi provvisori per decidere della propria forma politica a guerra
vinta, assurda sino dal primo giorno, diventava intollerabile. La
coscienza pubblica sbattuta da troppi terrori aveva d'uopo di riposarsi
in qualche certezza; Carlo Alberto, sempre pauroso d'improvvisi moti
repubblicani, spingeva il partito moderato ad osare; Gioberti, fattosi
commesso viaggiatore della monarchia savoiarda, predicava le annessioni
per tutte le piazze d'Italia; si era già tentato Cattaneo, poi si
offerse a Mazzini qualunque maggiore influenza democratica negli
articoli della futura costituzione se avesse patrocinato la fusione
monarchica; si denunciavano i republicani come nemici della patria, si
vantavano le vittorie regie, s'ingrandivano i pericoli futuri, si
encomiava sopratutto l'incomparabile lealtà del re, che, proponendo
l'annessione, concedeva ai nuovi popoli il diritto di ricorreggere
quello stesso statuto da lui spontaneamente largito ai piemontesi; si
sussurrava alla grossa metropoli lombarda che Torino le cederebbe
l'onore di capitale. Mazzini, republicano ed unitario ed egualmente
assoluto in ambo le idee, ma fatalmente caduto dalla concessa neutralità
nell'inazione, non poteva opporre a questi argomenti immediati che
l'eroica fantasmagoria di lontani ideali. L'insufficienza del partito
republicano in quell'inerzia del popolo e sopratutto la mancanza di una
bandiera republicana ed unitaria al campo, lo costringevano a
destreggiarsi in una lotta meschina di recriminazioni contro coloro che
guidavano la rivoluzione, e ai quali non aveva osato opporsi francamente
da principio. La sua neutralità peggiorava l'indecisione del governo
provvisorio, la riserva di Carlo Alberto e l'incertezza di tutte le
altre città, nelle quali l'insurrezione contro lo straniero non era
ancora diventata rivoluzione. Infatti Venezia, proclamandosi republica,
aveva chiesto al gabinetto francese protezione contro l'ambizione
conquistatrice del Piemonte; la Sicilia ribelle aveva tirato sulle navi
napoletane mandate nell'Adriatico a combattere la flotta austriaca; i
ducati invocavano la tutela di Carlo Alberto, contrapponendosi l'uno
all'altro i propri governi provvisori con inesausto rancore medioevale e
disinteressandosi dalla guerra; la Toscana aveva appena 5000 volontari
al campo, e chiedeva soccorsi a Carlo Alberto contro Livorno tumultuante
nell'anarchia; Napoli non era più rappresentata alla guerra che da un
battaglione di disertori; Pio IX, ricacciato dalla viltà entro l'antica
clausura della politica pontificia, tradiva la guerra consigliando
ipocritamente la pace; Mazzini, dopo vent'anni di sublime apostolato
invocando ad alte grida il giorno della rivoluzione, rimaneva chiuso in
Milano come in ostaggio senza osare una insurrezione contro le mene
federali, che dovevano fra poco imporre al suo genio unitario un'ultima
repubblica romana.

Laonde il partito delle annessioni prevalse: il popolo, votandole, si
rifugiò nell'unità del regno piemontese come in una fortezza, che la
diplomazia europea avrebbe difeso dalla terribile rivincita austriaca
già scendente le Alpi. Infatti le prime città a dichiararsi per
l'annessione immediata furono Piacenza, Brescia e Bergamo; Parma,
Modena, Reggio, Milano (29 maggio) seguirono l'esempio; il partito
repubblicano non seppe che protestare: le città venete, sbigottite dalla
caduta di Udine, strinsero con minaccia fratricida d'abbandono il
governo veneziano a deliberare l'unione col Piemonte. Il pericolo
incalzava; Manin, ultimo doge e forse unico republicano, cedette
generosamente, consigliando egli stesso all'assemblea di riseppellire
per sempre la republica sotto il trono dei Savoia.

L'ideale republicano era vinto, ma l'idea unitaria aveva così dato un
passo decisivo: l'abdicazione di Milano, Venezia, Parma e Modena a
Torino nel nome d'Italia chiudeva per sempre il passato federale della
loro storia, iniziando l'èra nazionale italiana, giacchè da quella
sottomissione non vi sarebbe appello per mutare di circostanze
politiche. Re Carlo Alberto doveva essere vinto nella guerra lombarda;
però il nuovo concetto dell'Italia del nord, robusta monarchia di dodici
milioni di cittadini recinta dall'Alpi e dai mari, baluardo agli
stranieri e centro d'attrazione al resto d'Italia, resterebbe dopo
l'inevitabile sconfitta del momento come un fatto indiscutibile per la
rivoluzione italiana.

Colle annessioni il Piemonte gettava le basi della propria egemonia,
annullando tutti gli altri principati italiani, ma esaurendo al tempo
stesso lo scopo della propria guerra. Infatti i negoziati ripresi
vivamente, se parvero da principio contradire a questo proposito, dopo
lo espressero fin troppo chiaramente. L'Austria, sopraffatta dalle
difficoltà delle proprie rivoluzioni centrali e nello sbigottimento
delle prime vittorie piemontesi, aveva offerto al re per confine la
linea del Mincio, mentre questi, voglioso di accettare, era costretto
dal nobile sentimento delle popolazioni lombarde a rifiutare qualunque
accordo non comprendesse la Venezia; ma, sentendo piegare tutte le
rivoluzioni d'Europa sotto la pressione monarchica, il vecchio impero
restringeva ora le offerte e mutava linguaggio. La Dieta di Francoforte
quantunque rivoluzionaria pretestava ragioni germaniche sul Tirolo,
Trieste e fino su Venezia, per la quale si era pensato di costituire una
specie di granducato autonomo sotto un principe austriaco: la Francia,
che al principio della rivoluzione e nel disegno di costituire Milano e
Venezia in piccole republiche, sotto la propria influenza, aveva
promesso aiuto di diplomazia, di denaro e di soldati, ingelosita adesso
di un ingrossamento del Piemonte monarchico, mutava tono e misura. Lord
Palmerston, acuto ministro inglese, osava solo consigliare all'Austria
l'abbandono delle Provincie insorte come troppo difficili a
riconquistare ed impossibili a tenersi. Intanto, raffreddandosi colle
annessioni l'entusiasmo guerresco delle popolazioni, e languendo la
guerra per l'equivoca incertezza del re e l'insipienza dei generali, la
condizione diplomatica diventava di giorno in giorno peggiore. Se le
annessioni importavano l'abdicazione delle antiche autonomie federali,
inducevano pure sciaguratamente nell'animo del popolo un sentimento di
abbandono alla causa nazionale: il re solo era tutto, e doveva quindi
bastare a tutto. L'eroismo dei rivoluzionari veri, offeso dalla
precipitata dedizione, stava imbronciato; la predicazione deprimente del
partito moderato rifuggitosi nella monarchia piemontese non poteva
eccitare nel popolo nuovi entusiasmi, ora che una stanchezza amara dei
primi sforzi inutilmente gloriosi prostrava i ribelli delle cinque
giornate, e una servile acquiescenza all'iniziativa regia giustificava
nel grosso della gente ogni errore del governo.

                                  Disastri militari.

Quindi la guerra, trascinata di fazioni in fazioni inutili anche nella
vittoria, fu ripresa con intermittente energia, senza la strategica
abilità di una guerra popolare. Radetzky, vigile nell'imprendibile
Quadrilatero, spiava l'occasione di un grande errore nemico,
ingrossandosi di continui rinforzi. Così assalito a Santa Lucia e
rimastovi padrone malgrado il valore delle truppe piemontesi, mentre
queste si ostinano contro Peschiera, sbuca improvviso da Verona col
grosso dell'esercito, schiaccia (29 maggio) i toscani a Curtatone
isolati, abbandonati, e allora si disse, nè forse ingiustamente, traditi
dalla tattica regia; rattenuto a Goito dall'intrepidezza del duca
d'Aosta, abbandona Peschiera alla vanità conquistatrice di Carlo
Alberto, che entratovi trionfalmente vi canta il _Te Deum_; quindi,
sfiancando per Legnano, si congiunge con Welden, si dirupa su Vicenza,
vi batte, vi chiude, vi fa prigioniero Durando con 10,000 pontifici.

Il disastro è irreparabile. Padova e Treviso capitolano, Palmanova si
arrende: solamente Venezia ed Osoppo rimangono libere, quella
nell'isolamento della laguna, questa nella solitudine di una roccia.
Carlo Alberto, atterrito dall'annunzio di tante vittorie nemiche,
dimette il pensiero d'investire Verona, e ordina la ritirata,
abbandonando senza pietà i nuovi sudditi veneti. All'annessione lombarda
rispondeva tragicamente l'eccidio di Curtatone, alla dedizione veneta le
nuove trattative diplomatiche, nelle quali Carlo Alberto, ridomandando
le antiche offerte dell'Austria, accettava l'Adige per confine orientale
del proprio regno.

Era il tradimento regio immediato ed inevitabile.

Ma l'Austria ringagliardita ricusa: la rivoluzione italiana è perduta,
l'esercito piemontese scorato, le popolazioni disilluse, i volontari
dispersi, le città frementi ma tremanti. Allora Carlo Alberto, sospinto
ad una suprema battaglia dalla voce di tutta Italia che gli grida:
tradimento!, riprende l'offensiva minacciando Mantova: scaramucce e
fazioni stancano l'inutile valore dei soldati, finchè a Custoza la
bandiera tricolore cade nel sangue di una irreparabile sconfitta. Tutto
è perduto; il re dà volta per la Lombardia, giurando difendere Milano,
che nullameno lascia scoperta. La grossa metropoli spaurita crea un
triunvirato di difesa, affidandosi al generale Fanti, al dottore Maestri
e all'avvocato Restelli: Giuseppe Garibaldi, tardi accettato, è
finalmente a Bergamo e ne sbarra la strada con 3000 volontari, ma gli
sperduti eroi delle cinque giornate non possono raccozzarsi per
proteggere Milano dall'imminente invasione. Sotto l'emozione del
disastro, Torino cangia ministero: il nuovo presieduto dal milanese
conte Casati, che riceve così il premio della cessione di Milano, chiede
ed ottiene pieni poteri. Il 2 agosto, assumendo il comando di Milano, vi
delega commissari del re il generale Olivieri e il marchese di
Montezemolo: i milanesi, credendo che Carlo Alberto stringa la dittatura
per rialzare con un impeto di magnanima disperazione il vessillo e la
fortuna d'Italia, lo accolgono festanti; ma questi, travolto dalla
sventura, non preoccupato più che del proprio regno, inganna tutti,
persino se stesso. Un'orribile commedia, raccontata poi da Carlo
Cattaneo in un ammirabile libro, disonora la generosa città pochi mesi
prima insorta fugando sola lo straniero; il re giura, abiura, finge una
difesa militare che impedisce a quella popolare di organizzarsi; è
acclamato, fischiato, minacciato di morte; firma una capitolazione che
cede la città a Radetzky, e la disdice offrendosi pronto a morire coi
figli e con tutto l'esercito sotto le mura di Milano; poi a notte fugge
in mezzo a una compagnia di bersaglieri. Quasi contemporaneamente
Mazzini usciva dalla vinta città a piedi fra una schiera di volontari,
portando, semplice soldato, la bandiera col motto -- Dio e popolo -- che
doveva fra poco sventolare sul Campidoglio. La monarchia era vinta, la
repubblica stava per esserlo; un medesimo sbandamento disperdeva
politicanti e combattenti, programmi e bandiere, per raggrupparli un
istante dove maggiore fosse la gloria del passato e la speranza
dell'avvenire, a Roma e a Venezia, perchè una stessa sconfitta vi
dissipasse lo stesso errore, e l'ineffabile tragedia del genio,
mescolandosi alla farsa di tutto un popolo ancora incapace di
comprendersi, rivelasse i principii della storia futura.

Intanto l'esercito piemontese aveva ripassato il Ticino. L'armistizio
che prese nome dal generale Salasco, pubblicato il 9 agosto, stabiliva
l'antica frontiera dei due stati per confine ai due eserciti: le
fortezze dovevano essere aperte agl'imperiali, sgombri in tre giorni gli
stati di Modena, Parma e Piacenza, cedute Venezia e la terraferma
veneta. Il Piemonte restava intatto, ma la sua recente egemonia veniva
negata con implacabile brutalità.

Ultimo a ritirarsi e non compreso nell'armistizio fu Giuseppe Garibaldi,
che, sbaragliata una colonna di austriaci a Luino e resistendo ad
un'altra anche maggiore a Morazzone, potè toccare la Svizzera, lasciando
i nemici stupefatti del suo valore. Il generale D'Aspre disse allora di
lui con profonda intuizione guerresca: «Egli era il solo, che avesse
potuto vincere!» I vinti generali di Carlo Alberto avranno certo sorriso
a questa opinione del generale tedesco.

Ma come per togliere alla storia ogni dubbio sui tradimenti di Carlo
Alberto, il 6 agosto, mentre questi ripassava il Ticino avendo già
concluso l'armistizio pubblicato poi nel giorno 9, il generale Colli e
il conte Cibrario prendevano in suo nome possesso di Venezia, per
impedirle ogni generosa ribellione e cederla al nemico colla maggiore
comodità. Dopo l'abbandono, l'agguato: la truffa diplomatica compiva il
tradimento politico. Ma il popolo, esasperato da tanta perfidia e
galvanizzato dalla stessa imminenza del pericolo, tumultua in piazza S.
Marco gridando: Abbasso il governo regio, evviva Manin! Il ricordo di
Campoformio lancina tutte le coscienze, il terrore dei tedeschi
centuplica l'odio, mentre in quel cinereo deserto della laguna, fra i
memori monumenti dell'antico valore, la repubblica riappare come evocata
dalla storia alla solennità di un ultimo giorno. Venezia, sola,
repubblicana, senza navi, senza territorii, senza senato, quasi senza
popolo, rimane vivente rovina nella momentanea morte d'Italia:
abbandonata contro tutti, si ravvolge nella propria millenaria bandiera
come a minacciare anche morendo e a conservarsi incorruttibile nella
morte. Ma, gridandosi novellamente repubblica e rianimandosi d'immortali
memorie, non può ricreare l'ammirabile decorazione del proprio antico
governo: le forme moderne politiche guastano la sua classica maschera;
la nuova assemblea non sa che nominare una dittatura nella quale la
tradizione del dogado lascia a Manin una indiscussa supremazia.

Il primo atto di quest'ultima repubblica fu un decreto di zecca: nelle
monete alla data 22 marzo si sostituì quella dell'11 agosto col motto --
Alleanza dei popoli liberi -- Indipendenza italiana -- e nell'esergo: --
Dio premierà la costanza -- . Il testamento di Venezia si mutava così in
una profezia all'Italia; l'ultima parola della storia federale italiana
affermava la futura federazione dei popoli liberi d'Europa.

Ma se Venezia resisteva condensando tutta la propria storia in un finale
di tragedia alla Shakespeare, i ducati di Modena, Parma e Piacenza si
lasciavano riconquistare dagli austriaci senza colpo ferire.

Sola la Toscana, sempre sospettosa degli aiuti tedeschi, invocava la
Francia per guarentirsi l'autonomia nell'inevitabile reazione imposta
dalla sconfitta nazionale.


                                  Catastrofi costituzionali.

In tanto diroccamento di sogni e di fortezze l'idea nazionale e federale
non si confessava vinta. A Torino il parlamento decreta la dittatura a
Carlo Alberto, si muta ministero, si riprova l'armistizio punendone il
generale Salasco: l'incomprensibile vergogna di centomila soldati
guerreggianti senza una vittoria campale, respinti senza una sconfitta
decisiva, e abbandonanti al nemico in pochi giorni una provincia grande
quanto il regno del loro re, irrita tutti gli orgogli e confonde tutte
le ragioni: si urla al disonore, si ridomanda la guerra. I lombardi
traditi armeggiano con ogni possa per riaccenderla, fra i dispregi dei
moderati che li accusano di compromettere il regno, e le invettive dei
radicali che li tacciano di non comprendere la rivoluzione. La
mediazione anglo-francese incoraggia le speranze, poichè l'Austria per
cansare pericoli d'interventi militari simula consentire,
procrastinando. A Genova una sommossa tenta proclamare la repubblica:
Livorno impazzita s'insanguina nella guerra civile imprigionando e
cacciando i propri governatori, finchè il governo del granduca con
abbietta scempiaggine dichiara di troncare con essa ogni rapporto, e la
denunzia all'Europa come un antro di assassini.

Tutti i governi sono fiacchi, ogni misura politica perde la giustezza
dell'idea nell'impossibilità dell'applicazione. I parlamenti vaneggiano:
quello di Napoli, conservato dal Borbone per squisito dispregio di
desposta, avvalla nella più supina remissione, non rappresentando più nè
il paese, nè il sovrano, nè la costituzione, nè l'Italia. A Roma i due
Consigli non s'accorgono di essere appena un ingrandimento dell'antica
Consulta, malgrado gli arbitrii quotidiani del pontefice che annullano
simultaneamente Camera e ministero: il costituzionalismo, impossibile
negli altri stati italiani per la perfidia delle corti, qui è assurdo
per l'inconciliabilità dei due poteri. Si fa la guerra senza votarla, la
si prosegue disdicendola, il ministero pretende esprimere la volontà del
pontefice e ubbidisce a quella della piazza. Mamiani soccombe come
filosofo, Pellegrino Rossi sarà ucciso come politico. Nel parlamento
fiorentino il ministro Ridolfi si dichiara impotente a frenare le
congiure austriache e gesuitiche, e confessa di non osare spingere il
popolo alla guerra nazionale, per non assumere il carico di costringerlo
a gravi sacrifici; Bettino Ricasoli e Gino Capponi si succedono indarno
al ministero, fidando ingenuamente nel principe e più ingenuamente
sperando arrestare la marea rivoluzionaria, che li rovescia incolpevoli
e condannati. I fatti di Livorno impongono al granduca un ministero
Guerrazzi-Montanelli, che pacifica la turbolenta città proclamandovi la
Costituente italiana (18 ottobre). Contemporaneamente si raduna a Torino
un congresso federativo presieduto da Gioberti piemontese, Mamiani
romagnolo, Romeo calabrese; Rosmini ne tratta per incarico del Gioberti
con Pellegrino Rossi a Roma. La lega non comprenderebbe che Piemonte,
Toscana e Stato pontificio; Napoli vi si ricusa, quantunque il
parlamento ne accarezzi l'idea e l'esponga in timido voto al sovrano;
Sicilia, Venezia, Milano, i ducati vi sono ammissibili ma preteriti:
senonchè le antiche gelosie dinastiche e le nuove antinomie politiche la
rendono impossibile. La Costituente italiana proposta dal Montanelli
sottometterebbe invece l'Italia ad una ricomposizione per arbitrio di
popolo, che si organizzerebbe in singoli stati a seconda del proprio
migliore interesse; ma, come pusillanime copia della grande costituente
mazziniana, ne ha tutte le nobili difficoltà unitarie cogli
inconciliabili egoismi della confederazione.

Il disastro militare del Piemonte, scemando ai popoli la credulità nei
principi, attenua in questi la fede già scarsa nei destini della
nazione. Tutti gli stati, preoccupati del proprio problema, dimenticano
la nazione, e nullameno vaneggiano ancora di una lega italiana, che
l'idea unitaria impone loro come un accordo superiore al conflitto degli
interessi dinastici e dei principii politici. Così il futuro si afferma,
contraddicendosi nel presente: i tre principii che formeranno l'Italia,
unità, libertà e monarchia, si presentano sfigurati nel concetto della
Dieta.

Il moto popolare, che aveva imposto le costituzioni ai principi ed
accesa la guerra nazionale, era troppo profondamente rivoluzionario per
acquetarsi nelle forme regionali e federali del passato: quindi i
tentativi di conciliazione tra federazione ed unità, monarchia e
libertà, teocrazia e democrazia, dovevano finire alla loro separazione
attraverso l'assurdo delle più varie esperienze. Mentre la diplomazia
europea sognava di costituire la nazione con una lega di principi,
quella tedesca infatti, accettandone il concetto, si affrettava ad
integrarlo con un arciducato austriaco del Lombardo-Veneto. Il papa a
Roma, il Borbone a Napoli, un arciduca tedesco a Milano, Carlo Alberto a
Torino, Leopoldo a Firenze, gli altri minori duchi nel resto, sarebbero
stati l'Italia moderna senza unità, senza libertà, senza indipendenza,
col popolo suddito e colla religione tiranna: la grande rivoluzione
francese dell'89 non avrebbe perciò avuto efficacia sulla rivoluzione
italiana. Ma la reazione monarchica doveva invece esagerarsi nei
tradimenti, perchè tutte le forme politiche del passato apparissero
egualmente inette per l'avvenire.

Prima a soccombere nella reazione fu la Sicilia della quale la
rivoluzione separatista contrastava maggiormente all'inconscio moto
unitario italiano. Se i suoi intrattabili odii medioevali di regione e
di razza, insorgendo contro Napoli, avevano potuto profittare
egoisticamente della rivoluzione nazionale senza pagarvi tributo nè di
pensiero nè di sangue, Napoli doveva presto risoggiogarla, giacchè ad
evitare tale rivincita, si sarebbe dovuto anzitutto creare la libertà
d'Italia. Quindi nè italiana, nè democratica, la rivoluzione di Sicilia
perdette fatalmente un tempo prezioso in ridicole discussioni ed in
pratiche assurde colla stessa dinastia cui si era ribellata, per finire
all'ultim'ora, quando la catastrofe s'aggravava sulla rivoluzione
nazionale, ad offrire la corona al secondogenito di Carlo Alberto.
Naturalmente il Borbone protestò: tutti gli altri principi, che
denunciavano a mezza voce le ingordigie conquistatrici del Piemonte, lo
spalleggiarono, i tremendi disastri della guerra tolsero a Carlo Alberto
il coraggio di accettare per la propria casa un ingrandimento
contrastato in Italia e non consentito dalla diplomazia europea. Così la
Sicilia rimase senza regno e senza republica, male in armi e peggio in
politica, contro Ferdinando invasato d'odio tirannico. Per colmo di
sciagura l'antica rivalità di Palermo con Messina non permise a quella
di sguernirsi per soccorrere questa esposta ai primi furori borbonici.
Messina, come all'epoca gloriosa del Vespro, fu dunque prima alla
battaglia (3 settembre). Nessuna legge di guerra, nessun diritto di
civiltà, nessuna misericordia di religione vi fu osservata. La battaglia
durò quattro giorni, la strage vi fu pari all'odio delle parti, ma la
fiera città abbandonata vilmente dai palermitani dovette soccombere
all'efferatezza dell'assalitore, che sollevò ad indignazione tutti i
parlamenti d'Europa. Palermo, tardi ammaestrata dai casi di Messina,
s'accinse alacremente alla difesa, condensando nel governo i propri
uomini migliori. Cordova, La Farina, Amari profusero ingegno e fatica
nell'insolubile problema; la mediazione anglo-francese da loro ottenuta
rimase impotente contro la perversità borbonica; poi l'avvenimento di
Luigi Bonaparte alla presidenza della republica francese secondò la
politica reazionaria di re Ferdinando, che nell'_ultimatum_ di Gaeta (28
febbraio 1849) promise all'isola un'amnistia generale e uno statuto
sulla base della costituzione del '12. Ma questo non era che un agguato
per soffocare la questione siciliana, nel quale le due potenze
mediatrici caddero consciamente. Allora il popolo esasperato spinge il
parlamento alla guerra malgrado ogni insufficienza di milizia e di
denaro: Catania, Siracusa ed Augusta cadono in mano dei regii;
l'ammiraglio francese Baudin, interponendosi un'ultima volta per evitare
a Palermo l'estremo massacro, rimane egli stesso abbindolato dal
generale Filangeri, che manca a tutti i patti concessi al governo
palermitano, e il 26 aprile gli intima una resa a discrezione. Il
governo già dimissionario si disperde, mentre il popolo insorge,
respingendo per dodici giorni il nemico e soccombendo da ultimo a nuove
proposte di accordo nuovamente violate.

La reazione monarchica aveva trionfato così della ribellione
secessionista della Sicilia, mantenendola nell'orbita della futura unità
italiana.

A Roma invece la reazione papale, cominciata con l'allocuzione del 29
aprile, determina nel disastro della guerra nazionale tradita dal
pontefice l'esplosione democratica, che deve affermare la
incompatibilità del papato colla rivoluzione italiana.

L'inevitabile discordia del papa coi ministri e l'assoluta incapacità
politica dei partiti romani affaticati da un inconscio istinto di
libertà impedivano all'improvvisato governo parlamentare ogni logico
sviluppo. I costituzionali, incerti fra l'irrefrenabile autorità del
papa sempre egualmente dimentico del proprio governo e la necessità per
questo di precisarsi, non osavano nè appoggiare, nè rovesciare il
Mamiani. Il quale, infervorato per amore di patria nel concetto di una
lega italiana, seguitava nel sogno di un governo pontificio
schiettamente costituzionale. Intanto l'opera dissolvente dei circoli
radicali, aiutata dai volontari rincasati dopo la capitolazione del
Durando a Vicenza, cresceva a Roma e nelle Provincie: un'anarchia di
assassinii insanguinava molte città delle Romagne in quella rilassatezza
di ordini fra il vecchio e il nuovo: il ringalluzzirsi del clero pel
tradimento del pontefice alla guerra nazionale rinfocolava gli odii
liberali spingendo a vendette di antiche ingiurie colla scusa di un
offeso patriottismo. Si pensò quindi a Pellegrino Rossi, rimasto in Roma
privato cittadino dopo la caduta di Luigi Filippo, come al solo che per
energia di carattere e profonda conoscenza di regimi costituzionali
potesse resistere al disordine della piazza, ravviando l'ordine politico
ed amministrativo del governo. Ma una prima combinazione ministeriale
gli fallì. Intanto il Lichtenstein, occupando Ferrara con grossa mano di
austriaci, venne a compromettere la già scossa posizione dello stato. Il
papa, disconoscendo ogni valore nel proprio governo, protestò a nome
della Santa Sede. I Consigli così sprezzantemente preteriti, invece di
contrapporsi al principe, gl'indirizzarono suppliche per scongiurarlo a
difendere i confini dello stato; il ministero non sentì abbastanza la
propria dignità per dimettersi: solamente il popolo, sollecitato dallo
stesso Galletti ministro di polizia, si ammutinò in una delle solite
dimostrazioni. Finalmente il Mamiani dovette ritirarsi e gli successe il
Fabbri, vecchio impiegato di povero ingegno e d'incondizionata devozione
al papa. Così la reazione cresceva nei ministeri, mentre il parlamento
seguitava a dissertare come un'accademia o a supplicare come un coro
interrotto da qualche grido plateale del principe di Canino e dello
Sterbini, entrambi piuttosto retori che tribuni e rivoltosi che
rivoluzionari. Ma se il Lichtenstein si era per ordine di Radetzky
prontamente ritirato da Ferrara, il Welden, per ingiunzione segreta
dello stesso maresciallo, che, respinto l'esercito piemontese, intendeva
ad opprimere tutti gli altri governi italiani fingendo aiutarli contro
le insubordinazioni dei patriotti e l'anarchia delle plebi, entrava
nelle provincie dell'Emilia e s'accampava a Bologna. Lo seguiva,
laidamente infame e feroce, certo Virginio Alpi faentino, a capo di
bande sanfediste racimolate fra i peggiori malandrini di tutta Italia.
Le provincie inermi o difese da pochi volontari, cui la capitolazione di
Vicenza inibiva ogni ulteriore uso dell'armi, sbigottirono: prepotenze
austriache, rappresaglie brigantesche funestarono città e villaggi,
mentre il papa rinnovava le solite proteste deputando al Welden il
cardinale Marini. Era l'antico immutabile sistema del papato di
difendersi, invocando i fulmini del cielo e la protezione delle potenze
cattoliche, reso ora più ridicolo dalla presenza di un governo
parlamentare eletto dai cittadini e verso di loro responsabile come ogni
altro governo. Quindi Bologna, esasperata dalle provocazioni delle
soldatesche croate e disperata di aiuto dallo stato, insorge
coraggiosamente, respingendo a furore di popolo il Welden ed
inseguendolo lungi per la campagna: le vicine città romagnole, eccitate
dal nobile esempio, si preparano in armi: si nominano commissioni
provvisorie di guerra, giunte di sicurezza come nell'assenza del governo
per combattere lo straniero invasore, intanto che a Roma i ministri
puerilmente servili paragonano questa vittoria di popolo abbandonato
alla magnanimità del pontefice intento alla difesa della patria comune,
predicando la calma. Un solo ministro, il Campello, avrebbe voluto una
dichiarazione di guerra, ma il papa lo dimise; il resto del ministero
annuì.

Senonchè l'anarchia ministeriale e parlamentare, che lasciava il
pontefice seguitare in un dispotismo anche più irresponsabile che pel
passato, si ripercosse necessariamente a Bologna, dopo la generosa e
fortunata sollevazione contro gli austriaci producendovi il più orribile
disordine di plebe imbestialita a private vendette. Quindi la cosa
procedette a tale che, se i carabinieri sdegnati dell'uccisione di un
loro compagno non si fossero con rabbia maggiore scagliati sui
malandrini, uccidendoli a fucilate per le strade, inseguendoli nelle
case, imprigionando a caso, la ribalda insania non avrebbe avuto altro
termine.

Questo ed alcune altre provvisioni stolide del ministro di polizia
Accursi persuasero al ministro Fabbri di dimettersi e al papa di
chiamare Pellegrino Rossi.


                                  Pellegrino Rossi.

Il papato doveva soccombere: l'ultima scena della sua secolare tragedia
stava per cominciare.

Pellegrino Rossi nato a Carrara nel 1785, presto celebre professore a
Bologna, favoreggiatore di Murat nel 1815 per speranza di idee italiane
nel regno del magnifico venturiere francese, poi esiliato dalla reazione
della Santa Alleanza e riparato a Ginevra, insigne ritrovo di tutti gli
esuli insigni, vi crebbe tosto d'importanza e di dottrina. Ingegno vario
e brillante, assimilatore nervoso per logica e simpatico per eleganza di
metodo, in quel soffio di rivoluzione, che allora riscaldava tutti i
grandi spiriti contro il nordico gelo, tenne cattedra libera di
giurisprudenza, attirando curiosi e studiosi, sembrando rinnovare nella
facile esposizione vecchie idee. Quindi dall'ardita ed insinuante natura
tratto alla politica, ottenne la cittadinanza svizzera con tanto credito
da essere chiamato nel ribollimento prodotto dalla rivoluzione del 1830
a compilare una costituzione, che si disse _Patto Rossi_, e, rigettata
allora, rivisse in parte nello statuto del '48. Ma in essa il Rossi
scoperse la natura secondaria del proprio ingegno, egualmente incapace
di rivoluzione e di originalità. A rovescio dello spirito politico e
civile del secolo tendente alla nazionalità, egli vi stette per l'unione
contro l'unità, per la tradizione contro la rivoluzione, per la libertà
degli ordini contro l'emancipazione dell'individuo. Così decaduto nella
pubblica estimazione, dovette ricoverarsi in Francia, ove l'attendevano
gloria e favori insperabili a uno straniero. Tosto eletto professore di
diritto costituzionale, membro dell'Istituto, cittadino, pari, conte:
bersagliato dall'opposizione, che in lui vituperava il rivoluzionario
diventato cortigiano di un governo corrotto e corruttore, e lo
scienziato sempre pronto a contraddire nell'esercizio della politica gli
assiomi pomposamente proclamati dalla cattedra; inviso agli esuli
italiani che lo giudicavano rinnegato della patria e della libertà;
carbonaro e cospiratore in Italia, republicano in Svizzera, orleanista
in Francia, dottrinario nella teorica, scettico nella pratica, senza
coscienza di patria, caro a Luigi Filippo che lo deputò ambasciatore a
Gregorio XVI e a Pio IX, rifulse nullameno nei circoli politici e
filosofici d'allora per opera specialmente della stampa governativa. Ma
tra i maggiori eclettici del tempo non fu grande nè per potenza di
pensiero, nè per splendore di forma: nell'insegnamento del diritto
costituzionale, assurda miscela di postulati storici e filosofici alla
quale i governi parlamentari dovettero dar nome di scienza ed erigere
cattedre, non sorpassò Beniamino Constant; nell'economia politica rimase
fatalmente immobile nel dualismo della scienza pura e della scienza
applicata entro la vasta orbita di Giambattista Say; nel diritto penale
passò dal principio di Bentham a quello della giustizia assoluta,
combattendo la scuola storica senza giovare alla scuola filosofica,
cercando indarno la giustificazione della pena e l'ideale verità della
giustizia sulle orme di Kant e di Cousin; meno acuto e più famoso di
molti altri penalisti italiani contemporanei, dimenticato poco dopo
nella gloria immortale del Carrara. Ma in tutte le sue opere, notevoli
per vigore di metodo e nativa eleganza di esposizione, parve pregio
massimo quella temperanza di principii e di conseguenze, che,
accontentando i mediocri, sembra significare nell'autore una profonda
conoscenza della materia e un instancabile equilibrio di forze, mentre
non è troppo spesso che inettitudine del pensiero a creare e facilità
artistica di traduzione.

Nella sua ultima deputazione a Pio IX tra il fervor dei lirismi politici
sul papato, egli italiano ed insieme straniero, filosofo e giurista,
professore di costituzioni e diplomatico del governo che pareva allora
modello di sapienza pratica, capitò come un alleato naturale ed
avventuroso del partito dei principi. La sua fama, il suo grado, le sue
affinità con tutte le diplomazie europee, sorrisero all'immaginazione
dei nuovi costituzionali ancora ignoranti al giuoco dei parlamenti. Lo
si accolse come un maestro, lo si ascoltò come un oracolo, mentre le
contumelie dei giornali rivoluzionari, che in lui cosmopolita senza
coscienza nazionale non vedevano che un tristo accolito di Guizot e un
peggior mezzano di Luigi Filippo, addensandosi intorno alla sua
reputazione, le davano più vivo rilievo. Involontariamente Pellegrino
Rossi divenne nello spirito pubblico il rivale di Giuseppe Mazzini.
Entrambi erano cresciuti nell'esilio, celebri per scritti ammirati da
amici e da nemici. L'uno rappresentava il vecchio spirito rivoluzionario
del '21 e del '31 divenuto senno pratico, adattandosi ai fatti
quotidiani e giovandosene nell'oblio dei principii, come un carbonarismo
borghese ed autoritario mutato col trionfo degli Orléans in governo
borghese a base industriale, timido nelle iniziative e temerario nelle
repressioni, egualmente logico nell'abbandono dei primi principii e
delle ultime conseguenze, unificando lo stato nel governo e il governo
nella dinastia, considerando la nazione solo negli elettori e il potere
solo negli eletti: tutta la libertà nella carta, tutta la giustizia
nell'ordine, tutta la rivoluzione in concessioni di principi e in
applausi di sudditi, l'Europa immutata ed immutabile. L'altro era la
rivoluzione popolare e profetica, ancora solitaria nei migliori e
nullameno divenuta presto universale nel loro apostolato, teatrale
nell'eroismo e sublime nel martirio, internazionale nel sentimento e
patriottica nel concetto: che voleva l'Italia una, libera e republicana,
e non s'arrestava a statuti, non patteggiava collo straniero, non si
accodava a re, non si illudeva coi preti, inflessibile per eccesso di
logica ed inabile per troppa grandiosità di disegno.

Per Pellegrino Rossi l'Italia di Mazzini era un'utopia che impediva ogni
progresso nella realtà, una demenza del pensiero, una perfidia della
volontà: per Mazzini l'Italia di Pellegrino Rossi era una falsa
apparenza, l'ombra di un fatto esaurito, attraverso la quale passavano
già i raggi di un'idea novella. I suoi principi non credevano nemmeno
agli statuti che largivano, non volevano la Dieta che mestavano,
abborrivano dalla guerra che proclamavano: erano come fantasmi del
passato, una suprema menzogna del presente. La loro ridda politica
intorno al Vaticano somigliava alla Danza dei Morti di Goethe intorno ad
un campanile nel piano fosco di un cimitero, aspettanti la grande parola
del nuovo giorno per inabissarsi nell'ombra.

La nomina del Rossi al ministero, nel quale il vecchio cardinale Soglia
conservava apparentemente la presidenza, parve a tutti una provocazione.
Il gabinetto francese ne mosse vive rimostranze come di sfregio fatto
alla repubblica coll'elevazione di un orleanista; i rivoluzionari
fiutarono il nemico; i Consigli sentirono il padrone ed abbassarono al
solito la testa; i sanfedisti recalcitrarono, riconoscendo nel forte
parlamentare l'invincibile proposito di governare costituzionalmente; i
preti si scandolezzarono a questo secondo avvento di un filosofista
niente più ortodosso del Mamiani; Pio IX solo calmò la propria
incertezza dietro il coraggio del ministro, che aveva affermato
pubblicamente sino dalla prima ora: «Non si abbatterà l'autorità del
papa, se non passando sul mio corpo». L'infelice credeva ancora che un
individuo potesse mutarsi in sbarra contro la storia.

I primi atti del ministero furono di guerra: frenò, vessò, espulse i
democratici sospetti di rivoluzione; per ristorare le finanze tassò il
clero, inimicandoselo; avversò energicamente il Piemonte, compiacendosi
ai disastri militari che tarpavano opportunamente l'ali ai suoi sogni di
conquista. Quindi, nè unitario nè federalista, vide con occhio sicuro
l'impossibile ipocrisia della lega e l'impotente rettorica della
rivoluzione; ma troppo saturo di cartismo e fidando nella bonarietà del
pontefice, credette nullameno di poter fondare a Roma un vero governo
parlamentare. Roma costituzionale avrebbe così preso la testa del
movimento italiano, e l'Italia avrebbe potuto risorgere dopo di essersi
irrobustita in lunga e ordinata educazione liberale.

Egli, come massimo ed unico ministro, doveva quindi governare
personalmente in quei primi giorni costituzionali: così incorporò al
proprio ministero dell'interno quello di polizia, per meglio valersi dei
mezzi repressivi e cacciare il Galletti ligio ai rivoluzionari; promosse
lavori pubblici, strade ferrate e telegrafi, scuole d'economia politica
e di diritto commerciale. La coscienza della propria superiorità, e
quella fremente alterigia che si compiace dell'odio popolare quasi
ritrovandovi una prova del merito, gli tolsero di valutare esattamente
l'opposizione ingrossante di giorno in giorno. Nelle inevitabili
trattative per la costituente proposta dal Montanelli scoperse con
brutale franchezza i disegni voraci del Piemonte, e, mentre questo
instava per una lega militare secondo le terribili urgenze del momento,
ma nella quale avrebbe naturalmente avuto il sopravvento, egli propose
una inutile lega di principi senza alcun accenno nè alla nazione nè
all'indipendenza. Ciò disperse quel falso sogno di una dieta italiana,
ed isolò il Piemonte. Intanto, proseguendo nella riforma militare e
giudiziaria per organizzare modernamente lo stato, vi accresceva il mal
animo collo spostamento degli interessi e le lesioni ai troppi diritti
acquisiti: gli ordini dati al Zucchi, ministro della guerra, per
impedire a Giuseppe Garibaldi, approdato in Toscana e quivi accolto
freddamente dal Guerrazzi, il transito per la Romagna colla sua eroica
legione di Montevideo diretta a Venezia, offesero vivamente il
sentimento nazionale. A Bologna il popolo ammutinato impose al generale
degli svizzeri Latour di lasciar libero il passo a Garibaldi: questi,
giungendovi, suscita l'entusiasmo di tutti; Angelo Masina bolognese lo
segue, improvvisando a proprie spese un grosso squadrone di cavalleria.
Ma Zucchi, già salvato da Garibaldi a Como ed infellonito pel recente
smacco, non potendo imprigionare il proprio salvatore, come Rossi
avrebbe voluto, incarcera il padre Gavazzi, barnabita divenuto celebre
predicando la crociata contro gli austriaci su per le piazze. I liberali
urlano, il congresso federativo di Torino dichiara la caduta di Rossi
necessaria all'attuazione delle speranze italiche, la reazione
ministeriale costretta ad esagerarsi per resistere all'esaltamento degli
animi peggiora le proprie misure. Tutto diventa provocazione: una truppa
di carabinieri, chiamata a Roma e fatta passeggiare spavaldamente pel
Corso, pare una sfida: si mormorano minaccie contro i Consigli, si
sussurra di costituente, si denuncia l'ostinato ministro alla pubblica
esecrazione.

E nessuno lo sostiene.

Il clero gli è avverso per le tasse e per quel fermo proposito di
stabilire un vero governo costituzionale, i federalisti lo osteggiano
come unico nemico della Dieta italiana, la diplomazia degli altri
principi lo abbandona, le popolazioni inerti, papaline o rivoluzionarie,
guardano di mal occhio questo straniero che tutti condannano. La
reazione ha già trionfato di Napoli e della Sicilia; la Lombardia è
ricaduta nella servitù tedesca. Venezia già cinta d'assedio, il Piemonte
cogli austriaci vincitori al confine, la Toscana imbrogliata nella
rettorica armeggia contro al proprio principe e non s'accorge che
Radetzky sta per rioccuparla come un feudo imperiale. Il papa, rimasto
solo all'esperimento costituzionale e atterrito dall'anarchia di Roma,
si prepara ad accettare l'intervento tedesco, dianzi respinto, per
ristabilirsi signore assoluto e tornare in quiete. La rivoluzione
precipita verso la catastrofe; il quarantotto è stato inutile. Il
Piemonte ha fallito, Napoli tradito, Milano votata un'annessione vana,
Venezia gridato, negato, riaffermato la propria republica senza fede in
essa e senza speranza; la Toscana ha oscillato senza muoversi; nessuna
idea si è ancora affermata. Il papato, nel nome del quale cominciò la
rivoluzione e per opera del quale fu arrestata nel momento della
vittoria, come disse la prima parola della rivoluzione, così deve
esserne l'ultima: bisogna che la rivoluzione lo distrugga per affermare
la propria idea. Senza l'abolizione del potere temporale e senza la
repubblica a Roma, la rivoluzione del quarantotto non è che una inutile
ripetizione di quelle del '21 e '31: mancherebbe il progresso alla vita,
la logica alla storia. L'ostacolo più antico ed universale alla
costituzione della nazionalità italiana fu ed è il papato: la
rivoluzione non può essere tale che sopprimendolo come già fece la
francese dell'89, ma quella procedendo per conquista rovesciava, non
abrogava. L'Italia che lo ha creato, può sola annullarlo. L'unità,
l'indipendenza e la libertà della nazione derivano da Roma italiana:
Roma pontificia è l'Italia federale diffranta in minimi stati, serva
dello straniero, senza individualità nella vita e senza personalità
nella storia.

Il papato, dando la spinta alla rivoluzione, ha tentato l'ultimo
esperimento per rinnovarsi: ma la guerra nazionale gli è rimasta
estranea, lo statuto lo soffoca, l'idea moderna democratica lo
trascende.

Pellegrino Rossi è la reazione con tutto l'orpello e il panneggiamento
delle false franchigie costituzionali, coll'assurdo della sovranità
popolare e papale, coll'antagonismo dello stato pontificio con tutti gli
altri e colla nazione: è la reazione senza alcun principio politico,
senza fede in se medesima, senz'accordo con nessuna classe o ordine,
incompresa ed incomprensibile.

Quindi Pellegrino Rossi diventa il centro di tutti gli odii; la sua
condanna esce dalla fatalità storica come un epilogo. Un superbo
accecamento lo rende più intrattabilmente dominatore negli ultimi
giorni: invano lettere anonime lo avvisano e pochi amici lo consigliano
ancora. Egli non crede al proprio assassinio, giacchè non può intenderne
la ragione storica. Infatti la sua reazione nell'apparenza è quasi
insignificante, paragonata a quella di Ferdinando Borbone; la sua
sincerità parlamentare è indiscutibile, la sua illusione quella stessa
di tutti i politici di allora: l'allocuzione del 29 aprile non venne da
lui inspirata, Garibaldi fu peggio trattato a Milano che a Bologna, il
tradimento del papa ricusantesi alla guerra nazionale non è nulla al
confronto dell'abbandono di Milano e della consegna di Venezia tentata
da Carlo Alberto. Nullameno l'odio rivoluzionario s'addensa su
Pellegrino Rossi, lo esecra come un tiranno, lo insulta come un
carnefice. Nessuno sospetta ancora la profonda ragione di così unanime
sentimento nella necessità di salvare la rivoluzione, proclamando la
repubblica a Roma.

Il 15 novembre Pellegrino Rossi, mentre sale lo scalone della
cancelleria, ove è adunato il parlamento, solo col Righetti fra una
folla minacciosa, è colpito da una pugnalata alla carotide. La guardia
nazionale ha assistito impassibile all'assassinio, il popolo urla di
feroce entusiasmo, il presidente Sturbinetti con affettato stoicismo
ordina prosegua la seduta, ma i deputati si sbandano sotto l'incubo di
un terrore misterioso, intanto che la notizia si sparge per tutta Italia
con miracolosa rapidità. A quei giorni furono similmente uccisi il
ministro Latour a Vienna, il Lamberg in Ungheria, il Lichnowski a
Francoforte senza che la loro morte provocasse emozione di sorta: ma
quella di Pellegrino Rossi sconvolse tutte le coscienze. Qualche gran
cosa era con lui crollata: a distanza di diciotto secoli il pugnale, che
aveva colpito Cesare per trafiggere invano l'impero, scannava Rossi
uccidendo il papato. La morte del dittatore non potè salvare l'antica
republica: quella del ministro permise alla nuova di nascere.

Federazione di principi e primato pontificio, rinnovamento religioso e
autonomie regionali, tutte le tradizioni e le aberrazioni del
quarantotto, svanivano con Pellegrino Rossi. Qualche gran cosa era
crollata con lui, la Roma papale più vasta della Roma cesarea, città di
Dio che, fabbricata colle rovine dell'impero romano, aveva contenuto
tutto il medioevo e dominato il rinascimento, slargandosi colle scoperte
successive di due mondi, soccombendo alla rivoluzione francese, ma per
rialzarsi dopo di essa, quasi maggiore di essa. Qualche gran cosa era
cominciata colla sua morte, la Roma italiana, l'epoca delle nazionalità,
l'èra universale della libertà, la repubblica del pensiero, la
cattolicità della scienza.

Al Quirinale, nelle anticamere del papa, si rinnova il terrore che alle
notizie delle prime invasioni barbariche agghiacciava le sale dei
Cesari: si dànno ordini di repressione ai gendarmi che non osano
eseguirli; i ministri balbettano, i deputati si disperdono, i cortigiani
sono già dispersi. Giù nella piazza un'orgia brutale dà all'assassinio
una truce mirifica apparenza di festa. L'indomani si pensa a provvedere
un nuovo ministero, non sapendo e peggio non potendo sapere chi porvi,
mentre i rivoluzionari, concertandosi rapidamente, sollevano in massa il
popolo e lo spingono al Quirinale per chiedere una costituente italiana
e un ministero democratico con Saliceti, Campello e Sterbini. Galletti è
deputato oratore del popolo al papa. Questi tenta resistere, sperando
ancora nella propria autorità, che la sommossa medesima sembra
riconoscere; ma il popolo infuria. Volontarii reduci da Vicenza, guardie
civiche e carabinieri corrono all'armi, si assedia il Quirinale: gli
svizzeri resistono, la mischia s'accende, un monsignore è ucciso,
s'incendia una porta del palazzo, un cannone trascinato in piazza sta
per rovesciare l'altra, finchè Pio IX, vinto dal terrore, dichiara ai
diplomatici di non cedere che alla violenza, ed inganna il popolo colla
composizione di un nuovo ministero. Il principe non ha saputo resistere,
il pontefice non ha voluto sacrificarsi: eroismo e martirio non sono più
pel papato.

Allora il trambusto diventa inintelligibile. Marco Minghetti alla testa
del gruppo bolognese si dimette da deputato per non venir meno alla
devozione verso il sovrano; il ministero non osa condannare
pubblicamente l'assassinio di Rossi, che rimane e rimase poi misterioso,
palleggiato con reciproca accusa da gesuiti a mazziniani, sconfessato
con unanime orrore da tutti i partiti. I circoli fanno proclami e
decreti: un'aurora boreale getta sul tumulto una luce sanguigna di
tragedia, atterrendo tutte le superstiziose fantasie; quindi il papa,
sentendosi straniero nella propria capitale, fugge insospettato e
travestito a Gaeta.

Lo statuto era stato una resa, la fuga diventò un'abdicazione.

La lettera lasciata dal papa al marchese Sacchetti non raccomandava che
di salvaguardare i palazzi apostolici: volgarità di padrone di casa, che
nel supremo disastro di un regno millenario e in una terribile
rivoluzione della patria non pensa che ai propri mobili! Nullameno il
nuovo ministero, nel quale dominava il tribuno Sterbini, rimaneva nella
propria dignità poco più alto del papa, giacchè, invece di profittare di
quella fuga per dichiarare abrogato per sempre il potere temporale,
lamentava invece che Pio IX fosse fuggito, cedendo ad infami consigli,
ed invitava patriotticamente i cittadini alla calma. Il circolo popolare
con arbitrio rivoluzionario e con pusillanime ipocrisia dichiarava
legittima l'autorità del ministero, non perchè riconosciuta dal popolo
ma come riconfermata dal papa in una frase ambigua della sua lettera al
Sacchetti. Il popolo della capitale e delle provincie rimaneva sospeso
in tale incertezza di governo, ascoltando le esortazioni dei due
Consigli, che gli predicavano la temperanza virile: Mamiani ricondotto
dal pericolo dello stato al ministero riusciva a scartare la proposta
del principe di Canino invocante la costituente.

Ma intanto che ministero e parlamento armeggiavano infelicemente per
mantenere l'accordo col pontefice fuggito, vietando a Garibaldi di
avvicinarsi a Roma colla sua legione ed ammansando il popolo
coll'ordinare grossi lavori pubblici, Pio IX promulgava un breve da
Gaeta, quasi a risposta pei circoli che domandavano la costituente, nel
quale, protestando contro le necessità della propria fuga, dichiarava
nulli tutti gli ultimi atti del governo e lo sostituiva con una
commissione di monsignori e di aristocratici. Però non uno di essi ardì
accettare il difficile ufficio.

