La camicia rossa

By Alberto Mario

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Title: La camicia rossa
       Episodi - Terza edizione riveduta e corretta

Author: Alberto Mario

Release Date: August 31, 2009 [EBook #29871]

Language: Italian


*** START OF THIS PROJECT GUTENBERG EBOOK LA CAMICIA ROSSA ***




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                      LA CAMICIA ROSSA


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                          P. CANDI

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                           MILANO

                 EDOARDO SONZOGNO, EDITORE

                  14, Via Pasquirolo, 14.

                            1875


  Esce al 1 ed al 10 d'ogni mese    Pubblicazione periodica.





                       ALBERTO MARIO

                      LA CAMICIA ROSSA





                             LA

                       CAMICIA ROSSA

                          EPISODI

                            PER

                       ALBERTO MARIO

             Terza edizione riveduta e corretta





                           MILANO

                 Edoardo Sonzogno, Editore

                  _14, Via Pasquirolo, 14_

                           1875.





              Proprietà letteraria riservata.



  Tipografia Sociale successa alla Cooperativa di Milano--Via S. Radegonda, 6.




                        ALLA MEMORIA

                    DI NULLO E DI ZASIO

                            EROI





La seguente lettera del compianto nostro concittadino Carlo Cattaneo
ci venne gentilmente favorita dal dottor Agostino Bertani, che egli
tolse da un copioso e interessante epistolario dell'illustre uomo, che
speriamo tra non molto di veder pubblicato.

                                L'EDITORE.





    AD ALBERTO MARIO
         SALÒ.

                                     22 giugno 1866.

    _Mio caro amico,_

Aveva letto avidamente il tuo libro _La Camicia Rossa_. Ieri ebbi il
tuo indirizzo e me ne valgo.

Il tragitto del Faro e le notti d'Aspromonte e di Castel Petroso mi
hanno fatto correre i brividi nelle ossa.

Ma, poichè fosti testimonio di vista anche al Volturno, dovevi aver
fatto un capitolo di più. Per le tante favole d'allora la battaglia
del 1.º e del 2.º ottobre è sempre un indovinello.

Hai la fortuna inaspettata, che a forza di tardare, il tuo libro
arrivò in un accesso di pubblica simpatia.

Nell'_Addio_ quel _Benone!_ mi parve una delle più belle righe di
Tacito.

--E siamo da capo. Tuttavia, mi par meglio che voi, non ostante tutto,
non siate mancati nemmeno questa volta¹, e non manchiate mai. S'alleva
un'altra generazione; si fonda una tradizione indistruttibile:
L'Italia armata, l'Italia libera.

I miei saluti e quelli di Anna alla tua Jessie. Spero rivedervi
contenti di voi stessi.

                                    _L'amico tuo_
                                   CARLO CATTANEO.


  ¹ Il Cattaneo allude alla guerra del Sessantasei.





LA CAMICIA ROSSA




I.

Il ponte invisibile.


Fra i grati ricordi del contatto personale col liberatore delle Due
Sicilie, veruno mi si affaccia così vivido alla memoria, come le
mattutine passeggiate a cavallo nelle vicinanze di Palermo sino alla
battaglia di Milazzo.

Erano giornaliera occupazione del dittatore comporre l'esercito,
provvedere alla cosa pubblica, aggiustare querele municipali,
temperare il troppo zelo degli amici, accorciare i panni degli
avversari politici, ond'egli, faticato da sì svariate cure, dalla
ressa di tanta gente, dal rumore di sì diverse favelle che ponevano a
severissima prova la sua natura semplice e amante di solitudine,
corcavasi di buon'ora. Ma l'aurora rivedevalo sempre fresco e con
faccia serena. Una tazza di caffè e a cavallo.

Una mattina abbiamo visitato il forte Castellammare, che il popolo,
esecutore d'un decreto dittatoriale, demoliva allegramente,
incoraggiato dai preti, i quali gli dimostravano nel papa
l'anticristo, nei Borboni una banda di sicarî, in Garibaldi il
messaggiero di Dio. Quel forte, terrore di Palermo, come Sant'Elmo di
Napoli, spariva alla parola del liberatore, quasi gigante di neve al
sole. Centinaia di mani gagliarde disfacevano i baluardi, le caserme,
i magazzini e le paurose carceri, ove giacquero tanti patrioti, e
dianzi gli ostaggi del 6 aprile.