Alla violenta smentita del pontefice, ministero e parlamento risposero
con instancabile servilità arzigogolando curialescamente che la protesta
papale, datata dall'estero e senza firma di ministro responsabile, non
poteva credersi autentica, e deputando oratori a Gaeta per convincere
Pio IX a ritornare in Roma. Naturalmente le deputazioni non vennero
ricevute al confine napoletano: invece Cavaignac, dispotico presidente
della repubblica francese, dopo le giornate di giugno, annunciò l'invio
di tre fregate francesi nel porto di Civitavecchia per assicurare il
pontefice. Il governo provvisorio, protestando contro questa minaccia,
adoperò per supremo argomento non avere Pio IX nell'immacolata grandezza
dell'animo proprio invocato contro la patria intervento armato straniero
e non essere mai per invocarlo; ma poco dopo il pontefice, rifiutando
ogni componimento, mandava invece da Gaeta un appello a tutte le potenze
cattoliche per farsi rimettere in trono.

I costituzionali di Roma, troppo simili ai moderati milanesi delle
cinque giornate, per orrore dell'imminente rivoluzione, non volevano a
nessun costo recedere dalle speranze di rappattumamento con Gaeta, e
nominavano un'altra commissione di governo con questo precipuo incarico.
Mentre nel popolo cresceva il fermento rivoluzionario, nei governanti si
cristallizzava rapidamente la fede nel costituzionalismo del pontefice,
malgrado la sua fuga e le violenti proteste. I circoli fremevano; i
ricchi clericali fuggivano come sotto la tempesta; una incomprensibile
incertezza sconvolgeva tutti gli spiriti. Era impossibile non
precipitare a governo radicalmente democratico, e nullameno non se ne
aveva il coraggio. Scarso nelle masse il sentimento liberale; quasi
nullo il repubblicano; pochi ma unanimi, i forestieri italiani attirati
in Roma dall'istinto storico del grande avvenimento mestavano dovunque,
arringando ed oprando, persuadendo e minacciando; solo il principe di
Canino per vanità tribunizia parlava alto di costituente; solo il
Mamiani, antecessore e successore del Rossi, resisteva apertamente,
domandando l'espulsione come per stranieri di De Boni, di Ciceruacchio e
di Maestri, energici capi-parte repubblicani, e proponendo la
convocazione di un'assemblea italiana per compilare il patto federale di
tutti i singoli stati.

Un'onda di piazza superò quest'ultima trincea di costituzionali,
travolgendo il ministero. Quindi il 20 dicembre 1848 la Giunta suprema
di stato proclamò la Costituente Romana, sottomettendone immediatamente
la legge ai Consigli, che non osarono nè accettarla nè respingerla: la
legge importava che l'assemblea rappresentasse con pieni poteri lo stato
romano e vi desse compiuto, regolare e stabile ordinamento; che le
elezioni si facessero per suffragio universale diretto: elettori tutti i
cittadini di ventun anni, eleggibili tutti gli altri di venticinque,
duecento i deputati.

Questo schema arditamente democratico cadde come una bomba sul timido
parlamento già tanto assottigliato dalle renunzie dei più timidi
deputati, onde la Giunta ne chiuse la sessione, ordinando la
convocazione della Costituente per decreto.

Ma neanche questo decreto schiettamente rivoluzionario bastò a guarire
il governo provvisorio presieduto da monsignor Muzzarelli dalle
equivoche speranze di un componimento col papa: le pratiche diplomatiche
proseguirono con Gaeta, mentre con arbitrio assennato ed intrepido si
affrettavano le abolizioni dei fedecommessi e delle disposizioni
fiduciarie, si riformava la procedura civile, si regolava la navigazione
dei fiumi e delle coste marittime, si sopprimeva la tassa del macinato e
finalmente, quasi ad accenno di regime giacobino, s'instituiva una
commissione militare senz'appello pei delitti contro l'ordine pubblico.
Solo all'esercito, che avrebbe dovuto essere la prima cura in quella
difficile ora di guerra coll'Austria vittoriosa ed invadente, non si
pensava affatto: appena appena s'inscrissero 1330 reclute. Al decreto
invocante la Costituente le provincie si scossero e tutti i legati
ecclesiastici o laici vi si dimisero: i costituzionali si ritirarono
sdegnosi, i rivoluzionari si levarono, i sanfedisti occulti spiarono con
perfida attesa la catastrofe.

La Corte pontificia di Gaeta sembrò disinteressarsi da ogni questione,
abbandonando il partito costituzionale e scagliando la scomunica contro
elettori ed eletti, mentre a Roma un gretto municipalismo aiutato dallo
Sterbini mirava inutilmente a contrastare l'espansione e il significato
della proclamata costituente. Infatti il suo carattere era al tempo
stesso giobertiano e montanelliano, giacchè alcuni deputati dovevano
sedervi come nazionali ed altri come romani, questi costituire un
governo nell'antico stato pontificio, quelli combinare un assetto
federale italiano. La fisima della dieta come carattere essenziale nella
rivoluzione vi persisteva, ma l'inconscio sentimento unitario di Roma
capitale d'Italia ne santificava l'assurda momentanea impossibilità. Se
l'accordo federale non era riuscito tra i principi, fra questi e le
repubbliche e coll'Europa già disposta a ricondurre sul trono il
pontefice diventava addirittura paradossale: nullameno le pratiche
seguivano attivamente, contrastandosi nelle intenzioni e nei disegni del
Gioberti e del Montanelli.

A Gaeta invece s'arrabattava il lavoro delle diplomazie: il Borbone
badava abilmente a conservare il papa, traendo dalla sua ospitalità una
specie di assolutoria alle infamie commesse; il Piemonte offriva Nizza e
la propria mediazione per riconciliarlo con Roma; Cavaignac, per
amicarsi il partito cattolico francese nell'imminente elezione
presidenziale, moltiplicava le promesse, invitando Pio IX in Francia; la
Spagna gli aveva già esibito le isole Baleari e tutta se stessa. Poi il
Piemonte, trascinato dall'inesorabile duplicità del proprio giuoco,
domandava al papa di presidiare Roma in nome suo con truppe sarde,
stipulando simultaneamente col governo provvisorio di potere
militarmente occupare le provincie romane per le necessità
dell'imminente seconda guerra coll'Austria, e più tardi, pregato
d'alleanza da questo, la negava per riguardo al pontefice; finalmente,
ributtato dalla diplomazia papale, dichiarava caso di guerra il
minacciato intervento spagnolo in favore del papa. Ultima la Prussia
proponeva come accordo fra l'Austria e la Francia, che quella occupasse
il nord e questa il sud dello stato pontificio.

Fra questa temperie si tennero le elezioni e il giorno 5 febbraio 1849
s'adunò nel palazzo della Cancelleria la Costituente.


                                  La seconda campagna piemontese.

I primi esperimenti repubblicani dovevano quindi coincidere coll'ultima
guerra regia, senza ottenere migliore risultato.

Mentre duravano in tutti i gabinetti politici d'Europa le trattative di
una mediazione tra l'Austria e il Piemonte e quella tirava astutamente
in lungo per assodarsi all'interno contro i pericoli della rivoluzione e
della Dieta di Francoforte, a Torino ministero, parlamento e popolo
farneticavano d'entusiasmo rivoluzionario e di reazione dinastica.
Migliaia e migliaia di rifuggiti vi si agitavano nella febbre della
rivincita; i repubblicani accusavano violentemente il re, i regi
svillaneggiavano la democrazia sfiduciata e sfiduciante, i giornali
palleggiavano accuse e denunzie contro tutto e su tutti. Vero è che alla
guerra il Piemonte era stato insufficiente meno ancora per difetto di
ordini militari che per sincerità di sentimenti e per contraddizione di
propositi; che i lombardi dopo gli eroismi delle cinque giornate erano
cessati dall'opera; che a Venezia si era stati altrettanto fiacchi alla
battaglia che incerti nella politica; che i ducati avevano fatto quasi
da spettatori; che la Toscana aveva levato appena due reggimenti; che il
papa e il Borbone avevano ritirato i propri. Ai delirii della fede
patriottica erano naturalmente succeduti i fanatismi dell'incredulità
pessimista: il passato di Carlo Alberto pareva spiegazione a tutti i
suoi ultimi tradimenti immaginari, mentre spiegava fin troppo i
tradimenti veri: le speranze di aiuti europei dileguando, invece
d'irrobustire il patriottismo col senso tragico del pericolo,
scassinavano tutti i disegni e prolungavano ignominiosamente ogni
querimonia.

Le ultime proposte franco-inglesi di mediazione, importando la
remissione del Lombardo-Veneto all'Austria, invelenivano egualmente le
cupidigie conquistatrici dei costituzionali piemontesi e i sentimenti
italiani dei democratici. Nella tempesta parlamentare i ministeri
passavano come fantasmi: quello obliquo del Casati soccombette all'altro
del Perrone, cui successe il Gioberti. Si voleva la riscossa malgrado le
tetre confessioni di Dabormida, già ministro della guerra, sullo stato
dell'esercito. Il ministero avrebbe voluto prepararla convenientemente;
Brofferio invece coi più caldi la chiedeva subitanea, inspirata,
condotta «da ardimento, ardimento, ardimento». La Lombardia calpestata e
taglieggiata strillava, i ducati parevano scrollarsi impazienti. Genova
arditamente rivoluzionaria e malata di antico odio municipale al
Piemonte minacciava d'insorgere; il congresso di Bruxelles, ultimo
tentativo di componimento diplomatico, non dava risultati: l'Italia si
credeva con ingenua vanteria ancora integra di forze e salda di
propositi. Certo che in quello di riprendere le ostilità si sarebbe
dovuto profittare delle nuove crisi interne dell'Austria, tagliando
corto ai raggiri e alle procrastinazioni colle quali essa mirava ad
assonnare l'Italia; ma la guerra avrebbe così dovuto essere popolare e
nazionale, e il Piemonte monarchico non poteva per necessità di egoismo
consentirvi.

Per prendere fiato, il ministero sciolse la Camera, che in quella
esacerbazione degli spiriti ritornò con numero preponderante di
impazienti contro i moderati. Intanto le costituenti di Firenze e di
Roma, cacciando il granduca e il pontefice, crescevano autorità alla
parte democratica, mentre il loro urto col Piemonte, condannato a non
vivere e a non progredire che costituzionalmente, diventava sempre più
inevitabile, e la scissione dei principii politici vietava anche più
dolorosamente gli accordi necessari ad un ultimo sforzo di guerra
nazionale. All'apertura del parlamento ministero e re parlarono
audacemente di rivincita, ma l'ora propizia era già trascorsa.
L'Austria, opponendo i Magiari agli Slavi e questi a quelli, li aveva
entrambi soverchiati: Vienna aveva richiamato l'imperatore; Praga
cedeva; la corte, promettendo una costituente, ammansiva i
rivoluzionari; le individualità autonome dell'impero resistendo al moto
unitario della Dieta di Francoforte, davano buon giuoco alla politica
austriaca; la Prussia, abbandonando la Dieta, lasciava timidamente
cadere l'idea unitaria piuttosto annebbiata che rivelata dalle troppe
discussioni. Se i disastri al rompere della guerra avevano quindi dato
spirito alle potenze per insultare l'Austria, i nuovi successi di questa
persuadevano invece a sostenerla: tutte le rivoluzioni nazionali
soccombevano alla medesima fatalità, tutte le democrazie si appalesavano
del pari insufficienti.

Le pretese del Piemonte sul Lombardo-Veneto non sembravano perciò alle
diplomazie che ridicole bravate di un vinto senza gloria, e l'unità
italiana un sogno di poeti guasto da corruttele di rivoluzionari e da
violenza di banditi. La reazione monarchica vincitrice in tutta Europa
si riuniva ora intorno al papato abbattuto dalla repubblica romana, per
rialzarlo, facendo della ripristinazione di Pio IX come il proprio
epilogo trionfale. Infatti Gioberti stesso, capo di un ministero allora
democratico, sbigottito dall'accordo di tutte le potenze ad intervenire
nella questione romana, precipitava alla più assurda delle decisioni,
insistendo presso il pontefice e il granduca Leopoldo per rimetterli in
trono con armi piemontesi. Sarebbe stata la guerra civile della
monarchia contro la democrazia, del Piemonte contro l'Italia, e questo
all'indomani del congresso federativo. Il papa ricusò, il parlamento
urlò al fratricidio. Gioberti caduto dal ministero dovette esulare, per
difendersi invano in un ultimo libro sul _Rinnovamento civile_,
eloquente imbroglio di filosofia e di politica, apologia infelice e
suprema contraddizione di un grande spirito, cui la sventura dell'esilio
nobilmente sofferto ridiede l'onorabilità perduta nei troppi mutamenti
di opinione e nelle teatrali vanità della vita.

Intanto la necessità della guerra stringeva il nuovo ministero Colli. Si
era lasciato con incredibile negligenza esausto l'erario; quindi si
bandiva la leva in massa degli emigranti lombardi senza osare di
estenderla a quelli dei ducati, perchè, soggetti allo statuto, avrebbero
dovuto sopportarla per legge, e la legge mancava: miserabile pedanteria
di procedura costituzionale! Non si ardiva per sospetti di rivoluzione
mobilitare la guardia nazionale: nessuna fortificazione difendeva ancora
i passi del Ticino. Era e doveva essere la seconda fase della guerra
regia. Le diplomazie tenevano il broncio; l'Italia invece vi era
concorde di sentimento, ma senza quella eroica disperazione che avrebbe
potuto fare il miracolo di una vittoria. La politica ambigua aveva
isolato il Piemonte: principi e repubbliche diffidavano egualmente delle
sue intenzioni e della sua capacità: Lorenzo Valerio, spedito a Firenze
e a Roma per chiedere concorso d'armati e di danaro, vi ottenne festose
accoglienze, ma scarsi aiuti; anche questi, tardi invocati, non poterono
muoversi che troppo tardi, quando già la guerra era sciaguratamente
perduta.

A generalissimo Carlo Alberto nominava il polacco Chrzanowski, ignoto ai
soldati e all'Italia, più inetto degli inetti che doveva comandare. Così
un soldato straniero doveva in questa seconda guerra regia vincere per
l'Italia, mentre il popolo piemontese vi rimarrebbe tranquillo
spettatore secondo il monito supremo di Carlo Alberto, e il resto del
popolo d Italia era pregato di aiutare il re.

Quindi la guerra intimata dal Piemonte si accende alla frontiera.
Schwarzenberg, ministro d'Austria, ne rigetta la responsabilità su Carlo
Alberto, Radetzki con senile ed ammirabile iattanza grida al proprio
esercito: -- a Torino! -- e, sguarnendo tutto il Lombardo-Veneto troppo
paralizzato dal terrore per pensare a insorgere, si precipita
all'offesa. L'esercito piemontese, disperso sopra una lunghissima linea
da Parma a Novara coll'ostinato errore della campagna antecedente,
presenta poca resistenza: Venezia tardi avvisata non può circuire il
nemico, avvicinandosi ad un'ala sarda: a Roma il proclama di guerra
giunge prima di colui che dovrebbe portarlo. Poi Lamarmora, occupando la
Lunigiana senza avvertirne il governo toscano, è da questo trattato come
nemico e con inconcepibile insania minacciato di una insurrezione a
Genova: Carlo Alberto spintosi a cavallo oltre il Ticino, poichè nessuno
risponde alla sua chiamata, deve retrocedere. Ma Radetzky la mattina
dello stesso giorno (20 marzo 1849), nel quale spirava l'armistizio,
passa il Gravellone lasciato indifeso da Ramorino con inesplicabile
disobbedienza punita poi come tradimento, coglie i piemontesi a Mortara,
li batte, e due giorni dopo li prostra a Novara. La guerra è finita:
Chrzanowski vi si è mostrato ridicolo nella sconfitta, Carlo Alberto
quasi magnanimo coll'abdicare sul campo la corona al figlio Vittorio
Emanuele.

Questi, inaugurando così tragicamente il proprio regno, potè nullameno
salvarlo ed assicurarsi l'avvenire col mantener fede allo statuto contro
tutte le minacce del vecchio maresciallo: ma i patti imposti dal
vincitore furono umilianti: occupazione di 20,000 soldati austriaci sul
Po, la Sesia ed il Ticino durante l'armistizio; scioglimento dei corpi
volontari, richiamo della flotta dall'Adriatico, ordine del nuovo re ai
soldati piemontesi, che fossero in Venezia, di rimpatriare sotto pena
d'essere esclusi da ogni capitolazione.

Era l'ignominia d'un ultimo tradimento imposto contro la grande città
un'altra volta tradita.

E Vittorio Emanuele dovette consentirvi, sebbene la sua corona non
corresse pericolo, come si disse più tardi per scusare il patto infame.
Infatti per quanto grande la vittoria dell'Austria e misero lo stato del
Piemonte e rovinante la condizione d'Italia, una conquista che portasse
nella Savoia i confini dell'impero austriaco era assolutamente
impossibile. La Francia sola sarebbe bastata ad arrestare l'Austria
sulla via di Torino, mentre il Borbone ed il papa stesso avrebbero
protestato per non perdere ogni loro ultima autonomia, e Russia,
Prussia, Inghilterra si sarebbero tosto accordate alla difesa delle
Alpi.

Questa ragionevole persuasione rafforzò lo sdegno dei liberali, che
all'annunzio della rotta, dell'abdicazione e dall'armistizio,
rovesciarono il ministero, farneticando di resistenza ad oltranza. Ma la
guerra regia era fatalmente conchiusa. L'esasperazione delle fantasie
offese in tutti gli atti da immaginari tradimenti, le proposte
disperate, i rimpianti eroici, gli sfoghi irrefrenabili, non esprimevano
più che l'ultima crisi d'un periodo esaurito nei fatti e rinnovantesi
nelle coscienze. Così Genova insorta a guerra civile, assaltando il
proprio arsenale e gridando un governo provvisorio di Liguria, per
difendersi contro i piemontesi accorsi prontamente col generale
Lamarmora ad assediarla; quindi costretta dopo inutili invocazioni ai
volontari lombardi di subire le sevizie efferate dei vincitori, non è
più che una tragedia medioevale nel gran dramma moderno, una demenza
republicana di altri secoli nel prologo republicano, che Roma solamente
ha potuto rendere ragionevole. Brescia, che resiste eroicamente alla
selvaggia ferocia di Haynau accorso da Venezia a bloccarla, e vinta, non
doma, muta la guerra in duelli per tutte le strade e per tutte le case,
non è più che l'epilogo della rivoluzione lombarda cominciata colle
Cinque Giornate, della quale salva l'onore compromesso dall'ultima
inazione.

La formula monarchica nella rivoluzione federale del 1848 si è risolta
nello Statuto riaffermato dal giovane re piemontese dopo la rotta di
Novara.




CAPITOLO QUARTO.

Schemi republicani


                                  Firenze.

La rivoluzione federale, unanime nel sentimento dell'indipendenza
nazionale e nell'istinto della libertà statutaria, doveva
necessariamente, dopo tutte le prove fallite del principato, tentare un
più alto esperimento colle republiche, rivelando la formula della
rivoluzione avvenire. Ma se dei regni uno solo aveva resistito allo
Statuto, mantenendolo sotto la doppia violenza d'una invasione militare
e d'una democrazia eslege aiutata dagli equivoci della insurrezione
nazionale, nessuna republica poteva affermarsi vitalmente nell'immenso
tumulto di quella liquidazione del passato. Il principio democratico,
brillando un istante sul Campidoglio nella più abbagliante purezza,
quasi a diradare le tenebre di tutte le antitesi politiche, era
anticipatamente costretto a vanire nella gloria d'un poema, nel quale il
fatto politico rimarrebbe appena come una trama. Nè la storia, nè La
civiltà italiana erano ancora tali da consentire intera la doppia
rivelazione della democrazia e delle nazionalità.

Un esperimento republicano era nullameno necessario per dissipare le
ultime illusioni della federazione, che nella republica cercava
istintivamente la conciliazione dello stato antico colla democrazia
moderna, e garantire l'originalità del principio democratico
subdolamente assorbito negli statuti dal principato. Così Genova già
fusa col Piemonte, mentre questo stava per fondersi coll'Italia dandole
la propria unità costituzionale, non arriva che ad una inutile
insurrezione, reazionaria nel patriottismo municipale, anarchica nel
processo politico, tragica in quell'ora di sconfitta per tutta la
nazione: Livorno, sollevandosi contro Firenze, riassume tutta
l'impazienza della democrazia costretta dalla propria incapacità a
diventare demagogia: Siena, insorta poco dopo per difendere il granduca
traditore e fuggiasco, soddisfa per l'ultima volta l'antico rancore
municipale, e quindi osteggia simultaneamente Firenze e la democrazia:
Venezia inalbera la secolare bandiera di San Marco, poi l'abbassa per
sostituire il vessillo italiano, finalmente la risolleva quasi per
festeggiare con funebre pompa l'agonia della propria republica, e chiude
per sempre l'epoca della federazione italiana come era uscita dai comuni
e Lorenzo il Magnifico l'aveva gloriosamente disciplinata nella prima
lega italica: Firenze, liberata dalla monarchia colla fuga del granduca,
incerta fra le vanità dei vecchi ricordi republicani e le tendenze
democratiche attuali, tergiversa colla tradizionale doppiezza
procrastinando ogni decisione per un governo monarchico o republicano,
toscano federale o romano e quindi unitario, finchè l'ora storica passa,
e, sorpresa da una reazione municipale, ricade nel granducato. Roma
sola, centro eterno d'Italia, sente che la prima affermazione dell'epoca
nuova non può venire all'Italia che da essa, e s'affretta con inconscio
crescendo ad abbattere il potere temporale dei papi e a proclamare la
republica: così passato ed avvenire italiano si fondono per la terza
volta nel suo avvenire politico.

In questa gamma Firenze è una penombra, Venezia un tramonto, Roma
un'aurora: Firenze soccombe in un dubbio, Venezia in un sogno, Roma in
una rivelazione. Ciò che Firenze risorta a breve agonia non ha osato,
Venezia lo compie morendo; ciò che l'Italia insorta ha sentito, Roma lo
attua in una republica effimera, ma profezia di maggiore republica.
Venezia rappresenta l'Italia antica, Firenze l'Italia del momento, Roma
l'Italia dell'avvenire: Venezia risuscita in Manin il suo ultimo doge
guerriero. Firenze ripete in Guerrazzi il suo ultimo priore turbolento,
Roma trova in Mazzini il suo ultimo apostolo.

Ma intanto che le republiche cadono, seppellendo il passato e
squarciando il futuro, il Piemonte si assoda nella stessa bufera che lo
squassa, e salva nella monarchia la forma della non lontana unità
d'Italia.

Dopo i casi di Livorno, nei quali si era fin troppo chiarita la
insufficienza del nuovo governo granducale e che avevano condotto al
potere il Guerrazzi e il Montanelli, la posizione politica della Toscana
rispetto alla rivoluzione italiana toccava il massimo della crisi. I
costituzionali, esauritisi nelle rapide successioni ministeriali, che
dall'energia dittatoria del Ridolfi erano discese all'onesta
condiscendenza del Capponi, stavano come ritirati dall'agone: le loro
tendenze aristocratiche, la loro stessa capacità parlamentare e
sopratutto l'angusto patriottismo, che vedeva l'Italia solamente
attraverso e molto dopo la Toscana, li rendeva inetti alle supreme
manifestazioni di quello stesso moto politico. L'avvenimento del
Guerrazzi, poeta cresciuto nell'ira di tutti i contrasti e mutato da
ultimo in tribuno implacabilmente superbo d'opposizione, significava
apertamente la sconfitta del partito moderato. Infatti il Montanelli,
letterato elegiaco e politico insino allora neo-guelfo, che il ritorno
dai campi cruenti di Curtatone, ove lo si era pianto per morto,
circondava di un'aureola di eroismo, appena chiamato al governo di
Livorno per rappattumarla con Firenze, vi proclamava di proprio capo una
costituente italiana, più larga di quella del Gioberti, poichè
riconosceva al popolo la facoltà di rassettare tutti gli stati secondo
l'interesse generale. Era la prima affermazione toscana nella
rivoluzione, che da oltre un anno affaticava l'Italia. Con essa Firenze
sorpassava politicamente Torino; ma poco chiara nel concetto, incerta
nel processo, proclamata piuttosto da un individuo che da una regione,
questa costituente dell'ultim'ora non poteva discendere a realtà
politica. La Toscana vi si annullava anticipatamente, sottomettendosi al
verdetto di tutta Italia, ma conservando nell'animo l'egoismo della
propria autonomia: il granduca vi si sentiva perduto, i moderati vi si
riconoscevano condannati. Di rimpatto la demagogia inevitabile in quel
sobbollimento di spiriti vi acquistava importanza: un'amnistia generale
veniva proclamata, si parlava di guerra con più alta ciancia. Il
granduca, chiuso scaltramente in se stesso, lasciava fare e faceva anzi
quanto la nuova scena politica esigeva, non fidando più che in un
prossimo intervento austriaco.

Appoggiato sulla piazza e da questa scosso a ogni minuto, il nuovo
ministero si trovava nell'impossibilità di governare: oscuri demagoghi
s'imponevano ai ministri; esausto il tesoro, nullo l'esercito, confusa
l'opinione, sconvolti ordini e partiti. Guerrazzi s'irrigidiva con
superba fibra di despota minacciando contro i nuovi disordini, ma la
mancanza d'uno scopo politico dava alla sua energia l'odiosità d'una
repressione a favore del granduca, mentre invece s'illanguidiva
nell'illusione di conciliare le tradizioni autoritarie di casa Lorena
colla rivoluzione in una politica ostile all'Austria e diffidente della
rivoluzione. Montanelli scriveva al cospiratore La Cecilia: «Dio ci
guardi da una republica romana». Guerrazzi denunciava le voglie
conquistatrici del Piemonte alla vanità paesana, profetando la servitù
di Toscana se quello crescesse di territorio nella guerra coll'Austria:
Giuseppe Giusti atterrito dal disordine delle piazze riparava nel
rimpianto del passato: solo il Niccolini, inconvertibilmente giacobino,
si manteneva fedele alla rivoluzione, ma, chiuso nell'Accademia come in
una carcere, per sdegno feroce della troppa commedia politica, ricusava
d'uscirne e di ricevervi visitatori. Intanto si procedeva per la
costituente, dichiarandola a suffragio universale: eleggibile qualunque
italiano dai venticinque anni in su, elettore qualunque cittadino sopra
il ventunesimo anno; unica pregiudiziale, si ottenesse prima la
liberazione intera d'Italia. Il granduca aprendo la nuova Camera (10
gennaio 1849) permise al ministero di presentare in suo nome al
parlamento il disegno di legge per la elezione dei rappresentanti
toscani alla costituente italiana, ma poco dopo fuggiva a Siena,
scusandosi colla scomunica papale lanciata contro coloro che di
qualunque guisa favorissero la costituente. Il ministero si sconcertò;
il popolo adunatosi in piazza della Signoria, come ai tempi migliori del
medioevo, delegò pieni poteri ad un triumvirato composto di Guerrazzi,
Montanelli e Mazzoni. Senonchè, dichiarata la decadenza del granduca,
bisognava o proclamare la repubblica, o fondersi con quella di Roma, o
darsi al Piemonte: e i triumviri non osando alcuna decisione, si
credettero abili col rimettere alla futura costituente il problema d'un
governo per la Toscana. Intanto scoppiavano disordini; Siena gridava:
viva il duca e morte alla costituente!; a San Frediano e ad Empoli i
contadini eccitati dal clero si levavano minacciando; mentre il
granduca, spaventato dal tumulto, malgrado i consigli di tutte le
diplomazie e la fedeltà del generale Laugier, ancora alla testa delle
truppe e ricusante di riconoscere il governo provvisorio, fuggiva a
Gaeta. Allora Livorno proclama la republica, Guerrazzi tentenna, poi con
teatrali apparati marcia contro il Laugier, che le truppe abbandonano.
La confusione regna sovrana: al primo triumvirato ne succede un altro di
difesa sempre col Guerrazzi alla testa; non si osa dapprima proclamare
la Costituente italiana: Mazzini ottiene con una predica in piazza un
voto popolare per la fusione della republica toscana con quella romana,
ma all'indomani nessuno più se ne ricorda. Poi il governo rinfrancato
decreta che nello stesso giorno si eleggano i rappresentanti per
l'assemblea legislativa toscana e per la Costituente italiana da tenersi
in Roma. Le difficoltà parlamentari delle due assemblee investite
d'uguali poteri persuadono una correzione processuale, statuendo che
l'assemblea toscana abbia facoltà per decidere se e con quali condizioni
lo stato toscano debba unirsi a Roma, e per comporre coi deputati romani
la Costituente dell'Italia centrale. Ogni deputato poteva essere
investito dei due mandati.

Intanto il trambusto demagogico peggiorava. La reazione granducale
aiutata dal clero, dai nobili, dai moderati, da tutti, minacciava
apertamente: i democratici poco saldi nel sentimento e sprovvisti d'una
qualunque idea politica, si lasciavano trasportare dalla tempesta; solo
Guerrazzi si mostrava forte, ma piuttosto per alterigia di volontà che
per coscienza. Le elezioni riuscirono scarse di numero: l'ultima rotta
di Carlo Alberto a Novara tarpava le ali all'ultima speranza; l'Austria
ingrossava già alle frontiere; l'assemblea atterrita ricusava di votare
la fusione con Roma. Montanelli, tardi rinsavito, l'avrebbe voluta
almeno per compiacenza di politico, primo nell'ardimento di proclamare
la costituente; ma Guerrazzi invece resisteva per indomabile vanità di
toscano e di letterato contro Mazzini: l'assemblea, preoccupata già di
scagionarsi pel futuro, concesse a Guerrazzi autorità dittatoria e a
Montanelli come compenso un'ambasceria per Parigi.

Poco dopo con 42 voti contro 24 si respingeva solennemente ogni disegno
di unificazione con Roma, e Guerrazzi cadeva come un tirannuccio
medioevale per una rissa scoppiata fra la sua guardia pretoriana di
livornesi ed alcuni cittadini. Plebe ed aristocrazia, quella per ignava
brutalità, questa per rancore di classe e forse per un'ultima illusione
di salvare così lo statuto, s'accordarono a rovesciare il dittatore e a
risollevare gli stemmi granducali: il municipio rimasto in potere dei
moderati capitanò la reazione, coprendola coi nomi ancora venerati di
Gino Capponi e di Bettino Ricasoli. Guerrazzi, che aveva già disertato
la parte democratica, si umiliò troppo tardi, troppo vilmente e troppo
indarno ai nuovi vincitori, dai quali fu gettato in carcere per salvarlo
dal furore della canaglia; e forse in parte fu vero.

L'illustre scrittore, riuscito così meschino statista, e che, fanatico
d'impero dittatorio e d'incredulità politica, aveva dato alla insulsa
incertezza della Toscana nella grande crisi italica la pompa della
propria eloquenza, credette scolparsi in una _Apologia_ altrettanto
veemente di passione che sottile di logica curialesca, ma riuscì invece
alla dimostrazione di quanta infermità senile ed infantile dolorasse
allora il pensiero nazionale.

Infatti non egli solo, quantunque rivoluzionario nell'ingegno e nel
carattere, fallava il principio e il modo della rivoluzione, giacchè i
suoi abili avversari parlamentari, richiamando con umile manifesto il
granduca, nella doppia illusione di conservare così lo statuto e di
preservare la patria da una invasione austriaca, furono crudelmente
ingannati. Il granduca sospese a tempo indefinito la costituzione, dopo
averla riconfermata nella risposta all'appello del municipio; e il
generale tedesco D'Aspre, occupate Lucca e Pisa, domata nel sangue la
resistenza di Livorno, entrò vittorioso a Firenze per restarvi a tutela
della dinastia e a terrore dei patriotti sino al 1857.

La rivoluzione toscana era vinta senza aver combattuto, consunta senza
traccia nel passato e senza speranza nell'avvenire: Firenze ridiventava
una prefettura austriaca, bella di arte e di sventura, calmando nel
rancore e nella paura della nuova reazione i propri dissensi politici.

Gino Capponi, il più nobile fra gl'illusi reazionari, che richiamato il
granduca, si erano poi dimessi al ritorno degli austriaci, aveva trovato
per tutti un motto sublime di eroismo, quando, cieco e menato a braccio
per le vie di Firenze, incontrando a caso uno dei primi battaglioni
tedeschi, esclamava piangendo: «Sia benedetto Dio, almeno non li veggo!»

La notte del giorno nel quale il popolo di Firenze, adunato in piazza
della Signoria, dichiarando decaduto il granduca, eleggeva al governo
provvisorio Guerrazzi, Montanelli e Mazzoni, la Costituente romana
decretava l'abolizione del papato temporale.


                                  Proclamazione della republica.

Già al primo annunzio della Costituente le provincie romane si erano
scosse vivamente. Gli ultimi entusiasmi provocati dall'elezione di Pio
IX si mescevano ai nuovi, amalgamando idee ed impressioni nel popolo
ancora troppo diverso e scarso di civiltà per ben comprendere il
significato di un periodo rivoluzionario così complicato. Per tutta la
squallida solitudine dell'Agro, per la Sabina, per l'alta Umbria, nelle
Marche, lungo il litorale adriatico, all'infuori di qualche città, il
popolo viveva ancora nella più supina ignoranza: tirannia di clero e di
signori imprigionava la sua vita; non abitudini politiche, non
intelligenza di governo che permettesse di sentirsi cittadini; spesso
carattere robusto e fazioso, più spesso molle e servile; perduto nelle
memorie ogni ricordo di guerra; tutti i paesi dislocati e rivali; la
religione indiscussa ed indiscutibile come rito, incompresa ed
incomprensibile come ideale; inerte il concetto di patria, confuso
quello di nazione; poca la passione di lotta e la capacità di
sacrificio. Il governo vi era ancora più spregiato che odiato; la
rivoluzione più insubordinazione che ribellione; inetti e timidi gli
aristocratici; i borghesi cupidi, intriganti e conservatori per
tradizione, quantunque esaltati nella ciarla rivoluzionaria e più ancora
nella fisima della conciliazione fra autonomie e nazionalità, papismo e
libertà; il popolo bigotto col clero, prono coll'aristocrazia, chiassoso
coi borghesi, fra se medesimo rissante, facile a brigantaggio nelle
campagne e alle sètte nelle città, non uso all'armi e abborrente da ogni
sacrificio di danaro.

Si era delirato per Pio IX e si delirò per la Costituente; ma se il
delirio prima era in tutti, dopo fu di pochi, e peggiorò in soprusi e
feste di sbracati danzanti intorno all'albero della libertà. Una
minoranza nullameno vi brillava, divisa anch'essa in due campi: i
moderati, incaponiti nel parlamentarismo papale, vedevano ancora nella
nuova rivoluzione un sacrilegio e una anarchia; i rivoluzionari,
cresciuti alla scuola di Mazzini nell'estasi superba della propria
utopia, guardavano già alla terza Roma repubblicana alta sul mondo come
la Roma dei Cesari e dei papi. Fra tutte le provincie pontificie le più
generose di pensiero e di azione erano le Romagne: Bologna capitale vi
faceva da focolare e Ravenna da fucina: nell'una si affinavano le idee,
nell'altra le spade.

Nel primo bollore degli spiriti prodotto dalla guerra all'Austria, si
era creduto all'espulsione dei tedeschi odiati come stranieri e come
gendarmi del governo papale: poi l'allocuzione del 29 aprile, soffiando
su tutte le speranze, ridestò più feroci i vecchi odii. I costituzionali
decaddero, i rivoluzionari dianzi reietti ottennero favore, il lavorìo
delle sètte si moltiplicò, mentre la demenza di un'idea intelligibile ed
irresistibile aggirava tutte le teste, infiammando tutti i cuori.

Roma, Costituente, Republica diventarono il gran ternario di tutti i
discorsi: non si aveva coscienza della situazione politica, non si
analizzava, non si prevedeva: tornarono le feste pïane e le baldorie
patriottiche fra urli di morte e private vendette. I costituzionali,
abbandonati dal papa, non osavano più contrastare apertamente: una
proposta di certo marchese Ranuzzi bolognese, perchè Bologna si
staccasse da Roma per non seguirla nella ribellione al pontefice, non
ebbe nè voti nè seguaci: l'opposizione dello Sterbini per mantenere alla
rivoluzione un carattere municipalmente romano, mentre da ogni parte
d'Italia già i rivoluzionari accorrevano in Roma, svanì. La Giunta
suprema di governo, nominata dal Parlamento moribondo ad impedire la
rivoluzione, dovette invece sciogliere i consigli e convocare la
Costituente; le rinunzie di tutti i legati e prolegati nelle provincie,
anzichè seminare diffidenze, crebbero il fermento; le scomuniche del
papa si mutarono in sferzate, e i suoi appelli alle armi straniere in
prove decisive di tradimento.

Parecchi ecclesiastici rapiti nell'onda rivoluzionaria ne temperavano il
colore irreligioso, così che non vi fu reazione contro il clero: alcuni
fra essi brillarono di santa poesia come Ugo Bassi; altri si mostrarono
potentemente ciarlatani come Gavazzi; alcuni eroicamente semplici come
don Giovanni Verità. L'inevitabile disordine del momento non ebbe quindi
troppo dolorose conseguenze, malgrado l'insensatezza del governo che
graziava un numero enorme di galeotti. Mentre il governo provvisorio con
generosa prontezza accordava a Carlo Alberto in trattato segreto di
occupare per le necessità della nuova guerra contro l'Austria le proprie
provincie, impegnandosi per tutto il tempo dell'occupazione a
vettovagliare le truppe, quantunque egli ricusasse ogni riconoscimento
politico e seguitasse a trattare officiosamente col papa sino ad
offrirgli di ricondurlo a Roma colle armi; mentre il Montanelli
armeggiava con incredibile fantasticheria per ottenere che la
Costituente romana votasse la presidenza del granduca Leopoldo, e
Mamiani invece sognava quella di Carlo Alberto, e Manin a nome di
Venezia scriveva lettere di condoglianza al papa, e il Castellani
ambasciatore veneto a Roma osteggiava apertamente il governo
provvisorio, tutti i circoli rivoluzionari si allearono stabilendo a
Roma una congregazione centrale, che divenne naturalmente base e leva
del nuovo governo, e fu il primo grande plebiscito unitario.

Ma in tanto fermento di animi ed inestricabili complicazioni di eventi
politici, l'entusiasmo rivoluzionario non cresceva a vera passione.
Bologna scongiurava il Latour generale degli svizzeri a non abbandonarla
ubbidendo agli ordini del papa, che lo richiamava a Gaeta per unirlo
senza dubbio all'esercito borbonico di invasione, e a forza di preghiere
lo persuadeva: e ciò per timore del popolaccio sguinzagliatosi nella
rilassatezza della polizia. Pareva trionfo conservare armata in città
l'unica milizia francamente ostile: non si arruolavano volontari, non si
mettevano chierici, clericali e moderati nell'impossibilità di tradire.
L'accademia politica proseguiva, giacchè la proclamazione dell'imminente
republica non doveva concludere che ad una affermazione ideale. La
istituzione giacobina della Giunta di pubblica sicurezza con poteri
discrezionali non era che una imitazione teatrale della grande
rivoluzione francese, e non commise i terribili arbitrii necessari a
tutte le vere rivoluzioni. Se le poche leggi promulgate illegalmente dal
governo provvisorio sui fedecommessi, sulle procedure civili, sul
macinato, e l'emissione di tre milioni di carta monetata, la
pubblicazione della legge sui comuni già elaborata dal Mamiani, le note,
i proclami, gli sforzi per accrescere la fede negli animi e la passione
nei cuori sembravano accennare ad un vero governo rivoluzionario capace
di cose maggiori, mentre la vittoria di Cavaignac per le vie di Parigi
sui rivoluzionari e l'altra anche maggiore su Cavaignac di Luigi
Bonaparte, eletto presidente della republica, toglievano l'ultima
speranza di simpatie e di aiuti stranieri, nullameno le pratiche con
Gaeta e col Gioberti per una impossibile conciliazione col papa,
allorchè questi chiamava tutta Europa contro Roma, e tutta Europa si
disponeva ad accorrere, rendevano il governo provvisorio troppo simile a
tutti gli altri governi italiani. La fisima del papato non gli era
ancora passata, la republica imminente non gli pareva ancora probabile.

Finalmente le elezioni indette dal governo furono fatte dai circoli con
qualche rissa, molto spettacolo di baldorie e moltissime irregolarità:
chierici e clericali vi si astennero, i costituzionali vi andarono
sbandati, la vittoria restò naturalmente ai rivoluzionari. Così
l'immenso loro significato politico nella storia del papato fu piuttosto
espresso che compreso.

Il giorno 5 febbraio l'Assemblea Costituente si adunava nel palazzo
della Cancelleria.

L'assemblea, scarsa di numero, arrivava appena a centoquaranta
rappresentanti; più scarsa d'ingegni e di caratteri, ignorava la
condotta del governo provvisorio, i maneggi diplomatici di Torino e di
Gaeta, temeva dell'Europa, dubitava di se medesima, sentendosi spinta da
una forza arcana ad una meta egualmente misteriosa. La propaganda
mazziniana, per quanto avesse destato dal secolare letargo i migliori
spiriti e soffiato sulle passioni della folla, non era bastata a
schiarire nelle coscienze il troppo significato della parola republica.
Le stesse teoriche di Mazzini, fatalmente amalgamate di religione e di
politica, d'arte e di socialismo, imbrogliavano anche nelle menti più
limpide la possibilità di una republica, alla quale classi dirette e
dirigenti si riconoscevano del pari immature. Nullameno l'istinto
storico urgeva. Dopo il suicidio del papato colla concessione dello
statuto e l'abdicazione del papa colla fuga a Gaeta, e le stragi del
Borbone, i tradimenti di Carlo Alberto, le inutili annessioni della
Lombardia, le incertezze della Toscana e la disperata risoluzione di
Venezia, Roma, eterno centro ideale d'Italia, inevitabile base di ogni
nuovo stato italiano, doveva risolvere il problema del papato sorto con
essa e con essa ancora torreggiante sulla storia, soverchiandolo colla
dichiarazione di un principio più civilmente cattolico. Il papato era
stato l'infrangibile unità e l'incomparabile organo del cattolicismo,
regno sui regni, impero sugli imperi, fonte di tutti i diritti divini:
la republica doveva essere la formula e la forma della democrazia
moderna, proclamata a Roma e da Roma al mondo, più vasta di tutte le
religioni, come supremazia del diritto umano sul diritto divino, colla
sovranità pareggiata dell'individuo e del popolo, colla libertà del
pensiero frenata solo dall'autorità del pensiero. Ma essa non poteva
ancora rivelarsi che come verbo, e quella larva di governo necessaria
alla sua proclamazione avrebbe necessariamente avuto tutte le
evanescenti ed indefinibili mutabilità dei fantasmi. L'immenso fatto
della terza Roma del popolo, secondo la bella frase di Mazzini,
lascierebbe quindi indifferente la Urbe e le provincie, mentre l'Europa
se ne accorgerebbe appena, anche combattendolo, e la republica romana,
rovinando subitamente sulla più vasta rovina del papato, s'illuminerebbe
dei colori dell'aurora ai lampi della parola di Mazzini e della spada di
Garibaldi.

L'assemblea appena radunata dovette necessariamente affrontare il
problema del proprio stato. La fuga del papa e la reazione europea le
facevano intorno un vuoto spaventoso. Si sentiva da tutti che la causa
della rivoluzione italiana era perduta, e che il papa sarebbe ritornato;
nessun ordine o classe di popolo, acclamando la repubblica, la
comprendeva; si diceva che la republica sarebbe morta, ma non si voleva
morire con lei. Nullameno bisognava proclamarla: ogni accomodamento col
papa si era già riconosciuto impossibile, poi un accomodamento avrebbe
non risolto il problema, ma provato che problema non v'era; i sogni di
un Carlo Alberto o di un Leopoldo re di Roma erano demenze fra le tante
del tempo. Il papato non poteva essere sostituito da alcuna piccola
monarchia: solo un'idea più grande di esso poteva cassarlo dalla storia
per fare poi di Roma la futura capitale d'Italia.

L'Armellini, aprendo la seduta, recitò un discorso, nel quale le idee
superavano fatalmente le parole: era un appello alla democrazia
universale e una dichiarazione superba della nuova sovranità popolare;
la goffaggine inevitabile della teatralità non scemava l'immenso valore
del fatto. L'assemblea, cacciata da quel discorso mazziniano nel
problema di scegliere un governo parve smarrirsi in insipide arringhe,
mentre Garibaldi coll'infallibile intuizione degli eroi esclamava: «A
che perder tempo? Ogni minuto di ritardo è un delitto; viva la
republica!». Ma l'assemblea volle assoggettarne la grande proclamazione
a tutte le pratiche parlamentari: i republicani vi si mostrarono inetti,
i costituzionali sperduti. Mamiani tentò in un discorso pedantescamente
classico di provare l'impossibilità della republica in quel nuovo
furiare della reazione monarchica per tutta Europa e nell'impreparazione
del popolo, per concludere poi ingenuamente col rimettere la soluzione
del problema alla Costituente federativa italiana, cui la sconfitta
della rivoluzione nazionale aveva già tolto ogni speranza di
convocazione; l'Audinot, succeduto al Minghetti nel comando del gruppo
bolognese, si credette abile cercando procrastinare ogni soluzione con
un decreto che affermasse impossibili tutti i governi non subordinati
alla sovranità popolare. Erano gli ultimi espedienti del
costituzionalismo, l'inconscia estrema ipocrisia dei neo-guelfi contro
la nuova democrazia republicana.

La battaglia si accalorò nella votazione: vinse la repubblica. Il
decreto ne fu redatto dal Filopanti, delirante fantasia di scienziato e
di politico, al quale il ridicolo di troppi libri stampati poi non
toglierà questa unica incomparabile fortuna.

Articolo 1º: Il papato è decaduto di fatto e di diritto dal governo
temporale dello stato romano.

Articolo 2º: Il pontefice romano avrà tutte le guarentigie necessarie
per l'indipendenza nell'esercizio della sua spirituale potestà.

Articolo 3º: La forma del governo sarà la democrazia pura e prenderà il
nome glorioso della republica romana.

Articolo 4º: La republica romana avrà col resto d'Italia le relazioni,
che esige la nazionalità comune.

Il giorno dopo, la proclamazione si ripeteva con solenne teatralità in
Campidoglio.

Questo decreto rivela il segreto politico della nuova republica. Invece
di affermare superbamente la superiorità dello stato sulla chiesa col
rimettere il cattolicismo nella posizione di tutte le altre religioni,
essa offriva spontaneamente guarentigie al papa detronizzato,
legittimando così le sue diffidenze e quelle di tutta Europa: invece di
proclamare altamente l'unità e la libertà italiana, annunciava che
avrebbe avuto col resto d'Italia le relazioni volute dalla nazionalità
comune. La formula federale sopravviveva dunque nella republica romana,
che come stato era un non senso e come governo una impossibilità. La sua
condanna nella logica della storia derivava dal suo stesso decreto di
fondazione, pel quale l'Italia in faccia a Roma non era che il resto
della nazione, mentre la grandezza della sua affermazione sta ancora
enorme sul papato abbattuto nella proclamata sovranità popolare.

Dopo questo decreto, la republica deve perire. La sua formula politica
sottomessa all'idea federale, non è meno falsa di quella di Venezia e di
Palermo, di Napoli e di Torino: una republica romana, mentre
l'indipendenza e la libertà d'Italia soccombono sotto l'Austria e i
principi tradiscono i propri statuti, diventa al tempo stesso un
anacronismo e una impossibilità. La sua vita sarà quindi fulgida come
un'ode e sanguinosa come una tragedia, breve e teatrale, superba di
principii e guasta da espedienti.

Colla solita imitazione classica l'assemblea nomina tosto un primo
triumvirato d'italiani, responsabile ed amovibile, Armellini, Montecchi
e Saliceti; un avvocato, un cospiratore, un giurista: quest'ultimo il
migliore. Al ministero rimane presidente monsignor Muzzarelli per aver
votato l'abolizione del papato; Aurelio Saffi è nominato all'interno,
Campello alla guerra, Sterbini ai lavori pubblici. Le provincie
festeggiano con clamorose gazzarre l'avvento della republica;
nell'assemblea qualcuno giacobinizzando vorrebbe denunciare al popolo i
deputati che hanno votato contro la republica, ma il feroce appello
vanisce nella rettorica e timida bonomia dei più; non si osa mandare
commissari nelle provincie secondo l'esempio della grande Convenzione
per sollevarle; appena appena le plebaglie si permettono qualche
sconcezza e i giornali qualche diatriba. Il governo toscano impantanato
nella propria politica autonoma promette e procrastina la fusione;
Haynau, il più atroce fra gli sgherri austriaci, cogliendo il pretesto
di un tumulto, occupa e taglieggia Ferrara. Nessun governo riconosce la
nuova republica: Mamiani alla testa di un gruppo di costituzionali è
uscito dimettendosi dall'assemblea, l'Audinot rimastovi capitano dei
costituzionali intransigenti vi oppugna con abbastanza abilità
parlamentare qualunque misura rivoluzionaria.

Si vota una legge di adesione alla republica, ma non si osa applicarla
davvero, e primo l'Armellini domanda il permesso di usare indulgenza
cogl'impiegati e coi militi, che si chiariscono ostili alla republica;
si acclama l'incameramento dei beni ecclesiastici, si riconosce il
debito nazionale, si studia qualche temperamento per le finanze. Queste,
naturalmente oberate, presentano poca elasticità; abbonda la carta
moneta, difetta il credito, manca ogni assetto razionale d'imposta; si
emettono un milione e trecentomila scudi, dei quali novecentomila deve
prestare la banca romana e quattrocentomila sussidiare il commercio.
Inetti espedienti finanziari, che uscivano da più inette discussioni.
Poi si ricorse ad un prestito forzoso di 1/5 sino a 2/3 sulle rendite
annuali superiori ai duemila scudi netti, colpendo così i più ricchi; ma
la forma del pagamento a rate in tanta urgenza di caso rese più che
dubbi i pochi vantaggi di tale prestito. Malgrado l'effervescenza di
alcuni circoli politici non si operava rivoluzionariamente: i giacobini
romani si mostravano deboli di passioni e di idee: cicaleggio e non
eloquenza, vapori non sangue al capo. L'aristocrazia aveva emigrato alla
chetichella o stava nascosta negli ampi palagi; la borghesia, sperduta
nel trambusto, non arrischiava di partecipare ad un potere, che la paura
le faceva riconoscere effimero; il popolo non comprendeva la grandezza
ideale del nuovo principio valutando fin troppo bene le impotenze del
nuovo governo; la plebe usava del rilassamento poliziesco per prorompere
ad assassinii senza carattere e a scenate senza forza. Quantunque la
guerra fra il Piemonte e l'Austria stesse per ricominciare, e Venezia
fosse già assediata, e occupata Ferrara, e il papa da Gaeta mestasse
intrighi e lanciasse allocuzioni sopra allocuzioni per attirare su Roma
una crociata nemica, il fervore rivoluzionario non cresceva. Il
ministero della guerra, incredibilmente malconcio dalla tradizione
prelatizia, non migliorava coi nuovi reggitori: finalmente poterono
entrarvi il Calandrelli e il Mezzacapo, che raggranellarono un esercito
povero di numero e di potenza. Nei quadri sommava ad oltre 30,000
uomini, ma in fatto ne superava di poco il terzo, e la maggior parte
erano volontari: fra questi più agguerriti e già celebri i legionarii di
Garibaldi.

Non si ardì fare appello all'insurrezione popolare e bandire la leva in
massa, perchè l'indifferenza del popolo era pari alla bonarietà
dell'assemblea.

Per ora tutto procedeva abbastanza regolarmente: gli assassinii, che
funestavano alcune provincie, non erano certo nè più numerosi nè più
efferati che nei tempi gregoriani: poi un conte Laderchi ad Imola e
Felice Orsini ad Ancona li repressero con severa prontezza. I tribunali,
fra quel rimpasto di vecchio e di nuovo, di abolizioni e d'istituzioni,
funzionavano passabilmente, la polizia stessa, quantunque mal guidata,
non si mostrava peggiore della pontificia.

Il carnevale fu al solito grottescamente lieto. Al bizantinismo vaticano
era succeduto il bizantinismo rivoluzionario, al concistoro l'accademia;
la Convenzione francese aveva potuto sconfiggere tutta l'Europa
improvvisando un milione e mezzo di soldati, la republica romana per
primo atto diplomatico pubblicava un manifesto a tutti i popoli per
descrivere se stessa colle frasi dell'evangelio mazziniano, e non
intendeva la risposta della Montagna francese che accennando ai propri
pericoli le diceva come solo coll'energia rivoluzionaria si salvassero
le rivoluzioni. Poi all'occupazione di Ferrara l'assemblea chiamava
tutti i popoli della penisola in armi e protestava del proprio violato
diritto presso tutti i governi come il papa, invece di lanciare
l'esercito alla frontiera, e soccombere piuttosto in una disperata e
gloriosa battaglia.

Ma Roma avendo regalato a Venezia per aiuto nell'assedio centomila
scudi, credeva di aver fatto abbastanza per la guerra.

Di rimpatto il papa protestava da Gaeta contro ogni atto della
repubblica. Fallito il forte ma erroneo divisamento del Gioberti di
mettere il Piemonte alla testa della reazione italica per mantenerle
almeno il carattere nazionale, riconducendo con armi italiane il
granduca in Toscana e Pio IX a Roma, Austria e Francia si contendevano
il sinistro onore e il problematico vantaggio di rimettere in soglio
tutti i principi italiani col servirsi della questione religiosa come di
una inconfutabile argomentazione. La cattolicità esigeva l'indipendenza
del pontefice. A Gaeta era un andirivieni di diplomatici: il cardinale
Antonelli, il più fino dei prelati politici e allora reggente il
segretariato, si destreggiava abilmente fra Austria, Francia, Spagna, il
Piemonte e il Borbone. Oramai la crociata era decisa. L'elezione di
Luigi Bonaparte al seggio presidenziale della repubblica francese,
gettava la Francia in seno alla reazione, preparando il secondo impero
napoleonico come rimedio alle demenze repubblicane e socialiste. La
spedizione contro Roma doveva essere il prologo: la republica romana
precederebbe di poco quella francese nella tomba.

Quindi Mazzini, costretto a mostrarsi quasi di soppiatto a Milano
durante tutta questa rivoluzione italiana, quantunque ne fosse il
massimo inspiratore e lo spirito più conscio, venne a Roma. La sua
grande ora era discesa sul quadrante della storia: a distanza di secoli,
si ripresentava l'epoca di Cola da Rienzi. Goffredo Mameli, effimera ed
ammirabile figura di poeta, cui la morte sotto le mura di Roma doveva
fra poco troncare sulla bocca fiorente gl'inni e gli urli di guerra, lo
chiamava con un telegramma sublime di concisione: «Roma republica,
venite».

Mazzini traversò fra acclamazioni entusiastiche la Toscana ove ottenne
indarno da un voto popolare la fusione con Roma. Ormai egli solo
rappresentava la rivoluzione. Accolto solennemente a Roma e nominato
deputato vi domina dalla prim'ora l'assemblea, ma nè il suo ingegno, nè
la sua autorità, bastano a radunare l'impossibile costituente italiana o
a fingerla con qualunque altro apparato. Al nuovo scoppio di guerra fra
il Piemonte e l'Austria sostiene con magnanimo senno il Valerio, legato
piemontese a Roma, e associa la republica a Carlo Alberto, che aveva
sdegnato fino allora di riconoscerla; ma poi la lentezza degli
apparecchi militari annulla decisione e concorso. La guerra piemontese
iniziata e compiuta quasi nel medesimo istante dal meno onorevole dei
disastri provoca l'inutile insurrezione di Genova e la disperata
resistenza di Brescia, lasciando sole nel gran finale Roma e Venezia.

Mazzini, eletto nel nuovo triumvirato con Aurelio Saffi ed Armellini,
fra una mediocrità letteraria e una inezia giuridica, grandeggia: egli
solo è poeta nell'accademia dell'assemblea, che sta per perdere la voce
ai primi fiati della tempesta, ma gli mancano colle tremende qualità del
rivoluzionario le doti anche più difficili dello statista. Trascinato
dalla generosa rettorica del proprio temperamento, si smarrisce in
minimi ed inutili accenni socialistici; destina i locali del Santo
Uffizio ad abitazione di famiglie povere, schizza una legge agraria per
cedere in piccole enfiteusi alcuni beni ecclesiastici a misere
popolazioni rustiche, abroga i voti perpetui religiosi, diminuisce al
solito la tassa del sale, crea duecentocinquantunmila scudi di boni del
tesoro dichiarando con pessimo espediente infruttiferi quelli creati dal
governo pontificio, decreta un aumento di tassa del 25% su tutti coloro
che nel termine di sette giorni non pagassero la prima rata del prestito
forzoso. Ma l'ambiente superstizioso di Roma gli guasta sentimento
poetico e senno politico al punto di fargli costringere i canonici di S.
Pietro a solennizzare la Pasqua e a benedire col SS. Sacramento il
popolo dalla loggia consueta del papa. Miserabile parodia, che parve
profanazione religiosa, ed era invece degradazione filosofica! Intanto
Francia e Napoli hanno già dichiarato l'intervento, e la republica non
ha ancora stabilito la propria costituzione. Lo schema presentato
all'assemblea (17 aprile 1849) dal deputato Agostini basta solo a
rivelare quale fosse il sentimento rivoluzionario. Principii
fondamentali della nuova costituzione erano la sovranità popolare,
l'uguaglianza dei cittadini, il diritto di tutte le nazionalità e la
religione cattolica come religione di stato. Poi un capitolo di
catechismo chiariva i diritti e i doveri di tutti i cittadini: abolita
la confisca e la pena di morte, inviolabili persone e proprietà, libera
stampa e garantito il debito pubblico; il potere legislativo
nell'assemblea, l'esecutivo in una magistratura consolare; un tribunato
a garanzia delle leggi fondamentali della republica, due consoli
biennali responsabili l'uno per l'altro; dodici tribuni quinquennali,
deputati triennali ed assemblea indissolubile. Il popolo doveva eleggere
a tutti questi uffici; ammessa la possibilità della dittatura per
decreto dell'assemblea ma sotto la sorveglianza del tribunato
permanente: i tribuni naturalmente inviolabili, anche per un anno dopo
l'ufficio.

A confronto di quest'assurda miscela di pedanterie classiche, di inezie
storiche e d'impossibilità governative, l'angusto ed aristocratico
statuto del Piemonte diventa un capolavoro.

Ma l'assemblea non ebbe tempo di discuterla. La guerra urgeva. Fin dal
principio della rivoluzione la Francia aveva accennato ad intervenirvi
proclamando il principio della nazionalità e offrendosi a sostenerlo
colla spada, ma sminuendolo poco dopo in combinazioni diplomatiche e in
ricomposizioni arbitrarie di territori con simpatie ed antipatie
egualmente ingiustificabili. Se la sua proclamazione di rispetto ad ogni
nazionalità e del diritto in tutti i popoli a raggiungerla erano
sincere, il movente della sua politica restava sempre l'antagonismo
coll'Austria iniziato da Richelieu: l'Italia era un campo d'influenza da
disputarsi fra Parigi e Vienna. Adolfo Thiers, storico e statista più
importante che grande, sosteneva nell'assemblea l'impossibilità
d'impegnare la Francia in una guerra coll'Austria a favore dell'Italia
la quale, secondo una sua ingiuria rimasta poi celebre, era una nazione
che non si batteva; Odilon Barrot, capitano nella sinistra repubblicana,
spingeva invece ad una spedizione in Italia per sostenervi la democrazia
e scemarvi così la preponderanza austriaca; Montalembert, supremo
direttore dell'antica destra clericale, domandava con superba eloquenza
che la Francia, primogenita della chiesa, non abbandonasse il papa. E al
Montalembert facevano eco Donoso Cortes in Spagna e lord Lansdowne in
Inghilterra.

Già Cavaignac, vincitore delle giornata di giugno a Parigi, aveva
offerto al pontefice un corpo d'armata: Luigi Bonaparte, succedutogli
alla presidenza, attuò risolutamente quel disegno, mascherandolo con
abile ipocrisia.

Napoleone I nel rialzare il papato aveva ripetuto contro di esso le
pretensioni di Carlomagno: mezzo secolo dopo il nipote doveva daccapo
rifare l'impalcatura del secondo impero sulla base raddrizzata del
papato. La logica delle idee e quella dei fatti ve lo costringevano con
pari violenza.


                                  Caduta della republica romana.

A Roma la grave minaccia non fu intesa che a mezzo.

Poichè la Francia parlava oscuramente di aiutare al tempo stesso il
pontefice e la republica romana come mirando ad impedire gli eccessi
dell'ultima vittoria austriaca sul Piemonte, l'illusione di un
componimento indefinibile sviò il pensiero dei governanti incapaci di
comprendere persino gli ultimi maneggi dei moderati, che guidati dal
Mamiani e trattando simultaneamente con Parigi e con Gaeta avrebbero
voluto abbattere la repubblica con una insurrezione di piazza per
restaurare il loro governo costituzionale. Solo l'indifferenza delle
popolazioni a tutti gli sforzi del clero, prodigante falsi miracoli e
più falsi discorsi, impedì questa reazione interna.

All'infuori di Mazzini e di Garibaldi nessuno fra i governanti e i
difensori di Roma sentiva la suprema ideale necessità della sua difesa:
nella coscienza dei più Roma non era che una città conquistata contro il
papa, l'ultimo episodio della rivoluzione e non molto più importante
degli altri.

Mazzini avvampava di orgoglio in quest'ultima crisi italiana, ma troppo
uso ad ammonire e ad ammaestrare, capitano indiscusso della propria
parte e divenuto più grande ad ogni sconfitta, voleva essere tutto,
provvedere a tutto, risolvere tutto. Il ricordo della fallita spedizione
in Savoia e i propri vecchi opuscoli sulla guerra per bande gli
persuadevano di possedere anche la scienza militare; quindi ricorreggeva
i disegni a Cario Pisacane, da lui stesso nominato capo di stato
maggiore, e contendeva a Giuseppe Garibaldi, il più ammirato condottiero
del secolo, il comando supremo dell'esercito per cederlo al generale
Rosselli, onesta mediocrità, che la gelosia col suo grande subalterno
doveva indurre ai più deplorevoli errori.

Quasi contemporaneamente Roma era presa fra quattro fuochi: i napoletani
s'avanzavano dal sud, i tedeschi calavano dal nord, i francesi
sbarcavano a Civitavecchia, gli spagnoli, ultimi ed inutili come una
comparsa in una tragedia, discendevano a Fiumicino.

Crociata ed invasione parevano fondersi nella medesima impresa: invece
il papa non si moveva da Gaeta nemmeno a benedire le armi per lui
brandite, il clero non osava guidare la rivolta in nome della religione,
le campagne si mantenevano inerti, le città indifferenti, l'Europa
guardava distratta, Roma aspettava il proprio assedio. I pochi
volontari, disposti a morire per difenderla, colla coscienza di morire
indarno, si sarebbero detti stranieri italiani che si apprestassero a
combattere stranieri d'oltr'alpe e di oltre mare, poichè marchigiani,
umbri, romagnoli non erano più affratellati con Roma dei liguri, dei
veneti, dei piemontesi accorsi sotto le sue insegne.

Già il 24 aprile Latour d'Auvergne, legato francese, approdando a
Civitavecchia aveva annunziato lo sbarco amichevole del generale
Oudinot: Mannucci, preside del municipio, scorato all'annunzio,
dimandava tempo a rispondere, l'altro insisteva; quando l'armata
francese giunge come d'improvviso; la città atterrita urge la propria
magistratura, che cede; l'assemblea romana avvertita dell'invasione
protesta a stento. Civitavecchia è occupata dai francesi senza colpo
ferire; il generale Oudinot pubblica un manifesto equivoco, nel quale
negando di riconoscere l'anarchico governo della repubblica assicura di
rispettare il diritto delle popolazioni a costituirsi qualunque altro
governo, e di non essere venuto che a salvare l'indipendenza del
pontefice alla cattolicità e l'Italia dalla reazione straniera. Il
municipio, forse ancora più timido che ingenuo, gli risponde con lungo
proclama effondendosi in dichiarazioni di fratellanza repubblicana, ma
quegli fa sequestrare la risposta, occupa militarmente tutte le
stamperie, dichiara la città in stato d'assedio, disarma il battaglione
romano del Mellara, impedisce lo sbarco ai 600 bersaglieri guidati dal
Manara, che a stento possono toccare Porto d'Anzio e solo perchè il
ministro Montecchi sopraggiunto ha giurato al fedifrago alleato, che
essi non entreranno in Roma prima del 5 maggio: finalmente confisca 4000
fucili comprati in Francia e pagati dalla republica romana.

Nullameno a Civitavecchia la bandiera romana seguita a sventolare vicino
a quella francese.

L'impossibile equivoco prosegue. Il triumvirato s'appresta calorosamente
alla difesa sebbene poco assecondato dalle popolazioni: si requisiscono
i cavalli dei privati, si ordina la demolizione del viadotto fra Castel
Sant'Angelo e il Vaticano, si nomina una commissione delle barricate:
per ingraziosirsi col popolo gli si gettano provvedimenti agrari e
promesse di migliorie inattuabili: poi, con magnanima cortesia, si
dichiarano inviolabili tutti i francesi residenti in Roma affidando la
loro incolumità all'onore del popolo. La guerra è inevitabile. Ma Roma
non vuole che difendersi.

Quindi l'Oudinot, persuaso con gallica burbanza di prenderla a un primo
assalto, muove contro di essa con appena 7000 uomini e 10 pezzi di
cannone: il triumvirato cedendo bassamente alle superstizioni del volgo,
ordina l'esposizione del SS. Sacramento per «implorare la salute di Roma
e la vittoria del buon diritto», che Garibaldi alla testa di pochi
battaglioni ottiene con splendida ed insperata prontezza (30 aprile).

I francesi sono respinti dappertutto: Roma trionfa, ma invece di
proseguire nella vittoria incalzando il nemico e tentando di gettarlo in
mare, come Garibaldi proponeva con magnifica audacia, s'abbandona
all'ebbrezza di una cavalleresca cortesia rimandando liberi tutti i
prigionieri e invitando il popolo a salutare d'applauso fraterno i vinti
prodi della republica sorella. Intanto tutte le provincie sono invase,
Bologna e Ferrara s'arrendono dopo breve resistenza ad un piccolo corpo
di austriaci, che attraversano tutta l'Emilia, le Romagne, le Marche,
fino sotto ad Ancona senza incontrare battaglia. Ancona si difende per
27 giorni con un presidio di 5000 soldati e 100 pezzi d artiglieria per
capitolare anch'essa senza fortuna e senza gloria: gli spagnoli, discesi
a Fiumicino, passano ad infestare l'Umbria come masnada di briganti;
Ferdinando di Napoli col generale Winspeare accampa fra Velletri ed
Albano con 16,000 uomini. Ma Garibaldi alla testa di appena 7000 soldati
lo ributta da Palestrina, poco dopo lo sorprende a Velletri, lo sgomina,
lo fuga lungo la via Appia, e lo avrebbe forse annientato se la gelosa
incapacità del Rosselli generalissimo non lo impediva. Queste ultime
rapide vittorie, dovute ad una prima tregua fra l'Oudinot e il
triumvirato, infervorano inutilmente i pochi volontari: Garibaldi
ammirabile d'intuizione guerresca e politica vorrebbe gettarsi su
Napoli; gli Abruzzi parevano presso a prorompere, l'esercito nemico era
demoralizzato, la Sicilia vinta non doma, re Ferdinando odiato ed
inetto. Una insurrezione poteva, complicando la guerra, produrre
inimmaginabili risultati, ma la rivoluzione concentrata e morente a Roma
non sa nemmeno più concepirla. Mazzini fisso nell'illusione di un
componimento colla Francia e diffidente dell'Oudinot, impone a Garibaldi
di ripiegarsi su Roma.

L'eco della sconfitta toccata all'Oudinot il 30 aprile riscuote dalla
torbida incertezza l'assemblea francese. L'insidia del governo le si
schiarisce odiosamente alla coscienza, ma senza apprenderle l'energia
d'impedirla. Il ministero, messo alle strette dai deputati più radicali,
o ricusa rispondere, o imbroglia la risposta in una fraseologia
altrettanto goffa e falsa. Invano Arago, Ledru-Rollin, Schoelcher con
nobile insistenza parlano ancora a nome della democrazia francese,
giacchè l'assemblea satura d'imperialismo napoleonico accorda i nuovi
crediti per la spedizione romana, limitandosi a pregare il governo di
richiamarla al primo scopo. E questo pure non era mai stato decentemente
spiegato. Così il governo anzichè mutare proposito raddoppia di
ambiguità diplomatica, manda a Roma Ferdinando di Lesseps, simpatica ed
onesta figura di liberale divenuto poi celebre pel taglio degl'istmi di
Suez e di Panama, con incerte intenzioni d'accordo, e scrive
segretamente all'Oudinot di proseguire nella guerra.

Il Lesseps, forse non comprendendo bene il doppio giuoco della missione
affidatagli, trattò cortese col triumvirato: Mazzini gli diede le più
chiare ed eloquenti spiegazioni sul governo romano, ma soccombendo egli
medesimo alla grandezza del proprio ufficio finì coll'accettare un
compromesso che annullava ogni diritto d'Italia e ogni sovranità della
republica romana. Le ignobili concessioni del papato alle potenze
cattoliche si riproducevano collo stesso governo, che in nome del
diritto nazionale e popolare aveva soppresso il papato; e Mazzini,
ultimo e più superbo avversario del Vaticano, non ne comprendeva
l'avvilente inutilità. Il compromesso diceva: «L'appoggio della Francia
è assicurato alle popolazioni dello stato romano. Esse considerano
l'esercito francese come un esercito amico che viene a concorrere alla
difesa del suo territorio. L'esercito francese prenderà d'accordo col
governo romano e senza intromettersi per nulla nell'amministrazione del
paese gli alloggiamenti esteriori convenienti così alla difesa del paese
come alla sanità delle truppe. Le comunicazioni saranno libere. La
republica francese guarentisce contro qualunque invasione straniera i
territori occupati dalle sue truppe. Resta convenuto che il presente
compromesso dovrà essere sottoposto alla ratifica della republica
francese. In qualunque caso gli effetti di esso non potranno cessare che
quindici giorni dopo la notizia data ufficialmente della negata
ratifica».

Peggior compromesso non era stato l'ultimo fra l'Austria e il papato per
Ferrara.

Dopo le discussioni dell'assemblea francese e le risposte del ministero,
il contegno dell'Oudinot, le allocuzioni di Gaeta, le invasioni
spagnuole, austriache e napoletane, credere alla sincerità delle
intenzioni francesi era follia, cedere con trattato all'occupazione
straniera Civitavecchia era delitto di lesa nazione.

L'Oudinot dietro le proprie segrete istruzioni non volle riconoscere la
convenzione, il Lesseps partì ingenuamente per Parigi a sollecitarne
l'approvazione, e si vide sconfessato. Inutilmente all'assemblea voci
generose si levarono ad accusare il governo di violata costituzione: più
indarno il 13 giugno Ledru-Rollin con altri capitani di sinistra tentò
sollevare il popolo di Parigi per rovesciare il disegno imperiale ormai
troppo palese di Luigi Buonaparte, giacchè la sommossa fu presto
soffocata nel sangue dal generale Changarnier, e l'immensa capitale
dichiarata in stato d'assedio.

Ogni illusione per Roma, doveva quindi cessare.

Nullameno il governo francese proseguiva nelle inutili ipocrisie
sostituendo il signor di Corcelles al signor di Lesseps per indurre il
triumvirato ad un accordo, che cedesse Roma all'occupazione francese
senza la pericolosa odiosità d'una conquista.

Le ostilità erano ricominciate, ma Roma nella tregua non aveva
abbastanza pensato a munirsi; Garibaldi, ritornato vittorioso da Rocca
d'Arce, in quel triste andazzo d'ogni cosa militare e politica chiese
con ingenua sicurezza la dittatura: Mazzini ne inalberò, a tutti i
retori dell'assemblea e del governo parve proposizione peggio che
assurda.

L'Oudinot, denunziando l'armistizio, aveva promesso di non assalire che
il 4 giugno; invece massacrò proditoriamente nella notte dal 2 al 3 gli
avamposti romani: Monte Mario e Villa Pamphili furono occupati. I
francesi sommavano quasi a 40,000 uomini, l'esercito romano non arrivava
a 20,000. Erano quasi tutti volontari con colonnelli e generali
improvvisati, che parvero e furono meravigliosi di valore. Era
impossibile sostenere un assedio, resistere a molti assalti; nullameno i
difensori sentirono che bisognava morire. Il 3 giugno al casino dei
Quattroventi, occupato dai francesi per tradimento nella notte, si
combattè la più lirica delle battaglie. Oudinot aveva addensato nelle
prese posizioni i più intrepidi soldati d'Africa, Garibaldi scagliò
sopra di loro i più invincibili dei propri eroi, e non potè vincere: vi
furono assalti disperati, cariche deliranti di coraggio; Daverio,
Dandolo, Mellara, Mameli, vi perirono; Masina bolognese, alla testa
della propria cavalleria, più furioso di un uragano, penetrò nel
vestibolo del palazzo e stramazzò col cavallo a mezzo la gradinata
marmorea, dalla quale lo fulminavano i cannoni.

La giornata era perduta, ma le armi italiane avevano riconquistata la
gloria degli antichi migliori tempi.

Intanto nella città l'effervescenza guerriera non cresceva. Si parlava
di barricate e se ne costruivano ma la popolazione grossa di 160,000
uomini assisteva tra furiosa e avvilita alla battaglia. Il governo,
invece di galvanizzarla con eccessi, non aveva fino allora badato che a
mantenerle la calma dichiarando amici i francesi, predicando l'ordine
nelle piazze e il rispetto a tutti i nemici della repubblica. Si fece
persino un bando per restituire alle chiese pochi confessionali
trascinati nelle strade a farvi barricate: non si era voluto odio
civile, e mancò l'odio allo straniero, si era stati magnanimi, e si
rimase deboli. I sacerdoti Gavazzi e Dall'Ongaro, che incitavano alla
difesa della republica santa, nel popolo scettico di Roma facevano poco
frutto, la plebe bastonava qualche gesuita, vociava, sequestrava per le
barricate qualche carrozza signorile, senza passione per la improvvisata
ed inintelligibile republica, senza avversione per i francesi stranieri
come tutti gli altri stranieri che Roma aveva ospitato e cui aveva
soggiaciuto. Un Zambianchi, volgare e truce assassino, aveva scorrazzato
per qualche provincia arrestandovi alcuni sospetti di reazione, quindi
chiusili nelle catacombe di S. Calisto li uccideva sommariamente: ma
questo anzichè guerra civile era costume brigantesco. Lo scoramento
cominciava anche nelle truppe vedovate dei migliori ufficiali: gli
antichi papalini già ricalcitravano agli ordini; i comandanti pontifici
passati ai servizi della republica e persuasi dell'inutilità di ogni
resistenza non si preoccupavano più che di conservare con nuovo
tradimento il grado ottenuto: gli stessi volontari più eroici si
irritavano della indifferenza di un popolo che applaudiva alla loro
morte come ad uno spettacolo.

L'assemblea sollevata da un irresistibile soffio di poesia aveva
dichiarato la resistenza ad oltranza, poi non avendone preparati i mezzi
e non volendone in fondo gli eccessi, si affrettava a compiere la
propria costituzione: cura che parve epica in quel momento e non era se
non l'irresistibile istinto storico di quella republica destinata a non
essere che un verbo.

Il giorno 12 i lavori di assedio erano già terminati: al 21 la breccia
squarciava le mura; solo il Vascello, immenso caseggiato, resisteva
all'aperto colla legione del maggiore Medici che vi si mantenne
prodigiosamente, e potè nullameno riparare a notte entro la città. Il 30
giugno i francesi penetrarono per le breccie; ultimi eroi caddero loro
contrastando Emilio Morosini e Luciano Manara.

Roma era vinta.

La guerra alle barricate per le strade, che Mazzini in un sogno
d'eroismo aveva fatto preparare, si chiariva impossibile in
quell'atteggiamento spassionato del popolo, molto più che i francesi,
contenti di occupare le alture, accennavano a bombardare la città o a
ridurla, strema come era di vettovaglie, ad arrendersi. Non restavano
che tre partiti: capitolare, resistere sino all'estremo e seppellirsi
sotto le rovine, uscire da Roma trasportando seco il governo. Mazzini
propendeva per quest'ultimo; Garibaldi lo appoggiava citando l'esempio
della republica di Rio Grande: Avezzana ministro della guerra, reduce da
Ancona, ove Mazzini lo aveva gelosamente inutilizzato, ed altri capi
s'incaponivano alla difesa. L'assemblea, convocata in comitato segreto,
scartò il disperato disegno di Mazzini e di Garibaldi per seguire quello
di Enrico Cernuschi, che proponeva la resa. Il triumvirato piuttosto che
trattarla col fratricida governo francese si dimise nobilmente dicendone
le ragioni al popolo in un manifesto sfolgorante di fede e di poesia. A
nuovi triumviri furono eletti il Saliceti, il Calandrelli e il Mariani
per patteggiare coll'Oudinot. Questi spinse la burbanza oltre l'esosità
imponendo condizioni così enormi, che lo stesso generale Vaillant
sdegnato esclamò non dovere i francesi concedere a Roma meno di quanto
gli austriaci avevano concesso a Bologna e ad Ancona. Gli oratori del
municipio ricusarono i patti preferendo il pericolo di una resa
incondizionata al disastro di una capitolazione senza onore, e
l'assemblea dichiarò municipio e triumvirato benemeriti della patria.
Decretò ancora sussidi alle famiglie povere dei cittadini morti
combattendo; poi con magnanima teatralità promulgò dal Campidoglio la
propria costituzione (3 luglio) mentre i francesi irrompevano trionfanti
per le strade.

La republica romana era morta, ma il ritorno del papato a Roma non
sarebbe più che una processione di funerale.

Allora tutti i rivoluzionari si sbandarono: vi furono proteste, urli
feroci contro gl'invasori, un ultimo sogno di rivolta, quindi l'esodo
cominciato dietro Mazzini parve ricominciare miracolosamente la guerra
nella ritirata degli ultimi soldati con Garibaldi.

Roma era caduta sotto il governo militare: stato d'assedio e legge
marziale. Nel dì anniversario della presa della Bastiglia, Oudinot
annunziava al mondo la restaurazione in Roma del potere temporale dei
papi. L'assemblea francese ne tenne una seduta memorabile, nella quale
republica e papato si riavventarono l'una sull'altro: il napoleonismo
oramai presso a trarsi la maschera fu cinico e spavaldo; Montalembert
agitò la propria eloquenza come una fiaccola morente sul papato non
illuminando più che un cadavere, mentre Victor Hugo, il maggior poeta
della Francia e il miglior poeta del secolo, parlò per Roma e per la
republica risollevandole, coll'infallibile fede del genio, alle vittorie
di un indomani immortale.

Mazzini esule empieva già il mondo di proteste, Venezia resisteva
tuttavia, Giuseppe Garibaldi ritentando il prodigio di Senofonte errava
ancora armato sull'Appennino.


                                  Giuseppe Garibaldi.

Egli solo della vasta rivoluzione federale restava all'Italia perchè
solo non s'era impicciolito in nessuna delle sue contraddizioni
politiche. La sua vita, che doveva riassumere in più lungo corso quella
d'Italia creandone l'unità politica, pareva allora avvolta nella
leggenda; un inesplicabile entusiasmo precedeva e seguiva i suoi passi:
il suo valore non più grande di quello di tanti eroi morti
nell'insurrezione suscitava speranze e fedi indefinibili, mentre la sua
vita d'avventure sull'oceano e oltre l'oceano lo rendeva più italiano di
quanti l'avevano intrepidamente passata nei rischi delle permanenti
congiure. Mazzini più eccelso illuminava ma abbacinando, e coloro che
non sopportavano la sua luce chiudevano gli occhi accusandolo di
fuorviarli dalla grande strada della storia italiana; Garibaldi, vivente
personificazione del sistema mazziniano, ne attenuava gli eccessi e ne
velava le incandescenti chiarezze pur illuminandone le ombre: era
l'istinto più infallibile del genio, il buon senso più sicuro della
scienza, il cuore più vasto dell'intelletto. Tutto il popolo guardava a
lui, viveva in lui.

Nullameno la sua vita non aveva ancora tali grandezze storiche da
giustificare questo inesplicabile accordo di tutta una nazione con un
individuo. Si sapeva che egli era nato a Nizza (1807) da una famiglia di
marinai verso il fondo del porto Olimpio, e che, ricevuta la più
mediocre delle educazioni, cedendo alla vocazione del mare come tanti
suoi compatriotti, s'era fatto marinaio. La sua prima nave si chiamava
_Costanza_: aveva corso il Mediterraneo, approdato nel mar Nero, poi
visitato Roma. Giovane, poeta, eroe, egli non vi aveva veduto nè le
tracce dei Cesari nè quelle dei papi, ma un'altra Roma lontana
nell'avvenire, nuovamente regina d'Italia, ancora capitale del mondo.
Mentre ferveva la grande poesia del romanticismo, ricostruendo e
lamentando il passato, egli inconsciamente profetico si appuntava
nell'avvenire: la sua non era visione o sogno, ma presentimento e
giuramento. Annibale fanciullo aveva potuto giurare indarno la
distruzione di Roma, Garibaldi giovanetto ne giurò a se medesimo la
redenzione. Quindi viaggiò ancora facendo il precettore di ragazzi a
Costantinopoli, tendendo febbrilmente l'orecchio ai confusi rumori della
insurrezione greca, raccolto in se medesimo come aspettando la chiamata
del destino. Un incontro con un ligure in una bettola a Taganrog, decise
della sua vita: gli fu rivelata la Giovane Italia, scoperti segreti e
propositi di rivoluzioni contro tutti gli stranieri e i tiranni
d'Italia. Egli stesso con lirica ingenuità paragonò l'entusiasmo
cagionatogli da tali rivelazioni a quello di Cristoforo Colombo nello
scoprire le prime prode d'America. Garibaldi e Mazzini, sconosciuti
l'uno all'altro, s'incontrarono nella stessa idea di libertà: oramai la
fortuna d'Italia diventava sicura attraverso gli innumerevoli e ancora
ignoti frangenti.

Tornato in patria, Garibaldi si getta impetuosamente nelle cospirazioni.
Al primo incontro in Marsiglia con Mazzini, che già preparava l'infelice
spedizione di Savoia, con occhio sicuro glie ne indica tosto il difetto
capitale: era meglio cominciare da Genova più frequente di liberali, più
forte di plebe, calda ancora di odio municipale al Piemonte. Era il
primo dissidio fra i due eroi del pensiero e dell'azione, d'ora innanzi
sempre divisi nel metodo e congiunti nello scopo, egualmente sicuri
l'uno nella idea rivoluzionaria che oltrepassando la rivoluzione
italiana la violava e talvolta l'impediva, l'altro nell'istinto di
guerra e di rivolta che non gli farebbe perdere una sola occasione di
battaglia, e gli assicurerebbe la vittoria anche quando la sconfitta
fosse momentaneamente inevitabile. L'impresa della Savoia fallì.
Garibaldi, inteso ad aiutarla da Genova con una formidabile insurrezione
per prendere l'odiata monarchia di Carlo Alberto fra due fuochi, potè a
stento salvarsi in Francia perseguitato da una condanna a morte, perchè
a meglio secondare l'insurrezione si era messo volontario subalterno
nella marina regia, e ne aveva subornato parecchi soldati.

Tale terribile disastro era allora così comune che pochi vi badarono,
primi fra essi i medesimi cospiratori.

Ma Garibaldi non poteva logorare la propria vita nelle congiure;
dimenticò la condanna a morte, valicò l'oceano e andò ad arruolarsi
volontario sotto le insegne della repubblica di Rio Grande, allora in
guerra col Brasile. Colà crebbe avventuriero, corsaro, ammiraglio,
generale in una vita di battaglie, di assedi, di naufragi, d'incendi,
senza paghe, quasi senz'armi, improvvisando navi e legioni, ricostruendo
sempre all'indomani le opere distrutte da un nemico troppo forte,
fidando sempre nella vittoria e strappandola con prodigi di genio e di
valore. Il giovane avventuriero non somigliava a nessuno dei tanti che
ingombrano ancora l'America, o cresciuti nel suo vergine suolo dalla
mistura delle razze di tutto il mondo, o gettati dalle tempeste d'Europa
sulle sue spiaggie lontane ad accelerarvi la storia coi ricordi e colle
passioni del vecchio mondo.

Un'indomabile convinzione repubblicana lo sottometteva ai servigi delle
republiche di Rio Grande e di Montevideo contro l'esosa tirannide di
Rosas: una poesia inesauribile gli dava la fede degli antichi neofiti
cristiani purificandogli l'anima negli spettacoli di una natura, sulla
quale il quadro della storia non aveva ancora potuto imprimersi. Ma
lontano, fra gli splendori e i pericoli di una gloria, che valicando
presto l'oceano echeggiava in tutto il mondo, egli non pensava che
all'Italia e ne difendeva l'idea nelle republiche americane e nelle loro
ancor giovani tumultuanti democrazie. Questo guerriero di ventura non
aveva alcuno dei caratteri comuni ai venturieri: irresistibilmente
impetuoso ed assurdamente intrepido, detestava le passioni sanguinarie
della guerra e tutte quelle efferate virtù dell'odio, che ne
accompagnano le vicende e ne assicurano le vittorie: nessuna avidità di
guadagno o di nomea deturpava il suo volontariato soldatesco; adorava la
libertà, e combatteva contro i tiranni per distruggerli senza odiarli
personalmente: non credeva che alla democrazia, ed era pronto a subire
la volontà delle maggioranze anche se inclinata a servitù. I suoi
compagni, esuli d'Italia o raminghi di tutto il mondo, lo seguivano
ovunque, come cavalieri di un ciclo fatato o fanatici di una nuova
religione: la varietà delle loro passioni generose o criminali
s'unificava nel suo sentimento addensandosi paziente sotto il suo
comando. Alcuni eroi sconosciuti come Rossetti ed Anzani, raddoppiavano
con incomparabili virtù di guerra o di politica la sua opera; tutti gli
altri gli morivano intorno, quasi nella soffocante fretta di un dramma,
affidando al miracolo della sua incolumità il ricordo della loro gloria,
e alla virtù della sua vita la redenzione del loro nome.

Un indescrivibile tumulto di eventi sembra agitare per quattordici anni
Garibaldi nell'America quasi a prepararlo per la grande imminente
impresa d'Italia. Libero, prigioniero, torturato, sempre povero, sempre
improvvido di sè e votato corpo ed anima alle proprie gesta, subalterno
malgrado le continue vittorie, apprende tutte le indefinibili virtù che
gli saranno poi necessarie all'improvvisazione d'Italia. Politica e
guerra lo gettano nei più difficili frangenti, abituandolo a tutti i
rovesci, armandolo contro tutte le illusioni, temprandolo a tutti i
disinganni, arricchendolo di una energia inesauribile e di una fede
democratica, che nemmeno la sconoscenza parricida della patria potrà poi
scrollare. I compagni, che gli si rinnovano incessantemente d'intorno,
gli dànno l'ascendente fatale di un predestinato; la mobilità della sua
condizione gli aggiunge la perfezione cosmopolita dell'uomo moderno.

Sulle sponde del grande Plata ogni _estancia_ diventa per lui un
arsenale, ove fabbrica barconi e garopere; da corsaro cresciuto tosto ad
ammiraglio trionfa nella laguna di Santa Caterina e vi si innamora di
Anita, che diventa poi la sua meravigliosa eroina, come l'Olandese del
Vascello Fantasma s'innamora di Senta; con un espediente di storia
antica carica due barconi sopra un traino e con duecento buoi li
trascina per cinquantaquattro miglia dal lago Dos Patos al lago
Taramandahy; frequenti e terribili naufragi lo forzano a minuti ed
obliati eroismi; costretto da un ordine del generale Canabarro a
saccheggiare il paese di Imiriu, la sua anima di cavaliere si rivolta
così che volendo frenare gli eccessi delle proprie truppe ne rimarrebbe
quasi vittima, se un irresistibile prestigio non lo proteggesse. Ma il
nemico gli distrugge irrimediabilmente la piccola flottiglia, ed eccolo
ancora capitano di terra a cavallo, con Anita al fianco, la spada in
pugno, un neonato sulla sella.

Quindi le battaglie si avvincendano ancora; si traversano foreste per le
quali bisogna aprirsi il varco colla scure, si compiono ritirate, si
osano scorrerie che rinnovano tutti i prodigi delle antiche guerre
barbariche. Poi la fortuna di Rio Grande declina, e Garibaldi passa alla
difesa di Montevideo. Quindi mercante di buoi, sensale, maestro di
matematica in un istituto privato, daccapo corsaro, ammiraglio, lotta
coll'inglese Brown comandante la squadra di Buenos-Ayres e lo costringe
all'ammirazione. Sciaguratamente la guerra civile fra i generali Ribera
ed Ourives, aspiranti alla presidenza, complica nella piccola republica
la guerra contro Rosas tiranno di Buenos-Ayres; come in Italia la lotta
imperversa fra unitari e federali, ma in America come in Italia
Garibaldi è unitario. Quindi perdute in mirabili combattimenti sui fiumi
le ultime flottiglie improvvisate, comincia l'assedio di Montevideo che
durerà quanto quello di Troia. Ourives al soldo di Rosas si avanza
vittorioso, l'aristocrazia e la borghesia della grossa città
allibiscono, solo il popolo insorge: si organizza la difesa, si
rinnovano le flottiglie, si formano legioni straniere. Garibaldi ne
stringe intorno a sè una d'Italiani, e malgrado difficoltà di ogni
maniera doma caratteri, rianima gli spiriti, improvvisa nei propri
soldati perfino il coraggio, li muta in falange d'eroi. Gli americani,
che Garibaldi ammira come i primi soldati del mondo, lo ricambiano di
pari ammirazione: i matreri, cavalieri banditi delle foreste, accorrono
alle sue insegne; le sue vittorie spesseggiano, mentre a Montevideo
l'insurrezione di partiti cittadini ne compromette il frutto. Un
intervento diplomatico anglo-francese per la pace vi fallisce; il Salto,
conquistato e mantenuto da Garibaldi con miracoli di valore, è
nuovamente perduto dacchè egli è stato richiamato a Montevideo; oramai
della republica non resta che la capitale stretta d'assedio, e Garibaldi
colla legione italiana, che ne difende ancora le opere avanzate.

Ma sui primi del 1848 le notizie delle rivoluzioni italiane giungono sul
Plata.

Con una sessantina di compagni Garibaldi, immemore dell'America,
veleggia tosto per Genova: la sua preparazione è compita, l'opera sta
per cominciare. Ma appena sbarcato in Italia gli equivoci della
rivoluzione federale lo arrestano; Mazzini fremente della tregua da lui
medesimo concessa all'impresa regia, così infelicemente condotta da
Carlo Alberto, non vorrebbe che Garibaldi portasse al re l'aiuto
dell'opera propria. Carlo Alberto, incapace di comprendere la
magnanimità del grande condottiero, che aveva dimenticato persino la
propria condanna a morte, diffida dell'antico ribelle, lo stanca
nell'inazione, lo paralizza nella guerra. Il governo provvisorio di
Milano, peggiore del re, gli lesina gli aiuti, gli raddoppia le
difficoltà; finchè i disastri della guerra precipitano, e Carlo Alberto
sconfitto si ripiega su Milano, della quale Garibaldi deve difendere a
Bergamo gli approcci con un pugno di soldati. Poi Carlo Alberto fugge
tradendo la città, l'impresa regia si sfascia, gli austriaci incalzano
vittoriosi il re già sicuro oltre il Ticino. Milano s'arrende, il popolo
disarmato e titubante ammutisce, i governi provvisori s'umiliano e
sfumano, ma Garibaldi cacciatosi fra i monti resiste ancora agli
austriaci, li batte alla Beccaccia di Luino, li ferma a Morazzone e
ripara nella Svizzera.

L'Italia non si è ancora accorta del grande condottiero, che uno dei
generali austriaci ha saputo indovinare.

Finalmente la rivoluzione di Roma rivela in Garibaldi il primo soldato
d'Italia. Se la gelosia di Mazzini lo inceppa e la rivalità di Rosselli
gli annulla la fortunata vittoria sul re di Napoli, che sarebbe rimasto
prigioniero: se la republica romana deve fatalmente perire, perchè
ammalata di tutti gli errori del federalismo contrasta col proprio fatto
alla stessa unità d'Italia, che vorrebbe e dovrebbe proclamare e non
può; quando la republica soccombe e Roma s'arrende, Garibaldi, solo
nella fede dell'unità d'Italia che nessuno in quell'ora conserva (2
luglio), raduna le proprie truppe per uscire da porta S. Giovanni a
nuova guerra. Il suo disegno è semplice: gettarsi all'Appennino,
sollevarne le forti popolazioni, vincere le prime battaglie, onde tutte
le città rinnovellino le proprie rivoluzioni, e circondando tutti i
nemici sopraffarli, annientarli sotto l'impeto irresistibile della
nazione. L'anabasi incomincia: tre eserciti lo cingono, lo perseguono.
Garibaldi li cansa, scivola fra i loro vani, li delude: guadagna i
monti, vi si perde sempre inseguito e sempre in salvo, moltiplicando
stratagemmi ed eroismi, lasciando ad ogni tappa un ricordo ed una
speranza. Il popolo non si muove: le campagne aizzate dal clero sono
ostili, i villaggi diffidenti, le città chiudono le porte. Le diserzioni
assottigliano la piccola truppa alla quale i villani del vescovo di
Chiusi osano fare prigionieri: la miseria spinge i resti di quella
falange a vessazioni, che sono rappresaglie e le provocano. Ma l'Italia,
esaurita dallo sforzo infelice della rivoluzione federale, si è già
ricoricata nell'antica servitù per ristorare le proprie forze.
Garibaldi, giunto di monte in monte sino alla piccola repubblica di San
Marino, vi discioglie il resto dell'esercito, non conservandone che un
ultimo drappello per drizzarsi con esso su Venezia assediata. Senonchè,
imbarcatosi su tredici bragozzi a Cesenatico, è sorpreso da un
brigantino austriaco: egli solo scampa colla moglie incinta e un
capitano. L'epopea si muta in romanzo; la ritirata è finita, il
pellegrinaggio incomincia. Riparato nella pineta di Ravenna, Garibaldi
vi perde Anita, che non può nemmeno seppellire e della quale i cani
vaganti rosicchiarono a notte alta le ossa; ma protetto da oscuri
popolani, dopo lunghi rigiri e continui pericoli è salvato a Modigliana
da don Giovanni Verità, semplice ed eroica figura di prete, che
riconcilia così la coscienza religiosa colla coscienza rivoluzionaria
nella coscienza del popolo. Quindi traversa la Toscana incontrando ad
ogni passo un salvatore, sfuggendo alla ricerca delle polizie, insino al
deserto delle maremme, al golfo di Sterbino, donde salpa per la Liguria.
Quivi il generale Lamarmora, commissario regio a Genova della quale ha
domato l'insurrezione, lo incarcera; l'opposizione parlamentare ne
tempesta, il ministro Pinelli dichiara che Garibaldi suddito piemontese
avendo preso servizio senza autorizzazione sotto la repubblica romana ha
perduti tutti i diritti di cittadinanza e non può più invocare il favore
delle franchigie costituzionali; D'Azeglio presidente del ministero non
se ne vergogna, la Camera vota contro il ministero e Camillo Cavour
contro Garibaldi.

Così nel regno piemontese, il solo tuttavia che avesse tentato
un'impresa italiana e conservato lo statuto, era poco vivo il senso
dell'italianità.

Poi fu imposto a Garibaldi di scegliersi un luogo d'esilio: Garibaldi
elesse Tunisi.


                                  Ultima republica di Venezia.

Mentre il più grande degl'italiani riprendeva la via dell'esilio,
Venezia capitolava.

L'infelice città tradita da Carlo Alberto si era indarno, con uno
slancio d'entusiasmo, riconfermata republica per morire nell'orgoglio
della propria autonomia.

Il suo governo, vittima fino dalla prim'ora dell'illusione di una lega
italica presieduta dal pontefice, attendeva da Roma l'idea e da Torino
le forze della rivoluzione, proclamandosi anticipatamente soggetta a
quanto di Venezia avrebbe deciso l'impossibile Costituente italiana, ma
intanto ricostituendosi nelle vecchie forme e nella separazione
tradizionale. Poi alla fuga di Pio IX da Roma l'ambasciatore veneto
disapprovava la rivoluzione romana sconsigliando poco dopo dal votare la
republica. Manin come tutti gli altri governi italiani seguitava a
trattare con Gaeta e con Roma chiedendo ancora dopo il patito tradimento
aiuti ed accordi con Torino, stancando l'Italia di appelli patriottici,
protestando e mendicando a tutte le cancellerie d'Europa.

La sua eloquente _Memoria_ a lord Palmerston (21 agosto) in difesa di
Venezia era tuttavia uno degli atti più onorevoli della diplomazia
italiana.

Ma per Venezia il problema politico non aveva più altra soluzione che la
difesa della città. Una suprema illusione di soccorso dalla Francia,
mentre questa pareva mal disposta a sopportare l'assoluta preponderanza
austriaca in Italia dopo l'armistizio di Salasco, durava tuttavia:
Mengaldo e Tommaseo, legati veneti a Parigi, instavano eloquentemente e
pareva, non senza frutto. Già si parlava di 3000 soldati francesi che
dovevano imbarcarsi per Venezia, quando l'astuta diplomazia tedesca,
fingendo d'accettare la mediazione franco-inglese per l'assetto
d'Italia, otteneva si sospendesse ogni spedizione. Poi la mediazione
fallì, le promesse d'una costituzione del Veneto in principato
indipendente e federato con arciduca austriaco, dileguarono; il disastro
di Novara e la proclamazione della republica romana precipitarono da
ultimo gli eventi.

Venezia doveva rimanere sola a morire.

Intanto il suo governo dittatoriale col colonnello Cavedalis,
l'ammiraglio Graziani e Manin, che li assorbiva ambedue in una suprema
funzione di doge, si era abilmente affrettato ad apprestare i mezzi
finanziari nelle crescenti necessità della politica e della guerra. Ma
l'erario era di una povertà ridicola, poichè le rendite ordinarie non
sommavano a più di 200,000 lire mensili; si aperse un prestito nazionale
di 10 milioni, si diede corso legale a cinque milioni della banca
veneta, si aumentarono le imposte sui tabacchi e sulla birra. I soccorsi
chiesti all'Italia mancarono: la Toscana non mandò che 72,000 lire,
qualche altra città 50,000, Roma votò 100,000 scudi, il Piemonte un dono
mensile di 600,000 lire, e non le diede. Mentre tutta l'Italia suonava
di arringhe e di canzoni per Venezia, le borse non s'aprivano; governi e
popoli non si muovevano.

In Venezia, abbondante di generosi volontari, s'abbaruffavano in
un'ultima demenza tutti i partiti politici. I poeti Revere e Dall'Ongaro
veneti, Maestri lombardo, Mordini toscano, tempestavano perchè il
governo si dichiarasse lombardo-veneto; Cesare Correnti, già mazziniano,
quindi avversario di Mazzini nel governo provvisorio di Milano, poi
ancora mazziniano nella catastrofe di questo, predicava ora pel
Piemonte; si accusava Manin di non secondare la Costituente italiana, di
aver sbagliati gli accordi diplomatici colle grandi potenze straniere, e
di non affratellarsi colle ultime rivoluzioni di Toscana e di Roma, di
tirannide interna e di nessuna coscienza rivoluzionaria. E infatti
quella di Venezia non era che una insurrezione contro l'Austria: nessuna
idea era ancora uscita e doveva uscire da quella, che chiamavasi allora
rivoluzione veneta. Ma la popolarità di Manin resisteva a tutti gli
attacchi, dei quali alcuni generosi e savi, la maggior parte indegni o
dementi, provocandogli ovazioni dal popolo che gli permettevano di
prendere contro sobillatori e demagoghi violente misure di polizia.