--Eppure si afferma che questi popoli meridionali sono indolenti!
disse Garibaldi, fermando il cavallo davanti al lato del castello che
prospetta la città.

In quelle cotidiane peregrinazioni, i più frequentemente visitati
furono i conventi femminili che popolano i dintorni della città.

La figura leggendaria di Garibaldi aveva accesa la fantasia delle
monache palermitane, le quali ne diventarono santamente innamorate.
Ogni giorno comparivano alla residenza del Generale copiosi doni di
canditi, di cotognate, di buccellati, di bocche di dama, adorni di
filigrane, di nastri ricamati e d'ogni qualità di minuti lavori
monacali. Una letterina pia, ed anche uno zinzino erotica,
accompagnava il dono. Eccone una: «A Te, Giuseppe, eroe e cavaliere
come san Giorgio, bello e dolce come un serafino. Ricordati delle
monache di...., che t'amano teneramente, e pregano santa Rosalia che
ti faccia beato nel sonno e nella veglia.» Una mattina visitammo il
convento di..., fuori di Porta Nuova. Le monache, preavvertite,
prepararono una colazione coi fiocchi. La paziente industria del
chiostro, nella più svariata confezione di dolci, brillò sulla ricca
mensa. Castelli di zucchero, torri, tempietti, cupole di zucchero, e
nel centro la statua di Garibaldi di zucchero. La mensa aveva
l'aspetto di un bazar.

All'eccezione d'alquante attempatelle e di qualche rara vecchia, le
monache erano giovani e di famiglie nobili. Ci attendevano nel
refettorio, ove fummo condotti dalla badessa, che ricevette il
dittatore al vestibolo del monastero. Entrato questi nel refettorio,
le tosate vergini gli si affollarono intorno ansiose e commosse. La
fisonomia sorridente e soave del glorioso capitano e i modi compiti
del gentiluomo, le ebbero immediatamente affidate.--Come somiglia a
nostro Signore! susurrò una di loro all'orecchio della vicina.
Un'altra, nel calore dell'entusiasmo, gli prese la mano per
baciargliela; egli la ritrasse, ed ella, abbracciandolo vivamente, gli
depose quel bacio sulla bocca. La coraggiosa trovò imitatrici le
compagne giovinette, indi le più mature, e finalmente anche la
badessa, a tutta prima scandalizzata.

Noi si stava a guardare!

Nel corso di un mese si visitarono quasi tutti codesti conventi e gli
stabilimenti pii. E non fu sempre argomento di zuccheri e di baci. Il
Generale aveva in mira di penetrare i misteri sin'allora inviolati di
quelle antisociali clausure, di scoprire impuniti disordini, ignorati
patimenti, e di rimediarvi. Molte fanciulle, immolate dall'avarizia
dei parenti, o sviate da un passeggiero ascetismo, o vinte nella lotta
di più geniali e più umani affetti, trovarono in lui la provvidenza
riparatrice. Mai lo vidi sì profondamente turbato come durante la
visita ad un ospizio di trovatelle. Egli udì dal loro labbro la
pietosa istoria dei supplizî cotidiani:--Il pane infetto, i cibi
scarsi, la mondizia negletta, il non loro peccato rinfacciato. I volti
sparuti di quelle dolorose, le dilatate pupille, le misere vestimenta,
spandevano sinistro lume di verità sulla loro patetica eloquenza. Il
Generale, in mezzo a quelle poverette che gli si aggrupparono intorno
stringendogli le ginocchia, le mani, la spada, piangeva al loro
pianto, e veruno di noi rimase a ciglio asciutto. E quando i guardiani
brutali tentarono di scusarsi, uno sguardo terribile di lui li ridusse
muti e tremanti. Lasciati due de' suoi aiutanti per investigare e
riferire, ei rimontò in sella taciturno.

Giunto a Porta Nuova piegò a sinistra e, percorrendo la strada del
pomerio, si diresse alla piazza d'armi, che apresi all'occidente della
città sino ai piedi del monte San Pellegrino, ed entrò nell'ombroso
giardino reale della Favorita. Al rullo del tamburo e alla voce
_Galibardo_, _Galibardo_, in un baleno sbucò dai cespugli e schierossi
lungo il viale uno sciame di ragazzi, in camicia rossa di cotone, coi
gomiti laceri, quale calzato e quale no, e quasi tutti senza berretta.
Appena conquistata Palermo, Garibaldi ordinò ad un suo vecchio
commilitone di Montevideo di raccogliere quanti fanciulli poveri
potevagli venir fatto, e di addestrarli negli esercizî militari.