Intanto l'assemblea, aperta il 13 febbraio, lo nominava con 108 voti
sopra 110 capo del potere esecutivo presidente, con ogni potere per la
difesa interna ed esterna dello stato e con facoltà di prorogare
l'assemblea pur di riconvocarla dopo 15 giorni.

Alla ripresa della guerra fra Austria e Piemonte le speranze avevano
rifiorito: Pepe proponeva che l'esercito sardo diviso in due corpi
proteggesse Alessandria e Padova per congiungersi nel Veneto, egli
assalirebbe nemici alle spalle, ma l'ultima guerra piemontese iniziata e
conchiusa quasi nel medesimo giorno col disastro di Novara, dissipò
sogni e speranza. Venezia non era stata richiesta di concorso da Carlo
Alberto nè tampoco avvisata della ripresa delle ostilità: Haynau,
grondante del sangue di Brescia, si affrettò ad intimarle la resa.
Venezia non aveva che 17,000 soldati, per la maggior parte volontari,
4000 tra marinai, cannonieri e fanti di mare con 11 navi da guerra e
altra flottiglia più numerosa che importante, sopra una linea difensiva
di settanta miglia divisa in tre circondari: il primo dalla città per
Fusina, Marghera, Treporti con 17 forti sino a Sant'Erasmo, il secondo
pel lido dalla punta di San Nicola ai murazzi di Palestrina con 13
forti, il terzo da Chioggia e Brondolo sino alla foce del Brenta con 6
forti.

Ma quantunque l'Austria vittoriosa a Novara e a Vienna si stringesse
tutta su Venezia, alla spavalda intimazione dell'Haynau questa
rispondeva votando (2 aprile 1840) unanime la resistenza ad oltranza, e
coniava a memoria della forte deliberazione una medaglia in bronzo
scrivendogli nell'esergo: -- Ogni viltà convien che qui sia morta. --

Già fin dal 22 ottobre 1848 quattrocento cacciatori del Sile in una
sortita avevano occupato Cavallino fugando gli austriaci ed
impadronendosi di qualche comune: poco dopo il 26 ottobre Pepe aveva
assalito e preso Mestre, ma ora la guerra era senza scampo. Invano i
volontari, soldati improvvisati, sembrano moltiplicarsi con una attività
ed un valore che sgomentano i più agguerriti reggimenti tedeschi: invano
Marghera con 500 soldati di presidio ributta un assalto generale con
tanta virtù da consigliare a Radetzky di riproporre patti di resa. Manin
ricusa ogni negoziato che non riconosca a Venezia un'esistenza politica
in accordo colla sua nazionalità e i suoi costumi. La costanza di
Venezia provoca l'ostinazione degli assedianti, che costruiscono una
seconda parallela: gli assediati per impedirla ricorrono indarno ad una
inondazione artificiale. Un assalto più furioso obbliga al silenzio i
forti Rizzardi e dei Cinque Archi; 151 bocche d'artiglieria fulminano la
città. Marghera resiste ancora, finchè Manin stesso non ne ordina lo
sgombro. La tragedia precipita. Una specie di dittatura militare
composta di Ulloa, Sirtori e Baldisserotto si aggiunge alla dittatura
politica di Manin, accrescendo gli attriti ma non impedendo nullameno
l'accordo nella difesa. Questa costretta ora entro la linea delle
lagune, esigerebbe la distruzione di tutto il famoso ponte, senonchè la
vanità artistica e l'interesse commerciale lo salvano per la massima
parte, affrettando la perdita della città, poichè gli austriaci vi si
afforzano alla testa e il cannoneggiamento prosegue benchè senza grandi
risultati d'ambo le parti per un mese. La flotta e la flottiglia poco
giovano, meglio aiutano i pozzi artesiani supplendo al difetto
dell'acqua; il blocco si restringe; un supremo tentativo di composizione
con De Bruck, notissimo a Venezia come direttore della grande società
triestina del Lloyd, abortisce. Con eroica pertinacia Venezia ricusa
l'ultima offerta costituzione, perchè le cariche amministrative non vi
erano tutte riserbate agl'italiani e i diritti fondamentali vi potevano
essere aboliti in tempi di sommossa o di guerra, e la maggior parte
della legislazione veniva riserbata al parlamento viennese, e a Venezia
non si accordavano nè esercito nè flotta italiana. Ma se il rifiuto era
magnanimo, le trattative erano assurde: Venezia non poteva a nessun
patto fidarsi dell'Austria che avrebbe necessariamente mentito alla
propria parola; peggio ancora una costituzione semi-autonoma avrebbe
allentato tutti i rapporti coll'Italia per ristringere quelli
coll'impero tedesco.

Ma ormai il tempo dei patti è passato: Radetzky intima la resa a
discrezione. Le palle cadendo sulla città dalla distanza, allora non
anco superata, di cinque chilometri, seminano la morte nell'inerme
popolazione; si disertano le case di molti quartieri serenando nelle
piazze e nei giardini; la fame urge, il mare è chiuso, scoppia il
colera. Tutto crolla intorno a Venezia l'Italia soffocata dalla reazione
interna ed esterna non manda più che qualche gemito, la repubblica
francese agonizza sotto il tallone del secondo Bonaparte, la rivoluzione
ungherese, dalla quale s'attendevano aiuti d'armi, è spirata nelle
strette dinastiche di Vienna malgrado tutti gli sforzi di Kossuth. Il
colera ha colpito diggià in un solo mese oltre 6000 persone, 3000 ne
sono morte: i volontari sono molte volte decimati, manca il cibo,
difettano le munizioni. Venezia ha superato Roma nella propria difesa,
giacchè ha costato all'Austria 20,000 soldati, cioè più che le due
campagne contro il Piemonte. Vinta e morente può quindi ripetere con
giusto orgoglio il motto non vero di Francesco I: «Tutto è perduto
tranne l'onore».

Ma alle prime parole di resa la plebe inferocita tumultua, si urla al
tradimento: Manin minacciato ribaldamente deve dissipare colla spada
alla mano i tumultanti, e Venezia si arrende. I patti erano:
sottomissione della città, sfratto dei soldati stranieri, degli
ufficiali già a servizio dell'Austria e dei cittadini a questa sospetti.
La carta-moneta veniva ridotta a metà dei valore, nessuna multa di
guerra. Il 22 agosto 1849 si firmò la capitolazione: l'indomani Manin,
povero e glorioso, riparava con altri proscritti su navi francesi ed
inglesi salpando per l'esilio; il 28 l'aquila bicipite si posava
nuovamente minacciosa sui pili di San Marco; il 30 Radetzky entrava
trionfalmente nella morta città, che dopo tanti strazi sentiva ancora il
proprio patriarca invocare la benedizione del cielo sull'implacabile
vincitore.

Rivoluzione e guerra erano finite: il federalismo italiano, vecchio di
troppi secoli, vi aveva esaurito l'ultima vitalità.

Ma poichè dopo la rivoluzione francese del 1789 ogni altra rivoluzione
europea doveva tendere alla costituzione dell'individualità nazionale,
l'Italia liquidando così tutto il proprio passato federale non poteva
essere più che nell'unità politica. A conquistarla però le abbisognavano
una forte coscienza democratica per trionfare delle estreme
ricostituzioni regie e papali e un forte nucleo politico per comporre un
primo esercito contro lo straniero.

L'abolizione del papato e lo statuto piemontese, ecco quanto rimaneva
come idea e come fatto della rivoluzione. D'ora innanzi sarebbe
impossibile riparlare di egemonia papale e di lega di principi: tutti
gli stati italiani ripiombati nella reazione si verrebbero fatalmente
separando dalla vita nazionale; il romanismo inconciliabile colla
libertà non sarebbe più che una forma cadaverica del cattolicismo. Le
provincie romane, napoletane e siciliane avevano addimostrato il
_minimum_ di capacità rivoluzionaria e militare: Piemonte e
Lombardo-Veneto il massimo. Il centro della futura rivoluzione sarebbe
dunque al nord, come sempre nel bacino del Po; la sua formula dovrebbe
quindi essere monarchico-democratica, la sua forma una conquista regia;
ma poichè l'Italia non saprebbe almeno per lunghissimo tempo scrollare
simultaneamente tutti i propri principi e l'Austria, imprevedibili
coincidenze politiche europee dovrebbero aiutare quel re italiano
abbastanza forte e moderno per disciplinare nella propria monarchia
l'elemento democratico ed erigersi campione dell'indipendenza nazionale.

Per ora la gazzarra poliziesca delle ristorazioni mescendosi al
trambusto avvilente delle recriminazioni, colle quali tutti i partiti
vinti ed egualmente colpevoli si dilaniano, disonora per l'ultima volta
l'Italia; ma Daniele Manin, esule a Parigi nell'immacolata povertà d'una
vita troppo esercitata dalla fortuna, troverà fra poco la formula
trionfatrice, e presso a morire la getterà da lungi all'Italia come una
di quelle infallibili rivelazioni che la morte riserba talora ai più
santi: -- Italia e Vittorio Emanuele. --

Fra dieci anni Giuseppe Garibaldi, ora proscritto dal Piemonte, scriverà
-- Italia e Vittorio Emanuele -- sulla propria bandiera, per trionfare
dell'Austria, del Borbone, del papa e di Vittorio Emanuele stesso,
costituendogli un regno d'Italia nell'unità, sempre indarno voluta da
Mazzini, e nella libertà costituzionale, compatibile coll'ancora scarsa
civiltà della nazione.




LIBRO SESTO

L'EGEMONIA PIEMONTESE




CAPITOLO PRIMO.

Le ristorazioni


                                  Riscossa dell'opinione.

Poichè tutti i partiti avevano egualmente fallato, e nessun uomo, per
quanto alto d'ingegno e di robusto carattere, aveva potuto resistere
così alla tormenta delle combinazioni rivoluzionarie da mantenervi la
logica di un sistema o la sincerità immutabile di un proposito, la
violenza delle recriminazioni politiche era adesso senza pietà.
Federalisti ed unitari, giacobini e neoguelfi, regi e repubblicani,
insorti delle prime giornate e ribelli degli ultimi assedi, politici e
politicanti, tribuni e di piazza e di parlamenti, si palleggiavano
tremende reciproche accuse, delle quali la più comune, e quindi la meno
grave, era quella di tradimento. Dai giornali la guerra saliva ai libri,
scrosciava negli opuscoli, balenava in subite rivelazioni di documenti,
serpeggiava nel popolo avvelenandone lo scoramento, penetrava nel
segreto delle conventicole già strette per nuove cospirazioni, si
effondeva in lamenti, che il pericolo delle feroci polizie rendeva
ancora nobili.

L'Europa tutta piena di simili rivoluzioni, tutte egualmente vinte,
ascoltava distratta.

Ma l'unità della sconfitta giovava quanto una vittoria. Veneti e
siciliani, milanesi e romani, piemontesi e toscani, lombardi e
napoletani, si affratellavano nel dolore d'una comune speranza perduta:
accuse e critiche ribadivano la necessità dell'idea, per la quale tutti
erano insorti, e ne approfondivano la verità sottomettendone il modo a
nuove disamine. Le fratellanze di guerra, ben più efficaci che quelle
delle congiure, saldavano relazioni dianzi corroborate da fugaci
rapporti politici e diplomatici; lo scambio dei volontari fra le
provincie insorte compensava già l'antagonismo dei parlamenti durante la
rivoluzione; la coscienza dell'eroismo mostrato in cento fazioni si
levava alteramente nella oppressione desolata di quella prima ora di
schiavitù come a sfida di altre non lontane battaglie. Mai l'Italia
aveva avuto tale rivoluzione; il suo passato federale vi si era
annullato con tutta la millenaria varietà delle proprie forme sotto
l'impulso della moderna idea democratica. L'unità usciva dalla
sconfitta. Non una idea o una forma vitale restava al federalismo. Un
inconciliabile dissidio separava ora popoli e principi: questi accodati
all'Austria non ne erano più nemmeno i prefetti, giacchè i generali
austriaci li umiliavano colle tracotanze e truppe austriache
circondavano Le loro reggie italiane. Non più illusioni di dieta o
speranze di riforme: alcuni statuti restavano come cadaveri insepolti
dopo una battaglia. I principi avevano compreso che ogni concessione al
popolo avrebbe in esso provocato lo scoppio di affermazioni
antidinastiche; il popolo sapeva che i principi preferivano l'esistenza
della propria casa alla vita d'Italia. Quindi la politica si divideva:
quella dei governi, subordinata fatalmente all'Austria, diventava di
resistenza, costringendosi all'impossibilità di un crescendo, oltre il
quale s'intendeva il mareggiare sordo di un'altra rivoluzione; quella
delle nazioni cresceva d'iniziative giovandosi d'ogni forza, profittando
dei contraccolpi europei, opponendo il progresso del pensiero
all'immobilità delle forme, l'elasticità dello spirito alle pressioni
della materia, l'irresistibile espansione delle coscienze al propagarsi
delle energie straniere in tutti gli argomenti della politica nazionale.

Attraverso la conflagrazione del nuovo assetto se ne sentiva oscuramente
la provvisorietà. La stampa libera durante la rivoluzione aveva abituato
alla libertà di parola degradandosi in tutti i suoi eccessi; costretta
adesso alla musoliera acuiva nel silenzio la critica d'ogni atto
governativo; l'esilio, il carcere, la morte prodigata ai migliori
rivoluzionari, rinnovando i martirii, purificavano la religione della
libertà e ne aumentavano i neofiti; la reazione dei governi rendeva
stranieri e parricidi quanti vi prestavano mano. Quindi la modernità
urgeva con inesauribile ed instancabile varietà di motivi le
ristorazioni: telegrafi e ferrovie concesse prima fra gli applausi, poi
mirabilmente propagatesi sviluppando commerci ed industrie, forzavano le
barriere doganali interne con esigenze di nuove provvisioni economiche;
le università riparate all'ombra della scienza salvavano molti
professori dalle persecuzioni, educando scolari alle imminenti
rivoluzioni; ogni miglioramento agricolo covava un germe di
emancipazione, ogni congresso diventava assemblea, i teatri pronti a
profittare d'ogni commedia più volgare applaudendo le reticenze o le
allusioni si mutavano in comizi. L'odio all'Austria, non più compresso
dal terrore di prima, giacchè soldati italiani improvvisati avevano
potuto vincerla in campo aperto, diventava disprezzo per i governi
nazionali, che alla prima sconfitta di quella sarebbero caduti: si
pensava, si lavorava, si cospirava con nuova alacrità. Le comunicazioni
e gli scambi stringevano relazioni fra provincia e provincia; ogni
relazione si cangiava prestamente in vincolo politico. L'unità della
disfatta patita dalla rivoluzione si ripeteva nell'unità delle
persecuzioni inflitte ai migliori, nell'unità austriacante della
politica di tutti i governi nazionali, nell'unità vincitrice
dell'Austria rimasta sola nemica, nell'unità vinta del papato che
nessuno più temeva e nel quale nessuno più sperava, nell'unità creatrice
del Piemonte che incolume nella rovina universale, libero nella
schiavitù di tutti, ancora armato fra gl'inermi, rivoluzionario e
costituzionale, s'apriva come un asilo agli esuli e si muniva daccapo
come campo per una probabile guerra.

Popoli e governi stavano fisi al Piemonte: l'Austria lo vegliava
minacciosa, Francia lo proteggeva mal fida, la storia d'Italia lo
fortificava ogni giorno, proseguendo nel lavoro di molti secoli, per
agglomerare intorno ad esso tutta la nazione. Azioni e reazioni dovevano
egualmente giovargli: la politica pazzamente antiliberale ed
antinazionale degli altri governi faceva già del Piemonte la patria di
tutti gl'italiani; Mazzini, lontano nell'esilio, agitava ancora la
fiaccola dell'ideale repubblicano, Garibaldi, ramingante sui mari,
sembrava attendere un segnale per tentare uno sbarco irresistibile, il
conte di Cavour saliva al ministero piemontese per cogliere in Europa la
prima occasione di rivincita.

L'impossibilità di governare non solo onestamente ma razionalmente
aumentava ogni giorno per tutti i governi. Occasioni e pretesti
d'opposizione formicolavano: la reazione forzata a diminuire di rigore
per l'impossibilità di aumentarlo s'abbatteva in ostacoli insormontabili
sorretti dall'inerzia dei cittadini, ed erano sdegnose ripulse di
concorso in opere pubbliche, interpretazioni liberali date alle più
restie circostanze, silenzi opprimenti di dispregio, invettive
incriminabili per doppio senso. Il progresso europeo urgeva il progresso
italiano. La resistenza dei governi appoggiantisi sull'Austria li
precipitava in un pericolo d'annullamento pari a quello minacciato loro
dal popolo, giacchè l'occupazione straniera esautorando la loro autorità
dissanguava le finanze di ogni stato. Intanto la democrazia informava
con miracolosa rapidità tutte le forme di vita moderna: mutati i criteri
d'educazione domestica, riconosciuti falsi i metodi dell'antica pubblica
economia; l'emancipazione letteraria favorendo quella religiosa abituava
sempre più all'indipendenza assoluta dello spirito, nessuna tradizione
regia od aristocratica resisteva nelle nuove abitudini, i vecchi poteri
della chiesa e dello stato non avevano più altra forza che i gendarmi
delle polizie e le milizie straniere.

Se non si vedeva ancora chiaramente qual metodo la libertà sceglierebbe
per raggiungere l'unità della patria, e il mirabile spettacolo del
Piemonte giganteggiante sulla prostrazione degli altri governi non
affidava ancora interamente la nazione sulla possibilità d'una sua
conquista regia che saldasse in un solo tutti i principati liberando
l'Italia dallo straniero, mentre il mazzinianismo quasi galvanizzato dai
disastri riaffermava superbamente le speranze di unità repubblicana,
nullameno l'impossibilità di credere ai governi reazionari e la fatalità
d'una qualunque soluzione al problema politico italiano bastavano a
preparare gli spiriti ad un mutamento radicale di assetto, appena
l'occasione se ne presentasse.

Luigi Bonaparte rinnovando in Francia l'impero napoleonico ne avrebbe
facilmente suscitata qualcuna, la Germania avendo fallito come l'Italia
la propria rivoluzione doveva ripetere il duello secolare fra l'Austria
e la Prussia, l'espansione del mondo slavo nei Principati Danubiani
complicata col problema turco bastava sola a produrre terribili ed
inimmaginabili motivi di guerra.

Gli ultimi tiranni d'Italia infellonivano quindi sui propri sudditi
collo spavento spasmodico di chi uccide per difendersi, e sa nullameno
di non potere uccidere abbastanza per salvarsi.


                                  Regno napoletano.

Soffocata per le vie di Napoli la rivoluzione nel sangue dei cittadini,
domate le Calabrie, riconquistata con nefande crudeltà la Sicilia, re
Ferdinando non osò ancora trarsi la maschera di re costituzionale
ritirando la costituzione. L'elezione di Luigi Bonaparte alla presidenza
della republica francese l'inanimì: il piccolo tiranno fiutava nel nuovo
presidente il futuro grande despota. Così prorogò il parlamento. Poi
rassicurato dalla caduta di Carlo Alberto e della republica romana lo
sciolse per non più convocarlo, rinviando in Sicilia il truce Filangeri
e mutando i ministri diventati da ultimo suoi complici. S'iniziarono
processi: spie testimoniavano, giudici accusavano, si mirava sopratutto
a disonorare gli accusati, si mutava la suprema corte di giustizia in
corte speciale perchè le condanne fossero più spicce ed infami.
Sessantacinque cittadini fra i più illustri, Zuppetta, Saliceti,
Imbriani, Spaventa, Pisanelli, Poerio, Leopardi, Massari, furono
denunciati da una inquisizione senza nome: Navarra, presidente della
corte, ve ne aggiunse altri trentasette, fra i quali Scialoia e De Meis;
pochi giunsero a salvarsi nell'esilio, la maggior parte vennero gettati
nelle prigioni. Settembrini, Agresti, Faucitano furono condannati a
morte, tratti in conforteria e graziati dopo due giorni; altri sette
condannati più tardi a morte ebbero la pena commutata in quella dei
ferri dagli otto ai trent'anni. Re Ferdinando non osando più le condanne
di morte raffinava i supplizi. Tutti quegl'illustri furono mischiati
nelle carceri immonde coi più immondi ribaldi, e vi durarono lunghi
anni, laceri, affamati, incatenati, sublimi di dolore e di costanza.
Guglielmo Gladstone celebre ministro inglese che li visitò nelle
prigioni di Nisida e di Santo Stefano (1851), ne rimase così inorridito,
che scrivendone a lord Aberdeen, in lettere rimaste poi celebri, definì
il governo borbonico: «negazione di Dio».

Nella Sicilia la reazione fu anco peggiore. Incendi e massacri
guastarono intere città: cinquecento liberali riempirono nei primi
giorni le carceri dell'isola; il generale Filangeri sostituiva tribunali
militari agli ordinari, giovandosi d'ogni fremito del paese per crescere
il rigore delle repressioni; imprigionava, condannava a caso, per
denunzia, per capriccio. Unico sollievo all'isola infelice fu la
rivalità scoppiata fra il Filangeri ed il Cassisi nuovo governatore; ma
anche questa di lieve durata, giacchè il richiamo del generale e la sua
sostituzione col principe di Castelcicala lasciò al tristo proconsolo
libertà d'inseverire.

Tutto lo stato languiva sebbene le finanze del governo fossero
relativamente prospere: si compì qualche opera pubblica, s'unirono al
mare i laghi di Lucrino e d'Averno, ma lo spirito del paese immiserì.
L'esercito, rimasto ligio al re e adoperato come micidiale strumento di
polizia, non crebbe a valore di disciplina e di coscienza; la
costituzione non cassata rimase satira sanguinosa per coloro che
l'avevano creduta, e scusa alle rimostranze dei gabinetti europei
forzati dall'eco delle miserie napoletane ad uscire dalle solite
riserve. Di governo, nel vero senso della parola, non era a dire: un
sinistro brigantaggio dominava corte, polizia e magistratura; una parte
della borghesia benchè priva dei propri capi seguitava a cospirare in
silenzio, ma la distanza dalla grande valle del Po, centro del vero moto
politico, la tradizione, l'indole e sopratutto la forza del governo non
consentivano vera efficacia alle sue congiure. Fra le troppe incoerenze
politiche d'allora si pensò a sostituire il principe Murat a Ferdinando
di Borbone; corsero pratiche; Napoleone III mestava nell'intrigo, il
ricordo del primo regno murattiano e la vanità di autonomia favorivano
il disegno; Lisabe Ruffoni ed Aurelio Saliceti, già triumviro della
republica romana, vi si mescolarono perdendo senno e reputazione, mentre
lo stesso conte di Cavour nelle inestricabili ambagi della propria
politica sembrava subire l'imperiale volontà francese, e i più illustri
esuli napoletani protestavano fieramente dalle carceri contro questo
insano baratto di padroni e di servi.

Quando il conte di Cavour dopo la gloriosa e fortunata guerra di Crimea
sollevò la questione d'Italia al congresso di Parigi, i gabinetti
francese ed inglese instarono presso re Ferdinando per ridurlo a qualche
mitezza coi sudditi, sino a ritirare da Napoli i propri ambasciatori; ma
questi sicuro di non essere militarmente assalito rimase sordo ad ogni
rimostranza. Poco più tardi un vano tentativo d'insurrezione in Sicilia,
guidato da un Francesco Bentivegna (1856), e un altro di regicidio
arrischiato da Agesilao Milano, fanatico ammirabile di coraggio,
finirono di persuadergli a non allentare i freni al popolo. Infatti
nessuna concessione avrebbe potuto riconciliare questo col re.
L'antitesi politica era insolubile: o il regno napoletano sorpassando il
Piemonte nella politica nazionale avrebbe mirato alla conquista
d'Italia, o contraddicendovi indietreggerebbe fatalmente nella reazione.
Il dilemma storico si era troppo rasserrato per consentire ancora il
vecchio gioco degli espedienti.

Re Ferdinando parve accorgersene, ma non reggendo più al peso della
stessa sua reazione, consentì alla deportazione di molti fra i più
illustri prigionieri, per chiudersi nel castello di Caserta incalzato da
inconfessabili terrori. Napoli e tutto lo stato rimasero alla mercè
della più ignobile delle polizie.


                                  Stato pontificio.

E di polizia era il governo papale, piuttosto soffocato che sorretto
dalla doppia occupazione francese ed austriaca.

Caduta la republica romana, mentre i più nobili rivoluzionari
riprendevano in esodo più doloroso la via dell'esilio, il generale
Oudinot assunse nella città la dittatura militare. I suoi primi decreti
scioglievano governo, assemblea, guardia nazionale, circoli: intimato il
disarmo a tutti i cittadini, soppressi i giornali, vietata ogni
adunanza. Poichè l'odio popolare irritato dalla burbanza francese
prorompeva a coltellate, furono prese le più severe misure, sostituendo
i tribunali militari agli ordinari pei delitti politici. Roma pareva
conquistata. Il papa sempre chiuso nella fortezza di Gaeta non
affrettava il ritorno; poi da Portici diramò una enciclica, nella quale,
calunniando bassamente gli uomini della republica, vantava con ingenua
senilità la crociata cattolica, che lo rimetteva sul trono contro la
volontà dei propri sudditi. Infatti 256 municipii, e fra questi i
maggiori, avevano per un ultimo afflato rivoluzionario protestato contro
la reintegrazione politica del papato. A riordinare lo stato, imitando
inconsciamente la republica, fu delegato un triumvirato di cardinali,
che il popolo dalla veste e dal sangue versato chiamò rosso: lo
componevano i cardinali Della Genga, Vannicelli ed Altieri. Intanto
nelle Provincie settentrionali i generali austriaci con irresistibile
tracotanza s'erano impadroniti d'ogni potere e satrapeggiavano; delegati
e prolegati pontifici strillavano indarno all'esautorazione; il
cardinale segretario Antonelli, favorevole un tempo alle riforme piane,
lasciava correre per castigare più acerbamente le ribelli popolazioni
togliendo loro per sempre la voglia degli statuti. A Bologna il generale
Gorzkowsky arrestò e multò di duemila scudi il senatore Zanolini ed
altri diciotto consiglieri, perchè dopo aver protestato contro la
violenza di siffatta ristorazione clericale chiedevano la conservazione
dello statuto. E questa rappresentanza comunale, punita come
rivoluzionaria dagli austriaci, era la stessa che poco prima aveva
mandato a Gaeta una deputazione a pregare il pontefice di scegliere
Bologna a nuova capitale. Ciceruacchio, suddito pontificio, era già
stato fucilato dai tedeschi nel Polesine; Ugo Bassi, barnabita
garibaldino, anima gentile di poeta e di tribuno, caduto a Comacchio in
mano dei gendarmi papalini e consegnato da questi al comandante
austriaco, venne fucilato a Bologna. Una reazione spaventosa desolava le
Provincie: preti e tedeschi inseverivano, quelli per odio alle passate
rivoluzioni, questi per necessità di conquista. Giammai l'autorità del
pontefice sulle proprie terre era stata più oltraggiata.

Intanto il governo francese insisteva perchè il papa concedesse qualche
libertà ai proprii popoli. Luigi Bonaparte, intento a prepararsi il
trono d'imperatore ma costretto a nascondere il vero scopo della
spedizione francese a Roma davanti agli assalti della sinistra
parlamentare, alla testa della quale tuonava terribile la voce di Victor
Hugo, mandava per nuova lustra diplomatica il colonnello Ney al generale
Rostolan, succeduto all'Oudinot, perchè avvisasse ad impedire le
trascendenze papali. I legati francesi alla conferenza di Gaeta dovevano
intanto chiedere al papa amnistia generale, amministrazione laica,
codice napoleonico e reggimento liberale.

Era la stessa impossibilità, per la quale Pellegrino Rossi era morto.

Naturalmente non ne fu nulla. Il papato, che lasciava trascendere gli
austriaci nella repressione, inalberò ai consigli liberali di Francia,
pei quali avrebbe dovuto ricominciare l'assurda prova delle riforme.
Luigi Bonaparte, che a diventare imperatore aveva d'uopo sopratutto
dell'appoggio dei clericali francesi, non osando guastarsi col papa
finse di accontentarsi «delle istituzioni municipali, provinciali e
governative, che nel vero interesse da cui Sua Santità è animata pel
bene de' suoi sudditi» Pio IX era disposto ad accordare.

Un _Motu proprio_ bandito da Portici (12 settembre 1849) le rivelò.

Erano un Consiglio di Stato consulente in materia di legislazione e di
amministrazione, e una Consulta di finanza senz'altro ufficio che di
dare pareri; si mantenevano i consigli provinciali, da cui il principe
estraeva i consultori di finanza; si confermavano le rappresentanze
comunali eleggibili da cittadini di un dato censo, e queste
rappresentanze compilavano le liste per la scelta dei consiglieri
provinciali; si promettevano riforme nell'ordinamento giudiziario e
nella legislazione civile, criminale ed amministrativa da proporsi da
una commissione all'uopo nominata; ultima veniva un'amnistia a tutti
coloro «i quali dalle limitazioni, che verranno espresse, non rimangano
esclusi da questo benefizio». Si ritornava così press'a poco ai tempi
anteriori allo statuto. Il triumvirato rosso, incaricato delle
limitazioni all'amnistia, ne escludeva tutti i membri del governo
provvisorio e dell'assemblea costituente, del triumvirato e del governo
della republica, i comandanti le milizie e coloro che compresi nella
prima amnistia, avevano partecipato «agli ultimi rivolgimenti».
Nullameno erano tolti agli amnistiati gli uffici governativi,
provinciali e comunali. Nessuno dei colpevoli rimaneva quindi degno di
perdono. Dopo i rivoluzionari dovettero esulare i moderati neo-guelfi,
che più avevano osteggiato la republica: Mamiani, Galeotti, il padre
Ventura ricalcarono le orme di Mazzini, di Garibaldi e di Saffi.
Consigli di censura improvvisati per vagliare la classe degli
stipendiati così dello stato come delle provincie e dei comuni
soffiarono il terrore persino nelle file dei servitori della reazione:
la republica romana aveva rispettato il clero, la reazione papale gettò
cinquanta preti nelle prigioni di Castel Sant'Angelo rei di liberalismo,
e a Bologna e più tardi a Mantova si macchiò del loro sangue.

Per contraccolpo in quest'assenza di governo e giovandosi delle ostilità
delle popolazioni alla polizia papale e alle truppe straniere
pullularono bande di masnadieri nelle provincie: una di esse guidata da
un tal Passatore potè impunemente assaltare villaggi e cittaduzze;
l'anarchia crebbe poi; la legge stataria bandita dal maresciallo Thurn
governatore civile e militare delle quattro legazioni, statuendo che il
rapporto poliziesco dovesse servire di base ad ogni inquisizione pel
delitto di ritenzione o porto d'armi, annullò qualunque procedura
giudiziaria, mentre un proclama del generale Pfanzelter stabiliva unica
pena al giudizio statario la morte e di morte puniva persino la
ritenzione d'armi. Contro questi eccessi la corte papale volle indarno
protestare; la violazione austriaca più violenta di ogni negazione
rivoluzionaria, passò oltre. Lo stesso vescovo di Cesena si vide negato
il diritto di tenere le armi nel proprio palazzo, poco prima
saccheggiato da una banda di ladri; ai condannati a morte non si
concedeva nemmeno il tempo necessario per le pratiche religiose.

Le esorbitanze austriache provocarono le francesi: il generale Baraguay
d'Hilliers (11 febbraio 1850) ordinava la fucilazione immediata di
chiunque fosse in Roma trovato armato di coltello o d'altra arma; non si
riconoscevano più nè cittadini nè sudditi. Soldati stranieri imperavano
uccidendo senza legge e senza misura: la crociata cattolica finiva alla
peggiore delle invasioni. Finalmente il papa ritornò accolto freddamente
malgrado tutti gli sforzi teatrali del clero e dell'aristocrazia, ma più
che il rimpianto della republica il popolo significava così il proprio
odio per la tirannide soldatesca di Francia. All'ombra di questa il
governo pontificio si riattivò nell'antica maniera piuttosto rimescolata
che riordinata dalle riforme piane: il cardinale Antonelli fu
onnipotente, i prelati ripresero tutte le funzioni politiche, pochi
laici, e questi pessimi, si aggiunsero loro. Si apersero come a Napoli
processi politici, s'inventarono congiure per spaventare il papa, che le
credette, mentre alcune erano tutt'altro che false. Si gettarono ladre
accuse sui commissari di finanza della republica, si condannò nel capo
Calandrelli triumviro dell'ultim'ora tentando infamarlo coll'accusa di
furto e colla grazia, si ghigliottinò un preteso uccisore di Pellegrino
Rossi dopo un'incredibile istruttoria, nella quale su prove segrete e
testimonianze anonime si affermava la complicità di moltissimi uomini
politici. Il ghigliottinato, certo Sante Costantini, lo fu «perciò che
dalle deposizioni dei testimoni (anonimi) si raccogliesse che il sicario
fosse per vari connotati a lui somigliante».

La viltà di questa reazione aiutava il latente lavoro delle sètte
riordinate dal comitato nazionale di Londra. A Roma le dirigeva Giuseppe
Petroni, oscuro avvocato che diciotto anni di carcere magnanimamente
sofferti ricusando ogni grazia, resero poi illustre; senonchè l'opera
settaria, ammirabile di sagacia e di costanza, non potè produrre
risultati sotto la pressione della doppia occupazione tedesca e
francese. Alcuni giovani delle Romagne insorti pei moti di Milano nel
febbraio del 1853 finirono miseramente nelle carceri senza raggiungere
nemmeno l'onore di uno scontro. L'isolamento prodotto intorno al governo
pontificio divenne però tale da strappargli in una nota diplomatica alla
cancelleria tedesca la confessione umiliante «che il governo di Sua
Santità in un momento supremo si troverebbe in seno della sua stessa
capitale abbandonato all'odio delle passioni, che cospiravano alla sua
perdita».

Intanto che l'autorità politica del papato cadeva così basso, la sua
monarchia spirituale cresceva. Al vasto e simultaneo atteggiarsi
sovranamente della democrazia in Europa la più antica e profonda
autorità religiosa rispondeva per la legge dei contrasti con un
accentramento, che rinsaldando la fede nelle coscienze cattoliche
permettesse di resistere alla nuova guerra universale indetta con
miglior disciplina e maggior coerenza di programma contro la chiesa.
Nella gerarchia ecclesiastica, un tempo così democratica e sviluppatasi
poi monarchicamente, il papato con una ultima audacia stava per
sopprimere la funzione legislativa dell'episcopato. L'occasione fu porta
dal dogma dell'Immacolata Concezione, ultima ascensione della donna
pareggiata nel cristianesimo all'uomo con questa immunità dal peccato
originale in Maria. Pio IX dopo un'enciclica a tutti i vescovi per
interrogarli sul nuovo dogma, lo definì alteramente di propria autorità:
il pontefice assorbiva così il Concilio; tale proclamazione sovrana di
un dogma conduceva all'altro dell'infallibilità personale.

All'infallibilità democratica del suffragio universale il cattolicismo
doveva rispondere con quella del papa: dogma contro dogma, legge storica
contro legge divina, verità umana contro verità soprannaturale.

Quindi i gesuiti fondarono una grossa rivista col titolo di _Civiltà
Cattolica_ per combattere questa nuova guerra del papato, ma libri e
giornali sorsero terribili di forza e di destrezza contro di loro. I
gesuiti poveri a scrittori e a pensatori ressero male all'assalto: il
genio, che li aveva assistiti contro la Riforma, li abbandonò contro la
rivoluzione: parvero piccoli in faccia al pensiero tedesco, deboli
davanti alle invettive francesi, malvagi in confronto del patriottismo
italiano. La politica moderna li sorprese colla necessità delle scienze
da essi oppugnate o limitate: la loro dottrina non fu più che
un'erudizione, la loro abilità divenne inutile contro popoli sovrani,
che eleggendo e controllando pubblicamente i propri governi riducevano
la destrezza a qualità secondaria. La loro guerra al Piemonte per le
leggi ecclesiastiche sembrò una recriminazione del passato contro il
presente, il loro servilismo all'Austria li infamò nella coscienza del
popolo insofferente di tirannide straniera, la loro deificazione del
pontefice e del principe nel papa persuase ai più la necessità di
frenare nel cattolicismo i troppi eccessi idolàtrici. Infatti nel clero
italiano crebbero le diserzioni. Già Rosmini, Gioberti, Ventura, erano
colpiti d'anatema; molti preti avevano predicato la rivoluzione, ed
erano morti per essa; altri si disponevano a morire. L'abbiezione del
governo pontificio in tanto splendere di progresso nei governi europei e
nei più giovani governi d'America diventava irrefutabile accusa alla
politica papale: la sudditanza del pontefice all'Austria e alla Francia
per scopi antinazionali dava ragione ai liberali, che affermando
l'incompatibilità del principato ecclesiastico col civile, offrivano al
papato ogni libertà spirituale in cambio dei poteri politici.

Al Congresso di Parigi (1856), un anno prima che cessasse la
giurisdizione militare straordinaria nelle quattro Legazioni, il conte
di Cavour in un _Memorandum_ sulle condizioni miserrime dello stato
pontificio osò insistere sulla necessità di stralciarne qualche
provincia e di costituirla autonoma. Quantunque il momento e la
circostanza fossero ben scelti dall'abile ministro piemontese, la sua
proposta era troppo falsa e prematura per riuscire: però il congresso
ascoltò simpaticamente quelle rimostranze di uno statista conservatore,
e lord Clarendon rispose per tutti definendo il governo papale «un
obbrobrio per l'Europa».

Ad un congresso europeo il papa era dunque politicamente trattato peggio
del sultano: questi era ancora necessario all'Europa come portinaio
dell'Asia, quegli non era più che un ostacolo putrido all'imminente
rivoluzione d'Italia che affrettando l'altra della Germania doveva
distruggere in Europa il secondo impero napoleonico e spostare le basi
dell'impero austriaco.


                                  Granducato e ducati.

Nei granducato di Toscana l'invasione austriaca aveva dilagato peggio
che nelle provincie pontificie, riducendo il sovrano a zimbello di
quella medesima protezione, che sembrava assicurargli il trono. Già
dalle prime ore questi aveva tentato far credere che le milizie
austriache fossero entrate come a sua insaputa, ma il generale D'Aspre
dietro istruzioni della cancelleria imperiale tendenti ad annullare
nella propria influenza ogni potere italiano lo aveva violentemente
sbugiardato, annunziando da Empoli in un proclama, come l'intervento
militare dell'Austria fosse stato chiesto dal principe medesimo. I nuovi
ministri assumendo il potere, mentre gli austriaci entravano in Firenze,
si trovarono di fronte il problema insolubile di conservare lo statuto
secondo le promesse del granduca, dopo che questi aveva spontaneamente
invocata la invasione straniera. Nullameno gran parte del popolo si
cullava ancora in tale illusione prodotta dalla reazione trionfale dei
più illustri moderati contro la dittatura del Guerrazzi. Fra i nuovi
ministri Jacopo Mazzei, il migliore per ingegno, era in buona fede e si
dimise nobilmente, quando il duca traendosi alla fine la maschera, abolì
lo statuto. Intanto il D'Aspre raddoppiava d'improntitudini: quasi a
vendetta di non poter porre Firenze in istato d'assedio aggravò la mano
su Prato, Pistoia, Arezzo, vi disarmò la guardia nazionale, vi proclamò
la legge marziale. Il ritorno del principe da Gaeta, augurato come pegno
di miglioramento, peggiorò la situazione, giacchè questi non abbastanza
sicuro col presidio austriaco mise il bavaglio alla stampa, sottrasse
alla corte d'assise i reati di stampa, impose eccessive cauzioni per la
pubblicazione dei giornali. Quindi ridusse a forza di limitazioni il
concesso indulto pei reati di maestà ad una ignobile ipocrisia
coll'escludere quanti avessero partecipato al governo provvisorio dall'8
febbraio al 12 aprile, o contro i quali fossero già cominciate le
inquisizioni criminali; decretò onoranze ai generali austriaci «per gli
utili servigi resi alla sua causa» e una medaglia col motto -- Onore e
fedeltà -- pei cittadini, che avevano favoreggiato la restaurazione.
Molti però fra gli stessi moderati ricusarono coraggiosamente la
vergognosa decorazione.

Prima preoccupazione del ristabilito governo fu di limitare il tempo e
lo spazio all'occupazione del D'Aspre; ma la cancelleria imperiale
rispose sbraveggiando e pretendendo che la cessazione dell'intervento
dovesse dipendere dall'assenso dell'imperatore. A giustificazione di
tale pretesa s'invocava con incredibile sofisticheria il trattato del
1735, già annullato dal diploma imperiale del 1763 e dagli stessi
trattati del 1815 contenenti le più esplicite affermazioni
sull'autonomia della Toscana. Per resistere a tanta pressione il
granduca non avrebbe avuto altro mezzo che di mantenere lo statuto e di
reclamare a tutti gli altri governi d'Europa, gelosi della troppa
influenza austriaca in Italia; ma la fatalità della reazione lo spingeva
invece ad abbandonarsi prigioniero nelle mani dell'Austria e del clero.
Per irresistibile logica d'interesse Leopoldo preferì quindi essere
vassallo dell'impero, da cui avrebbe pur sempre ritratto qualche
apparenza di potere, a mettersi principe costituzionale nella
rivoluzione, che avrebbe dovuto sagrificarlo al conseguimento dell'unità
nazionale.

E lo statuto fu abrogato. Si cominciò dal contrarre arbitrariamente un
prestito con cedole fruttifere ed estinguibili per sorteggio nel periodo
di 26 anni, guarentite sullo spaccio dei sali e tabacchi: poi si trattò
di concedere qualche franchigia ai comuni, ma l'Austria rispose alle
istanze del governo toscano con proposizioni così equivoche di aiuto
materiale e morale a tutti i governi italiani nell'interesse della causa
loro comune con essa che per timore di nuove soperchierie anche nelle
amministrazioni comunali se ne dovette deporre il pensiero. Allora la
reazione non ebbe più freno: si crebbero i tribunali straordinari, si
riarmò di tutte le possibilità dell'arbitrio la polizia, s'imposero e si
aumentarono le tasse a capriccio, non si abbonarono nè si restituirono
le anticipazioni fatte dai cittadini sotto promessa di restituzione;
s'impegnarono le proprietà dello stato, e si creò un debito di trenta
milioni. Trenta milioni circa finì per costare l'occupazione austriaca
sino al 1857. Un editto del 25 aprile 1851 dava facoltà ai consigli di
prefettura di relegare in un'isola o in una fortezza chiunque fosse
sospettato di trame contro l'ordine pubblico. Per la convenzione
stipulata coll'Austria il 20 maggio 1850 le truppe di occupazione in
Toscana dipendevano dal comando generale di Verona e dovevano essere
mantenute dal granduca ridotto a subalterno di Radetzky; il diritto di
amministrare la giustizia, il diritto di vita e di morte e persino
quello di grazia venivano esercitati dagli ufficiali austriaci sui
cittadini toscani. A Livorno il comandante puniva i reati comuni,
secondo il codice militare austriaco, colla pena di morte da tanti anni
soppressa nelle leggi leopoldine, si battevano colle verghe persino gli
adolescenti, i soldati tedeschi si ricusavano di comparire come
testimoni ai tribunali toscani. Radetzky graziò della vita trenta
condannati livornesi senza consultare nè il granduca, nè l'imperatore.

Nell'inesauribile crescendo della reazione alla convenzione coll'Austria
successe il concordato colla Chiesa, abolendo tutte le guarentigie
leopoldine del secolo passato col pretesto di armonizzare le leggi
civili colle religiose. Così l'autorità civile perdeva il diritto di
sindacare l'esercizio abusivo della giurisdizione canonica episcopale,
riconosceva esclusivamente ai vescovi la facoltà di giudicare delitti di
apostasia, eresie e simili, e s'obbligava ad applicare le pene criminali
da essi inflitte sino a quella di morte se venisse ristabilita. E lo fu
con editto del 16 novembre 1852, come corollario dell'abolizione dello
statuto. L'autorità secolare avrebbe quindi dovuto mandare al patibolo
qualunque condannato a morte per eresia con sentenza vescovile; e mentre
pei laici giudicati dal clero la legge era tanto inesorabile, pei preti
venivano tolte le pene corporali, e si assegnavano speciali prigioni. Di
demenza in demenza il granduca per suggestione del confessore dichiarò
inalienabile il patrimonio della Chiesa e proibita la stampa delle opere
di Lodovico Muratori.

Un attentato in pieno giorno alla vita del Baldasseroni, presidente del
Consiglio, che ne uscì lievissimamente ferito, provocò con nuovi rigori
l'espulsione di oltre un migliaio di fuorusciti politici: una pia
dimostrazione in Santa Croce (29 maggio 1851) con grande concorso di
popolo recante corone alle lapidi dei caduti a Curtatone e a Montanara
trasse la gendarmeria a far fuoco sul popolo, e il governo a decretare
si togliessero dalla chiesa le lapidi, che poi la pietà e lo sdegno
degli esuli riprodussero a Torino col permesso del municipio sotto i
portici del palazzo di città.

Intanto nella febbre di congiure, che ardeva tutta Italia provocando
nuovi martirii di illustri patrioti, qualche crollo impauriva pure la
Toscana, ove la mitezza remissiva della popolazione e la forza delle
truppe straniere occupanti consigliavano anche ai più caldi un'attesa
prudente di futuri rimpasti italici per opera specialmente del Piemonte.
Alcuni tentativi nella Lunigiana parvero piuttosto scorribande di
fuorusciti che levate di ribelli; le indomabili agitazioni di Livorno,
se mantennero vivo l'odio allo straniero e le speranze del patrio
riscatto, non crebbero eventi e non produssero risultati politici.

Lo stesso enorme processo fatto al Guerrazzi dopo tre anni di carcere
per reato di lesa maestà con sfarzo di testimoni e di prove che gli
diedero l'effimera e chiassosa importanza di uno spettacolo teatrale,
conchiuse meglio contro il fiero tribuno che contro il fedifrago
granduca; giacchè quegli nella propria Apologia volendo dimostrare di
aver solamente inteso alla restaurazione del principato, dopo che i
fautori della repubblica lo avevano atterrato, discese più basso di
questi, che nel tradimento alla rivoluzione poteva almeno pretendere
alla scusa di difendere la propria Casa. In fatti il granduca con abile
diversione, dopo i molti rigori commutando la lunga pena dell'ergastolo
al Guerrazzi e a' suoi correi Montanelli, Mazzoni, Mordini e Modena in
quella del bando, si mostrò più bonario principe che il Guerrazzi
medesimo non si fosse provato sincero rivoluzionario e saldo statista.

La restaurazione toscana prima soggiaciuta, poi volontariamente
prosternatasi all'Austria ed al clero, non potè assimilarsi alcuna idea
della vinta rivoluzione, ma rinculando fatalmente nella storia
indietreggiò di quasi un secolo col tradimento della grande tradizione
leopoldina. Il suo governo si restrinse a soli due compiti, frenare
colla polizia l'insofferenza liberale del popolo e persuadere a Vienna
lo sgombro delle milizie imperiali dal granducato. Questo le fu concesso
nel 1855, quando le finanze del piccolo stato impoverite non reggevano
più a tanta spesa. Quindi il granduca restava colle sole armi della
polizia e delle truppe indigene, che nullameno valsero a tenere in
rispetto il popolo persuaso di un pronto ritorno degli austriaci a
qualunque moto rivoluzionario.

La mollezza toscana mantenne la pace nel granducato. Solo Livorno tentò
nel 1857, per la tragica spedizione di Pisacane a Sapri, una sommossa
contro la quale bastarono le soldatesche granducali. Della brutta
giornata di sangue, il Bargagli, governatore della città, annunziava
l'esito ai cittadini in proclama, ammonendo che «coloro i quali
resisterono e furono sorpresi colle armi alla mano ne pagarono il fio
colla morte».

Più trista e più feroce la reazione di Carlo III a Parma faceva parere
tollerabile il governo toscano.

Carlo Lodovico di Lucca, divenuto per diritto di riversibilità signore
di Parma alla morte di Maria Luigia e allo scoppio della rivoluzione,
aveva finto sul principio di secondare la guerra nazionale mandando al
campo di Carlo Alberto il proprio figlio, che invece fu sorpreso
fuggiasco e travestito vilmente verso Mantova e ricondotto a Milano, ove
il governo provvisorio lo relegò guardato a vista in un albergo. Ma
spaventato poi dalla piega degli avvenimenti Carlo Lodovico era fuggito
delegando ogni potere ad una reggenza concordata col municipio.
All'armistizio Salasco il conte Thurn occupò militarmente i ducati e vi
rispettò la guardia nazionale, la costituzione e le leggi emanate dal
governo autorizzato da Sua Altezza Reale; questi invece qualificò
d'intrusa la reggenza e ne cassò tutti gli atti. Sciaguratamente per
l'Italia non era questa la prima volta che conquistatori stranieri vi si
erano mostrati migliori dei principi indigeni.

Poi cedendo alla propria natura di volgare libertino Carlo Lodovico, con
manifesto datato da Weisstropp 21 agosto 1848, abdicava in favore del
proprio figlio Carlo III.

Il nuovo principe, vile e sozzo, cadde come una nuova sventura sul
ducato. Il 5 aprile 1849 il generale D'Aspre, invasi i ducati, vi
componeva sotto la propria dipendenza due giunte, l'una per Parma e
l'altra per Piacenza. Fra i chiamati a farne parte il Lombardini e il
Guadagnini ricusarono, il Cornacchia e l'Onesti, anche peggiori della
propria fama tristissima, accettarono. La reazione fu crudele: i
generali di Radetzky ruinarono sugli insorti; imposto il disarmo;
proclamato lo stato d'assedio; verghe, forche, fucilazioni prodigate a
capriccio.

Carlo III accodato agli austriaci, fece poco dopo il proprio ingresso
solenne, promettendo con insana beffa un nuovo statuto e riconfermando
invece lo stato d'assedio e la legge stataria colla pena infame delle
verghe per qualunque reato potesse parergli politico. Il conte Torök,
gentiluomo austriaco comandante la fortezza di Piacenza, tentò per
misericordia alla popolazione di resistere alla riconferma di queste
leggi, ma il tiranno ricorse al Radetzky che redarguì severamente il
nobile soldato. Istantaneamente la nuova corte formicolò di abbietti
cortigiani e di più turpi ministri sospingenti a peggiori esagerazioni.
Una epilettica smania di assolutismo esagitava quest'ultimo borbonide,
che la corruzione del sangue e la viltà dei tempi resero singolare per
qualche anno. Fondò un ordine cavalleresco e ne insignì primi i
credenzieri del re di Napoli e della regina di Spagna, destituì
lunaticamente impiegati e professori, soppresse l'università, chiuse il
famoso collegio Alberoniano accusandone i padri della Missione di
parteggiare per la rivoluzione; e Roma allora in lotta violenta col
Piemonte per le leggi Siccardiane annuì al sopruso. Quindi prodigò
milioni al teatro e ad inutili fortificazioni in Parma, profuse amnistie
ai peggiori galeotti, tolse ai comuni la nomina dei propri magistrati,
sovvertì tribunali, imponendo loro arbitrarie interpretazioni di legge e
cassando le sentenze. Con inane imitazione di Metternich, che aveva
sguinzagliato contro l'aristocrazia liberale i villani di Gallizia, mutò
l'applicazione della legge stataria nelle campagne, lusingando i
contadini coll'alterare i contratti rurali a loro favore e col proibire
ai proprietari di dare loro licenza senza il consenso del sovrano,
studiandosi d'accendere una guerra civile, nella quale la borghesia
liberale perisse sotto le violenze delle plebi campagnole e cittadine.
Nullameno questa borghesia aveva così poco il senso della propria
dignità che l'Anzianato di Parma ordinava si coniasse una medaglia ad
eternare la memoria dell'avvenimento al trono di Carlo III.

La manìa militare gli fece costituire un corpo di volontari reclutato
tra villani, come i centurioni di Gregorio XVI, per accrescere lo
spavento nei borghesi e dare a lui le soddisfazioni di un generale da
parata. La pena delle verghe, applicata pazzamente da scherani, umiliava
i migliori cittadini: si calcolò che il numero dei percossi salisse al
migliaio, ogni pretesto bastava alla polizia per incrudelire, il
principe ne inventava di atrocemente ridicoli prescrivendo e condannando
fogge e colori di cravatte e di cappelli. Le finanze dello Stato, già
esauste dalla perversa amministrazione, subivano ora l'ultimo malanno
confondendosi con quelle private del principe, che dietro l'esempio del
padre accollava all'erario i propri debiti e attingeva alle casse
pubbliche per le proprie spese più oscene; e, come ciò non bastasse, una
lega doganale contratta coll'Austria finiva di compiere il dissesto del
paese.

Ma avendo poi il duca chiesto all'Austria per mezzo di Tommaso Ward, lo
stalliere fatto barone da suo padre ed ora da lui gratificato del
monopolio gratuito di tutte le miniere appartenenti allo stato e del
grado di ambasciatore a Vienna, che l'impero pagasse al ducato la quota
dovuta sui settantacinque milioni sborsati dal Piemonte per indennizzo
dei danni di guerra, s'intese rispondere sprezzantemente dal principe di
Schwarzenberg che se non si fosse rimesso al beneplacito dell'Austria
verrebbe considerato come potenza belligerante nella guerra passata e
tassato nella proporzione medesima della Sardegna.

Le umiliazioni della doppia tirannide indigena e straniera, e le
provocazioni del duca vagabondante per la città a svillaneggiare le
donne e a percuotere gli uomini col frustino fecero prorompere la
pubblica indignazione. Al solito un popolano si eresse vindice. Certo
Carra, sellaio, lo pugnalò (26 marzo 1854) nella pubblica strada e con
incredibile agilità sfuggì alle guardie, deluse i giudici, riparò in
America. Le parole, colle quali la duchessa vedova annunciava al popolo
«che era piaciuto a Dio onnipotente di chiamare a sè l'amatissimo suo
consorte e sovrano» fecero supporre a molti che essa fosse complice del
regicidio, postume rivelazioni parvero accreditare la diceria senza che
la storia abbia potuto fino ad ora mutarla in vero giudizio.

Morto Carlo III ed assunta la reggenza da Maria Luisa, al governo
violento della gendarmeria ne succedette un altro di frati: nullameno
gl'inizi ne parvero lusinghieri ai popoli angariati. Vennero rimossi
tutti i ministri precedenti ad eccezione del Saldati, meno inviso ma non
troppo migliore degli altri, riaperta l'università mantenendola però
serva nell'insegnamento, tolti i sequestri ai beni dei fuorusciti che
avevano retto lo stato nella rivoluzione, ridotto l'esercito già portato
dalla vanità del defunto tiranno ad oltre seimila uomini, scemate le
spese e la dotazione della corona quantunque la confusione proseguisse
fra i beni di questa e quelli dello stato, restituita una mezza libertà
alla magistratura. Dei nuovi ministri, il Lombardini, buon aritmetico ed
economista retrivo, fiscaleggiava a pro' del tesoro senza sollievo del
paese, il Catani abile gesuitante si destreggiava a corte nell'oblio di
ogni debito di statista, il Pallavicino gentiluomo tronfio e tristo
ubbidiva nel ministero degli esteri ad ogni più umiliante ingiunzione
dell'Austria. Peggiore di tutti un conte Zileri, marito di un'ultima
figlia della duchessa di Berry, madre della Reggente, capitanava la
reazione clericale, aprendo il ducato a frati e a suore d'ogni risma. A
breve andare la corte per influenza della duchessa di Berry, ultima
avventuriera del legittimismo francese, divenne centro d'inani intrighi
contro Napoleone III in favore dell'influenza austriaca in Italia. Il
fermento rivoluzionario di Lombardia, propagandosi ai ducati ed
esplodendo in risse parziali o in vani tentativi di sommossa,
giustificava nella poliziesca politica del governo il mantenimento dello
stato d'assedio. Un moto di mazziniani a Parma (22 luglio 1854),
represso con feroce energia dagli sgherri ducali, insanguinò la città.
Ne vennero sentenze capitali non mai consentite nemmeno da Carlo III,
raffinatezza ed efferatezza che nel popolo meritarono alla duchessa
l'atroce nomignolo di Nerone in gonnella. Infatti resa più crudele dalla
paura, dopo aver richiamato a presidio della capitale nuove milizie
austriache, richiese al maresciallo Radetzky il capitano Kraus,
famigerato uditore dei processi di Mantova, per condurre i nuovi
processi politici, e permise al generale austriaco Crenneville di
assumere la dittatura militare della città con un proclama, nel quale
questi dichiarava unica ragione al proprio nuovo grado l'anzianità sul
generale di Parma, quasi i due eserciti fossero un corpo solo.
Finalmente la duchessa strinse un contratto coll'Austria pel
mantenimento dei propri prigionieri, che processati da uditori austriaci
passavano così nelle carceri del Veneto e della Moravia.

Lo stato di Parma, ridotto a feudo dell'impero austriaco e mantenuto da
questo in soggezione permanente di conquista, aveva quindi perduto con
ogni guarantigia giuridica tutte le poche libertà di quella mezza
autonomia largitagli dai trattati del 1815; ma dopo la guerra del
Piemonte in Crimea e il congresso di Parigi, ove il conte di Cavour potè
per la prima volta, sebbene in falsi termini, porre la questione
italiana, anche nel ducato di Parma la reazione parve diminuire. Nel
1857 gli austriaci lo evacuarono, lasciando la duchessa liberaleggiare
ipocritamente per la speranza di acquistare il vicino ducato di Modena,
riversibile all'Austria per difetto di prole nel duca Francesco V, ad un
possibile rimpasto italiano, se mai la Francia dovesse scendere in
Italia a sostituirvi l'influenza austriaca.

Meno pazzo di Carlo III e meno ipocrita della reggente Maria Luisa,
Francesco V di Modena li superava entrambi nella frenesia del
dispotismo. Ligio all'Austria fino al fanatismo di una affettazione
provocatrice, viveva nel sogno di un'altra Santa Alleanza: legittimista
assoluto non riconosceva politicamente altri trattati che quelli del
1815, altro decreto che la proscrizione dei Bonaparte. Il suo disprezzo
per Napoleone III, del quale grottescamente negò sempre di riconoscere
il governo, trascendeva agli insulti; il suo odio al Piemonte, nel quale
crescevano mirabilmente le speranze di un regno italico, superava anche
la sua avversione al mazzinianismo. La sua restaurazione cominciata coi
soliti tribunali militari diretti da uditori austriaci gettò a centinaia
nelle carceri quanti avevano cooperato col pensiero o col cuore, colle
azioni o colle omissioni alla rivolta del '48. Quelle popolazioni
transappenniniche, che si erano date con libero ed unanime voto alla
Toscana allora mite, e dovettero poi ricadere sotto il suo dominio,
furono anche più tristamente aspreggiate. Ma se il nuovo duca aveva
ereditato dal padre Francesco IV la tirannica intrattabilità e l'istinto
politico, non ne aveva derivato l'ingegno e la coltura. Quindi la sua
intromissione nelle leggi e nei regolamenti ne alterava bestialmente i
modi e le intenzioni, moltiplicandovi le pene, appesantendovi le
procedure, disconoscendo ogni diritto nei sudditi. Non contento d'aver
tradotto nel proprio il codice austriaco coll'efferato corteggio delle
penalità corporali, licenziava i giudici quando le loro sentenze non gli
sembrassero abbastanza crudeli, o li esautorava sottoponendo le loro
decisioni a nuovo esame di corti estere e persino di generali austriaci.

I moti della Lunigiana nel 1853 e 1854 irritarono la sua libidine
d'impero. Quindi, affidato il governo di Carrara al maggiore
Wiederkehrn, famigerato anche fra gli austriaci per l'animo truce, vi
bandì la legge marziale, ordinando che tutti i reati politici vi fossero
puniti di morte e che le deposizioni dei soldati e dei poliziotti
bastassero a farne prova. E molte furono le condanne capitali eseguite,
moltissime quelle di galera a vario grado.

Nessuna libertà doveva regnare nel suo piccolo ducato.

Avaro oltre ogni rapacità, tesoreggiando sull'erario non badava che ad
ammassare danaro; despota minuto sino alla frivolezza e assoluto sino
alla demenza osava bisticciarsi coi maggiori potenti quando accennassero
a concessioni, rimproverava all'Austria di piegare nella guerra di
Crimea alla politica napoleonica, rinfacciava all'Austria e al papa nel
loro disegno di un nuovo patto fra i principi italiani contro
l'espansione irresistibile del Piemonte le poche equivoche espressioni
di franchigie municipali come ne guastassero l'idea. Ma tutta la sua
vanità di tirannello non potè salvarlo dalla rovinosa lega doganale con
Vienna, nè ottenergli dalla grossa debitrice la quota sui settantacinque
milioni sborsati dal Piemonte pei danni di guerra.

L'Austria imponendo le restaurazioni dei principi all'Italia ed
annullando la loro autonomia, spingeva quindi i popoli ad un'altra
rivoluzione, nella quale il problema dell'indipendenza dallo straniero
soffocasse tutti gli altri di libertà.


                                  Lombardo-Veneto.

Le provincie del Lombardo-Veneto, focolare ed agone della guerra,
sopportavano intanto il crescendo di una reazione ignota da molti
secoli. Allo splendido sogno di libertà era seguìto il terrorismo di una
conquista avvelenata da tradimenti di ogni idea e di ogni persona. Se
alla novella che Carlo Alberto aveva denunziato l'armistizio, Brescia,
ripetendo il primo eroismo di Milano, ributtava con subita insurrezione
nel castello le milizie del presidio, presto abbandonata da tutti alla
rotta di Novara espiava la propria estrema passione di libertà sotto la
rabbia di Haynau.

Mille e duecento austriaci perirono nelle sue otto giornate, ma Haynau
fece sembrare mite Radetzky proseguendo il massacro anche dopo la
vittoria. Dodici cittadini furono da lui impiccati per festeggiare la
notizia della resa di Roma.

Poichè la ribellione porgeva pretesto a sospendere quello statuto
imperiale del 1849, che del resto non era mai stato applicato, il
vecchio maresciallo rimase re e tiranno del Lombardo-Veneto. Il suo
indulto del 12 agosto non fu quindi che un'ironia, la quale crebbe di
perfidia nell'altro del 18, giorno natalizio dell'imperatore: nessun
impiegato partecipe della rivoluzione fu conservato o rimesso in
ufficio, sospettati tutti i cittadini, violate le case, conculcata ogni
autorità indigena. Un'oscena guantaia spiega ad un balcone un drappo coi
colori dell'impero e colle cifre dell'imperatore per insultare al
pubblico dolore: il popolo fischia, ma le soldatesche caricano
spietatamente la folla inerme, arrestano cinquanta cittadini, li
sottopongono alle verghe, e Radetzky manda al municipio il conto dei
bastoni rotti, e lo condanna a pagare diecimila franchi alla guantaia.
Milano mormora, freme senza muoversi. L'oppressione aumenta la miseria.
I comuni gravati da una sovrimposta di sei milioni al mese pel
mantenimento dell'esercito vacillano sotto al nuovo peso; nullameno, il
commissario Laderchi-Montecuccoli aggrava ancora la mano sull'imposta
prediale aumentandola del 50%: le estorsioni soldatesche dove non
smungono, soffocano, le nuove contribuzioni sorpassano i cento milioni.
A questi Radetzky aggiunge un prestito volontario di centoventi milioni
per levare dalla circolazione quegli altri settanta in biglietti del
tesoro emessi dal governo a carico del Lombardo-Veneto, e lo cambia
tosto minacciando in prestito forzato. La sua prepotenza arriva a tale
che suscitando gelosie nella cancelleria di Vienna si spera per un
momento il suo ritiro dal Lombardo-Veneto; ma l'imperatore protegge il
vecchio maresciallo. Appena appena si toglie l'intendenza generale
dell'esercito d'Italia come uno strettoio guastatosi nella violenza
della fretta.

Però dopo la rivoluzione tutto è mutato nelle provincie. La coscienza
nazionale ridestatavi dall'insurrezione, dai governi provvisori, dalla
guerra, dalle adesioni al Piemonte, cresciuta a fede nei disastri, resa
superba dagli eroismi prodigati, si contrappone alla coscienza imperiale
coll'energia di un odio che nulla verrà più ad estinguere. Poichè
l'Austria tratta le provincie come terre conquistate, esse accettano
quel trattamento come una sfida.

Invano la cancelleria imperiale misurando l'improvvisa profonda ampiezza
di tale distacco, nel pauroso presagio di future insurrezioni, vorrebbe
incorporare il Lombardo-Veneto nella federazione germanica. Inghilterra
e Francia vegliano minacciose, e il disegno fallisce. L'Austria deve
restar sola contro l'Italia, nella quale ha unificato e reso straniero
il dispotismo: il duello fra le due nazioni ricomincia quindi come
preparazione a nuova guerra. Per ora le speranze italiche non
verdeggiano: la Francia ricaduta sotto l'impero napoleonico, se vieta
all'Austria di fondere nella Germania le proprie conquiste, non accenna
però a contendergliele; l'Inghilterra immutata nella propria politica
mercantile orzeggia al solito fra libertà e dispotismo; Russia e Prussia
coagulate dalla stessa reazione sembrano subire l'influenza viennese. Ma
rimangono all'Italia lo stato libero del Piemonte e l'ideale
repubblicano. Fervono cospirazioni: Mazzini ramingante per l'Europa ha
già costituito un comitato nazionale con un programma apparentemente
neutro, nel quale la questione dell'esistenza nazionale prende il passo
sulla questione politica della libertà. È come un comizio armato della
nazione combattente per vivere, che precede il comizio togato della
nazione costituente la propria vita. Mentre i moderati fusionisti di
Lombardia coi costituzionali del Piemonte l'oppugnano e gli
ultra-repubblicani lo respingono come un'abdicazione di principii, la
sua opera prosegue e si allarga: dal Piemonte, popolato di esuli, viene
aiuto di uomini e di denaro alle congiure; comitati e sottocomitati
tessono una rete mirabile di resistenza e di sottigliezza intorno ai
governi nemici. Ma le nuove cospirazioni, per quanto meglio ordite delle
antiche, non possono servire che ad accomunare i propositi e a
rinsaldare gli animi per combattere e vincere l'Austria.

Quindi inevitabili imprudenze affrettano sublimi martirii. Le condanne
politiche del 1849 sommarono a 2414, nel primo semestre del solo anno
1851 salirono a 2552. Sciesa popolano di Milano s'immortala col motto:
_Tiremm innanz_, risposto ai carnefici, che conducendolo alla
fucilazione gli promettevano la grazia se discendesse a farsi spia dei
compagni; dopo lui sfila un corteo di eroi, nel quale abbondano i preti.
A Mantova un enorme processo di 150 cittadini con a capo don Tazzoli,
sacerdote illustre di ingegno, santo di cuore, dura due anni e sembra
riattivarsi con sempre nuove condanne capitali. Tito Speri, l'indomito
difensore di Brescia, vi perisce; gli spalti di Belfiore si mutano così
in calvario, cui tutta Italia fisa rabbrividendo lo sguardo. Ma al
terrore risponde la costanza. Milano si prepara sui primi dell'anno 1853
a insorgere: il moto, questa volta più vasto e meglio concordato,
promette una vera rivoluzione. Kossuth, l'illustre rivoluzionario e
dittatore ungherese, vi aiuta, ma impigliata nei soliti dissensi e
controsensi l'insurrezione si risolve in un tafferuglio (6 febbraio) nel
quale periscono poco oltre un centinaio di austriaci.

Le provincie quantunque preparate non si sono mosse.

Queste congiure, da Kossuth lusinghevolmente giudicate capolavori,
durarono lungamente malgrado ogni insuccesso e in alcune di esse si
tentò persino di rapire l'Imperatore durante le sue due visite al
Lombardo-Veneto; ma inutili come conati di guerra poterono solo
rinfocolare la passione nazionale, maturando in Europa la necessità di
una soluzione al problema italico.

L'Austria raddoppiò di rigori; il Piemonte inteso nella propria ambigua
politica a giovarsi bensì delle forze rivoluzionarie, ma riducendole a
docile strumento per non perdere il benefizio dell'iniziativa nel giorno
prossimo alla rivincita, si unì all'Austria nella reazione per
contrastare al moto, e scacciò, imprigionò sulle proprie terre
fuorusciti e rivoluzionari, fece dai propri giornali gettare l'anatema
su Mazzini.

L'Austria supponendo nel Ticino, rifugio di molti rivoluzionari, uno dei
maggiori focolari della fallita ribellione, scacciò di Lombardia per
rappresaglia tutti i ticinesi, bandì proclami terrorizzanti, riconobbe
delitto di alto tradimento anche la mancata denuncia di un
rivoluzionario. Poco dopo un altro decreto poneva sotto sequestro tutti
i beni mobili ed immobili dei profughi politici compresi o non compresi
nella prima amnistia, muniti o non muniti del permesso di emigrare. Era
la spogliazione dopo i supplizi, la rapina alzata a legge di stato. Ma
il Piemonte, che per avere ceduto alla reazione contro i rivoluzionari
era al coperto dalle accuse della diplomazia europea, avendo fin troppo
meritate quelle della democrazia italiana, con abile e pronta manovra
protestò del violato giure internazionale e civile. I trattati di pace
fra Piemonte ed Austria guarantivano gli emigrati, dei quali molti
avevano già acquistato la cittadinanza piemontese. Il _Memorandum_ del
conte di Cavour encomiato da tutte le cancellerie d'Europa fu il primo
funebre rintocco per la cancelleria imperiale: le relazioni fra i due
stati divennero più tese; Revel ambasciatore a Vienna fu richiamato,
mentre le reti delle congiure si riannodavano e il coraggio popolare si
apprestava ad altre sommosse. Poco dopo infatti il maggiore Calvi, uno
dei più prodi difensori di Venezia, tentava una vana insurrezione nel
Cadore, e perdeva la vita sugli spalti di Mantova.

Ma l'impossibilità di durare in siffatta reazione cresceva tutto giorno
anche per l'Austria. Il progresso della questione italica nell'opinione
europea maturava le speranze degli oppressi. La politica del Piemonte,
rivoluzionaria e conservatrice ad un tempo, moltiplicava le difficoltà
alla cancelleria imperiale; la questione d'Oriente, nella quale il
Piemonte con mirabile arditezza era riuscito ad entrare alleandosi alla
Francia e all'Inghilterra e quindi indirettamente anche all'Austria,
costringeva questa a maggior temperanza verso l'Italia; la propaganda
liberale guadagnando anche le classi più alte europee, imponeva silenzio
a molte vecchie pretese e rendeva impossibili certe efferatezze di
governo. Gladstone col definire il governo dei Borboni una negazione di
Dio aveva commosso tutta l'Europa: più tardi Clarendon al congresso di
Parigi dichiarando il governo del papa un obbrobrio per l'Europa,
ratificava la metà del programma, ed assolveva l'altra metà dell'opera
rivoluzionaria; la Prussia s'intrometteva per salvare in Calandrelli
l'ultimo triumviro romano dalle prigioni pontificie, e vi riusciva:
tutte le diplomazie insistevano presso Ferdinando di Napoli per la
liberazione dei più illustri carcerati. La Francia ripresa dal gran
sogno napoleonico accennava da lontano ad un rimaneggiamento delle
dinastie italiche per rimettere due Bonaparte sui troni delle due
Sicilie e d'Etruria, mentre il conte di Cavour, preso nel doppio giuoco
della propria politica, era costretto a secondare; l'Austria s'accorgeva
di restare sola nella vecchia politica d'oppressione. D'altronde la
guerra di Crimea e il Congresso di Parigi avevano già rotto gli antichi
trattati del 1815, spostando la base europea ed aprendo l'adito a nuovi
diritti nazionali.

Anche l'Austria allentò quindi i freni. Prendendo occasione dal
matrimonio dell'imperatore cominciò dall'ordinare (1º maggio 1854) che
lo stato d'assedio cessasse nelle provincie del Lombardo-Veneto, si
restituissero le potestà civili nell'esercizio delle loro giurisdizioni,
e solamente i crimini di alto tradimento fossero deferiti alla corte
straordinaria di giustizia. Questo beneficio non mutò da prima la
pratica arbitraria e crudele, ma ne trascinò altri: le istanze dei
governi crescendo per un più umano trattamento all'Italia, l'Austria
sempre più isolata in Europa si decise ad una riconciliazione colle due
grandi provincie italiane. L'imperatore, che si disse avere inorridito
apprendendo come nei primi tre anni della reazione fossero state
giustiziate nel Lombardo-Veneto 432 persone, mentre dal 1814 al 1848 le
vittime politiche non avevano raggiunto l'ottantina, osò scendere a
Milano. Il popolo rimase freddamente sdegnoso, molti dell'aristocrazia
si prosternarono, i congiurati sognarono ancora una volta di rapirlo.
Però furono ripristinate le antiche Congregazioni centrali, prosciolti
dai sequestri i beni dei proscritti politici, riammessi alla
cittadinanza austriaca quei fuorusciti che la chiedessero, condonate le
pene ai minori reati politici. Il balsamo era troppo tardo e scarso a
così immani ferite. La stessa nomina a vicerè dell'arciduca
Massimiliano, romantica figura di cavaliere, che il breve romanzo di un
altro impero lontano oltre l'oceano doveva poi immortalare nella pietà
della storia, se tolse alcuni attriti meno aspri non mutò negli animi le
tendenze nazionali consacrate da tanti sacrifici.

La reazione col diminuire d'intensità tradiva la debolezza
dell'oppressore: gli oppressi guatavano ardenti.

Già le sofferenze di quest'ultimo periodo avevano in essi migliorato il
carattere. Lo spirito cresciuto a maggiori idee, la coscienza tempratasi
a magnanimi fatti, li rendeva incalcolabilmente dissimili dagli italiani
del '21 e del '31, sudditi pigri ed ignari, piuttosto sorpresi che
partecipi ai moti tentati da pochi audaci. L'italianità sfaccettata
dalla rivoluzione del quarantotto nella molteplicità dei propositi e
degli esperimenti costituiva ora il fondo di tutte le coscienze: persino
coloro, che per abbiezione di anima parteggiavano per governi tirannici
o stranieri, avevano d'uopo d'affermare l'impossibilità materiale di uno
stato italico per giustificare a se medesimi e agli altri il proprio
tradimento.

Lo sviluppo dell'industria, del commercio e quindi della democrazia,
cresciuto colle ferrovie, colle scienze e le loro applicazioni, uggiva
le barriere interne reclamando leggi civili ed economiche inconciliabili
col dispotismo. L'aristocrazia, disonoratasi come classe, corteggiando
principi, Austria e papa, si redimeva nella publica estimazione con una
mirabile eletta di volontari nella rivoluzione che vi recavano con molta
elevatezza di sentimenti un'abile temperanza di propositi e un ricco
tesoro di studi; la borghesia precipuamente impegnata nella lotta vi si
accaniva per conquistare il dominio della nazione nella sua
emancipazione; il popolo inerme ed oppresso da principi, da stranieri e
dai privilegi delle due classi superiori si manteneva bello
d'incondizionato sacrifizio nella propria parte migliore. Il clero vile
parteggiava per tutti gli oppressori condannando quei sacerdoti che
sorgevano a pro' della patria e vi salvavano la religione dall'odio
universale.

Si presentiva oscuramente un'altra rivoluzione.

La grande unificazione prodotta dall'uniformità della reazione, nella
quale il Piemonte si era fatto in più di un caso difensore di tutti,
parlando audacemente a nome della nazione, spingevano inconsciamente al
sogno di un grande regno italico, ma le tergiversazioni della sua
politica ravvivando con odiose persecuzioni ai liberali le diffidenze
contro la monarchia lo intorbidavano, mentre i republicani seguitavano a
predicare la necessità di una insurrezione simultanea su tutti i punti
della penisola.

L'Italia invece non se ne sentiva capace.

La rivoluzione del quarantotto le aveva dato colla misura dell'energia
rivoluzionaria anche quella della potenzialità militare. Ora l'Austria
più forte di prima e accordata con tutti i principi indigeni contava
seicentomila soldati, e teneva in mano tutte le fortezze: il Piemonte,
per quanto miglioratosi negli ultimi anni e specialmente nell'esercito
colla guerra di Crimea, non poteva da solo affrontare l'immane colosso.
La predicazione rivoluzionaria sostenuta da Mazzini non bastava a
scaldare i cuori così che tutti gli italiani capaci di guerra
insorgessero unanimi: l'Italia non aveva fatto e non farebbe rivoluzioni
come quelle di Spagna e di Grecia, giacchè la sua nazionalità non avendo
mai avuto nel passato alcuna unità non poteva produrre quegli
irresistibili scoppi, davanti ai quali Napoleone I e il Sultano avevano
dovuto egualmente ritirarsi; al contrario la nazionalità essendo lo
scopo della rivoluzione e la nazione dovendo in essa ricrearsi, per ora
l'idea non ne appariva veramente chiara che agli alti spiriti e ai più
magnanimi cuori. Il volgo vi si associava nell'istinto.

Nella rivoluzione del quarantotto i rivoluzionari, per essere troppo
scarsi di numero, avevano dovuto disimpegnare contemporaneamente le più
disparate funzioni, prima cospiratori, poi insorti, tribuni, soldati,
commissari, deputati, ambasciatori, ministri: quindi incomparabili di
virtù avevano spesso sbagliato di metodo, ingannandosi sui mezzi,
fuorviando dalla meta, trovando più ammiratori che seguaci, riuscendo
più ammirabili che imitabili.

Un'altra rivoluzione colle sole forze della rivoluzione era dunque
impossibile. Già Garibaldi aveva accettato il programma di Manin --
Italia e Vittorio Emanuele -- disapprovando gl'inutili tentativi di Parma
e del Carrarese, confessando così, egli il più valoroso, l'incapacità
guerresca dell'Italia. Infatti l'entusiasmo di tutti pel Piemonte
copriva non solo un'abdicazione d'iniziativa rivoluzionaria e dei
pericoli da essa inseparabili, ma nell'accettazione della sua monarchia
rivelava la diffidenza nei più per una rivoluzione puramente
democratica; mentre il Piemonte medesimo, accettando di essere primo in
Italia, non si sentiva abbastanza forte per combattere solo, e non era
abbastanza generoso per sorpassare il proprio vecchio disegno di
conquista su tutta la valle del Po.

Malgrado il programma di Manin e l'opera del conte di Cavour l'idea
dell'unità nazionale non aveva ancora schiarito nella coscienza pubblica
la propria forma politica.




CAPITOLO SECONDO.

La preparazione Piemontese


                                  Prime difficoltà parlamentari.

Forma dell'unità nazionale italiana doveva essere la monarchia
piemontese.

I suoi inizi dopo la rotta di Novara erano stati lugubri: invaso il
territorio, l'esercito disfatto, Carlo Alberto costretto ad abdicare e
ramingo, il nuovo re trascinato al campo del maresciallo per ratificare
un armistizio umiliante, la democrazia italiana e piemontese tumultuante
di sdegno magnanimo ed inconsulto, i popoli sfibrati e diffidenti, tutta
l'Europa ostile ed in preda ad una reazione trionfante. Il nuovo re non
isbigottì: valoroso nelle battaglie, parve anche più intrepido nella
sventura. Le sue prime parole raccogliendo la corona insanguinata sul
campo di una delle più grandi sconfitte toccate al Piemonte furono un
giuramento di fedeltà alla nazione, superbo in quell'ora come una sfida
gettata al nemico vittorioso. Mentre tutti i principi trascinati nella
più abbietta reazione stracciavano gli statuti accettando persino di
essere preteriti nei feroci proclami dei generali austriaci, Vittorio
Emanuele II con abile intuizione affidava la gloria del proprio regno
all'inviolabilità di quelle istituzioni, che suo padre aveva concesso a
malincuore e avrebbe forse finito coll'abrogare.

Ma i rancori lasciati nei liberali dai tradimenti di Carlo Alberto
tolsero nella sfiducia di quel momento angoscioso di ammirare la prima
dichiarazione del nuovo re. Genova eccitata dai più ardenti fra i
patriotti proruppe a ribellione: Giuseppe Avezzana che doveva poco dopo
illustrarsi a Roma come ministro della guerra, ne fu il capo; gli
antichi odii di rivalità fra la grossa metropoli ligure e la forte
capitale piemontese rifermentavano avvelenando lo sdegno popolare per la
capitolazione di Novara senza bastare nullameno a una proclamazione di
distacco dal Piemonte; Torino stessa, agitata da troppe passioni
democratiche, pareva vogliosa d'insorgere all'appello dei republicani,
che incorreggibili nella rettorica quanto indomati nel coraggio
promettevano una nuova guerra popolare. La sollevazione genovese
degenerò in guerra civile: il presidio piemontese fu bloccato, fatto
prigione, cacciato, ma il generale Lamarmora accorrendo colla divisione
più vicina sopraffece i ribelli, indarno fiduciosi d'aiuti dal generale
Fanti. Al disastro di una guerra perduta contro lo straniero
s'aggiungeva così la sciagura di un eccidio fraterno. La città
bombardata, sottoposta a stato d'assedio fu desolata da condanne:
l'amnistia che successe a queste, non esentò nè tutti i più illustri nè
tutti i più innocenti.

Parve che il Piemonte pure avvallasse nella reazione universale.

Infatti il generale De Launay, chiamato a presiedere il ministero,
ispirava per la meschinità aristocratica del carattere e la nota
antipatia agli ordini costituzionali nuove diffidenze. I mali umori
raddoppiavano, i fuorusciti ospitati in Piemonte spingevano a guerra
disperata con diatribe eloquenti a forza di essere passionate, il
sommovimento prodotto in tutte le classi dal doppio tumulto della
rivoluzione e della guerra favoriva il disordine, il parlamento novizio
e composto di novizi, subendo gli influssi della pubblica opinione,
sembrava ubbidire alle irresistibili fluttuazioni d'una marea, nella
quale naufragavano disegni e riputazioni.

Nullameno urgeva anzitutto stabilire le condizioni della pace
coll'Austria. Nessun assetto era componibile mentre gli eserciti nemici
occupavano ancora il suolo della patria, e la possibilità di una ripresa
di guerra permetteva alle reciproche ostilità dei partiti ogni più pazza
o malvagia speranza. Il ministero deputò negoziatori a Milano col
plenipotenziario austriaco barone De Bruck gli ex-ministri Buoncompagni
e Dabormida. Le trattative furono scabre. L'Austria, resa arrogante
dalla vittoria e intesa con abile politica a sminuire il Piemonte per
togliere all'Italia ogni ulteriore speranza di riscossa, pretendeva 230
milioni come indennità di guerra, si restituisse l'antico assetto
territoriale non solo pei propri domini ma per quelli dei duchi di Parma
e di Modena, dei quali si vantava mandataria, si abrogasse la legge pel
sussidio a Venezia ancora assediata e si catturassero tutte le navi
mercantili, che le recassero soccorso. I buoni uffici di Francia e
d'Inghilterra invocati dal Piemonte non bastarono a piegare il
vincitore. Intanto Vincenzo Gioberti mandato oratore a Parigi,
lasciandosi abbindolare dal ministro Drouyn de Lhuys accettava che la
Francia per impaurire l'Austria occupasse militarmente Genova: rimedio
peggiore del male e che al disastro di un nemico ancora accampato sul
territorio della patria aggiungeva l'intervento pericoloso di un nuovo
padrone. Il ministero sardo sostituì il Gioberti col Gallina, che
rifiutata l'insidiosa proposta potè ottenere finalmente dalla Francia
alcune minacce all'Austria, se questa si ostinasse a pretendere
l'annichilimento del Piemonte.

Questo bastò. Alla pubblica opinione sovreccitata dalla incessante
battaglia dei partiti e dal dolore dell'occupazione nemica, che facevano
persino sospettare delle intenzioni del governo, si diè qualche conforto
sostituendo il D'Azeglio al De Launay nella presidenza del ministero.
Nessuno aveva allora in Piemonte tanta popolarità quanta il nuovo
presidente, simpatica figura di gentiluomo e di artista, di soldato e di
politico, che la tormenta della rivoluzione e la seguitane carneficina
delle migliori riputazioni non avevano potuto guastare. Il trattato si
conchiuse: per esso si mantenevano fra i due stati i medesimi confini
stabiliti dal congresso di Vienna, anzi il Piemonte si avvantaggiava
presso Pavia sino al canale Gravellone, l'indennità di guerra era
ridotta a 75 milioni, l'Austria aboliva l'ultima sopratassa del 1846 sui
vini piemontesi e i due stati si promettevano reciprocamente una
prossima convenzione di commercio; otto giorni dopo la ratifica
avverrebbe lo sgombro delle truppe austriache.

L'eroica Venezia veniva abbandonata all'Austria; ai patriotti lombardi
questa prometteva un indulto, e il Piemonte si accontentava di tale
platonica promessa.

Lo stato era salvo, ma l'onore compromesso; nullameno bisognava al
parlamento ratificare il trattato. I comizi erano stati convocati per il
15 luglio, la Camera doveva riunirsi il 30. Malgrado il proclama
abbastanza eloquente e schietto del re le elezioni furono disordinate.
Il publico fermento seguitava a crescere, l'Austria trionfante in
Toscana e a Venezia, la Francia padrona di Roma, la tirannide restaurata
dovunque, i principi fedifraghi insolenti nel ritorno, un lutto di
oppressi, di feriti, di morti per tutte le terre d'Italia, impedivano al
popolo la calma necessaria alle difficili decisioni del momento. La
libertà costituzionale del nuovo stato, non ostante le molte proteste
del governo e i suoi stessi sforzi a mantenerla, non ispirava fiducia;
l'abbandono all'Austria del resto d'Italia nel trattato, avvelenando il
cordoglio dei fuorusciti ricoverati in Piemonte, li spingeva ad eccessi
d'opposizione, che la necessaria ed insieme sospetta resistenza del
governo sembrava giustificare. La nuova Camera elesse presidente Lorenzo
Pareto, già ministro, poi uno dei capi dell'insurrezione genovese; parve
una sfida, ma le bizze vanirono nella rettorica appena sì seppe la morte
di Carlo Alberto; il parlamento sospese le sedute e prese il lutto per
quindici giorni. L'abitudine monarchica vi era dunque più forte del
sentimento rivoluzionario. Poco dopo Giuseppe Garibaldi sbarcato a
Genova, solo, vinto, dopo l'epica difesa di Roma e l'incomparabile
ritirata per le campagne pontificie, fu imprigionato. Il ministro
Pinelli giustificava tale cattura coll'avere Garibaldi preso servizio
sotto la republica romana senza autorizzazione del governo incorrendo
così nella perdita dei diritti di cittadinanza e delle franchigie
costituzionali. Atto codardo, logica assurda in un ministero presieduto
da Massimo d'Azeglio! L'opposizione parlamentare si levò: l'arresto di
Garibaldi significava molto più che il reazionario Pinelli non avesse
pensato ordinandolo; Massimo D'Azeglio vinto da un voto del parlamento
dovette dimettere Pinelli e liberare Garibaldi. Non pertanto s'impose
all'eroe di scegliere un asilo fuori di stato.

Il rimpasto ministeriale operato dal D'Azeglio non valse a quetare
l'opposizione. Se colla tradizionale ed ora più che mai benefica
ambiguità piemontese, mentre s'imprigionava Garibaldi e s'abbandonava
Venezia all'Austria, si era osato chiamare al ministero il veneto
Paleocapa, illustre emigrato e più illustre idraulico, accennando così
ad un indirizzo nazionale nella politica, la nomina dei Lamarmora,
malviso ancora pel feroce bombardamento di Genova, a ministro della
guerra, sembrò un guanto gettato all'opposizione. Così la proposta
dignitosa di Cesare Balbo di votare il trattato colla sola protesta del
silenzio fallì. La discussione invece inviperì agli articoli: il
deputato Mellana, forzando la mano ai ministri con intempestiva ma abile
proposta, ottenne che il trattato non si approvasse «finchè non si fosse
per legge provveduto a regolare in modo conforme all'onore dello stato i
diritti di cittadinanza dei cittadini originari delle provincie annesse
per la legge del 1849, i quali all'epoca del 30 settembre 1849 avevano,
e tutt'ora conservavano, la residenza in questi medesimi stati».
Quest'affermazione d'italianità compensava in certo modo i tradimenti di
Carlo Alberto e l'ultimo inevitabile abbandono all'Austria delle
generose provincie insorte, ma sovvertiva la costituzione sottoponendo
l'approvazione del trattato all'accettazione di un'altra legge e
vincolando il voto del Senato. L'idea italiana e la tradizione
piemontese cominciavano così quel lungo duello, che doveva costringere
il piccolo stato a mutarsi colla propria sconfitta in regno italico.

Naturalmente il re sciolse la camera dirigendo al popolo il proclama,
che fu poi detto di Moncalieri.

In esso Vittorio Emanuele uscendo dalla mitica irresponsabilità di re
costituzionale fece un caldo appello all'antica affezione dei sudditi, e
li affidò sul proprio onore che le nuove libertà non correrebbero alcun
rischio nella politica necessaria di quel momento. L'urgenza di
ratificare il trattato di pace per uscire da una situazione che il
più piccolo incidente poteva precipitare nella peggiore delle
crisi, si scoprì finalmente alla publica coscienza: non si badò
all'incostituzionalità del proclama, non si avvertirono le equivoche
minaccie di Massimo D'Azeglio in una lettera ai propri elettori quasi a
commento del proclama e a sciupo della sua buona impressione: il decreto
reale alla vigilia delle elezioni, facilitante il conseguimento della
cittadinanza agli emigrati delle provincie annesse al regno, parve
garanzia bastante al diritto di questi e all'onore dello stato. E si
votò con migliori intenzioni. Quindi la camera approvò senza discussione
il trattato di pace.

Pochi giorni dopo il Piemonte sgombrato dalle truppe austriache
diventava l'unico stato italiano rimasto all'Italia.

Il problema della sua politica era allora così intricato che nessuno fra
i migliori spiriti avrebbe saputo precisarlo.

Accettando nobilmente lo statuto Vittorio Emanuele aveva singolarmente
aumentate le difficoltà del momento: la libertà piemontese in tanta
furia di restaurazioni assolutiste sembrava ai più un'anomalìa e a molti
un pericolo. L'Austria designava Torino come ultimo focolare d'incendi,
l'imperatore di Russia troncava con essa ogni rapporto diplomatico,
nella Francia medesima il trionfo momentaneo degli estremi partiti
conservatori, pei quali serpeggiava segreta ed irresistibile la
preparazione imperiale, crescevano l'antipatia al nuovo regno che
scrollato, non rovesciato, dalla guerra si riaffermava francamente
nell'ideale della rivoluzione italiana. Torino era mutata in ospizio di
tutti gl'italiani illustri per ingegno, per prudenza, per sventura:
alcuni fra essi, acquistata la cittadinanza, sedevano nel parlamento e
reggevano persino ministeri; i più lavoravano modestamente o
gloriosamente nelle industrie o nelle cattedre, nei giornali o
nell'esercito. La nuova monarchia, chiudendosi con astuto coraggio entro
lo statuto quasi ultima rocca, doveva però sapervi vivere ampliandola e
fortificandola così che non solo tutto il popolo piemontese ma il resto
d'Italia potesse capirvi a un dato momento.

L'opposizione dei partiti veniva quindi a rinnovellarsi
inconsapevolmente.

Al dualismo monarchico e repubblicano, che aveva riempito di tumulti
l'estreme ore della rivoluzione succedevano le antinomie parlamentari
delle parti che accettando lo statuto volevano serbarlo intatto come
un'egida, o affinarlo come un'arma contro l'Austria e a pro'
dell'Italia. La tradizione piemontese e l'idea italica, mascherandosi
con ogni più fragile drappeggio parlamentare, dovevano fatalmente
combattersi in qualunque proposta di legge. Pei vecchi piemontesi lo
Statuto concesso da Carlo Alberto per beneplacito, e conservato da
Vittorio Emanuele per magnanimità non poteva mutare l'assetto politico
dello stato; l'aristocrazia del nome e del censo vi sarebbe rimasta
negli aviti privilegi imperando, quella con più lustro, questa con
maggior comando: il clero conserverebbe nello stato e nella società
l'indiscutibile primazia; il Piemonte abituato da secoli ad essere il
migliore principato italiano, durerebbe sicuro e felice entro i propri
confini abbandonando alla tragica fortuna della storia il resto
d'Italia. La cattiva prova della recente rivoluzione, che pesava e
peserebbe ancora a lungo sul Piemonte, persuadeva così al suo prudente
orgoglio la piccola antica autonomia colla gerarchia intatta delle
classi, cogli ordini politici inalterati, cogli usi sociali escludenti
il popolo da ogni alta funzione politica. Lo statuto doveva
cristallizzarsi in un ambiente di rispetto religioso e col sottinteso
furbesco d'un egoismo ricusante di slargare i propri privilegi per tema
di maggiori pericoli. Il re costituzionale ridiventerebbe così re
assoluto, servito da una oligarchia parlamentare di censiti: l'idea
democratica, sepolta nella gloria dello statuto, come i Faraoni in
quella delle piramidi, non disturberebbe il facile e proficuo impero sul
popolo. Del governo non restava quindi che un'amministrazione: il
parlamento, anzichè assemblea di rappresentanti popolari, si riuniva
come un collegio di padroni nello studio dei propri interessi.

Per gli altri costituzionali occorreva invece la consacrazione d'un
nuovo ordine nello stato. Comunque concesso e redatto, lo statuto
affermava la sovranità popolare: il re v'era bensì parte integrante ma
non più superiore; bisognava consultare il popolo, farlo a poco a poco
capace di maggiori libertà, idoneo a più alti diritti. Lo statuto
svolgendosi aveva a correggersi e ad ampliarsi; era non il presente ma
l'avvenire, e non solo del Piemonte d'allora ma d'un altro possibile
Piemonte che dall'Alpi giungesse all'Adriatico. L'irresistibile senso di
modernità, ond'erano spinti questi più abili conservatori ad un graduato
progresso delle istituzioni, si spaventava però al solo nome di
rivoluzione, mentre questa si appiattava non vista sotto ogni più
anodina riforma, si scopriva in ogni urto di discussione, s'allargava
ogni giorno in minuti ed incalcolabili mutamenti della vita. Se i vecchi
piemontesi avevano nella loro conservazione dello stato il sottinteso di
mantenerlo immobile per passione di antiche idee e di più antiche
abitudini, e però non erano in fondo che aristocratici; gli altri
parlando sempre d'Italia e di libertà non osavano precisare a se
medesimi l'idea dell'uno e dell'altra nella necessità d'una nuova
rivoluzione nazionale.

Gli estremi partiti clericali e radicali, pari nell'odio e nella
energia, affettavano invece il disprezzo dello statuto: quelli
qualificandolo d'empietà, questi d'ipocrisia: gli uni accusandolo di
negare la religione, gli altri di perdere l'Italia; i preti minacciavano
la dinastia dei castighi di Dio, i mazziniani la denunziavano alle
assise della nazione, affermando in ogni necessaria contraddizione della
sua politica un tradimento. Nessuna idea era ancora chiara, quantunque
l'istinto procedesse già sicuro.

Le annessioni provocate da Carlo Alberto e ottenute con suffragio
universale a rovescio di quello ristrettissimo dello statuto, il
vessillo tricolore sostituito alla bandiera azzurra dei Savoia, la
costituzione conservata, legavano il Piemonte alla rivoluzione italiana,
mentre l'idea rivoluzionaria costretta ad essere republicana oppugnava
sopratutto il nuovo regno costituzionale. Così il Piemonte aveva contro
di sè tutti i principi italiani, l'Austria e Mazzini, non trovandosi in
questa lotta disuguale altra arma che il proprio statuto. Bisognava
isolare l'Austria in Europa, annullare col confronto del proprio esempio
tutti i principi d'Italia alzando il principio della monarchia fino a
quello di nazionalità, assorbire dall'eroico ed inorganico partito
democratico tutta la verità della sua idea e l'inesauribile forza della
sua passione per darle corpo in uno stato costituzionale e nazionale; e
ciò venne fatto con processo sovente inconsapevole, con mezzi quasi
sempre contraddittori. Il risultato ne riuscì anche maggiore delle
intenzioni; il favore delle circostanze dovette compensare molte
inabilità politiche.

Ma le prime difficoltà apparivano terribili.

Anzitutto era d'uopo esistere. Guerra e rivoluzione avevano stremato il
paese, quella rivelando i pessimi ordini dell'esercito, questa
sconvolgendo le idee e scrollando sulle vecchie basi tutti gl'interessi.
Le finanze erano esauste, disfatta la milizia, poche le risorse, le
istituzioni economiche sbaragliate, le politiche mal certe: bisognava
ricreare non ripristinare. La conservazione dello statuto obbligava il
Piemonte ad una preparazione rivoluzionaria più costosa della guerra
passata per potersi rimettere in un momento ancora imprecisabile alla
testa della nazione contro l'Austria. Ma il paese era povero:
aggravandolo di nuove tasse bisognava schiudergli altre ricchezze;
spingendolo sulla via della rivoluzione conveniva mantenerlo
inflessibilmente nell'orbita monarchica; togliendogli l'entusiasmo
democratico si doveva dargli un'ardente fede monarchica; limitandogli lo
sviluppo della libertà era sopratutto necessario assicurargli in una
prossima rivincita il trionfo della indipendenza nazionale.

Mai problema politico si presentò più avviluppato e grandioso.

Vittorio Emanuele, malgrado la volgarità della propria natura, ne
assicurava buona parte della soluzione, giacchè accettando lo statuto
non aveva conservato sottintesi. Prode, fremente della sconfitta,
lealmente operoso, era pronto a tutte le conseguenze di questa prova
ancora mal compresa di costituzionalismo rivoluzionario; nessun principe
d'Italia, nessun re d'Europa aveva forse allora migliori intenzioni di
lui e più salda volontà di mantenerle. Il parlamento incomparabilmente
superiore a quelli di Napoli di Firenze e di Roma, era nullameno inetto
al difficile esperimento. La sua destra, capitanata dal conte Solaro
della Margherita, era ancora più dinastica che monarchica; lo statuto
non le pareva che una prepotenza rivoluzionaria mantenuta nel governo da
una irragionevole necessità, e della quale bisognava limitare lo
sviluppo. La sinistra, guidata da Brofferio, avvocato, retore sino
all'eloquenza, tribuno e letterato, irrequieto ed impetuoso, nobile ed
imprudente, capace di grandi idee ed inabile nella pratica, democratico
intransigente e non pertanto costituzionale arrendevole, si componeva di
radicali. Fra essi molti fuorusciti diffidenti ancora della monarchia o
feriti dalla rivoluzione spasimavano di rivolta, pronti a scambiare ogni
prudenza di governo per una viltà e qualunque manovra diplomatica per un
tradimento; impazienti nella preparazione ed eccessivi nei dibattiti,
altrettanto ingiusti nelle accuse quanto magnanimi nelle intenzioni, più
italiani che piemontesi, mentre bisognava essere più piemontesi che
italiani per poter un giorno essere solamente italiani.

La maggioranza governativa, mobile e indeterminata, non avea programma
esplicito. Balbo, ultimo e più illustre fra i neo-guelfi, rappresentava
i vecchi liberali ora incompresi ed incomprensibili. Alfonso Lamarmora,
cavaliere antico, più nobile di un re e più austero d'un cenobita, era
la speranza dell'esercito, ma fanatico di fede costituzionale non vedeva
l'Italia che attraverso la dinastia. Molti insigni emigrati si tenevano
pronti a servire. Genova era rientrata nella calma, ferita e pensosa;
Torino non comprendeva ancora se stessa, sollevata dal soffio ardente
d'italianità che infiammava tutte le sue vie; la Sardegna, una volta
così importante pel Piemonte, non era adesso che la sua più remota
provincia.

Massimo D'Azeglio governava. Leale e generoso nella nuova pratica
costituzionale, procedeva nullameno lento ed impacciato sentendosi
spinto e temendo d'inoltrare troppo. Una nervosità di artista
gl'impediva la destrezza e la calma d'una politica naturalmente
bordeggiante fra gli scopi per riannodare i rapporti diplomatici con
tutte le potenze e dominare i partiti. Quindi era più amato, che
stimato, si credeva meglio alla sua parola che alla sua forza, valeva
piuttosto nella diplomazia per qualità personali che nel parlamento per
sicurezza di metodo o abilità d'espedienti.

La prima grossa battaglia parlamentare dopo la legge sulla ripartizione
dei collegi elettorali, che la sinistra osteggiò per malata diffidenza
verso il governo, s'accese per l'abolizione dei privilegi ecclesiastici.
La legge fatalmente rivoluzionaria discendeva dallo statuto e ne
slargava il principio reintegrando la sovranità civile contro le viete
dominazioni del diritto canonico. I partiti vi si accanirono: la vecchia
destra si schierò francamente all'opposizione; i più condiscendenti fra
essa arrivarono sino ad un nuovo concordato con Roma, infelice negazione
del nuovo diritto statutario che ne avrebbe sottomesso la parte migliore
agli arbitrii della curia papale. La sinistra si strinse intorno al
governo; Roma, che sopportava l'occupazione francese ed austriaca senza
protestare nemmeno alle esorbitanze dei generali stranieri malmenanti
vescovi e paesi, sentì la minaccia e minacciò. I suoi giornali politici,
guidati dalla _Civiltà Cattolica_, apersero una campagna furibonda
d'insolenze, nauseante di perfidia. Il ministero vacillò, scese a
tentare accordi: il conte Siccardi fu mandato a Portici, allora
residenza papale, ma indarno. Quindi D'Azeglio con abile intrepidezza lo
chiamò al ministero commettendogli di presentare al parlamento un
disegno coordinato di leggi sull'abolizione del fôro e delle immunità
ecclesiastiche, sul divieto alle manimorte di acquistare beni senza
l'autorizzazione regia e sulla riduzione delle feste religiose. Senato e
parlamento approvarono, il re sanzionò, il popolo esultante proruppe a
tali eccessi di dimostrazioni che si dovettero frenare colla forza,
mentre la curia inviperita s'abbandonava alle peggiori escandescenze,
negando persino i conforti religiosi al morente ministro Santarosa. I
vescovi di Torino e di Cagliari vennero imprigionati.

Il conte Camillo Benso di Cavour sostenendo validamente quelle leggi si
mostrò per la prima volta sulla scena politica, che doveva poi riempire
di se stesso; Vittorio Emanuele trovava finalmente in lui il proprio
grande ministro.


                                  Il Conte di Cavour.

Questo torinese era nato (1810) fra le tempeste del primo impero.

La sua casa, una fra le più antiche del Piemonte, aveva imperato sulla
piccola repubblica di Chieri, nella quale componeva l'eptarchia dei _B_,
i Balbo, i Balbiano, i Biscaretti, i Bruschetti, i Broglio, destinati
agli splendori di una lunga illustrazione in Francia, i Bertone e i
Benso. Razza e parentela erano molto miste; san Francesco di Sales era
un suo antenato; fra i suoi congiunti più intimi, tutti legittimisti
piemontesi e francesi della più ostinata intransigenza nella fede
cattolica ed aristocratica, brillavano anche dei protestanti svizzeri
dallo spirito colto e di tradizioni liberali. La sua educazione fu
quella della sua famiglia e del suo tempo. A dieci anni entrò cadetto
nell'accademia militare dei nobili, a diciotto ne uscì ufficiale col
solito leggero bagaglio di istruzione, ma sospetto già ai superiori per
aver servito mal volentieri fra i paggi del principe di Carignano. Poco
dopo, le giornate di luglio a Parigi gli strappano frasi così liberali
da meritargli la relegazione in un forte e da costringerlo a dare le
dimissioni.

Giovane, alacre, ignorante ma superbo di confidenza in se medesimo, si
butta agli affari: compra senza denaro una vasta terra, ne muta la
coltura, s'improvvisa agricoltore e sindaco del proprio villaggio,
scruta la vita nei più umili particolari, impara uomini e cose, mescola
relazioni signorili, borghesi e popolane, si correda di studi pratici,
viaggia in Francia e in Inghilterra, non sospettando ancora se stesso e
nullameno scherzando sulla possibilità di essere un giorno primo
ministro d'Italia. Se scarseggia tuttavia di idee, i suoi istinti sono
molti e sicuri: è un liberale e un aristocratico intento ad assimilarsi
la modernità della borghesia. Le sue opinioni originali per difetto di
coltura derivano dall'esperienza e mirano alla pratica: l'equilibrio
delle sue facoltà mezzane togliendolo al pericolo delle grandi
ascensioni del pensiero lo salva pure dalle incertezze, anche più
perigliose delle discese dai sistemi alle applicazioni quotidiane della
vita reale. Mentre Parigi seduce in lui il giovine libertino,
l'Inghilterra attira già l'uomo colle meraviglie della sua industria e i
miracoli del governo parlamentare. Involontariamente le sue lettere di
viaggiatore tradiscono il progresso del suo spirito: la politica vi
domina, ma piana, senza ideali e senza sistemi, liberale d'istinti e di
metodi, parca d'entusiasmi, pronta a subire le cose dopo averne valutata
la forza irresistibile, con un'antipatia quasi irragionevole per tutte
le forme ed anche le grandezze rivoluzionarie. La sua sola passione è la
libertà parlamentare misurata da leggi regolarmente votate, espressa da
partiti ordinati, praticata dal paese come un'abitudine di benessere
materiale e morale.

Nella sua ignoranza di ufficiale, di agricoltore, di gentiluomo e di
sindaco, che istruendosi non riflette se non a quanto gli cade
sott'occhio e non mira che ad acquistare nozioni scientifiche
praticabili, la storia e la nazione, che conosce meno, è quella
d'Italia; pensa, parla, scrive in francese. Intravede confusamente il
moto ascendente delle plebi, e improvvisa un opuscolo volgare di
pensiero, povero di dottrina ma sicuro di buon senso sul modo di
combattere lo sviluppo delle idee comuniste; avverte l'agitazione
accresciuta allora dal grande tribuno cattolico O' Connell in Irlanda
contro la tirannia inglese, e temerariamente in un libercolo, che la sua
gloria di statista rese poi celebre, affronta il problema della
conciliazione fra i due paesi con un sistema di riforme che non sfiorano
nemmeno il nocciolo della questione, ma accennano già alla futura
destrezza dell'uomo di governo altrettanto scarso di principi quanto
fertile d'espedienti, più abile a coordinare una rivoluzione che a
sorprenderne l'idea e a suscitarne le forze.

Se da principio il suo liberalismo è tale da strappargli in una lettera
l'augurio di poter dare persino ai gesuiti il quadruplo della libertà,
che essi concedevano ai popoli sui quali imperavano; mentre invece tutto
l'eroismo dei rivoluzionari lo lascia nella più perfetta insensibilità,
e i prodigi di pensiero accumulati nei prodromi della grande rivoluzione
federale del 1848 sfuggono alla sua così penetrante attenzione sino a
permettergli di rallegrarsi con Michelangelo Castelli della caduta della
republica romana; presto un implacabile buon senso lo arresta. Della
propaganda e della guerra rivoluzionaria egli non vede che l'arruffio
dei propositi, la sproporzione goffa dei mezzi, l'inconsistenza degli
ordini, l'inanità tragica e spesso ribalda delle sètte, l'assoluta
mancanza di senno pratico e politico. Il segreto ideale della
rivoluzione gli si nasconde, ma nessuna delle sue chimere lo inganna. La
vecchia società aristocratica, donde è uscito, non vuole avanzare; la
nuova, ove sta per entrare, non sa ancora procedere.

Mentre Gioberti delira nella lirica filosofica del _Primato_, Balbo
s'inganna a studiare per l'Italia _Speranze_ di risorgimento fuori della
sua storia e della sua vita, D'Azeglio si conforta e conforta scrivendo
romanzi migliori di patriottismo che di arte, Cavour nè filosofo, nè
storico, nè letterato, non ancora mescolatosi alla vita pubblica,
osserva e critica. Egualmente lontano dalla rivoluzione e dalla reazione
egli è già un _giusto mezzo_; ma in questo limbo, ove il pensiero
dovrebbe per forza farglisi dottrinario e l'azione diminuire
gradatamente in una improba inefficacia, il suo spirito operoso si salva
collo studio e collo stimolo degli interessi. Come tutti i veramente
forti egli è paziente. Anzichè scomporsi indarno per inoltrare sulla
scena politica affrettando la propria ora, si mette fra i fondatori
della Società agraria, ne redige gli statuti, provoca comizi, nei quali
sotto pretesto di agricoltura s'aguzza lo spirito di discussione, e i
problemi più vitali si famigliarizzano anche alle intelligenze volgari;
col conte di Salmour diffonde la istituzione delle Sale d'Asilo, col
marchese Alfieri fonda un club liberale dal titolo inoffensivo di
Società del Whist, commenta i viaggi agronomici del marchese di
Châteauvieux, s'addentra in tutte le questioni finanziarie senza
preparazione di studi economici, guidato dalla luce del proprio ingegno
e ricorreggendolo continuamente nella pratica universale, s'appassiona a
disegni ferroviari, a trattati di commercio, a istituti di cambio, con
una superba trascuranza di ogni teoria e una sicurezza d'analisi e una
costanza di preferenze, che nel liberalismo economico preparano un più
vasto liberalismo politico.

Mentre intorno a lui la rettorica dell'italianità vaneggia nelle più
sciatte e pericolose pretensioni, a trentasei anni, nel 1847, prima che
la costituzione sia concessa, si preoccupa già della necessaria abilità
parlamentare. Naturalmente simpatie e modelli sono per lui in
Inghilterra. Le riforme di Robert Peel lo esaltano, la livida minacciosa
figura di Pitt lo ammalia benchè troppo a lui opposta di natura,
Canning, Fox, Burke gl'ispirano il desiderio di quell'eloquenza
infallibile nella misura, nutrita di fatti, altrettanto temuta nelle
repliche quanto ammirata nelle esposizioni, così necessaria ad un uomo
di stato, e che l'inartistica aridità della sua natura gli contenderà
sempre, anche nella foga più veemente delle battaglie o nella più
esuberante prepotenza delle vittorie.

Nessuno lo sospetta ancora, molti lo dileggiano per quel continuo
vantare le istituzioni inglesi, e lo chiamano milord.

Ma le tempeste dell'azione lo attirano irresistibilmente. Con D'Azeglio
e con Balbo fonda un giornale, il _Risorgimento_, per sostenere
l'accordo necessario fra popoli e principi; se non che questa tesi dei
riformisti gli si muta improvvisamente fra le mani. Genova alle prime
aure calde del quarantotto manda una deputazione a Carlo Alberto per
chiedere l'espulsione dei gesuiti, e l'antico paggio del principe di
Carignano diventato re, ricordandosi lo spirito del suo signore, con
pronta e meditata temerità sorpassa i più democratici, e propone si
domandi la costituzione. Questa concessa, mentre la rivoluzione scoppia
in tutta l'Europa e la Lombardia è già in fiamme e a Torino i più saggi
titubano ancora, Cavour insta perchè si passi subito il Ticino; combatte
l'ipocrisia democratica di subordinare l'unione della Lombardia col
Piemonte alla chimera di un assemblea costituente, sostenendo
energicamente la necessità della loro fusione immediata. Finita la
guerra nei più dolorosi rovesci, non perde la calma e s'oppone a coloro
che vorrebbero pazzamente proseguirla con un esercito disorganizzato,
senza tener conto nè della forza irresistibile dell'Austria, nè
dell'opinione dell'Europa.

Poco dopo Gioberti sale al ministero sul vento di una pericolosa
popolarità e Cavour temendo pel Piemonte un disastro di nuove follie lo
combatte aspramente; ma Gioberti staccandosi dal proprio partito vuole
invece fare del Piemonte uno strumento nazionale per la restaurazione,
riconducendo colle armi il granduca a Firenze e il papa a Roma, e Cavour
ingannandosi questa volta lo sostiene. Così egli ha già fissa e matura
la propria idea: la rivoluzione deve accadere ma senza nè idee nè mezzi
rivoluzionari portando il Piemonte alla conquista d'Italia. Solo in tal
modo l'unità nazionale sarà possibile. Ma questa unità per lui non
significa che l'espulsione dell'Austria; dopo l'egemonia del Piemonte
farà il resto. Il suo disegno si arresta alla ricostruzione del primo
regno italico. Egli non immagina nemmeno come disfarsi del granducato di
Toscana; il problema dello stato pontificio gli si presenta insolubile:
tutto al più si potrebbe staccarne quelle legazioni, che gli austriaci
posseggono militarmente; il regno di Napoli così lungi è appena italiano
per lui e non conta nel calcolo della sua politica. Per ora egli non è
che piemontese; l'Italia sarà una conseguenza del Piemonte.

Quindi nessuno lo comprende.

La sincerità del suo patriottismo ristretto non è riconosciuta, la
temperanza delle sue idee pare insufficienza, la precisione dei suoi
propositi pratici volgarità: gli aristocratici sospettano di lui
novatore, i democratici diffidano di lui costituzionale, il suo vivo
senso piemontese contrasta all'italianismo effervescente ed insieme
profondo dell'ora: nascita, educazione, concetti, modi, tutto gli è
contro. Lo si accusa di codinismo, lo si isola nell'inazione. Ma la sua
fibra si tempra nei contrasti, l'elasticità della sua natura si
raddoppia, l'infallibile sicurezza del suo buon senso costringe grado
grado alla stima: mentre tutti sono sbaragliati egli solo confida,
quando piazza e corte recriminano egli solo è già inteso alla nuova
preparazione. Qualche cosa dell'antica scienza politica italiana è
rimasta in lui. Se nel patriottismo di Mazzini vi è del Machiavelli, in
quello del conte di Cavour traspare Guicciardini: per l'uno la politica
è una lotta di idee, per l'altro una guerra di fatti. Per Cavour tutto è
mezzo, e il problema impostogli dalla scena politica va risolto coi dati
della scena stessa; Mazzini fida nei popoli, Cavour non crede alla loro
forza rivoluzionaria e si prepara a destreggiarsi coi governi. Nel
proprio calcolo deve tener conto dell'Europa, nell'azione sorpassare il
Piemonte senza comprometterlo. Così gli occorre anzitutto il potere, ma
in esso bisogna risolvere prima il difficile problema di una dittatura
parlamentare e ministeriale, non esorbitando mai dalle funzioni e
creando la fede nella monarchia col rispetto alla libertà statutaria. Se
ai tempi di Guicciardini nei mezzi della politica entrava anche
l'assassinio, Cavour nel tempo moderno non potrà che assassinare
moralmente l'avversario per meglio sfruttarne l'opera; ma lo farà con
ammirabile perfidia disonorando Mazzini in faccia all'Italia e accusando
Garibaldi davanti all'Europa. Questa facile e terribile abilità, che
all'ingenuo D'Azeglio strapperà come in un grido di sdegno la parola:
«empio!», congiunta sempre al più aristocratico disinteresse personale,
lo renderà a certi momenti un enigma per amici e nemici. E la sua
ambizione sarà così bonaria, il suo orgoglio così duttile, la sua
ingratitudine così sensata, il coraggio de' suoi mercati così malizioso,
la prontezza al guadagno così fulminea che disegni insufficienti o
sbagliati gli trionferanno imprevedibilmente fra mano, mentre il mondo
stupito li crederà concetti nell'infallibilità e il genio de' suoi
stessi avversari ne parrà sopraffatto.

Nessuno come Cavour avrà vivo il senso della realtà. La sua sfiducia nel
popolo italiano è sorprendente di verità e di costanza: egli solo nella
rivoluzione del quarantotto aveva misurato il vôto di tutte le imprese.
Federazione di principi, egemonia papale, republiche regionali,
insurrezioni municipali, eserciti regolari e milizie di volontari, tutto
gli si era rivelato del pari insufficiente. Tutto era fallito, e solo il
Piemonte restava. Il popolo d'Italia non era nè rivoluzionario nè
guerresco; il popolo non si batteva; tutto lo sforzo della guerra e
della rivoluzione era stato sopportato da appena trentamila volontari;
eroismi parziali non contavano: la massa dei ventidue milioni, che
componevano la popolazione d'Italia, non s'appassionava nè di
rivoluzioni nè di guerra. L'Italia era incapace di espellere l'Austria
liberandosi contemporaneamente di tutti i principi e costituendosi in
republica: il problema del papato, ora che la Francia vi si era annidata
stanziando a Roma, era peggio che impossibile all'iniziativa italiana.

La rettorica nazionale malgrado la sublime verità di certi particolari
non aveva fatto presa sullo spirito di Cavour. Nullameno questo scettico
aveva una fede ancora confusa ma salda; poichè l'Italia incapace di
compiere la propria rivoluzione aveva pure per una necessità
dell'assetto europeo a mutare di condizione e ad essere conquistata, il
Piemonte si doveva a questa conquista. Quindi prima l'indipendenza e poi
la libertà; invece di costituente, annessioni e fusioni immediate, a
stimolo di queste l'esempio della libertà costituzionale; ma siccome il
Piemonte non bastava nè solo, nè aiutato da volontari italiani a lottare
contro l'Austria, bisognava ingrandirlo nella stima italiana ed europea,
aspettando dal caso l'aiuto di sufficienti alleanze.

Il grido di Giulio II «fuori i barbari!» diventa tutto il programma del
nuovo statista.

Il genio italiano, che aveva delirato in Gioberti risognando col papa il
primato universale d'Italia, e che errava ancora attraverso l'Europa con
Mazzini predicando una impossibile iniziativa italiana per una terza
epoca europea, s'impiccioliva solidificandosi nella ragione di Cavour
sprezzante di ogni sistema, italiano a forza di essere piemontese,
liberale per necessità di conservatore, rivoluzionario nell'orbita dei
parlamenti e delle diplomazie, conquistatore per influenza di alleanze e
per destrezza manipolatrice degli stessi inconciliabili elementi
rivoluzionari.

Nessuno forse in questo secolo lo pareggiò come organizzatore
all'infuori di Napoleone I, e questi lo era in modo diverso.

Così Cavour spiegando nel ministero la miracolosa attività di Mazzini
nella propaganda rivoluzionaria, prenderà singolarmente e
cumulativamente tutti i portafogli: una inesausta scienza dei
particolari lo renderà ammirato e temuto da subalterni e da avversari
senza che la stanchezza fra tante battaglie parlamentari e brighe
diplomatiche lo sorprenda mai appesantendogli la mano o velandogli
l'intelligenza. Nell'amministrazione anzi brillerà tutto il suo ingegno:
in essa rinnovando tutti i trattati di commercio e mutando arditamente
la politica da protezionista in libero-scambista si mostrerà
rivoluzionario; spingerà il moto ferroviario colla stessa rapidità e
sicurezza di Frère Orban nel Belgio; primo in Europa, colle finanze
sempre stanche e nullameno sempre alacri di uno stato costretto ad una
disastrosa preparazione di guerra, oserà il grande foro del Cenisio,
riprenderà il concetto di Napoleone I sul golfo della Spezia creandovi
il massimo arsenale piemontese all'ultimo confine dello stato con
temeraria e superba affermazione italiana. La concentrazione nel
Piemonte delle migliori forze nazionali, se non avrà con lui quel largo
concetto di Mazzini, sarà non pertanto un capolavoro di destrezza e di
costanza; l'altalena della sua politica ora favorevole ai moti di
ribellione ora repressiva sino all'ingiustizia, esprimendo le
insufficienze del suo pensiero davanti alla rivoluzione, rivelerà
tuttavia un diplomatico sempre capace di riguadagnare in nuova
combinazione il troppo concesso durante una crisi inevitabile alle
recriminazioni di governi alleati: ma sopratutto un alto sentimento di
libertà parlamentare e d'indipendenza piemontese lo salverà dalle quasi
inevitabili dedizioni dei piccoli stati costretti a muoversi nell'orbita
delle maggiori potenze.

Mentre Mazzini è prima riformatore che rivoluzionario, Cavour si
presenta subito come un politico di governo, intento ad ingrandirlo
moralmente e materialmente: quelli riassume tutta l'idealità italiana,
questi nè unitario nè federalista condensa nella propria opera tutta la
praticità possibile, oppugnando anzitutto lo straniero e preparando
nell'inconfutabile superiorità del Piemonte la possibilità all'Italia di
agglomerarvisi in un modo o nell'altro. Se Mazzini vede più lontano,
Cavour vede più giusto; l'uno vuole l'Italia in una rivoluzione così
liberale che la rimetta alla testa d'Europa con un miracolo di genio
popolare, l'altro riconoscendo impossibile questo disegno e giudicandone
pazzi o criminosi tutti i mezzi, non mira che all'alta Italia per
costituirvi un forte regno del nord che potrà poi un giorno avvallare
oltre il Po. La politica, che per Mazzini è la sintesi di una educazione
spirituale, per Cavour non sorpassa un calcolo di combinazioni
diplomatiche parlamentari, militari ed economiche; Mazzini vede per
l'Italia un disastro quasi peggiore della divisione in tanti stati e
della servitù allo straniero nella possibilità di ricostruirsi entro una
conquista regia; Cavour pone il proprio supremo trionfo nel
conseguimento della indipendenza dall'Austria e nella formazione di uno
stato parlamentare, che armonizzandosi ai migliori governi europei fonda
la tradizione monarchica colla libertà popolare, distribuendo equamente
il potere fra le varie classi sociali e limitando al minimo lo
spostamento degli ordini stabiliti.

Ma diffidente della rivoluzione per indole e per ufficio, Cavour saprà
qualche volta osarne le temerità impadronendosi de' suoi metodi e de'
suoi uomini avvolgendosi nelle più intricate contraddizioni senza che nè
l'impresa gli si svii, nè l'opera gli si indebolisca.

In faccia al problema politico e religioso di Roma Mazzini appellerà
_dal Papa al concilio e dal concilio a Dio_, dichiarando morto il papato
in nome di una nuova rivoluzione cristiana: Cavour affermerà da Torino
Roma capitale d'Italia, subordinandone la conquista al beneplacito della
Francia e guarantendo il papato colla formula «libera chiesa in libero
stato». Cavour morirà precocemente nel sogno di Vittorio Emanuele
regnante al Quirinale; Mazzini, che lo vedrà realizzato, verrà vecchio e
sconosciuto a morire in Toscana profetando con fede sublime la republica
in Campidoglio.

Ma l'Italia non si sarà costituita che per l'opera loro; l'uno sarà
stato il suo genio, l'altro il suo intelletto; questi le avrà inspirato
la rivoluzione, quegli le avrà dato la costituzione; ma la trascendenza
di Mazzini e l'insufficienza di Cavour, egualmente necessarie e
fatalmente antagoniste, non si saranno conciliate che nell'istinto e per
l'istinto di Giuseppe Garibaldi.




CAPITOLO TERZO.

La politica dell'egemonia


                                  Ministero di Cavour.

Malgrado ogni buona volontà l'opera della ricostituzione piemontese si
scopriva ogni giorno più difficile.

Mentre D'Azeglio usando del proprio ascendente personale s'affaticava a
rifare la situazione diplomatica dello stato, e il conte Siccardi
prendeva l'iniziativa delle riforme ecclesiastiche, e Alfonso Lamarmora
accogliendo nell'esercito ufficiali di tutte le provincie italiane si
dedicava con incomparabile costanza al miglioramento degli ordini
militari, i partiti politici dentro e fuori del parlamento non avevano
ancora trovato il proprio assetto. Cavour, salito al ministero del
commercio, iniziava con prodigiosa destrezza ogni maniera di riforme
economiche, piuttosto sbalordendo compagni ed avversari che traendosi
dietro un partito capace di sorreggerlo. Le questioni di politica
generale si ripetevano ad ogni incidente, giacchè le frequenti
dissoluzioni delle Camere non avevano bastato ancora a schiarire negli
elettori il grande problema del momento. La destra, subendo la legge
sulle immunità ecclesiastiche, aveva esaurita ogni condiscendenza;
l'estrema sinistra teneva sempre il broncio o declamava; solo al centro
sinistro un forte gruppo capitanato da Urbano Rattazzi, abile avvocato e
più abile parlamentare, che il coraggio di affrontare al potere le
massime crisi della futura rivoluzione doveva poi rendere illustre,
manovrava destramente per accostarsi al governo.

Il colpo di stato del 2 dicembre 1851, scoppiato in Francia
rovesciandovi la republica, scrollava i piccoli stati vicini. Napoleone
III per proclamarsi imperatore dovette necessariamente iniziare un'altra
reazione. Il Piemonte fra le nuove pressioni francesi e le costanti
minacce dell'Austria, non più coraggioso della Svizzera, piegò violando
l'ospitalità accordata ai fuorusciti e restringendo la libertà della
stampa. Con una legge improvvisata nella paura si tolse quindi ai
magistrati d'appello, congiunti ai giudici del fatto, i giudizi sui
reati di stampa per offese ai sovrani esteri, e si attribuirono ai
tribunali ordinari colla condizione della richiesta della parte offesa,
affermata ma non esibita dall'accusatore pubblico. Era una dedizione
della miglior parte della sovranità e per la quale si sottoponeva
all'arbitrio di governi esteri la libertà dei cittadini e dei
fuorusciti; i nuovi processi con denuncie estere e segrete avrebbero
tolto ogni rispettabilità alle sentenze. Nullameno la destra guidata dal
colonnello Menabrea pretendeva di peggio; il centro sinistro s'accostava
invece al governo purchè la reazione non andasse oltre. Cavour con
ardita manovra, profittando dell'assenza del D'Azeglio presidente del
gabinetto, volse le spalle alla destra. L'antico partito savoiardo
rimaneva così distanziato come un battaglione di veterani incapace di
reggere alla fatica di tappe forzate; il nuovo partito italiano arrivava
al potere per scoprire alla nazione il segreto della grande preparazione
piemontese. D'Azeglio, sorpreso e sorpassato, recalcitrò a questa
prepotenza di Cavour, che avendo già preso i portafogli del commercio e
delle finanze, esautorava con un colpo di stato parlamentare la
presidenza del gabinetto. La dittatura cavouriana cominciava con una
combinazione di partiti, ai quali il conte Revel reazionario dette il
nome, rimasto poi celebre, di connubio. Ma il ministero ne rimase
scosso. Luigi Carlo Farini romagnolo vi era dianzi succeduto nel
dicastero della pubblica istruzione al conte Gioia piacentino, come a
mantenervi il carattere italiano colla propria qualità di fuoruscito:
quindi i clericali costrinsero con una carica disperata D'Azeglio a
nuovi rimpasti per dar tempo ai partiti di riorganizzarsi. Un Alessandro
Pernati clericale toccò un momento il ministero dell'interno per
rendervisi ridicolo con severe ordinanze sulla chiusura dei fondachi
nelle domeniche; ma la scissura fra Cavour e D'Azeglio, allargandosi
ogni giorno, rendeva necessaria una separazione. D'Azeglio si credette
per un'ultima volta vittorioso col costringere l'abile avversario a
ritirarsi, mentre invece la rivoluzione parlamentare compìta da questo
era già tale che egli solo avrebbe dovuto padroneggiarla. Infatti
allontanandosi momentaneamente dalla Camera per saggiare in un viaggio a
Parigi e a Londra la pubblica opinione sul problema italiano, Cavour
parve anche più necessario di prima: il ministero D'Azeglio sbattuto
dalle istanze insolenti del legato francese His de Butenval sulla solita
questione degli emigrati e della stampa arenò nella questione del
matrimonio civile. La Camera aveva votato quasi con entusiasmo questa
nuova emancipazione dall'autorità sacerdotale nell'atto più importante
della vita, ma il senato del quale le riforme siccardiane avevano già
consumato il liberalismo, s'impuntò. Roma tempestava da tempo: la legge
sul matrimonio civile raddoppiò quindi l'accanimento della sua
resistenza. Invano il guardasigilli piemontese fece pompa di dottrina
svolgendo in una memoria le ragioni dello stato nel contratto del
matrimonio; più indarno e peggio Vittorio Emanuele si umiliò al
pontefice sino a chiedergli in una lettera autografa l'assenso alla
legge: Pio IX rispose sprezzante, il cardinale segretario Antonelli
eccitò i vescovi alla rivolta contro la nuova eresia, il partito
aristocratico minacciava, nelle campagne cresceva l'ostilità, i liberali
aspreggiavano le titubanze del ministero, quindi D'Azeglio si dimise
additando in Cavour il solo uomo politico capace di fronteggiare la
situazione.

Questi, benchè anelante al potere, ebbe l'avvedutezza di lasciare
tentare un ultimo esperimento di accordo con Roma da Cesare Balbo, che
naturalmente fallì. Quindi riafferrò con mano sicura la direzione del
governo. Ma risoluto a frangere tutte le resistenze del partito
clericale non volle momentaneamente rompere l'equilibrio parlamentare
col largheggiare verso il centro sinistro: così mantenne al ministero il
Lamarmora, che gli guarentiva la riorganizzazione militare, il
Paleocapa, ingegnere di grandissimo merito, che rappresentava lo spirito
di progresso nelle opere materiali, e il Buoncompagni calmo e sensato
intelletto, che vi conserverebbe la necessaria misura nella questione
religiosa. Solo qualche mese dopo, per gli accordi stabiliti nel
connubio, a questi successe il Rattazzi.

Il ministero D'Azeglio all'indomani della rotta di Novara era stato
un'amministrazione di tregua; questo di Cavour era una giunta di
combattimento. Infatti Gioberti morente a Parigi nella povertà di un
illustre esilio, quasi profetando, tracciava nel _Rinnovamento civile_
la strada che si sarebbe corsa per raggiungere l'unificazione nazionale.

Ormai la reazione paesana era vinta: la resistenza di Roma non
impedirebbe certo il progresso della nuova legislazione.

Quindi Cavour comprendendo «l'impossibilità pel governo di avere una
politica nazionale e italiana in faccia allo straniero, senza essere
all'interno liberale e riformatore», si accinse febbrilmente a mutare la
situazione del Piemonte. Perchè il piccolo stato potesse sotto
l'insidiosa sorveglianza dell'Austria mettersi alla testa delle speranze
nazionali, doveva non solo umiliare colla propria libertà costituzionale
ogni altro principato italiano, ma spiegando in esiguo quadro tutte le
energie di un grande paese riconquistare la stima dell'Europa con opere
superiori alle proprie forze.

Bisognava anzitutto per salvare il Piemonte farne un istrumento della
rivoluzione nazionale. Le sue finanze oberate dalle spese della guerra e
dell'indennità parevano esauste. Il bilancio delle sue spese, prima non
maggiore di 80 milioni, era salito nel 1849 sino a 216 milioni per
fissarsi tra i 130 e i 140. Il paese era povero di manifatture, scarso a
commerci. Invece di restringere le spese con meschini criteri di
economie, che assestando il bilancio avrebbero lasciato il paese
nell'inerzia e nella miseria di ogni avvenire italiano, Cavour osò
raddoppiarle moltiplicando imposte, debiti ed opere pubbliche per farlo
grande. Il suo bilancio, che nessun finanziere avrebbe potuto approvare,
venne da lui stesso chiamato con frase superba «bilancio dell'azione e
del progresso».

Col coraggio di un ingegno egualmente libero da sistemi e da pregiudizi,
respingendo e correggendo ogni altra proposta, conquistò sul
patriottismo della Camera un certo numero di tasse minute per 70
milioni, e ne impiegò tosto 200 per la costruzione delle vie ferrate di
Genova, Lago Maggiore, Novara, Susa, Savoia: sviluppò lo spirito di
intrapresa, ridestò la vita nelle provincie con ogni mezzo di
comunicazione. Quindi, malgrado l'ingrossare del _deficit_, ridusse la
tassa del sale, compì la riforma delle tariffe postali. Una fede
incrollabile nei miracoli della libertà e del lavoro lo sosteneva: però
miglior uomo di stato che economista contraeva debiti per aumentare la
somma circolante di denaro a favore delle industrie, e cresceva loro le
tasse per stimolarle con sapiente gradazione a migliore attività, mentre
colla rinnovazione libero-scambista di tutti i trattati apriva nuovi
sbocchi alla produzione e annodava relazioni diplomatiche capaci un
giorno di frutti politici. Per questo riguardo il suo trattato colla
Francia, dalla quale sentiva la necessità di comprare a qualunque prezzo
simpatie politiche, fu più scarso pel Piemonte di vantaggi materiali che
non quello coll'Inghilterra. Ma come tutto ciò non bastasse, prodigava
denaro all'esercito su ogni istanza del generale Lamarmora, muniva
Casale, fortificava Alessandria, riforniva magazzeni, aumentava i quadri
delle milizie. Un'incomparabile attività si ridestava nel Piemonte:
Torino formicolava d'insigni fuorusciti; nelle scuole ogni giorno
cresceva il numero delle cattedre; l'orgoglio nazionale si rianimava
alla fede, che il ministro mostrava nel paese.

Pochi anni dopo la rotta di Novara nessuno sapeva più riconoscere il
vecchio Piemonte. Il parlamento assorbito nell'unità di una politica
altrettanto varia nei mezzi che fisa in una sola idea, sempre destra
negli espedienti e fertile nei risultati, non era più che una
maggioranza docile ed operosa: l'estrema destra vi si mostrava in rari
fossili, l'estrema sinistra in pochi declamatori. Un forte partito
liberale sosteneva il ministro, anche sembrando talora osteggiarlo.
Tutto piegava presto o tardi sotto lo sforzo della sua ferrea volontà.

La rivoluzione indigata nella costituzione avanzava rapida e sicura.
Naturalmente se nella politica estera tutta l'abilità era usata a
conquistare simpatie per mutarle in alleanze, in quella interna le
difficoltà dovevano venire dai rapporti con Roma. Questa cresciuta a
centro della reazione austriacante combatteva in Torino la nuova
capitale morale d'Italia, giovandosi delle questioni religiose per
sconvolgere la coscienza popolare divisa fra esigenze cattoliche e
speranze italiane. Ma Cavour, cogliendo con pronta intuizione la
necessità di tagliar corto ad accordi impossibili, spinse alacremente le
riforme. Le leggi sul matrimonio civile, sulla riorganizzazione dei beni
ecclesiastici, sulla soppressione degli ordini monastici mendicanti,
incalzarono vivamente la curia vaticana. La rottura fu clamorosa, le
lotte in parlamento e in paese animatissime. Tutti sentirono
confusamente che si combatteva una suprema battaglia: sovranità civile e
potere ecclesiastico, chiesa e stato, dopo un duello di quindici secoli
erano agli ultimi colpi: nella vittoria dello stato trionfava la
nazione, nella sconfitta del Vaticano Torino, provvisoria capitale
d'Italia, salvava il diritto di Roma, eterna, futura capitale d'Italia.

Mentre i reazionari si scalmanavano contro queste leggi nell'ingenua
convinzione di salvare da esse il cattolicismo, e i radicali si
estenuavano a spingere il ministero in una guerra religiosa contro i
preti per vendicare i millenari dolori inflitti all'Italia dal papato,
Cavour nè rivoluzionario, nè reazionario, cattolico in fondo alla
coscienza, di quell'indefinibile cattolicismo che transige coi dogmi
riconoscendoli, dominava la battaglia col motto d'ordine -- Libera chiesa
in libero stato. -- Questa formula indeterminata gli diede la vittoria.
Lo stato invece di dichiararsi più alto della chiesa si affermò più
vasto, e la contenne. Matrimonio civile, abolizione degli ordini
mendicanti, riorganizzazione di una parte dell'asse ecclesiastico furono
votati. Ma Cavour arrestò la soppressione degli ordini monastici ai più
inutili, e s'oppose all'incameramento dei beni ecclesiastici. La sua
coscienza di liberale rifuggiva dall'idea di un clero salariato e quindi
assoldato dallo stato; la sua fede di cattolico non ardiva risalire
all'antica idea cristiana del clero vivente colle sole elemosine dei
fedeli.

Pio IX e il cardinale Antonelli, dopo aver maltrattato gli ambasciatori
del Piemonte durante la guerra, gettarono alte grida nella rotta: il
pontefice diramò un'enciclica e lanciò la scomunica; il cardinale
pubblicò un sordido libello contro i ministri sardi, al quale rispose
con dignitosa eloquenza Massimo D'Azeglio.

Cavour uscì ingrandito dalla lotta.

Oramai il Piemonte doveva combattere colla stessa impossibilità di
transazione Austria e papato: la sua egemonia sull'Italia conquistava
così un riconoscimento unanime.

Alcune sventure domestiche, malvagiamente interpretate dal clero come
castighi divini, diedero quindi alla dinastia una più nobile aureola di
dolore: la fede al ministro si mutò in fanatismo pel re, cui il popolo
diede l'incredibile nome di galantuomo. E fu meritato.

Intanto l'Austria, esasperata dalla crescente fortuna del Piemonte,
esagerava l'oppressione nelle Provincie del Lombardo-Veneto pei moti del
6 febbraio 1853 in Milano. Dopo aver nauseato l'Europa colla quantità e
colla ferocia dei supplizi, violando ogni giure internazionale sequestrò
i beni degli emigrati divenuti piemontesi per naturalizzazione. Il conte
di Cavour, cui l'infelice tentativo mazziniano veniva a disordinare i
lenti ma sicuri approcci della nuova politica monarchica, fu questa
volta inferiore a se stesso nell'improvvido zelo di persecuzione
spiegato contro i rivoluzionari a richiesta dell'Austria: chiuse le
frontiere piemontesi ai fuggiaschi, imprigionò, sfrattò, deportò,
svillaneggiò a mezzo della stampa ministeriale illustri patrioti con sì
ribaldo accanimento da provocare nobili proteste a loro favore persino
nell'esercito tutt'altro che rivoluzionario. Francesco Crispi, oggi
(1888) presidente dei ministri, fu allora fra gli espulsi; Benedetto
Cairoli, primogenito di cinque fratelli che dovevano poi diventare i
Maccabei dell'imminente rivoluzione, anch'egli salito più tardi alla
presidenza del ministero, venne condannato a domicilio coatto. L'odio al
partito mazziniano spingeva l'illustre ministro a disonorarlo con ogni
mezzo nell'opinione d'Italia a benefizio del Piemonte. Nullameno,
compiuto l'atto malvagio, pensò tosto a sfruttarlo col denunziare
all'Europa la ingiustizia dell'Austria nei sequestri sui beni degli
emigrati, e col troncare con essa le relazioni diplomatiche. L'Italia,
sbigottita nella propria novella fede monarchica dallo spietato
trattamento del Piemonte verso i ribelli, si riconciliò immediatamente
coll'ambiguo ed ardito ministro. I patrioti malmenati e dispersi non
ottennero nemmeno la solita pietà per tutti i vinti: il ministro
dell'interno Ponza di San Martino si vantò alla Camera d'aver fatto
sequestrare a Genova una risposta di Mazzini prima che stampata,
subornando con denari gli stampatori.

La profezia di Cesare Balbo, che la pace del 1849 fra Piemonte ed
Austria sarebbe un semplice armistizio, pareva realizzarsi, quando il
conte di Cavour memore dell'antico Scipione osò per meglio combattere
l'Austria entrare momentaneamente nella sua alleanza coll'Inghilterra e
colla Francia contro la Russia.


                                  Guerra di Crimea.

Dal 1815 al 1848 la Russia aveva sempre rappresentato nella Santa
Alleanza la maggior forza materiale, il più arcaico assolutismo
politico. Pronta a rovesciare mezzo milione di soldati ovunque
scoppiasse una rivoluzione, aveva nullameno secondata quella di Grecia
contro il sultano nel disegno secolare di conquistare la sublime Porta:
più tardi alla rivoluzione del quarantotto scrollante tutti i troni essa
sola rimase salda; ma per quanto la situazione europea le fosse
propizia, colla Francia sconvolta dalla republica, l'Austria in preda
alle sommosse, la Prussia disordinata da ribellioni, la Germania
assorbita nella dieta di Francoforte, l'Inghilterra isolata ed incerta,
non osò gettarsi sulla Turchia. Parve che l'imperatore Niccolò si
preoccupasse: anzitutto, di salvare il principio monarchico: quindi
soccorse l'Austria contro l'Ungheria, e minacciò tutte le rivoluzioni
congedando persino il legato sardo da Pietroburgo. Ma col ritorno della
pace lo rimorse il desiderio della conquista. L'idea russa lo traeva
irresistibilmente ad accaparrarsi la sovranità di quei Principati
Danubiani, che la Turchia aveva già cominciato a cedere da tempo con una
mezza emancipazione e un incerto protettorato. Quindi la questione, così
detta d'Oriente, si riaccese: tutte le diplomazie europee n'andarono
sossopra. L'Inghilterra, costretta alla rivalità colla Russia nell'Asia,
intese a frenarla in Europa; questa col vanire dell'impero ottomano
entro una conquista russa perdeva ogni equilibrio politico. L'Austria,
eteroclita federazione di popoli antagonisti riuniti nella servitù
dell'antica dinastia Asburghese, si sentiva minacciata dall'espansione
slava, che avrebbe riaccese le ribellioni appena spente infiammandone
altre; la Francia tornata all'unità imperiale con Napoleone III, e però
smaniosa di riprendere in Europa la perduta preponderanza, vedeva con
terrore estendersi un impero già occupante mezza Europa, e che
affacciandosi al Mediterraneo vi avrebbe incontrastabilmente dominato.
La Grecia invece si preparava con patriottica esultanza a un'altra
guerra contro i turchi.

Le preparazioni s'allungarono, corsero trattative, si tesserono i soliti
imbrogli diplomatici per guadagnar tempo. La Russia minacciava la guerra
al sultano come a difesa dei cristiani disseminati e soggetti all'impero
turco: le potenze occidentali invece dichiaravano questo ancora
barbarico impero necessario all'assetto europeo malgrado tutti i recenti
principii rivoluzionari. Per una delle solite antitesi storiche la
Russia ieratica della Santa Alleanza diventava improvvisamente fautrice
dei popoli e vessillifera della rivoluzione; Francia ed Inghilterra, la
nazione dell'89 e la patria della libertà parlamentare, si facevano d'un
tratto sostenitrici della più ribalda ed arcaica tirannide contro la
civile emancipazione di popoli cristiani.

Dopo tanti secoli i discendenti delle crociate si preparavano a morire
per la salvezza dell'impero maomettano; ma la guerra determinata da
ragioni di storia universale non doveva produrre grandi risultati
immediati. L'Austria, ristabilitasi per l'aiuto della Russia, nicchiava
ora alle sollecitazioni francesi ed inglesi per gettarsi forse meglio
sulla preda maggiore o dal canto del più forte: Napoleone III trascinato
dalla tradizione militare bonapartista ad avventure militari secondava
l'Inghilterra atterrita per l'avvenire delle proprie colonie asiatiche;
l'uno e l'altra, incapaci a sostenere coll'immane potenza russa una
guerra così lontana, corteggiavano l'Austria numerosa di soldati e
accampata sul confine del nemico.

Ma questo precipitando gl'indugi occupa (3 luglio 1853) i principati
Danubiani e poco dopo a Sinope assale la squadra turca: Francia ed
Inghilterra gl'intimano indarno lo sgombero dei Principati entro un mese
con un ultimatum del 27 febbraio 1854; poi il 12 marzo si alleano alla
Turchia guarantendole l'integrità del territorio in Asia e in Europa e
non chiedendole in ricambio che di non scendere a trattative col nemico
senza il loro consenso. Il 10 aprile a Londra le due grosse potenze
stipulano un secondo trattato di alleanza per ristabilire su basi
durature la pace fra la Russia e la Turchia, valendosi di ogni mezzo più
efficace a liberare il territorio del sultano dall'invasione straniera e
ad assicurare l'integrità dell'impero ottomano. Laonde dichiaravano di
rinunciare a qualunque conquista nell'interesse dell'equilibrio europeo
e di essere pronte ad accogliere nella loro alleanza qualunque altra
potenza europea.

Quest'ultima dichiarazione era una riserva ed un complimento per
l'Austria, che rispose colle solite tergiversazioni di non potersi
cimentare ad una guerra d'Oriente coll'Italia alle spalle pronta ad
insorgere per istigazione del Piemonte. L'argomento abbastanza buono per
sè trasse le due grandi potenze a trattare l'Austria come il sultano
assicurandole l'incolumità di tutte le sue provincie.

Il Piemonte aombrò. Il suo legato a Parigi nel leggere queste
assicurazioni all'Austria sul giornale ufficiale credette di doversi
lagnare per la sospettata lealtà del Piemonte; gli si rispose
ipocritamente coll'accusare il partito rivoluzionario italiano, ed egli
ribadì l'accusa. Ma l'Austria anche così garantita, proseguendo nel
giuoco di stancheggiare le diplomazie per meglio accreditare i propri
timori del Piemonte, fece proporre dal governo toscano all'inviato
inglese in Firenze una temporanea guarnigione di truppe austriache in
Alessandria. La grossolana manovra fallì, specialmente per opera di
James Hudson, ambasciatore inglese a Torino, che smentì a Londra i
denunciati apparecchi del Piemonte.

Nullameno questo sentivasi minacciato. Così ad una improvvisa domanda
dello stesso ambasciatore, se il Piemonte fosse mai per partecipare alla
guerra mandando nella Crimea un corpo di esercito, il conte di Cavour
annuì prontamente. La sua penetrazione di statista gli scopriva nella
temerità la sola via della prudenza: ma ritorcendo contro l'Austria il
giuoco diplomatico, chiedeva garanzie per l'indipendenza del Piemonte.
L'ardita idea parve poco dopo arenare nelle secche della diplomazia.
Francia ed Inghilterra nell'invito al Piemonte non avevano mirato che a
decidere l'Austria coll'assicurarle la pace in Italia. Infatti i
ministri inglesi Clarendon e Russell, proponendo più tardi al governo
sardo l'accessione al trattato del 10 aprile, intendevano patteggiare
con un subalterno, del quale l'esercito sarebbe stipendiato e comandato
dal generalissimo britannico. Cavour, solo al ministero nell'idea di
così temeraria avventura, cansò con nobile avvedutezza il pericolo anche
maggiore di questa umiliazione, pretese trattamento d'alleato, e mutò il
soccorso inglese di due milioni di sterline in un prestito al 3%. Pure
le difficoltà crescevano. La pubblica opinione avvertita del trattato,
vi si chiariva contraria: i vecchi piemontesi se ne sdegnavano come di
una follia rivoluzionaria, i rivoluzionari invece come di un tradimento
all'Italia per lo sperpero delle vite e del danaro italiano fuori di
essa e nell'alleanza indiretta dell'Austria ancora ostinata nei
sequestri sui beni degli emigrati. Una scusa italiana era necessaria a
questa guerra; quindi il ministro degli esteri generale Dabormida fu
inflessibile sull'aggiunta di due articoli al trattato, che obbligassero
anzitutto le potenze alleate ad ottenere dall'Austria la revocazione dei
sequestri e a prendere più tardi in considerazione nel futuro trattato
di pace le condizioni d'Italia.

Era giusto, ma impossibile diplomaticamente.

Gli emigrati, per iniziativa di Achille Mauri, con magnanima abnegazione
firmarono una lettera, nella quale chiedevano di essere trascurati per
l'interesse d'Italia; Francia ed Inghilterra, intente a trascinare
l'Austria riluttante, non osavano accettare simili condizioni:
finalmente la cancelleria austriaca in un nuovo trattato (2 dicembre
1854), così ambiguo che le riserbava libera azione nella guerra e i
maggiori diritti ad ogni probabile negoziato di pace, mentre rigettava
sulle altre due potenze tutto il peso della guerra, le rese impossibili.
Ma nemmeno qui finirono le ambagi tedesche; si dovette tenere una grande
conferenza a Vienna per un tentativo di componimento colla Russia, che
abortendo per l'opera subdola dell'Austria permise a questa di esimersi
dalla cooperazione delle armi. Così la guerra non pareva più che un
ostinato capriccio della Francia e dell'Inghilterra. Nonpertanto
l'Austria restava loro alleata.

La posizione del Piemonte peggiorava. Se l'Austria coll'invocare contro
di esso la garanzia della Francia e dell'Inghilterra lo aveva di primo
tempo esposto alle ostilità di una coalizione europea, ora il Piemonte
ritirandosi dalla guerra come l'Austria avrebbe trovato contro di sè
tutti egualmente nemici. La sua crescente importanza in Italia ne
sarebbe scossa, le nascenti simpatie in Europa mortificate. Cavour lo
comprese. Comunque l'impresa fosse per riuscire profitterebbe al
Piemonte; se l'Austria rimanesse inerte, il piccolo stato la
soverchierebbe colla gloria di aver ardito concorrere in tanta guerra
europea; se spingendo all'estremo la propria perfidia si alleasse colla
Russia, la questione italiana scoppierebbe spontaneamente.

Ma osando bisognava abbandonare ogni riserva.

Vittorio Emanuele lo aveva confessato francamente al duca di Grammont,
legato francese; il ministro Dabormida più generoso si ostinava nei due
articoli addizionali: Cavour soppresse articoli e ministro assumendo
anche il portafoglio degli esteri e presentando il trattato alla Camera.
La lotta parlamentare fu così violenta che il ministro per vincere
dovette scoprire la corona, già moralmente impegnata colle due grandi
alleate, e solleticare il patriottismo della sinistra col parlare degli
interessi della nazione invece di quelli del Piemonte. Lo czar sdegnato
aveva già dichiarata la guerra al Piemonte prima che le Camere
ratificassero il trattato.

L'opinione pubblica, incerta fra l'entusiasmo e la paura, fremeva:
Mazzini da Londra mandò un infelice manifesto ai soldati per spingerli
alla rivolta chiamando la loro impresa una deportazione.

Il 21 aprile 1854 il corpo di spedizione salpò da Genova; nel maggio era
già attendato sotto Sebastopoli. La guerra mal disegnata, peggio
condotta per gelosia di comando fra i generali inglesi e francesi e per
contraddizioni di propositi politici negli stessi governi, volgeva al
termine. Dopo una serie di errori, che avevano sollevato a sdegno la
pubblica opinione inglese contro i ladroni dell'amministrazione militare
e l'arrogante insufficienza di lord Raglan, generalissimo imposto dalla
corte, le truppe alleate stringevano d'assedio la terribile fortezza.
L'Austria occupati i Principati Danubiani, spiava coll'arma al piede:
Kossuth, il grande agitatore ungherese rifugiatosi a Costantinopoli,
tentava invano secondato da Omer Pascià, il migliore generale turco, una
sollevazione di patrioti contro di essa. Gli alleati in questo concordi,
non volevano guerra di popoli per timore di nuove rivoluzioni; quindi
fiaccarono prontamente la Grecia insorta, disdissero la Polonia,
contraddissero alle aspirazioni dei Principati.

La guerra, ormai concentrata sopra Sebastopoli, era mortificata da
sventure di ogni sorta. Triste l'inverno, più triste l'estate, malsano
il clima, colèra e tifo imperversanti. Alfonso Lamarmora, generalissimo
dei piemontesi, seppe conquistarsi tosto nel consiglio di guerra la
dignità di voto non assicuratagli dai trattati di Cavour. In tanto
sfacelo di ordini la sua piccola truppa, appena un quindicimila uomini,
parve un capolavoro: i soldati, consci di difendere l'Italia in quelle
plaghe lontane e frementi di rivalità colle famose milizie d'Inghilterra
e di Francia, si copersero di gloria. Alle prime arroganze di lord
Raglan, che pretendeva assegnargli come a subalterno ausiliario
dell'esercito britannico il posto da presidiare, il generale Lamarmora
rispose con orgoglio tranquillo facendo radunare il consiglio di guerra
e ottenendo di guardare Kadikoi, villaggio pericoloso, dal quale i russi
potevano sboccare nel mezzo delle trincee nemiche.

Quindi la guerra precipitò. Il generale Pelissier, succeduto al
Canrobert con ordine di prendere la fortezza a qualunque costo,
raddoppiò di vigore ed ammassò tutte le forze contro la torre di
Malakoff, massimo fra i baluardi di Sebastopoli: i russi guidati da
Gortschakoff avanzarono verso la linea della Cernaia per costringere il
nemico ad abbandonare gli approcci. All'alba del 16 agosto 1855 i russi
protetti dalla nebbia discendendo dal colle Makensie, assalirono
violentemente: difendevano la valle della Cernaia le milizie sarde e
circa quindicimila francesi: questi piegarono sulle prime, poi sostenuti
dai piemontesi ressero all'assalto. Era battaglia e fu vittoria
decisiva. Lamarmora aveva vinto salvando gli assedianti, resistendo,
respingendo con un pugno di uomini tutto lo sforzo della Russia.

La vergogna di Novara era cancellata.

A distanza di secoli la vittoria di Traktir pareggiava quella di Zama:
Scipione aveva liberato Roma in Africa, Lamarmora riscattava l'Italia in
Crimea; nessun'altra vittoria della lunga storia italiana, fra le molte
ottenute fuori d'Italia, potrà mai paragonarsi loro per l'arditezza
dell'idea e la grandezza dei risultati politici.

Tre settimane dopo la torre di Malakoff rovinava fulminata dalle
artiglierie francesi, e i russi evacuavano Sebastopoli dopo averla
incendiata secondo il loro barbaro patriottismo.

La guerra tornò a languire. Le perdite erano enormi da ambo i lati: la
Russia contava seicentomila morti, la Francia oltre centomila. Napoleone
III contento della vittoria, che gli otteneva vero riconoscimento
d'imperatore da tutti i grandi stati d'Europa, non intendeva spingersi
oltre nel pericolo di una guerra, che poteva sviare da un giorno
all'altro; l'Inghilterra, rassicurata sull'incolumità della Turchia, era
stanca; l'Austria, dopo aver perfidamente nicchiato durante la grande
impresa, stimò giunto il momento di trarne profitto imponendosi arbitra
fra i belligeranti.

Quindi con prepotente iniziativa sottopose ai gabinetti di Parigi e di
Londra alcune proposizioni di pace: neutralità del mar Nero chiuso a
tutte le navi da guerra e aperto a tutte le bandiere, rinuncia della
Russia al protettorato dei Principati Danubiani che ricadrebbero con
nuovo assetto sotto quello della Turchia, libero il commercio del
Danubio sino alla foce, limitato il dominio russo alla sponda sinistra
del fiume stesso, guarentigie dalla Turchia pei suoi sudditi cristiani.
Francia ed Inghilterra annuirono: la Russia vinta, piegò all'impreveduta
intimazione austriaca. L'armistizio si concluse il 1º febbraio 1856; il
congresso europeo a Parigi era indetto pel 25 dello stesso mese.


                                  Congresso di Parigi.

Dopo tanto armeggio diplomatico e tanta guerra di armi, l'Austria
giganteggiava arbitra della situazione. La magnifica temerità del conte
di Cavour conchiudeva contro di lui. La democrazia esasperata denigrava
adesso nel disastro dei risultati la magnanimità delle intenzioni,
giacchè la guerra d'Oriente immorale, costosissima di sangue e di
denaro, aveva conculcato ogni principio di rivoluzione e di civiltà per
la sola difesa d'inconfessabili interessi materiali. L'astro di Cavour
sembrava tramontare: si buccinava che il Piemonte sarebbe escluso dal
congresso, il pericolo anche troppo probabile di questa umiliazione
avrebbe ridotto l'impresa di Crimea ad un parricidio per il Piemonte.

Ma il conte di Cavour pronto al riparo aveva già consigliato a re
Vittorio Emanuele un viaggio in Francia e in Inghilterra, che si mutò in
trionfo: le simpatie alla causa italiana crescevano, l'Europa cominciava
a sentire la grandezza morale del piccolo stato. Ad una enigmatica ed
allora scettica frase di Napoleone III «_que peut-on faire pour
l'Italie?_» che al D'Azeglio era sembrata come quella di Pilato «_quid
est veritas?_» il conte di Cavour, sempre inteso ad annodare col proprio
incomparabile ascendente personale relazioni politiche in favore
dell'Italia, rispose in una lunga lettera del 21 gennaio 1856, dieci
giorni innanzi alla segnatura dei trattati di pace. In essa chiedeva
all'imperatore d'indurre l'Austria a rendere giustizia al Piemonte,
osservando gli obblighi con esso contratti e persuadendole meno aspro
governo nelle provincie del Lombardo-Veneto; di frenare l'anarchica
tirannide del re di Napoli e di ristabilire in Italia l'equilibrio del
trattato di Vienna collo sgombro delle truppe austriache dalla Romagna,
e colla costituzione delle Legazioni sotto un principe secolare.

Questo disegno così povero d'italianità e nel quale il grande
liberalismo unitario doveva necessariamente riconoscere un tradimento
dell'idea nazionale, fu nullameno scartato dal conte Walewski, primo
ministro francese, per riguardi all'Austria e per non complicare il
lavoro già difficile del congresso.

La politica piemontese procedeva di smacco in smacco. L'Austria,
abusando della propria preponderanza, pretendeva di escludere il
Piemonte dal congresso quale potenza di second'ordine, poichè il
trattato d'alleanza firmato audacemente da Cavour come non aveva
assicurato al Lamarmora la dignità di un posto nel consiglio di guerra,
così non aveva guarentito al Piemonte parità di trattamento al congresso
di pace. La tradizione diplomatica era ostile all'ammissione della
Sardegna, stato minuscolo, alleato fatalmente secondario che non avendo
deciso la guerra non poteva stabilire la pace. Ma l'astuto ministro
superò il Lamarmora guadagnando a forza di maneggi la propria entrata al
congresso. La prontezza del pensiero, l'a proposito delle osservazioni,
un tatto fascinatore, gli ottennero ben presto nel solenne consesso
simpatie ed importanza: con generosa avvedutezza egli sostenne la Russia
contro le pretese intrattabili dell'Austria, sedusse lord Clarendon,
persuase a Napoleone III e al conte Walewski, presidente del congresso,
di toccare malgrado ogni impossibilità di procedura al problema
italiano.

Un _Memorandum_ era già stato presentato ai ministri francesi ed
inglesi.

Tutto lo scopo dell'impresa di Crimea si condensava pel Piemonte in
questa presentazione al congresso della questione italiana; naturalmente
il congresso non potrebbe parlarne che platonicamente, ma il Piemonte
otteneva così il riconoscimento della propria egemonia sull'Italia; e
questa uscendo finalmente dal cerchio tempestoso delle insurrezioni
saliva a quello più fecondo dei governi. Tutta la destrezza del conte di
Cavour bastò appena per vincere le difficoltà che l'Austria moltiplicava
per sottrarsi a tale discussione. In un congresso per una guerra
combattuta contro tutti i principii di libertà e di nazionalità, il
miglior argomento per Cavour era la propria politica francamente
liberale ma risolutamente antirivoluzionaria: il suo spietato contegno
contro gl'insorti pei moti del 6 febbraio in Milano, la sua prudenza
nella questione religiosa con Roma, la sua guerra al mazzinianismo, gli
ordini ammirati ed ammirabili costituiti nel Piemonte, gli valsero il
permesso di parlare dell'Italia ad un congresso, nel quale l'Austria
primeggiava. Si credè o si finse di credere che i suoi propositi fossero
non già per una rivoluzione ma contro una possibile rivoluzione
italiana.

Infatti le sue proposte avrebbero piuttosto nociuto che giovato
all'Italia: le fruttò invece moltissimo l'aver sollevato il suo problema
interno a problema europeo.

Durante la discussione, alla quale il conte Buol plenipotenziario
austriaco si ricusò e dalla quale i legati russi finirono per ritirarsi,
il conte Walewski fu guardingo e rispettoso per lo stato pontificio,
giacchè il papa aveva in quei giorni tenuto a battesimo il principino
imperiale, limitandosi ad auguri di componimento fra sudditi e principi
italiani; il generale Manteuffel prussiano si mostrò scettico e
riservato, il solo lord Clarendon condannò impetuosamente i governi
papale e borbonico additandoli al disprezzo d'Europa. La sua foga fu
tale che per poco non ne nacque aspro diverbio col conte Buol, anzi
corsero fra essi tali frasi che non si vollero affidare al protocollo.
Il conte di Cavour illudendosi, malgrado la solita perspicacia,
sull'appoggio dell'Inghilterra in una guerra immediata contro l'Austria,
spinse più oltre l'attacco; ma una visita a Napoleone e un'altra a
Londra lo guarirono dell'illusione.

Naturalmente il congresso si limitò ad inutili consigli di minore
tirannide all'Austria e al re di Napoli: quindi al suo sciogliersi
Cavour presentò al conte Walewski e a lord Clarendon un memoriale, ove
riassumendo tutti gli esposti argomenti minacciava l'Europa di nuove
perturbazioni rivoluzionarie italiane per gl'insoffribili trattamenti
dei governi reazionari verso i sudditi, e lamentava ancora una volta
l'insostenibile posizione fatta al Piemonte fra le indomabili agitazioni
mazziniane e le pressioni minacciose dell'Austria.

In tutta l'Italia l'opera del conte di Cavour al congresso di Parigi
parve di vittoria: fioccarono indirizzi al grande ministro, crebbero le
dimostrazioni verso il Piemonte. I toscani mandarono all'abile
diplomatico un busto scrivendovi sotto il fiero verso di Farinata: A
«colui che la difese a viso aperto». Non si avvertì e non si potè
avvertire quanta insufficienza d'idea italiana e quale abbandono di
patriottici propositi importassero i disegni esposti da Cavour nel
_Memorandum_ col quale non osava nemmeno domandare lo sgombero degli
austriaci dal Lombardo-Veneto. Bastò alla coscienza nazionale il fatto
non piccolo che un congresso di diplomatici avesse condannato tutti i
governi dell'infelice penisola. Si comprese che il Piemonte come stato
non poteva usare il linguaggio nè proporre la rivendicazione della
patria coll'eroica ed intransigente formula di Mazzini; s'indovinò che,
qualunque fossero i suoi disegni pel futuro, aveva dovuto allora non
solamente mascherarli ma nasconderli; si sentì sopratutto che parlando
in nome d'Italia contro tutti gli altri governi in un congresso, al
quale essi non potevano entrare, il Piemonte iniziava quell'unificazione
della patria attribuitagli da Manin.

A conferma di questa interpretazione il conte di Cavour, non contento
delle frasi pronunziate alla camera contro gli ostinati oppositori della
sua politica, spezzando i vecchi metodi diplomatici pubblicò per le
stampe il proprio memoriale come una sfida: l'Austria presa al laccio fu
pronta a rispondere in egual modo con un altro più insolente, mentre
tutti i governi condannati tacquero come riconoscendo in essa il proprio
difensore.

Il conte di Cavour abilmente non replicò.


                                  Adesioni al Piemonte.

Evidentemente la sua politica cominciava a fruttare. Mentre il grande
partito democratico capitanato da Mazzini proseguiva indomabile
nell'opera rigeneratrice della coscienza nazionale, il Piemonte, pur
combattendolo e serbandosi impassibile dinanzi ai dolori della patria,
allargava la propria influenza. La nazione incapace d'insorgere al grido
di Mazzini si rivolgeva consolata a questo governo parlamentare così
forte da parlare all'Europa d'una politica italiana.

L'epoca eroica del metodo rivoluzionario era consunta: un'altra più
fortunata ne cominciava.

Molti fra i più illustri rivoluzionari l'intesero, e chiudendosi in
cuore i magnanimi ideali democratici, pensarono di aiutarla malgrado le
sue inevitabili contraddizioni forse più dolorose dei martirii sofferti.
Al grande distacco parve primo Manin nobilmente esule e silenzioso a
Parigi da molti anni. Poichè John Russell, uno dei migliori statisti
inglesi, a proposito dell'insurrezione greca nel 1854, consigliava
gl'italiani a tenersi tranquilli sotto l'Austria, perchè solo così
questa avrebbe potuto un giorno essere più umana verso di loro, con
sdegno eloquente Manin respinse il prono consiglio per riaffermare anche
una volta il diritto alla fede nella libertà e nell'unione d'Italia;
quindi facendosi interprete del pensiero di molti disperati in cuor loro
del programma mazziniano, sospinto da Giorgio Pallavicino, il venerato
martire dello Spielberg, coll'assenso di Garibaldi più capace d'ogni
altro a giudicare della potenza rivoluzionaria d'Italia, lanciò il nuovo
verbo in una serie di lettere politiche che fecero il giro di tutta la
stampa europea. La sua doppia formula: «Italia e Vittorio Emanuele --
Indipendenza ed Unificazione», era la consacrazione dell'egemonia
piemontese. Il passo era così decisivo che per nessun avvenimento si
sarebbe poi potuto ritrarsene. «Io repubblicano -- egli scrisse a Lorenzo
Valerio nel settembre 1855 -- pianto il vessillo unificatore. Vi si
rannodi, lo circondi, lo difenda chiunque vuole che l'Italia sia. Il
partito repubblicano dice alla casa di Savoia: fate l'Italia e sono con
voi; se no, no». E ai costituzionali dice: «Pensate a fare l'Italia e
non ad ingrandire il Piemonte; siate italiani e non municipali, e sono
con voi; se no, no». Poi scende a spiegare la parola unificazione: «Io
dico unificazione -- scriveva -- e non unione o unità; perchè la parola
unità sembra escludere la forma federativa, e la parola unione
sembrerebbe escludere la forma unitaria. Un'unificazione; può esser
unitaria o federativa. L'unitaria può essere monarchica o repubblicana.
La federativa non può essere che repubblicana: monarchica non sarebbe
che una lega di principi contro i popoli. Accetto la monarchia, purchè
sia unitaria: accetto casa Savoia, purchè concorra lealmente ed
efficacemente a fare l'Italia».

Fu uno strappo nel grande partito rivoluzionario, che Manin accusò
ingiustamente in una lettera di fondarsi particolarmente sulla teoria
del pugnale. Così lo si rendeva responsabile delle solitarie vendette, e
gli si toglieva nell'opinione d'Europa la poca stima rimastagli dopo
tanti rovesci d'insurrezioni e tante calunnie di governi. Mazzini ferito
al cuore rispose con lettera intenerita e severa, sfolgorante di logica
e di fede, ma non potè impedire lo sbandarsi di molti fra i migliori del
partito, nè ristabilire nelle masse la confidenza distratta dal nuovo
programma di Manin.

Nullameno questo programma così logico appariva pochissimo pratico.

La mossa politica di Manin nel passare dalla repubblica alla monarchia,
dalla iniziativa rivoluzionaria alla direzione regia, siccome trascinava
alla dedizione di quasi tutto il partilo liberale così non poteva
conservare ad esso vero programma. La saldezza degli ordini liberali era
oramai indiscutibile nel Piemonte, la sua facoltà d'iniziativa più che
provata al congresso di Parigi. Ma la sua politica di destreggiarsi coi
governi per cercarvi un alleato contro l'Austria lo costringeva
fatalmente alla rinunzia di ogni affermazione unitaria italiana. Il
Piemonte non poteva sognare che la conquista del Lombardo-Veneto, sola
regione limitrofa in mano allo straniero e che potesse venire annessa
senza rivoluzioni.

Quindi Manin, tracciando il programma della nuova Società nazionale
fondata a Parigi contro il grande partito nazionale riordinato da
Mazzini dopo la caduta di Roma, cadde nelle più misere contraddizioni.
La sua bella affermazione di libertà e di unificazione italiana per
mezzo del Piemonte, concluse a «continuare l'agitazione in Italia,
diffondere l'idea nazionale, esigere dai napoletani e dai siciliani
l'esecuzione delle costituzioni del 1848 ed organizzare il rifiuto delle
imposte; i toscani e i popoli dello stato pontificio sottoscrivere
petizioni pel ristabilimento delle costituzioni abolite; i
lombardo-veneti agitarsi come meglio potranno, prepararsi agli eventi,
non fare alcuna sommossa che non abbia probabilità di rivoluzione.
Appena scoppiata la rivoluzione, chi ne è alla testa proclami Vittorio
Emanuele re d'Italia e convochi un'assemblea nazionale italiana, che
rappresenti l'Italia insorta e possa, in caso di esitazione o ritardo
per parte del Piemonte, continuare l'opera del riscatto, usando tutti
gli elementi di forza che può somministrare la nazione».

Così l'unificazione d'Italia diventava impossibile in questo sogno
rinnovato dei riformisti e dopo la tristissima esperienza delle
restaurazioni.

Del problema di Roma non altra parola che questa da Manin: «Roma non si
muova». Egli sentiva bene che Roma era il cardine della rivoluzione
italiana, e che la sua questione risorgeva sempre improvvisa su tutte le
altre; ma republicano veneto, che non aveva osato applaudire alla
republica romana e aveva trattato col papa a Gaeta, non osava nemmeno
ora la proclamazione di Roma capitale d'Italia.

Nullameno l'efficacia della dichiarazione di Manin fu immensa. Tutti
coloro che aspettavano un illustre esempio per passare dal campo
disperato della repubblica in quello trincerato della monarchia
piemontese, si affrettarono sulle orme dell'esule glorioso contro il
quale nessuna accusa era possibile. Se il congresso di Parigi aveva
riconosciuto l'egemonia del Piemonte all'estero, Manin la consacrava
all'interno; il suo programma naturalmente assorbito da quello di
Cavour, non era più che l'ultima eco della grande declamazione
rivoluzionaria.

Alla Società nazionale di Parigi, che alla morte di Manin (22 settembre
1857) perdette naturalmente d'importanza, ne corrispose un'altra a
Torino per opera del La Farina, republicano preso recentemente
nell'òrbita di Cavour come un satellite. Con essa si mirò a disciplinare
entro metodi ed intenti regi quei republicani che dietro l'esempio di
Manin s'arrendevano alla monarchia piemontese pur conservando maggior
larghezza di propositi e più italiano ideale.

Invano Mazzini e Cattaneo, l'uno unitario, l'altro federalista,
sostennero con pari nobiltà d'ingegno e di fede la tradizione
republicana contro la tradizione regia: invano accusarono il Piemonte di
conquista, sperando così sollevare contro di esso gl'istinti democratici
moderni; più invano con logica inesorabile e stile luminoso esumarono
tutti gli errori e i tradimenti di casa Savoia, e cacciando con feroce
pietà la penna nelle ferite ancora sanguinolenti aperte da Carlo Alberto
nel corpo della nazione italiana tentarono sottrarla al fascino della
nuova illusione monarchica: storia e vita davan loro torto. L'ultima
tradizione italiana era regia. Da quando le signorie tramontando nei
principati e questi nei regni l'Italia si divise in quattro o cinque
stati, dei quali la Sardegna e le due Sicilie soltanto ebbero vera
importanza, il Piemonte dominando la valle del Po ed essendo a contatto
con tutta la maggiore varietà di spiriti e d'interessi italiani
rappresentò l'Italia in Europa. Le guerre e le catastrofi incessanti
invece di rovinarlo lo ampliarono: esso solo fu stato militare ed
indipendente. Le due Sicilie, maggiori di territorio e di popolazione,
vissero e soffrirono quasi straniere al resto d'Italia. La rivalità
storica di questi due stati si era risolta colla rivoluzione del '48: il
Piemonte col mantenere lo statuto aveva assunto di costituire l'Italia
conglomerandola in un solo grosso regno. Tre secoli di storia
esprimevano questa tendenza monarchica, giacchè le ultime repubbliche di
Venezia e di Genova erano perite nella peggiore inanizione, e quelle
improvvisate dalla grande rivoluzione francese erano state una conquista
altrettanto straniera che violenta.

L'ultima grande tradizione italiana era regia; in essa si verificava il
passaggio dalla forma federale all'unitaria colla forma obbligatoria
della conquista. Che se gl'istinti e i principii democratici moderni
sembravano contrastare a questa fatalità, la storia abituata da tempo a
procedere per contraddizioni si serviva di essi come di elementi
piuttosto atti a difendere il vecchio edificio italico che a dare forma
al nuovo: la democrazia nell'imminente rivoluzione italiana doveva
essere idea ed avvenire, la monarchia tradizione e forma.

Quindi Cavour crebbe gigante nell'opinione universale.

La sua politica non mirava che all'espulsione dell'Austria dal
Lombardo-Veneto: nel Piemonte governo, camere, costituzione, secondo un
motto giusto e spiritoso, tutto non era più che il conte di Cavour.
L'opposizione del conte Solaro della Margherita e del Brofferio,
dell'estrema destra e dell'estrema sinistra, passavano nell'aria satura
di passioni politiche senza determinarvi il più piccolo scoppio. La
dittatura parlamentare del grande ministro si consolidava ad ogni
scossa, saliva sempre più alto ad ogni discussione, come quei picchi che
paiono alzarsi all'occhio del viaggiatore che vi si inerpica. La lunga
pratica e la facile natura avevano identificato il conte di Cavour col
Piemonte: vi reggeva tutti i ministeri, vi assorbiva tutte le idee, vi
dava tutti gli ordini, vi portava tutte le responsabilità. Metternich,
vecchio ed esule dalla politica, diceva di lui: «L'Europa non ha più che
un diplomatico e questo è contro di noi». Alessandro Manzoni con più
fine penetrazione seguitava: «Egli ha tutto dell'uomo di stato, le
prudenze, e le imprudenze».

_Alere flammam_, era la sua divisa. Il Piemonte già povero ed ora più
impoverito dalla guerra di Crimea e dalla preparazione ad una guerra
maggiore, pareva a tutti oramai incapace di altre temerità economiche;
ma Cavour, profittando della sottoscrizione aperta da Manin a Parigi per
cento cannoni da regalarsi alla fortezza d'Alessandria, ne raddoppiava
le opere militari, le riallacciava a quelle di Casale e di Valenza sul
Po: sarebbe la prima barriera contro l'Austria e salverebbe il Piemonte,
dando tempo al suo alleato di accorrere. Così fu. Il Piemonte è la
regione più montanara d'Italia, ma questa il paese più marittimo
d'Europa, e quindi ha d'uopo d'un grande arsenale. Cavour risuscita
quindi il concetto napoleonico della Spezia, allora ai confini del
piccolo regno, e vi prodiga milioni, avventurandovi il massimo arsenale
dello stato. Il Piemonte aveva già sbalordito l'Italia per lo sviluppo
delle proprie ferrovie: nullameno Cavour, secondato da Paleocapa,
confida primo nel genio di Sommeiller e vuole stupire l'Europa forando
il Moncenisio.

Tutto piega alla sua volontà. In questa febbre d'iniziativa il suo scopo
più immediato è di esautorare la rivoluzione. Accetta i cento cannoni
per Alessandria dalla sottoscrizione aperta a Parigi da Manin e permessa
da Napoleone III, perchè torna a gloria del nuovo partito nazionale e
accenna già ad un non lontano accordo colla Francia; ma si oppone
tirannicamente ad un'altra aperta dai mazziniani per diecimila fucili da
offrirsi alla prima città capace d'insorgere: bersaglia di sequestri
incessanti il giornale repubblicano _Italia e Popolo_: profitta
dell'attentato di Agesilao Milano contro re Ferdinando di Borbone e
dell'infelice moto insurrezionale di Francesco Bentivegna in Sicilia,
per disapprovare tutti i disegni rivoluzionari e gittare replicatamente
sul partito republicano ogni più orribile accusa; prodiga persecuzioni
poliziesche, sguinzaglia la stampa contro Mazzini, contrapponendo
astutamente lo splendore dei propri risultati al suo fecondo e segreto
lavoro, la regolarità della propria preparazione diplomatica e
parlamentare alla necessaria anormalità della sua propaganda
rivoluzionaria; mescola ignobili arbitrî a replicate affermazioni
liberali, mescendo alla nazione, nel vino del nuovo entusiasmo
monarchico, il veleno d'una diffidenza sprezzante contro le più grandi
anime republicane intese a mantenere nelle ultime congiure la passione
patriottica necessaria fra non molto ad integrare con ribelli iniziative
i suoi stessi disegni di guerra falliti.

È la grande vigilia monarchica. Il partito republicano sta per morire.
Il Lombardo-Veneto si è acquetato, le Romagne sempre agitate si calmano,
gli ultimi tentativi nella Lunigiana hanno conchiuso ad una
insignificante follìa: nel Piemonte l'opposizione si volge appena
distratta ad ascoltare qualche brano di declamazione parlamentare verso
le alture dell'estrema sinistra: Garibaldi ansioso di nuova e vera
guerra ha disapprovato gl'inutili ammutinamenti con frase più terribile
di tutte le insinuazioni cavouriane: «Ingannati ed ingannatori!». Genova
sola, patria di Mazzini, fermenta. Se Torino è la capitale della
rivoluzione monarchica, Genova è la capitale della rivoluzione
republicana. Quindi Carlo Pisacane, esule, illustratosi nella difesa di
Roma, vi concepisce una suprema spedizione per sollevare le due Sicilie,
sventandovi le mene murattiane ed impadronendosi di mezza Italia per
controbilanciare così l'influenza monarchica del Piemonte. La polizia
piemontese non sa nè sorprendere la congiura nè impedire la spedizione.
Allora Mazzini tenta di sollevare Genova contro il governo piemontese,
per sostenere con nuovi invii di armati l'impresa di Pisacane; senonché
tutto gli fallisce e la sommossa conclude alla occupazione di un solo
fortilizio colla morte di un solo sergente, mentre il battaglione di
Pisacane è massacrato a Sapri.

Cavour, al quale lo smacco del suo grande avversario avrebbe dovuto
bastare, sembra invece perdere la solita prudenza. Quasi dubbioso della
sicurezza dello stato, sfoggia rigori, cerca a morte gl'innocui ribelli,
li ammassa nelle carceri, impalca un enorme processo per alto
tradimento, conduce una sozza campagna di calunnie contro gli accusati.
L'opinione lo seconda, ma questa volta egli, così abile a maneggiarla,
vi si ferisce. La persecuzione salva i ribelli dal ridicolo; Mazzini
sfuggito per miracolo agli agguati della polizia, rimbecca da Londra le
contumelie; le violenze infamanti del pubblico accusatore e le servili
parzialità dei giudici durante il processo mutano il collegio della
difesa in un'accademia di tribuni, che alla propria volta accusano il
governo e possono appaiarlo con quello di re Ferdinando, allora
egualmente occupato a disonorare i superstiti compagni di Pisacane;
finalmente le truci sentenze, che condannano Mazzini ed altri cinque
alla pena di morte, finiscono di compromettere il governo nella stima
degli onesti. Nullameno le condanne a morte, per un resto della solita
abilità, non colpivano che i soli contumaci; per gli altri si era
abbondato negli anni di galera.

Contemporaneamente Cavour mandava l'ex-ministro Boncompagni ad
ossequiare Pio IX, che tentava un viaggio nelle Romagne (1857), per
arrestarvi colla propria presenza il progresso delle idee liberali.

Il grande ministro piemontese s'impiccoliva ogni qualvolta per necessità
della propria politica s'affrontasse coll'idea republicana. Se Mazzini,
trascinato dall'antica rivalità col Piemonte, commetteva uno dei soliti
errori, tentando di sollevare Genova in aiuto di Pisacane, invece di
ribellare piuttosto Livorno o qualche altra città di uno stato
reazionario per non mostrare di cominciare l'attacco dall'unico governo
liberale d'Italia; Cavour, scendendo a persecuzioni peggiori delle
borboniche contro di lui, mentre nella politica interna si umiliava
indarno a Pio IX e nell'esterna subiva il disegno di Napoleone III per
un secondo regno murattiano nelle due Sicilie, scopriva il lato debole
della propria italianità.

L'eccesso della reazione fu tale che le elezioni generali, seguite poco
dopo, diedero un pericoloso sopravvento ai clericali: a Genova certo
avvocato Bixio, una nullità reazionaria, riuscì eletto contro Giuseppe
Garibaldi; molti canonici entrarono in parlamento; il conte Solaro della
Margherita trionfò contemporaneamente in quattro collegi. Il vecchio
Piemonte risorgeva contro il nuovo Piemonte italiano, per tentare una
suprema rivincita dopo otto anni di sconfitte. Cavour dimise dal
ministero dell'interno il Rattazzi, e ne assunse egli medesimo il
portafoglio, raddoppiando coraggiosamente la propria responsabilità per
meglio resistere al nuovo assalto.

Fortunatamente i tempi maturavano con benefica rapidità, e i successi
nella diplomazia estera riavvaloravano il ministero scrollato dalle
imprudenze commesse all'interno.

Poichè la pace del 30 marzo 1856 aveva lasciato molti punti indecisi
nella questione d'Oriente, e la loro questione facevasi ogni giorno più
difficile coll'Austria sempre più ostile, e la Francia sempre più
condiscendente alla Russia, Cavour si assunse destramente la parte di
paciere. Favorì l'unione della Moldavia colla Valacchia, secondo il
principio di nazionalità contro l'Austria; conquistò le simpatie dello
czar, al quale concesse una specie di diritto costante di rifugio in
pieno Mediterraneo nella rada di Villafranca; s'affaccendò a mantenere
l'Inghilterra unita alla Francia per averle più probabilmente entrambe
favorevoli; ma sopratutto corteggiò in Napoleone III le tendenze
avventuriere e la tradizione bonapartista, che lo traevano
inconsciamente d'impresa in impresa.

Così rifece con lui un disegno di ricostituzione del primo regno italico
con due principi francesi regnanti a Firenze e a Napoli. Mazzini era
sempre stato l'unità; Cavour non era ancora l'unificazione d'Italia.




CAPITOLO QUARTO.

L'opposizione rivoluzionaria


                                  Disfatta del mazzinianismo.

In questo periodo l'opposizione rivoluzionaria riassunta con eccelsa
grandezza personale da Giuseppe Mazzini si sdoppiò: la parte migliore
proseguì infaticabile nell'opera contro tutti i tiranni d'Italia;
l'altra, più sistematica ed intransigente, si torse contro il Piemonte,
che mirando ad una egemonia sull'Italia veniva a contraddire fieramente
principio democratico e forma republicana. Naturalmente lo sforzo
maggiore dell'opposizione come partito fu contro il Piemonte. Nella
guerra all'Austria e nell'odio alla reazione indigena convenivano quanti
italiani avessero coscienza di patria mentre nell'idea della futura
Italia tutti i partiti si urtavano. Il fallimento della grande
rivoluzione federale, comprendendo anche la formula mazziniana, dava
sovra essa un forte vantaggio alla nuova affermazione monarchica del
Piemonte serbatosi costituzionale malgrado ogni rovescio. La tradizione
regia e la tradizione republicana in lotta da molti secoli per il
primato nella storia italiana si accingevano ad una suprema battaglia in
quest'ultima preparazione rivoluzionaria. Da un canto stavano costumi,
interessi, ordini costituiti di classi, gerarchie di ogni tempo e di
ogni maniera: era in una parola tutta la vecchia Italia, che, sentendo i
tempi novelli, voleva risorgere a vita politica di nazione, rimutando in
se stessa solo quel tanto, che fosse strettamente necessario alla
propria ricostituzione. Dall'altro urgeva lo spirito moderno rinnovato
dalla grande rivoluzione francese intendendo il ricostituimento d'Italia
nell'abolizione di tutti i privilegi storici e coll'avvento del popolo
al governo.

Capitanava la tradizione regia il conte Camillo di Cavour, guidava
l'opposizione rivoluzionaria Giuseppe Mazzini.

Forse mai nella lunga storia italiana vi fu lotta più grande di
principii politici e di passione drammatica.

Alla caduta di Roma, Mazzini, tardi, con pochi amici, quasi dimentico
del proprio pericolo, riprese la via dell'esilio. Tutto un mondo era
franato su lui, ma egli ne dominava la ruina, dalla quale l'Italia
emergeva a stento come un immenso cadavere. La reazione trionfante
risaliva su tutti i troni d'Italia, si rassodava sui vecchi troni
d'Europa, aveva persino trascinato la republica francese a rovesciare la
republica romana per spianare la strada ad un secondo impero
napoleonico. L'eroico tentativo di Giuseppe Garibaldi, cacciatosi con
quattromila uomini fra gli Appennini per chiamare gl'italiani ad una
suprema riscossa, si era esaurito nella più infelice delle ritirate: il
generale stesso, profugo e cercato a morte, aveva potuto scampare a
stento fra la ressa delle pattuglie nemiche e l'accidia disperata del
popolo.

Mazzini riparò al solito nella Svizzera.

Di là con lettera fiammeggiante di sdegno scrisse ai ministri francesi
per la maggior parte consapevoli strumenti di reazione imperiale,
denunciò all'Europa con accento di profeta le intenzioni liberticide di
Luigi Bonaparte, rispose all'enciclica di Pio IX. Con una foga di
attività, cui i disastri sofferti parevano sprone, fondò a Losanna un
nuovo giornale, l'_Italia del Popolo_, e vi riagitò, instancabile
cavaliere della libertà, tutte le idee della democrazia, moltiplicando
intrepidamente gli avversari con attacchi simultanei a tutte le scuole
socialiste, redigendo con spaventevole sobrietà la cronaca del
dispotismo italiano, riannodando le rotte file delle società segrete a
ripreparare nel fervore delle battaglie recenti più vaste congiure. A
Roma aveva lasciato Giuseppe Petroni, republicano stoico ed oscuro che
una prigionia ventenne illustrò poi, perchè Roma fosse centro ai nuovi
propositi italiani: ma Roma era di tutta Italia la città meno incline
per natura e per storia a passioni di rivolte democratiche. Dalla
Sicilia, da Napoli, dalle Romagne, dai Ducati, dalla Lombardia
sopratutto, gli giungevano voci frequenti di ribellione. Pareva che
tutto il popolo fremesse ancora, nascondendo nel riposo della sconfitta
più fiera preparazione di guerra. E Mazzini sempre fisso nel concetto di
una rappresentanza popolare, prende sul serio l'atto (4 luglio 1849),
col quale gli avanzi dell'Assemblea romana si erano spontaneamente
costituiti in una specie di frammentario parlamento nazionale senza
mandato e senza sede.

Con esso crede possibile mantenere in Europa un'affermazione politica
nazionale: quindi riassorbe questo introvabile parlamento in un
comitato, del quale naturalmente rimane dittatore. Il primo manifesto
(settembre 1850) in nome del comitato nazionale, equivoco a forza di
essere conciliante, non parla che d'indipendenza, di libertà e
d'unificazione come scopo, e ne pone a mezzi la guerra e la costituente:
presso a poco la formula, che pochi anni dopo pronuncierà Daniele Manin.
Ma piemontesi e lombardi fusionisti urlano all'utopia demagogica, mentre
i repubblicani puri vi ravvisano sdegnosamente un atto di abdicazione e
di piemontesismo. Il prestito nazionale italiano per dieci milioni di
lire, da lui ideato ed emesso con cartelle segrete, non raggiunge che
una somma ridicola: tutti i governi d'Italia vegliano sulla propaganda
mazziniana, tutti i governi d'Europa tempestano di domande l'Inghilterra
perchè espella il pericoloso agitatore. Ma egli, sempre maggiore
apostolo che politico, al problema italico aggiunge quello di Europa, e
con Ledru-Rollin, Arnoldo Ruge e Darasz fonda il comitato democratico
europeo per riunire in un solo programma le forze e gli ideali
divergenti della democrazia continentale: poco dopo si allea con Kossuth
per prendere l'Austria fra due fuochi, smarrendo così nell'immensità di
un disegno sempre crescente quel senso della realtà immediata e quel
criterio esatto dei mezzi, che fanno della politica una scienza
piuttosto d'azione che di pensiero.

Se non che all'urto delle contraddizioni scoppianti in seno al partito
stesso nazionale, Mazzini, costretto a precisare meglio il proprio
programma, rispiega la bandiera republicana, e torna coll'incrollabile
fede del popolo a risognare una rivoluzione di congiure. Il suo ideale
democratico, svaporando, lascia nuda l'inguaribile miseria del disegno
rivoluzionario. I maggiori capi l'osteggiano. Maestri, illustre
economista, scorato, sconsiglia Mazzini dalla lotta per ritornare
all'innocua propaganda dei libri; Montanelli, ancora esaltato di
republicanismo, lo accusa di piaggiare il Piemonte; Cattaneo, che sulle
prime aveva riconosciuta valida la costituzione in parlamento nazionale
degli avanzi dell'assemblea romana, ostinato nell'idea del federalismo
italiano, si isola iracondo nella scienza: Cernuschi declama sulla
necessità di republicanizzare Mazzini; Sirtori, l'eroe della difesa di
Venezia, si dimette geloso dal comitato nazionale; Manin a Parigi si
chiude in un silenzio di disapprovazione; Garibaldi erra povero ed
abbandonato per le Americhe; Giuseppe Ferrari discende nella lizza per
scrivere un libro violento di critica, paradossale nella forma,
ammirabile di penetrazione, nel quale, soffiando su tutti i sogni
rivoluzionari, sostiene che l'Italia per risorgere deve farsi scettica e
francese. E tale scetticismo non sarebbe poi stato che l'abbandono di
tutte le formule idolatriche così mazziniane che papali, mentre la
Francia sola poteva col proprio intervento integrare tutte le
insufficienze dell'Italia alla rivoluzione. Così il grande filosofo
della storia concordava inconsciamente nell'idea e nell'opera di Cavour.
Ma Ferrari, dominato dai propri studi storici, restava federalista. La
disgregazione del partito mazziniano aumentava di giorno in giorno: alla
fede crescente nel Piemonte corrispondeva una sfiducia sempre più
sconsolata nell'efficacia del programma rivoluzionario. Cesare Correnti,
spirito fine e carattere oscillante, esprimeva per tutti questa
incertezza politica colla formula scettica «nessun programma: ecco il
nostro programma».

D'altronde il partito monarchico piemontese spingeva alla dissoluzione
del partito republicano con ogni mezzo. I giornali ministeriali con
perversa abilità vilipendevano in esso uomini, idee, intenzioni,
risultati: si seminava lo scetticismo, si dipingeva il partito come una
setta, si confondevano ad arte i migliori patriotti coi ribaldi
fatalmente assoldati o più fatalmente ancora penetrati nelle sue file,
si spezzavano le riannodate congiure per compiangerne i martiri e
calunniarne i proscritti. Nicomede Bianchi, diventato poi utile
storiografo raccogliendo in vasta opera i materiali diplomatici per la
storia moderna d'Italia, scrisse sulle _Vicende del mazzinianismo_ un
libro inane e velenoso, che nullameno nocque gravemente al partito:
Bianchi-Giovini scaricò sovra questo grossa parte del proprio odio al
papato; il Gallenga si fece corrispondente del _Times_, allora massimo
fra i giornali inglesi, per vituperare l'opera degli esuli italiani;
Carlo Pisacane, generoso ed intelligente ufficiale, che aveva ben
meritato della difesa di Roma, si staccò da Mazzini per seguire
Proudhon: Ausonio Franchi, dialettico poderoso, che di prete divenuto
razionalista doveva poi dissolvendo ogni stazione del proprio pensiero
ridiventare prete, nella _Religione del secolo XIX_ sgretolava con
critica penetrante la formula fondamentale di Mazzini _Dio e popolo_.
Altri republicani nobili ed austeri, come l'Anelli e il Vannucci, che
aveva scritto l'ammirabile libro sui _Martiri italiani_, si rifuggivano
negli studi o instavano più poco nella battaglia; giovani soldati come
Giacomo Medici, o politici come Emilio Visconti-Venosta subivano già
l'ascendente piemontese e si preparavano a disertare il campo.

Nullameno Mazzini resisteva.

Cacciato indegnamente dalla Svizzera per le pressioni di tutti i
governi, da Londra dirigeva con prodigiosa energia il moto
rivoluzionario. Nulla lo atterriva, nulla lo stancava; la sua fede
reagiva sull'evidenza di ogni fatto contrario; la sua passione gli
mostrava nell'orgasmo di pochi magnanimi un fermento irresistibile di
tutto il popolo. Giovanni Battista Carpaneto, console sardo a Tangeri,
ove aveva ospitato Garibaldi esule e derelitto, tentando una pubblica
sottoscrizione per fornirgli un minuscolo bastimento mercantile, col
quale potesse guadagnarsi la vita, non era riuscito che a venderne tre
azioni; il prestito nazionale non era andato molto più oltre; ma questi
due sintomi umilianti non scoraggiavano l'indomabile agitatore. Genova
era la capitale dei rivoluzionari; Nicola Fabrizi, severa figura di
soldato e di patriota, degna di campeggiare fra gli eroi di Plutarco,
rifuggitosi dopo la caduta di Roma in Corsica e quindi in Malta,
organizzava le congiure nel mezzogiorno; a Milano altre società
politiche ricostituitesi malgrado il terrore della polizia ripreparavano
altre giornate; Mantova era centro alle speranze ribelli del Veneto; i
Ducati fremevano; Livorno sembrava pronta ad insorgere d'ora in ora.
Mazzini spingeva e al tempo stesso era spinto dai più temerari fra i
ribelli; ma tutte le congiure abortivano; l'ecatombe dei martiri,
cominciata a Milano collo Sciesa, crebbe di giorno in giorno, i supplizi
spesseggiarono, Mantova s'infamò di patiboli, la sommossa del 6 febbraio
a Milano infelicemente condotta fu atrocemente soffocata, i moti nella
Lunigiana e a Parma violentemente e facilmente repressi, l'ultimo
tentativo nel Cadore del maggiore Calvi mancò. Evidentemente la
rivoluzione era impossibile: fuorusciti e popolani si arrisicavano soli
nelle sue disperate fazioni e morivano intrepidamente, o, sottraendosi
colla fuga fra i rischi di ogni persecuzione, ritornavano più fieri alla
prova; ma la massa del popolo guatava sbigottita, e la maggioranza della
borghesia condannava quei conati, che peggioravano la sua situazione.

Mazzini, gridato da tutti solo responsabile di tanti disastri, si mutava
in un simbolo sinistro e fascinatore, mentre il Piemonte, unendosi agli
altri governi per combatterlo, giustificava la reazione di coloro, che,
alieni da tali modi rivoluzionari, volevano pur restare italiani di
cuore. La sua posizione politica si faceva ogni giorno più
insostenibile, dacchè agli antichi avversari si era aggiunto questo
nuovo a pretendere l'indipendenza nazionale coll'iniziativa di un
governo francamente parlamentare. Se Mazzini nella propria opera di
democrazia europea dava al problema italiano un'irresistibile
popolarità, che presto o tardi doveva renderlo accetto alla pubblica
opinione, il conte di Cavour, oppugnando con destrezza spinta talvolta
alla perversità il partito rivoluzionario, persuadeva i governi
dell'attitudine degl'italiani ad un ordinato vivere politico compatibile
cogl'interessi dinastici ancora dominanti in Europa.

L'opposizione rivoluzionaria doveva dunque vedere fatalmente nel
Piemonte il maggiore nemico. Con esso l'avvenire d'Italia non avrebbe
potuto evitare una conquista regia troppo poco promettente malgrado ogni
vanteria costituzionale, giacchè, per compiacere alla Francia e per
terrore di Vienna, imprigionava i generosi scampati alle sommosse o alle
condanne austriache. In questa lotta disuguale Mazzini sentiva che senza
un'insurrezione almeno parzialmente trionfante era impossibile
controbilanciare l'influenza del Piemonte. I ricordi guerreschi
dell'ultima rivoluzione ribollivano nel suo spirito mantenendogli la
fede nella potenza popolare: le concordi aspirazioni della democrazia
europea gli facevano sperare una più vasta rivoluzione continentale, che
ricomponesse la sbranate nazionalità. A Londra aveva costituita una
società di _Amici d'Italia_, che lo sovvenivano di denaro; a Genova il
suo giornale, _L'Italia del Popolo_, diretto da Savi e da Quadrio,
combatteva aspramente la politica di Torino analizzandone con
implacabile logica tutte le deficienze, mentre il governo lo vessava
invano di sequestri, senza osare sopprimerlo per rispetto alla libertà
statutaria. Le difficoltà aumentavano ogni giorno. Alla guerra di
Oriente le diplomazie avevano ironicamente lusingato il Piemonte sino a
fargli sperare la corona di Spagna pel duca di Genova e la Lombardia per
Vittorio Emanuele, pur garantendo invece all'Austria l'integrità de'
suoi possessi italiani: ma alleanza e guerra avevano dato non pertanto
nuova importanza al piccolo stato. Ora i disegni napoleonici di una
nuova dinastia murattiana a Napoli, fatalmente secondati da Cavour,
attiravano sull'Italia il pericolo di un'altra dominazione straniera. In
tale cospirazione entrarono infelicemente prima il Saliceti e il
Ruffoni, poi il Montanelli e il Sirtori. Mazzini fu pronto al riparo,
denunziando con eloquenti proteste i colpevoli tentativi: dalle prigioni
napoletane Carlo Poerio e Silvio Spaventa risposero tragicamente
«preferire di morire in carcere che stendere le loro mani pure a
quell'avventuriero»; tutti gli esuli napoletani si unirono loro.
Nullameno il disegno non fu politicamente abbandonato.

La gloria conquistata dal Piemonte nella guerra di Crimea stabiliva la
sua egemonia sull'Italia. Invano Mazzini per le persecuzioni prodigate
agli insorti del 6 febbraio aveva posto ai ministri piemontesi il
terribile dilemma: siete coll'Austria o con noi? Invano per l'accessione
del Piemonte al trattato del 10 aprile 1854 ripetè al conte di Cavour:
siete coll'Austria! Invano con uno sciagurato proclama ai soldati
piemontesi chiamò una deportazione la loro andata in Crimea incitandoli
alla rivolta, e previde mirabilmente tutti gli errori diplomatici della
guerra: la vittoria morale ottenuta dal conte di Cavour al congresso di
Parigi umiliava l'inutile eroismo di tutte le precedenti ribellioni.
Finalmente la conversione di Manin al Piemonte affrettava l'ultimo
schianto nel partito mazziniano.

Con Mazzini non rimasero più che i republicani puri. Garibaldi, assalito
dall'_Italia del Popolo_ con ingiusta violenza per le vecchie gelosie
del Rosselli nel comando durante l'assedio di Roma, dopo tutti quegli
inutili e sanguinosi tentativi di rivolta, accettava l'iniziativa
piemontese pur riserbandosi di sorpassarla. Allora il grande partito
rivoluzionario fondato colla Giovine Italia rimase appena una setta, che
Manin ingiuriò atrocemente, accusandola di predicare la teorica
dell'assassinio politico, e sulla quale Garibaldi pei moti di Parma
aveva gettato le terribili parole: Ingannati ed ingannatori!

La tradizione republicana era vinta. Il sangue dei tremila martiri,
straziali da tutti i tiranni indigeni e stranieri, non era bastato a
rinvigorire la coscienza nazionale estenuata da tanti secoli di
schiavitù: il prodigioso apostolato di Mazzini non aveva convertito che
i migliori, ed anche questi, riconoscendo l'impossibilità immediata del
suo programma, si rassegnavano all'iniziativa piemontese, per
raggiungere col sacrificio della libertà democratica l'indipendenza
nazionale.

Mazzini medesimo ne fu scosso. La sua ultima formula «Per la nazione e
colla nazione» meno esclusiva delle altre, non mirò che a mantenere il
partito democratico all'avanguardia della rivoluzione, accettando il
concorso del Piemonte, ma procrastinando a dopo la vittoria la decisione
del paese sulla forma di governo. Era un principio di abdicazione,
giacchè l'esiguità dei mezzi rivoluzionari in confronto dei forti
preparativi guerreschi del Piemonte e delle sue necessarie alleanze in
una guerra contro l'Austria avrebbe fatalmente subordinata la democrazia
alla monarchia. D'altronde senza una poderosa insurrezione la democrazia
non poteva essere accettata per vero partito d'azione. Mazzini come
risposta alla sottoscrizione aperta da Manin in Francia per fornire
cento cannoni ad Alessandria ne ideò un'altra di diecimila fucili da
regalarsi alla prima città insorgente: ma Cavour vietò questa colletta
pericolosa, che, armando i rivoluzionari poteva guastargli il sapiente
giuoco di approcci, col quale circuiva la Francia. Ma senza denaro e
senza armi un'insurrezione era impossibile. Peggio ancora la nuova
Società Nazionale del La Farina, disciplinata da Cavour, intralciava
ogni mossa ai vecchi mazziniani.

Tutto quel romanticismo del principio del secolo che aveva così
enfaticamente atteggiato arti, scienze, filosofia e politica, sciupando
con inconscie teatralità i migliori momenti della rivoluzione, vaniva
ora al soffio dei minori interessi. Patria, libertà, democrazia
discendevano dalla sfera luminosa dei principii a quella organica dei
fatti: si voleva una ricostituzione d'Italia, ma senza pretendere di
tutto rinnovare in una sola volta; si accettava la monarchia di Piemonte
come un enorme progresso su tutti gli altri stati; si desiderava
l'unità, ma accontentandosi di una unificazione qualsiasi, e si mirava
sopratutto all'espulsione dell'Austria. I grandi problemi politici e
religiosi, posti da Mazzini a capo della rivoluzione, non erano peranco
maturi: bisognava giovarsi dell'opportunità, tradire forse i principii,
mutare programma appena fosse utile, stringere la solidarietà dei
maggiori interessi, mostrarsi scettici e pratici, frazionando il disegno
italico per attuarlo parzialmente. L'epoca delle eroiche passioni era
consunta: queste dovrebbero rianimarsi nei giorni delle imminenti
battaglie, ma la direzione suprema della politica aveva ora a
consigliarsi coi governi di Europa per offrir loro una forma accettabile
di rivoluzione.

Dal '21 al '48 il metodo rivoluzionario aveva sempre fallito. Mazzini
lottava invano contro questa tradizione d'insuccessi. Se a lui solo si
doveva il merito di avere accesa la febbre del patriottismo nell'anima
della nazione, a lui solo del pari si dava la colpa di ritardare il
vicino riscatto d'Italia con una superba caparbietà nel vecchio
inattuabile programma democratico. In questa reazione contro di lui non
si riconosceva più l'efficacia della sua intransigenza, per la quale,
mantenendosi presenti allo spirito italiano i grandi ideali
rivoluzionari, si sarebbe poi potuto con rapido intervento di ribellioni
integrare le probabili insufficienze del disegno cavouriano. Si
dimenticava che la più eccelsa grandezza del genio italiano stava
appunto in questa sublime ostinazione rivoluzionaria di Mazzini, che,
prima di risolvere il problema italiano, lo unificava nel problema
europeo, fondendo in una potente unità questioni religiose e politiche,
prevenendo le più accettabili idee socialiste e fecondando i germi di
quella democrazia, cui la monarchia nella ricostituzione della patria
doveva essere coccia e cuna.

Ma irresistibili necessità dialettiche traevano Mazzini a sempre
maggiori sforzi di ribellione. Poichè l'Austria era troppo forte nel
Lombardo-Veneto, e i Ducati troppo incerti, e la Toscana troppo molle,
eccettuandone Livorno, solo le due Sicilie offrivano qualche probabilità
di rivoluzione. Già il moto di Bentivegna e il regicidio di Agesilao
Milano tradivano forti impazienze: Palermo, implacabile nell'odio contro
Napoli, sembrava fervere di patriottismo italiano; la corona di Sicilia
offerta al duca di Genova durante la rivoluzione del '48 aveva schiarito
l'idea dell'unificazione; si erano avviate pratiche con lord Palmerston
e coi capi della legione anglo-italiana fondata dal Fabrizi a Malta,
così che l'illustre ministro inglese se ne era servito per contrastare
ai disegni napoleonici sul reame. A Napoli s'allargava il lavoro segreto
dei patrioti divisi fra unitari monarchici, nazionali e murattiani.
Bisognava per resistere all'influenza del Piemonte provocare una
rivoluzione nel mezzogiorno, che come stato libero e lontano
dall'Austria avrebbe potuto ricostituirsi senza immediato intervento
straniero.

Una rivoluzione trionfante a Napoli e a Palermo avrebbe forzato il
Piemonte a dichiarare la guerra all'Austria, sotto pena di perdere il
proprio primato italiano: tutto il resto d'Italia ne andrebbe sossopra.

Mazzini vi si infervorò. Già Alberto Mario, il più squisito cavaliere
della nuova borghesia, come D'Azeglio era il più amabile della vecchia
aristocrazia piemontese, ma di lui più fine nell'ingegno e più
avventuroso nel carattere, aveva fino dal 1852 proposto di tentare una
sollevazione nel Napoletano anzichè nella Lombardia: più tardi
Garibaldi, aderendo ad un disegno di Panizzi, celebre bibliotecario del
_British Museum_, per liberare Settembrini e gli altri prigionieri dal
carcere di Ventotene, accettava di tentarvi uno sbarco con un battello a
vapore, ma questo affondò traversando la Manica. Quindi Carlo Pisacane
meditò a Genova di scendere sulle coste siciliane o napoletane con poca
truppa ad iniziarvi la rivoluzione.

L'impresa patriottica e romantica affascinò le menti dei maggiori
rivoluzionari. Mazzini, rappattumatosi con Pisacane dopo un breve
dissidio di teoriche politiche, venne segretamente a Genova (1856) per
concordare mezzi e disegni: egli intendeva contemporaneamente sollevare
Genova per forzare il Piemonte alla guerra contro l'Austria e al
soccorso di Pisacane, senza calcolare che una ribellione a Genova in
quel momento avrebbe costretto il Piemonte alla guerra civile per
necessità di difesa, togliendo così alla guerra nazionale il più valido
concorso. Era l'ultimo errore della sua opposizione cominciata colla
spedizione di Savoia, e doveva finire in più infelice tragedia.

Carlo Pisacane fu quindi il martire della nuova impresa, nella quale
pochi anni dopo Garibaldi doveva sfolgorare eroe trionfante: oggi il
giovine partito socialista lo vanta antesignano, e cerca ogni modo
d'ingrandirlo, per farne un rivale di Mazzini.


                                  Carlo Pisacane.

Questo principe, orfano, povero, educato al collegio della Nunziatella
in Napoli sua patria, paggio alla corte borbonica, poi ufficiale ed
ingegnere, si era presto distinto per merito in alcune opere
ferroviarie. Ma sospetto per il carattere mite ed austero ai superiori,
e poco dopo forzato da un amore infelice a fuggire a Londra, si
arruolava nella legione straniera militante per la Francia contro gli
arabi d'Algeria. Di là ai primi scoppi della rivoluzione correva a
Milano, vi ricusava il grado di colonnello per campeggiare tosto sul
Tirolo colla legione Borra, e vi era ferito. Respinto dai capi, che il
disastro sbaragliava dovunque, incontrandosi nella Svizzera con Mazzini,
ne subiva l'irresistibile ascendente: quindi Mazzini, diventato
triumviro della republica romana, lo nominava per la sua bella tempra di
soldato allo stato maggiore per la difesa della grande città. Qui
Pisacane si rivelava fra i migliori ufficiali in ammirabili servigi; ma
Roma cadeva, e l'esodo di tutti lo travolgeva più povero e più nobile di
prima per le contrade d'Europa. Pochi avevano sospettato delle sue
grandi qualità, nessuno aveva ancora avuto campo di misurarle. Il suo
primo libro, _Guerra combattuta in Italia negli anni 1848-49_, passò
inosservato, quantunque fosse forse la migliore scrittura di guerra
allora pubblicata; però in essa Pisacane non aveva compreso il genio
originale di Garibaldi.

Ma ricoverato finalmente a Genova e sopportatovi a stento dal sospettoso
governo piemontese, Pisacane vi si isola nello studio, raddoppiando con
istinti di novatore e con amarezza di esule la ribellione del proprio
pensiero. Come in tutte le più belle figure di quel tempo, anche in lui
fermenta una poesia romantica, che lo attira ad avventure intellettuali
e guerresche: una segreta tristezza gli acuisce il senso critico, una
inesausta generosità lo spinge oltre il problema politico verso il fondo
tenebroso ed ululante delle questioni sociali. Quindi la rivoluzione
italiana non diventa per lui che un incidente, del quale le lotte e il
trionfo non scemeranno di un'oncia l'immane massa di miserie millenarie,
che pesano sul popolo.

Il suo spirito, malgrado la nativa dolcezza, è già ateo, ma questo
ateismo non esprime ancora che una dolorosa reazione del suo sentimento
sull'idea popolare di una provvidenza divina. La religiosità di Mazzini
lo irrita, l'inevitabile e soffocante disciplina del partito
rivoluzionario lo esaspera al punto che la passione della libertà gli si
trasforma inconsciamente in una smania d'insubordinazione.
Nell'irresistibile foga di una prima critica egli non crede più a nulla:
Austria e Piemonte gli sembrano due governi egualmente oppressori,
sebbene quello sia straniero: ogni religione è il capolavoro di una
ipocrisia, ogni idea ultramondana uno sciocco abbandono della terra.
Così cercando istintivamente, come tutti i ribelli, le giustificazioni
della propria rivolta nel passato, si caccia attraverso la storia. Senza
studi e senza metodo critico si vi smarrisce tosto, malgrado l'unicità
dell'idea che lo guida. I suoi autori sono napoletani, Vico, Pagano,
Filangeri: sovra i due primi ridipinge confusamente il quadro
dell'antichissima Italia: ignora gli studi posteriori, interpreta ogni
decadenza come una caduta morale ed economica dovuta alla tirannia del
capitale. Rifà la storia di Roma sui manuali di scuola, vede nel
cristianesimo un regresso, nel papato una frode colossale, nel medio evo
una tenebra, nei comuni un'oasi popolare, che spiega colle odierne
teoriche socialiste. Tutta la lunga storia italica sfugge così alla
penetrazione del suo ingegno, che nullameno ne illumina tratto tratto
qualche problema. Mentre un arido materialismo economico gli contende
pressochè tutte le rivelazioni del passato, la passione degli studi
militari, eccitata dal più nobile patriottismo, lo spinge a vedere nei
romani il modello di tutti i popoli guerrieri. Colla loro legione egli
spiega ogni loro vittoria, esamina minutamente la loro tattica, segue lo
sviluppo della loro strategia, analizza a una a una le loro più famose
battaglie, critica e sentenzia con superba e meditata coscienza della
propria capacità. E dove un patriottismo retrospettivo non lo accieca,
come nello studio sopra Scipione che vorrebbe superiore ad Annibale, i
suoi giudizi lo elevano fra i migliori maestri dell'arte militare.
Quindi, arrivando al rinascimento, coglie magistralmente le
incomparabili qualità guerriere di Francesco Sforza e di Niccolò
Piccinino, assiste fremendo al decadimento delle armi italiane, valuta
l'opera rinnovatrice di Montecuccoli, di Gustavo Adolfo, di Federico II
e di Napoleone I, si appassiona agli inescusabili disastri dell'ultima
rivoluzione italiana; ma, fuorviato dall'esempio della grande
Convenzione francese, che con improvvisati eserciti cittadini
sconfiggeva quelli stanziali di tutta Europa, ricade con Mazzini
nell'illusione di una guerra e di una vittoria popolare.

Perciò, immaginando l'Italia ricostituita in nazione, schizza
coraggiosamente i primi lineamenti del suo esercito sociale.

Nei quattro _Saggi_ che di lui ci rimangono e che furono stampati dopo
la sua morte, quello pel quale ora gli venne vera importanza politica, è
il terzo della _Rivoluzione_. Scientificamente e letterariamente è quasi
senza valore: vi mancano del pari principii filosofici ed economici; è
confuso, diffuso, scarso di argomenti, povero di materiali, incerto nel
metodo, inconsapevole nelle conseguenze. Dei maggiori socialisti
francesi, dai quali deriva, quegli che più vi traspare è Proudhon, ma
senza il rilievo del suo stile e l'irresistibile ingranaggio della sua
logica. Naturalmente vi fa da fondamento il teorema di Bentham sulla
ricerca della felicità; la critica agli ordini della società vi muove da
un concetto di giustizia: solo la formula vacua -- Libertà ed
Associazione -- contraddicendo alle costruzioni sistematiche del
socialismo d'allora, che pretendevano ridurre il mondo ad una monotona
vita mezzo di caserma e mezzo di convento, rivela l'indipendenza del suo
spirito. In questo saggio, dietro i classici esempi di Saint-Simon, di
Fourier, di Cabet, di Proudhon, è redatto anche il nuovo patto sociale
con ingenua facilità e con alcuni commenti, dai quali s'indovina in
Pisacane un convenzionale in ritardo. La necessità di una pronta e
spietata distruzione sociale vi è affermata alteramente.

Questa l'opera del suo spirito, che solo l'ultima impresa della sua vita
ha potuto illustrare così, da alzarlo oggi all'onore di campione del
partito socialista italiano.

Ma l'aridezza materialistica che ne rende più squallido il dilettantismo
storico, e l'insufficienza di dottrine economiche che le tolgono ogni
valore fra i tanti studi socialistici di Francia, di Germania e di
Russia, sono vivamente compensate dalle sue ammirabili contraddizioni
colla natura spirituale dell'autore. Questo ateo ha la passione di tutti
gli ideali, questo anarchico distruggitore non invidia e non odia:
nessun vizio ha mai contaminato la sua vita, nessuna ambizione diminuito
il merito dei suoi molti sacrifici. Volontario nella rivoluzione e nel
socialismo, non si è mai ricordato di essere nato principe, e vi è
rimasto gran signore; la sua nuova famiglia cresciuta da un adulterio
vive nella castità di un unico amore; la sua utopia non è che il voto di
un gran cuore, e rimane incompresa in quella tormenta di passioni
politiche, che si esauriscono alla vigilia della rivoluzione unitaria.

Infatti Pisacane, riattirato dalla generosità dell'animo nelle lotte del
momento, a trentanove anni gitta i libri come inefficaci alla patria, e
si vota alla morte per sollevare con uno sforzo supremo le due Sicilie
contro il Borbone. Il suo testamento politico è sublime d'ingenuità.
Dopo aver dichiarato di non credere al beneficio di nessuna
costituzione, e che neppure la rivoluzione politica gioverà al popolo,
nullameno si avventura nella più arrischiata delle spedizioni. Il suo
istinto maggiore della sua ragione, il suo cuore più alto del suo
intelletto, lo spronano ad un olocausto senza fede e senza speranza,
meraviglioso ed assurdo.

Ma nell'azione egli sembra ritrovare tutto se stesso. Le sue più belle
qualità sfolgorano improvvisamente: dimentica il breve dissidio con
Mazzini, si rituffa nelle cospirazioni coll'ardore di un neofita e la
bravura di un cavaliere. Preso nell'irresistibile illusione di Mazzini
che fida sempre nel popolo, egli napoletano crede che i napoletani
aspettino solo un esempio per insorgere: scendere sulle rive del
mezzogiorno con un pugno di congiurati, ribellarlo, cacciare i Borboni,
sollevare tutta Italia, diventa il suo sogno. Nella miseria di mezzi del
partito rivoluzionario e per la necessità di eludere la sospettosa
polizia piemontese, egli medita d'imbarcarsi con pochi compagni sopra un
vapore postale, d'impossessarsene sorprendendo l'equipaggio, e con esso
approdare nel regno. La prima prova gli fallisce, quindi si avventura
solo a Napoli per meglio saggiare il terreno. Tutto gli pare pronto; la
fatalità di una vera rivoluzione dopo gli ultimi insuccessi nella
Lunigiana lo incalza. Il 25 giugno 1857 s'imbarca con alcuni amici sul
_Cagliari_, vapore sardo, diretto verso la Sardegna: Rosolino Pilo,
altro principe siciliano del sangue d'Angiò, deve raggiungerlo in mare
con una seconda imbarcazione di congiurati; ma, sbattuto dalla tempesta
e sviato dalla nebbia, vi si smarrisce: nullameno Pisacane riesce ad
impadronirsi del _Cagliari_. Allora si dirige sull'isola di Ponza, vi
sbarca, vi libera 323 prigionieri, per la maggior parte politici, e si
difila sul golfo di Policastro. A Genova nulla è ancora trapelato
dell'impresa, a Napoli nessuno sospetta di uno sbarco. I congiurati
toccano la spiaggia di Sapri al grido di: viva l'Italia e viva la
republica! ma i contadini sbigottiti guatano senza comprendere. Una
prima vittoria dei ribelli sopra alcune squadre di gendarmi non basta a
persuadere le campagne. Allora Pisacane colla piccola schiera s'addentra
nella terra per la via di Sala, cercando di guadagnare i monti e
sperandovi migliore accoglienza; se non che una grossa mano di regi
spiccata da Salerno lo arresta e lo sconfigge. L'impresa è perduta, ogni
scampo precluso. Un nucleo di cinquanta superstiti stretto intorno a
Pisacane può nullameno ritirarsi sul Cilento, ma la novella della
disfatta, il timore delle milizie incalzanti i fuggiaschi, l'avidità dei
premi promessi, le feroci eccitazioni del clero scatenano la plebe alla
strage. Pisacane, sopraffatto dopo eroica difesa, è finito a colpi di
ronca dai villani, quasi tutti i suoi compagni scannati; i soldati regi
vollero o poterono appena salvarne alcuni per trarli in trionfo a
Napoli. Fra questi fu Giovanni Nicotera, robusta tempra di soldato e di
politico, divenuto poi ministro del regno d'Italia, e che venne allora
cogli altri condannato a morte. Il processo al solito passò d'infamia in
infamia, si tentò di disonorare gli accusati; peggio ancora i
murattiani, aspramente combattuti da Nicotera negl'interrogatorii
levarono indegne grida di tradimento, associandosi al governo borbonico.

Intanto Mazzini a Genova falliva nell'ultimo conato di sollevare la
città, e il governo piemontese rivaleggiava col napoletano nella ferocia
della repressione contro i ribelli.

Maurizio Quadrio a Livorno non era stato più fortunato, tentando una
insurrezione contro il granduca. Il partito rivoluzionario era vinto.

La pubblica opinione, unanime nel condannare l'infelice impresa di
Pisacane, non volle nemmeno ammirarne l'eroismo: la stampa liberale
monarchica ne vilipese idea, uomini e risultato; quella reazionaria ne
parlò come di un caso di brigantaggio; l'Europa abituata a tali
insuccessi delle rivoluzioni italiane, non se ne commosse. Solo Victor
Hugo coll'infallibile divinazione dei poeti comprese il fato di questi
nuovi argonauti della libertà e scrisse: «John Brown è più grande di
Washington, Carlo Pisacane più grande di Garibaldi».

La disfatta di Pisacane prostrò il partito rivoluzionario: il Piemonte
crebbe d'importanza, il mazzinianismo non fu più che una setta, il
federalismo una scuola. I murattiani, indipendenti o ligi al Piemonte,
non miravano che a migliorare il proprio governo napoletano con una
nuova dinastia, abbandonando ogni ideale italiano e democratico: alcuni
altri, dotti e dottrinari, come Cesare Cantù, predicavano possibile la
libertà in qualunque forma di governo anche straniero, e, separandola
così dall'indipendenza e dalla democrazia, la rendevano parola senza
senso e senza attrazione. In fondo nessun partito aveva un programma
limpido e un ordinamento adeguato di mezzi. Iniziativa regia e
iniziativa rivoluzionaria si rivelavano del pari insufficienti:
l'iniziativa anche questa volta doveva essere francese.

Mazzini, abbandonato dai migliori seguaci, ridiventava nuovamente
apostolo, scrivendo di se stesso con accento disperato: «Io non sono che
una voce che grida azione»; e la gridava su tutti i toni, ammonendo,
rampognando, difendendosi, accusando gli avversari, chiedendo
l'elemosina all'Europa per questo popolo d'Italia, Belisario della
libertà, e nullameno accendendogli sulla fronte la fiamma del proprio
genio, per mostrarlo come campione di una terza epoca civile.

La preparazione rivoluzionaria cominciata dal 1831 era compiuta.




CAPITOLO QUINTO.

La mediocrità politica e letteraria.


                                  Scadimento del genio nazionale.

Alla vigilia della rivoluzione, che doveva finalmente ricostituire
l'Italia, il genio nazionale sembrava oscurarsi.

L'immenso moto di studi cominciato col secolo si era rallentato dopo gli
ultimi disastri politici. La maggior parte dei grandi scrittori erano
morti o ritirati dalla lotta: l'originalità si faceva più scarsa. Una
specie di stanchezza prostrava il pensiero italiano. Le passioni
consunte dalle rivoluzioni infelici del '21, del '31 e del '48, o
assorbite dalle estreme sanguinose avventure delle cospirazioni, non
animavano più i libri: un maggiore contatto colle nazioni, che tenevano
in Europa il campo intellettuale, sembrava avere scoraggiato la
produzione dello spirito nazionale. Al vecchio orgoglio scolastico, che
ci faceva credere ancora i maggiorenti della civiltà colla gloria
insuperata delle antiche opere, era succeduta una tacita disistima delle
nostre cose presenti: si cominciava a comprendere come nell'immenso
lavoro del pensiero europeo, fecondante ancora tutto il mondo, la nostra
parte fosse secondaria. Nemmeno l'ammirabile sforzo tentato con sì ricca
concordia d'ingegni e di risultati al principio del secolo era bastato
per rimetterci a paro colla Francia, coll'Inghilterra e colla Germania.

La letteratura francese restava al disopra della nostra, la filosofia
tedesca era diventata universale mentre l'italiana non aveva potuto
passare le Alpi, lo sviluppo delle scienze presso di noi non resisteva
al confronto della loro prodigiosa espansione in Inghilterra. Malgrado
ogni vanteria, bisognava confessare che Manzoni non valeva Victor Hugo,
che Gioberti e Rosmini non bastavano contro Hegel e Schelling, che quasi
tutte le più meravigliose scoperte ci venivano dall'estero. L'Italia non
aveva e non avrebbe uno scienziato da opporre a Darwin.

Ma Alessandro Manzoni ancora giovane si era arrestato sul culmine della
propria parabola per non abbassarsi discendendola, e taceva da oltre
vent'anni; Gioberti era morto povero ed esule a Parigi; Rosmini si era
spento nel silenzio tranquillo di un lago, e le loro due scuole
filosofiche non avevano illustri scolari che le diffondessero come le
scuole tedesche; Niccolini, ritirato dal teatro, cercava l'oblio
tracciando una storia di casa sveva; Giusti dormiva per sempre fra gli
oliveti di Monsummano; Berchet, rimbambito dalla vecchiaia, si era
pentito delle proprie canzoni di rivolta per diventare senatore
piemontese; Guerrazzi si ostinava ancora nei romanzi, ma la sua arte si
guastava ogni giorno più nell'artificio, e delle irresistibili passioni
di un tempo non gli restava più che l'abitudine del gesto e
dell'accento; Rossini, il Napoleone della musica e di lui non meno
egoista, viveva a Parigi ammutolito da quasi trent'anni, non ascoltando
più che il coro instancabile delle proprie lodi ripercosso dagli echi di
tutte le contrade d'Europa; Bellini, il suo giovane rivale, era
scomparso come una di quelle comete, che illuminano per poche notti
tutta una zona di cielo; Donizetti era stato soffocato dalla follìa.
Qualcuno della fortissima generazione lottava ancora, ma non poteva al
di là del grande periodo già consunto ottenere dalle nuove lotte altre
vittorie. Cesare Cantù, prodigioso di attività, dopo compita la _Storia
Universale_, ne accumulava altre gettandosi su tutti gli argomenti,
riordinando archivi, superando Lodovico Muratori nell'opera, e nullameno
non oltrepassando mai i confini del proprio sistema e non ricorreggendo
mai il proprio metodo. Egli camminava sempre, mentre le scienze storiche
progredivano altrove. La grande scuola neo-guelfa finiva in lui.


                                  Le nuove scuole.

Ora nella filosofia tenevano il campo Terenzio Mamiani e Silvestro
Centofanti, l'uno piuttosto un letterato e l'altro un erudito della
stessa; Ausonio Franchi e Giuseppe Ferrari, quegli un critico e questi
uno scettico, esprimevano meglio nel razionalismo la tendenza delle
nuove generazioni; Carlo Cattaneo aspirava al positivismo senza
raggiungere in esso nè la grande scuola francese del Comte, nè l'altra
inglese anche più importante dello Spencer. A Napoli Augusto Vera, il
maggior scolaro di Hegel, il maggior filosofo del secolo, aveva
importato un sistema d'idealismo che doveva nella propria breve durata
produrre molti frutti, ma del quale allora non vedevasi ancora il
lustro. Nella poesia lottavano Giovanni Prati ed Aleardo Aleardi, lirici
entrambi, più colorito e di maggior volo il primo, elegiaco e disadorno
il secondo; ma in essi la passione di patria non era più che un tema di
arte: il soffio di Manzoni, l'ira di Berchet, l'impeto di Niccolini non
davano più al loro verso quella irresistibile potenza di attrazione che
accomuna le anime e le infiamma. Prati, dopo aver elogiato Carlo
Alberto, seguitava a blandire il Piemonte, cantandone i re come un bardo
antico; Aleardi, in canzoni piuttosto scritte in prosa rimata che in
verso, aveva gemuto sui supplizi di Mantova, e ripreparava qualche mite
invettiva contro Pio IX; Giuseppe Mazzini nei proclami, negli appelli e
nelle lettere era il solo poeta di patria.

Alla satira di Giusti, sempre amara anche nello scherzo, sibilante e
sferzante sulle anime, seguivano ora nel teatro le declamazioni
rettoriche di Paolo Ferrari, cui una innegabile vena comica aveva dato
la primazia su tutti i commediografi italiani. Nullameno l'Italia anche
dopo di lui doveva restare come prima senza vera commedia. Il dramma
storico cresciuto come un magro pollone dalla grande tragedia del
Niccolini e del Manzoni, erudito nel Revere e melodrammatico col
Marenco, tentando indarno di rinnovare le profonde emozioni
dell'_Adelchi_ e dell'_Arnaldo_, scivolava dai massimi teatri alle arene
divertendone le platee, senza appassionare le piazze. Nel romanzo solo
il Rovani era riuscito a farsi un nome onorevole, derivando dal Manzoni
sino a predicarlo maestro supremo, e non pertanto rimanendo a lui
inferiore così nell'arte che nell'ardore patriottico: classici e
romantici sembravano colpiti dalla stessa decadenza. Superstite
letterato della scuola guelfa, il padre Bresciani gesuita bamboleggiava
con servile pedanteria nella vanità delle parole insultando a tutte le
tragiche glorie della rivoluzione con romanzi, nei quali la goffaggine
dell'arte era pari alla miseria del pensiero e alla ribalderia delle
intenzioni.

Nella pittura Ussi, che doveva brillare per poi eclissarsi, e Morelli,
che vi resterà nella gloria di massimo riformatore moderno, non erano
ancor celebri: Bartolini, ultimo grande scultore italiano, era morto, e
il Duprè e il Vela, contendendosi già il suo posto, non vi recavano
coll'amore dell'arte quell'intrattabile passione di patria, che aveva
costretto Calamatta, l'insuperabile incisore, ad esulare da Roma dopo
averla difesa con Garibaldi contro i francesi. Duprè era ancora un
neo-guelfo, che nell'obbedienza di cattolico al papa comprendeva anche
la soggezione di suddito al granduca Leopoldo; mentre Vela, inspirandosi
alla rivoluzione del quarantotto, aveva già scolpito nello Spartaco
l'irresistibile sforzo dello schiavo che frange le catene; e Ussi invece
doveva attendere il trionfo di quella del cinquantanove per esporre
nella cacciata del duca d'Atene un fasto dell'antico comune fiorentino.

Solo nelle musiche di Giuseppe Verdi fremevano ancora le tempeste, dalle
quali era stata sconvolta la prosa di Guerrazzi e disordinata la lirica
di Niccolini. Povero ed austero contadino di Busseto, egli aveva sempre
ricusato gl'inviti della duchessa di Parma e scriveva indifferentemente
melodrammi su qualunque soggetto, esprimendo nello scoppio di affetti
fulminei il supremo disordine delle passioni rivoluzionarie, che
insanguinavano ancora l'Italia. Il suo genio intermittente e scomposto,
inferiore e nullameno così simile a quello di Victor Hugo, il suo
carattere burbero e malinconico, il bisogno in lui irrefrenabile di
situazioni sempre eccessive, mentre sembravano classificarlo fra la
decadenza dei romantici, lo rendevano il più sospettato ed amato autore
popolare. Con lui solo s'infiammavano i teatri e prorompevano a
dimostrazioni politiche: nella frenesia delle sue frasi di odio e di
amore l'anima nazionale tornava a fremere d'entusiasmo, salendo dalle
emozioni della scena a quelle della vita.

Nonpertanto il melodramma italiano, recato sullo scorcio del 1830 ad
insperata altezza da Rossini e da Bellini, discendeva con Verdi la
parabola del proprio sviluppo: quelli rimanevano insuperati e
conservavano all'Italia la gloria di avere una ultima volta dominato
tutto il mondo coll'arte; questi non bastava solo a mantenere il campo
contro i nuovi campioni della scuola tedesca. Meyerbeer lo vinceva per
abilità di maniera, Wagner lo eclissava per splendore di genio.

La mediocrità del pensiero italiano appariva manifesta. Però in essa si
venivano sperimentando tutte quelle qualità di azione necessarie al
ricostituimento di un paese, che, liberandosi per concorso di aiuti
stranieri, si sarebbe all'indomani della propria emancipazione abbattuto
ad un incalcolabile numero di problemi sociali. Se i pensatori
scemavano, crescevano i politici, mentre le letterature decadevano si
diffondevano le scienze, all'entusiasmo delle ribellioni subentrava la
coscienza della disciplina, alla originalità della produzione un
mirabile ed universale lavoro di assimilazione. Nei giornali così poveri
ed assurdi di rettorica, prima e durante la rivoluzione del quarantotto,
si discuteva adesso con abilità e con dottrina la politica quotidiana;
si spropositava molto meno di diritto costituzionale ed amministrativo;
le idee economiche e finanziarie, una volta patrimonio di pochi dotti
ignorati o separati dal popolo, discendevano nel dibattito comune come
alla riprova della propria verità. L'economia politica italiana, che
dopo le opere del Gioia e del Pecchio non aveva avuto altri celebri
saggi che quelli storici del Cibrario e il trattato di Pellegrino Rossi,
abbondava di cultori: Marco Minghetti ne scriveva le _Attinenze colla
Morale e il Diritto_; lo Scialoja, il Boccardo, l'Arrivabene, poi il
Correnti e il Maestri negli _Annali di statistica_, moltiplicavano
studi, monografie, manuali. Innanzi a tutti loro il Ferrara dirigeva a
Torino una raccolta di economisti stranieri riassumendone il pensiero in
ammirabili prefazioni, sovente più preziose delle loro opere stesse; ma
nemmeno nell'economia politica il pensiero italiano, sorpassando
un'eclettismo di assimilazioni, arrivava alla produzione di un sistema
originale. Invece cresceva negli uomini politici, coll'esempio di Cavour
improvvisatosi finanziere, la capacità delle più difficili gestioni
amministrative. Mentre la filosofia si oscurava nel tramonto quasi
simultaneo de' suoi due astri maggiori, la giurisprudenza come scienza
più affine alla politica aumentava mirabilmente di lustro: a Napoli, a
Torino, a Firenze fiorivano scuole di diritto, tutte abbastanza forti
per contendersi il primato e lottare colle migliori scuole straniere:
fra esse giganteggiava a Pisa Francesco Carrara, forse il maggiore
criminalista del secolo.

La cultura intellettuale si diffondeva rapidamente nella cresciuta
facilità della stampa e del commercio; a Capolago illustri esuli
editavano una biblioteca delle migliori opere letterarie e scientifiche
con intendimenti patriottici; il Piemonte riboccante di professori e di
professionisti fuorusciti era diventato un potente centro di
irradiazione civile; l'influenza delle letterature estere era tale da
compromettere persino le indigene tradizioni letterarie. Carlo Cattaneo
preparava nel _Politecnico_ immensi materiali di scienza, agitando con
rara competenza le più moderne e difficili questioni; Stefano Jacini
dava all'agricoltura un valore politico e sociale prima piuttosto
oscurato che rivelato da' suoi problemi tecnici; Pacini, prevenendo Koch
di trent'anni, fondava incompreso la bacteriologia; Miola puniva
l'egoismo di Segato, morto col proprio segreto di petrificazione di
cadaveri, trovando il modo di metallizzarli; Piatti inventava la
perforatrice per sventrare le montagne dinanzi alle locomotive; Ascoli,
ereditando l'ingegno del giovine Filosseno, rialzava vigorosamente gli
studi linguistici; il Negri succeduto al Marmocchi sosteneva l'onore
della geografia italiana. Da Napoli Ruggero Bonghi, Francesco De Sanctis
e Luigi Settembrini rinnovavano la critica letteraria nella decadenza
della letteratura. A Venezia Pietro Selvatico, ricco e voltabile
ingegno, apriva e chiudeva sempre nuove prospettive nell'estetica e
nella critica delle arti, quasi subendo nella perplessità del proprio
metodo quell'incertezza politica, onde si confondeva nelle coscienze il
problema italiano. Entro le storie degli ultimi avvenimenti fremevano
ancora le sdegnose polemiche dell'azione: Cattaneo, Anelli, La Farina,
vi conservavano nell'asprezza republicana il rancore dei vinti; il Tosti
procedeva classicamente nei lavori di storia ecclesiastica; Mauro
Macchi, amabile per mite stoicismo, scriveva con moderno sentimento
democratico quella _dei Dieci di Venezia_; più elegante di forma, vasto
d'erudizione e potente di vero ingegno letterario Atto Vannucci,
rivaleggiando col Troya e col Micali, ricostruiva la _Storia antica
d'Italia_. Alto sullo scoglio di San Marino il Borghesi scopriva a
Teodoro Mommsen i più reconditi segreti della numismatica, confortando
così l'Italia della perdita recente del Canina. Ma nella filosofia della
storia, che, fondata oscuramente a Napoli dal Vico, era poi tanto
cresciuta in Germania e in Francia, creando metodo e scienza storica,
solo Giuseppe Ferrari si mostrava grande. Con ingegno multiplo ed
originale passando dalla _Filosofia della Rivoluzione_ alle _Rivoluzioni
d'Italia_, vi contava tutte quelle della storia medioevale e ne
tracciava la direzione, ne scrutava le leggi dinamiche, ne divideva i
periodi, ne scandeva il ritmo: quindi dalle pulsazioni delle rivoluzioni
italiane costretto al calcolo dell'intero circolo europeo, accordava con
mirabile sintesi le rivoluzioni d'Europa a quelle d'Italia per
riscontrarle più tardi con quelle della China, e dettare moribondo in
una _Nuova Teoria dei Periodi Politici_ i teoremi fondamentali di una
matematica storica. Ma queste creazioni del suo genio, ammirate in
Europa, erano allora pressochè sconosciute in Italia, della quale
trascendeva lo spirito, così da fallare, malgrado una chiaroveggenza
meravigliosa, le necessità del suo attuale periodo rivoluzionario.
Perfino Mazzini e Cavour, quegli coll'anima sempre schiusa a tutte le
grandezze patrie, questi tanto sagace nell'indovinare ogni forza
nazionale, ignoravano la suprema importanza di Ferrari rimasto solo in
Europa a sostenere l'originalità del pensiero italiano.

Ed era anche questa una caratteristica del momento.

La mediocrità politica e letteraria risultava da quelle stesse
condizioni spirituali, che rendevano impossibile all'Italia il trionfo
della rivoluzione colle sole sue forze. L'egemonia conquistatrice del
Piemonte provava l'insufficienza del principio democratico; la politica
angustamente piemontese di Cavour tradiva la debolezza del principio
monarchico: nessuno dei due principii poteva ricostituire l'Italia,
atteggiandola sinceramente nella propria forma. Il popolo da schiavo
dello straniero non doveva mutarsi tutto al più che in suddito di un re
nazionale, giacchè preferiva l'indipendenza alla libertà e una qualunque
unificazione politica alla propria unità democratica. Ma anche in tale
sua dolorosa condizione brillavano le qualità di quel genio, che non lo
aveva mai abbandonato per una storia di quasi tremila anni; l'Europa non
aveva politico più abile del conte di Cavour, apostolo più efficace di
Mazzini, eroe più moderno di Garibaldi. L'inerzia del popolo, facilmente
spiegabile cogli ultimi secoli della sua vita, era mirabilmente
compensata dall'iniziativa dei pochi che riassumevano la sua coscienza.

Quindi l'instancabile accanimento di Mazzini alle rivolte forniva
materia alla politica di Cavour per convincere l'Europa a cacciare
l'Austria dall'Italia e a stabilirvi un forte regno costituzionale come
argine contro le violenze della rivoluzione. Se Mazzini non avesse
mantenuta l'agitazione rivoluzionaria, sarebbe stata impossibile la
politica estera piemontese. Solo nella mediocrità letteraria e politica
potevano accordarsi le antinomie delle tradizioni e delle rivoluzioni
italiane per fondersi nel costituzionalismo dei Savoia: un crescendo di
pensieri e di passioni dopo il disastro del quarantotto avrebbe
necessariamente condotto ad una republica vincitrice della monarchia,
del papato e dell'Austria colle sole forze popolari.

Invece la storia aveva affidato alla Francia il compito di affrettare
aiutando l'una e combattendo l'altra, le due massime nazionalità
d'Italia e di Germania.

E in questa mediocrità politica e letteraria, che armonizzava,
esaurendole, le grandi idee rivali della monarchia e della democrazia,
della federazione e dell'unità, per creare un regno a base plebiscitaria
con conquiste regie e popolari, la rivoluzione non aveva ancora che
volontari politici e militari. L'immensa massa del popolo rimaneva
estranea, se non ostile. Però in questi volontari, piuttosto
conquistatori che rappresentanti della nazione, si fondevano
mirabilmente le più disparate qualità: cospiratori, soldati,
parlamentari, letterati, spesso avventurieri, gettati dalle vicende
della vita attraverso drammi inesauribili, avevano esperimentato tutti i
partiti, ceduto a tutte le illusioni, imparato tutti i tradimenti: erano
scettici ed ancora capaci d'entusiasmi, abbastanza moderni per non
credere più che alla sovranità popolare e nullameno troppo pratici per
non servirsi ancora di un re; fisi all'interesse nazionale credevano
indifferentemente a tutti i sistemi, amavano sopra ogni cosa la patria,
e non volevano rivoluzionarvi niente al di là del necessario. La
mediocrità spirituale permetteva loro di agire in un accordo
indefinibile, con transazioni sempre giustificabili, e con evoluzioni
sicure.

La fede al Piemonte era divenuta dogma politico, come dieci anni prima
quella in Pio IX.

Nessuno tradiva più, mutava: non si era più veramente di alcun partito,
ma italiano; l'interesse più immediato si riconosceva per il più giusto,
il risultato momentaneamente più utile diventava il maggiore. Non vi era
tempo a grandi pensieri. Si abbandonava ogni costruzione sistematica per
costruire davvero: ai pensatori dovevano succedere gli uomini pratici.
Bisognava conservare il fuoco rivoluzionario senza abbruciarsi alle sue
vampe o accecarsi al suo fumo. Invece delle tragiche passioni, già
inspiranti capolavori e martirii, cresceva un fermento nella
moltitudine, che la disponeva a nuove cose. Nello scadimento dell'arte
vi si moltiplicavano i soggetti patriottici, che, mediocri, divenivano
più accessibili e quindi più efficaci.

Siccome ogni provincia italiana aveva deputati o ministri al parlamento
piemontese, il governo nazionale era già tacitamente ed anticipatamente
stabilito. Fra gli illustri, che allora vi brillavano, Luigi Carlo
Farini vi era l'uno e l'altro, e doveva per l'indole dello spirito e le
vicende della vita rimanere forse il migliore rappresentante di questa
mediocrità politica e letteraria, così fatalmente indispensabile alla
costituzione del regno italiano.


                                  Luigi Carlo Farini.

Molti lo superavano d'ingegno e di carattere, nessuno riassumeva in se
medesimo tante opposte qualità. La sua vita non ancora insigne aveva
nullameno acquistato un'alta importanza. Colla foga di un temperamento
romagnolo egli aveva cominciato tempestando patriotticamente
all'università di Bologna, attirandosi sul capo sospetti ed ammonizioni;
quindi n'era uscito medico piuttosto di mestiere che di dottrina. Una
baldanza passionata lo traeva alla politica, una inguaribile vanità del
pensiero lo faceva sognare di letteratura. Sulle prime divenuto
naturalmente mazziniano predicava stragi nelle conventicole segrete con
fanatismo giacobino: ma il misticismo religioso e l'elevatezza
filosofica del mazzinianismo lo stancarono presto. Il suo carattere
focoso e volubile non gli permetteva le resistenze sistematiche ed
eroiche di un partito, nel quale nessuna eresia era consentita e dal
quale non si potevano aspettare trionfi. Quindi disertò.

Come letterato subiva le tradizioni pedantescamente classiche della
scuola romagnola, arzigogolando nello stile senza nè esperienza di
lingua nè gusto d'arte: come cospiratore aveva la veemenza rettorica
dell'oratore e la prudenza forse anche troppo remissiva di quei capi del
'31, che procrastinavano sempre il giorno della rivolta e transigevano
ad ogni passo sul programma e sui fatti. Benchè romagnolo, mancava di
fierezza: quindi, staccandosi da Mazzini per schierarsi fra i
riformisti, l'ardore naturale del suo carattere dovette agghiacciarsi
sino a mutarlo in moderato intransigente. Pei moti romagnoli del 1845
scrisse un _Manifesto delle popolazioni dello stato romano ai principi e
ai popoli d'Europa_, vantandovi la sudditanza al Santo Padre e chiedendo
le solite riforme; ma il manifesto non ebbe maggiore espansione della
stessa insurrezione con bandiera bianca e finita senza sangue. L'antico
mazziniano aveva tutto rinnegato.

Poco dopo, l'utopia costituzionale del papato lo trasse a Roma
segretario di ministero e diplomatico. Come tutti i riformisti credette
al sogno di Mamiani e di Rossi: fu in Parlamento della fazione moderata,
che naturalmente presto sorpassata dovette ritirarsi; difese Pio IX, non
capì nulla del problema politico del momento, non indovinò il
significato di una republica romana, giudicò opera feroce ed insensata
di sètte la caduta del potere temporale, ma imparò rapidamente i modi
parlamentari, ebbe pronto discernimento per le più difficili pratiche e
il coraggio di resistere alle opinioni plateali: rimase suddito
pontificio, federalista abbastanza cattolico ed inflessibilmente
monarchico, ammiratore incondizionato di Carlo Alberto.

In lui il rivoluzionario si arginava volontariamente ed inconsciamente
nell'uomo di governo.

Infatti, esule a Torino, cadde nell'orbita del conte di Cavour a lui
simile benchè troppo maggiore di attitudini, che col costituzionalismo
piemontese lo guarì istantaneamente del costituzionalismo pontificio.
Così all'egemonia del papa Farini potè sostituire quella di Vittorio
Emanuele, e correggere con essa il concetto della federazione nel
disegno di una unificazione per annessioni e conquiste, fanatizzandosi
della monarchia savoiarda per odio di convertito contro la republica e
per saldo convincimento di uomo di governo, che della republica romana
aveva colto solo le incongruenze.

Quindi improvvisò in quei primi ozii forzati una _Storia dello Stato
romano dal 1814 al 1850_, nella quale si ripercossero tutte le
oscillazioni del suo pensiero sprovvisto egualmente di principii
filosofici e di sistema politico. Nella prima parte vi critica
blandamente, ma onestamente il regime romano; nella seconda si accanisce
contro la republica e più contro Mazzini, del quale afferra benissimo
gli errori pratici senza comprenderne nè il genio nè l'eroismo. Ma
sicuro entro la compagine di un governo liberale e regolare, si lascia
presto riprendere dalla foga rivoluzionaria: alzato da Cavour al
ministero vi fa buona prova, lavora segretamente col grande ministro, ne
diventa il consigliere più audace, rannoda alla sua politica gli antichi
cospiratori e riformisti romagnoli, sostiene la spedizione di Crimea,
dirige la campagna contro i mazziniani, trova in se stesso un tesoro di
patriottismo contro tutti i tiranni d'Italia, compreso il papa così
rispettosamente trattato nella propria storia. Non si eleva mai, ma si
raffina; è secondario nell'ingegno e autoritario nel carattere.
Dimenticando facilmente le opinioni passate, agisce sempre colla massima
forza nelle presenti; ama la scienza di governo, e vuole essere fra
coloro che comandano. La sua vanità si balocca puerilmente colle
decorazioni.

Nel gruppo subalterno dei fuorusciti politici stretti intorno a Cavour,
Farini è quello che ha maggiore energia: il mazzinianismo della prima
gioventù gli giova ora nella virilità, mentre la scaltrezza di governo
lo rende scettico sui mezzi e l'egoismo della volontà lo tempra alle più
difficili responsabilità della dittatura. Egli romagnolo deve essere
rivoluzionario per emancipare le Romagne: quindi il problema
dell'unificazione gli si dilata involontariamente oltre il disegno di
Cavour. Infatti lo vedremo fra poco dittatore a Modena, sollevatasi ad
incruenta rivoluzione cacciando il proprio duca dopo le vittorie
sardo-franche nella Lombardia, rompere il trattato di Villafranca che
arresta la liberazione d'Italia e spingere alle annessioni col Piemonte,
contro la stessa volontà sbigottita di questo. Farini dittatore e
rivoluzionario sarà allora la più composita e brillante figura d'Italia.
Fervido di furberia e di vanità, passando da Modena a Parma e a Bologna,
dopo avervi improvvisato un governo dell'Emilia, vorrà fonderlo colla
Toscana per avervi un'ora di regno e assicurare almeno un nuovo stato
centrale all'Italia, se mai la Francia negasse risolutamente al Piemonte
di annettersi queste provincie; ma Bettino Ricasoli con maggiore sagacia
politica e volere più freddamente tenace gli si opporrà. Poi, compite le
annessioni e ritornato Cavour al potere, Farini sarà, come il suo grande
capitano, spaventato delle iniziative garibaldine: osteggerà la
spedizione dei Mille, contrasterà a Garibaldi il passaggio sul
continente e la marcia su Napoli. E quando tutto il napoletano sarà
conquistato, e per riprenderlo a Garibaldi perchè Mazzini non vi tenti
una republica, Cavour si aprirà audacemente il passo attraverso lo stato
pontificio, Farini resterà ancora il suo più temerario consigliere,
redigerà la lettera a Napoleone III, annunziandogli di marciare contro
Garibaldi per sottrarre il Napoletano all'anarchia delle bande rosse;
finalmente, mandato dittatore a Napoli, v'improvviserà il governo
nazionale.

Alla morte di Cavour Farini dominerà momentaneamente fra gli eredi più
influenti della sua politica, finchè, sorpreso dalla pazzia, morirà
giovane ancora, povero, avendo vissuto una vita di cospirazioni, di
parlamenti, di esigli, essendo stato medico, ministro, dittatore, avendo
creduto a Mazzini e a Cavour, a Pio IX e a Vittorio Emanuele, alla
federazione e all'unità: diplomatico, letterato di medicina e di storia,
capace come a Modena di rompere un trattato europeo riunendo le due tesi
di Cavour e di Mazzini, abbastanza abile come nell'Emilia per stabilirvi
pressochè da solo un governo; a volta a volta rivoluzionario e
conservatore, colla vanità di un pervenuto nell'onestà di un patriotta,
e colle più difficili qualità di un mediocre in un'anima potente
d'improvvise e grandi iniziative.

La sua generazione era così.




INDICE


  LIBRO QUARTO: _Il risorgimento_                        _Pag_.   7

  CAPITOLO PRIMO: I moti del 1821                                 9
  -- Influenze europee                                             9
  -- La rivoluzione napoletana                                    11
  -- Rivoluzione piemontese                                       18
  -- Repressioni assolutiste                                      22
  CAPITOLO SECONDO: Trame ed insurrezioni del '31                30
  -- Incubazione liberale                                         30
  -- Condizioni uniformi dei governi                              33
  -- La sommossa del centro                                       41
  CAPITOLO TERZO: Il pensiero politico nel moto letterario       55
  -- I primi gruppi                                               55
  -- Il dualismo letterario                                       59
  -- Colletta e Botta                                             63
  -- Rosmini e Gioberti                                           67
  CAPITOLO QUARTO: Giuseppe Mazzini e la Giovine Italia          74
  CAPITOLO QUINTO: Conati ed imprese rivoluzionarie              88
  -- La spedizione nella Savoia                                   88
  -- Stato generale della penisola                                97
  -- I fratelli Bandiera                                         110
  -- I riformisti                                                114

  LIBRO QUINTO: _L'ultima rivoluzione federale_                 123

  CAPITOLO PRIMO: I prodromi                                    125
  -- Effervescenza dell'opinione                                 125
  -- Pio IX                                                      131
  -- L'agitazione negli altri stati                              137
  -- Gli statuti                                                 144
  CAPITOLO SECONDO: Le sommosse popolari e la guerra regia      154
  -- Le cinque giornate di Milano                                154
  -- Adesioni di guerra                                          160
  -- La campagna piemontese                                      168
  CAPITOLO TERZO: La reazione federale                          171
  -- L'allocuzione papale                                        171
  -- Il tradimento di Ferdinando II                              173
  -- Le annessioni al Piemonte                                   177
  -- Disastri militari                                           181
  -- Catastrofi costituzionali                                   185
  -- Pellegrino Rossi                                            192
  -- La seconda campagna piemontese                              205
  CAPITOLO QUARTO: Schemi repubblicani                          211
  -- Firenze                                                     211
  -- Proclamazione della repubblica                              218
  -- Caduta della repubblica romana                              231
  -- Giuseppe Garibaldi                                          240
  -- Ultima repubblica di Venezia                                248

  LIBRO SESTO: _L'egemonia piemontese_                          255

  CAPITOLO PRIMO: Le ristorazioni                               257
  -- Riscossa dell'opinione                                      257
  -- Regno napoletano                                            261
  -- Stato pontificio                                            264
  -- Granducato e ducati                                         271
  -- Lombardo-Veneto                                             282
  CAPITOLO SECONDO: La preparazione piemontese                  291
  -- Prime difficoltà parlamentari                               291
  -- Il conte di Cavour                                          302
  CAPITOLO TERZO: La politica dell'egemonia                     313
  -- Ministero di Cavour                                         313
  -- Guerra di Crimea                                            321
  -- Congresso di Parigi                                         328
  -- Adesioni al Piemonte                                        332
  CAPITOLO QUARTO: L'opposizione rivoluzionaria                 342
  -- Disfatta del mazzinianismo                                  342
  -- Carlo Pisacane                                              353
  CAPITOLO QUINTO: La mediocrità politica e letteraria          361
  -- Scadimento del genio nazionale                              361
  -- Le nuove scuole                                             363
  -- Luigi Carlo Farini                                          370




      *      *      *      *      *




Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, così come le
grafie alternative (neoguelfi/neo-guelfi, follia/follìa, piane/pïane e
simili), correggendo senza annotazione minimi errori tipografici.



***END OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK LA LOTTA POLITICA IN ITALIA, VOLUME
II (OF 3)***


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Section  2.  Information about the Mission of Project Gutenberg-tm

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and how your efforts and donations can help, see Sections 3 and 4
and the Foundation information page at www.gutenberg.org


Section 3.  Information about the Project Gutenberg Literary Archive
Foundation

The Project Gutenberg Literary Archive Foundation is a non profit
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     Chief Executive and Director
     [email protected]

Section 4.  Information about Donations to the Project Gutenberg
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