Era l'ora del riposo, epperò dal sollione di piazza d'armi essi
ritraevansi a quella frescura. Il maggiore Rodi, che lasciò la mano
sinistra a Montevideo e gliene sostituì altra di legno, galoppando
sulla fronte della brulicante legione gridava:--Allineamento a destra:
fissi!--Poi trattenuto il cavallo davanti a Garibaldi così
parlò:--Generale, condussi cento barbieri alla spiaggia, faticosamente
pescati nella città e nei dintorni, e stamane feci tosare tutti
costoro. Indi li feci tuffare in acqua. Nuotano come pesci! Ora sono
puliti, e si può avvicinarli senza pericolo. A quest'ultime parole il
Generale proruppe in uno scoppio di risa. Poscia dimandò:

--Quanti sono?

--Quasi duemila; e, profittando del lieto viso del dittatore, Rodi
soggiunse: colla paga di tre tarì, in una settimana avremo tutta la
figliuolanza di Palermo.

--Il mio intendente generale si rammarica di questa spesa.

--Ma ne caveremo dei bravi soldati in un batter d'occhio, Generale. E,
come saggio del loro progresso, il maggiore fece eseguire alcuni
movimenti.

Frattanto il Generale, volgendosi a me:--Questi poveri ragazzi,
esclamò, non sanno leggere, nè scrivere. Vorreste assumervi di fondare
una scuola militare per essi?

--Volentieri, Generale.

--Sta bene, ne riparleremo dimani al padiglione.

Io stesi, per sommi capi, un disegno d'Istituto militare, unico per
tutta la Sicilia, gratuito e capace di tremila allievi, nello scopo di
sottrarre, con una educazione virile, le giovani generazioni
dell'isola all'ignoranza profonda, sistematicamente mantenuta dal
governo borbonico. E l'indomani, verso il tramonto, andai al
padiglione per sottoporlo al dittatore.

Un ampio terrazzo, annesso alla reggia dei Normanni, forma l'ala
sinistra di quel complesso multiforme d'edifizî che appellasi palazzo
reale, all'estremità orientale di Palermo. In capo al terrazzo,
isolato e superbo sorge un padiglione costrutto sovra la Porta Nuova.
Lo abbelliscono due loggie; l'una al-* *l'ovest e infila via Toledo,
l'altra all'oriente e le s'incurva dinanzi l'emiciclo di Monreale, la
_conca d'oro_ dei poeti. Su due ordini concentrici di balaustri
elevasi la cupola con figura di piramide tronca foderata di zinco, e
sul vertice una lanterna, la cui punta vince la maggiore altezza del
palazzo. L'interno componesi d'una sala ampia e di due stanzuccie
oblunghe e disadorne. Era stanza da letto di Garibaldi quella che
guarda Monreale, abitava la seconda il suo segretario privato. Gli
aiutanti di guardia occupavano quattro letti collocati agli angoli
della sala e celati da paraventi.

Trovai il Generale in colloquio con un commodoro della marina
americana, ond'io m'accostai ad uno dei varî gruppi mescolati di
uffiziali garibaldini, della marina sarda, della inglese, della
americana, e di eleganti signore che verso il tramonto convenivano a
lieti ragionamenti sulla terrazza o alla galleria occidentale. Il mese
di giugno e parte di luglio del 1860 scorsero lassù inalterabilmente
abbelliti dal sorriso della vittoria, dai racconti delle nuovissime
maraviglie, dalla magnificenza del sito, dalla voluttà ch'effondeva
l'alito periodico dei sottostanti giardini, dal viso raggiante del
vincitore di Calatafimi, dalla fiducia illimitata nell'avvenire.
Garibaldi in quel padiglione era un mago. Si parlava dell'entrata in
Roma, di passaggio per Napoli, e dell'espugnazione di Verona come di
cose indubitabili prima dell'inverno. Il luogo, il tempo, gli eventi
producevano una specie d'estasi deliziosa che ravvicinava le distanze
e trasfigurava le cose. Vidi uffiziali inglesi partecipare a quelle
emozioni, a quelle illusioni, al pari delle più ardenti signorine di
Palermo.

Ed anche adesso¹, benchè il disinganno di quattro anni abbia spazzato
via con ala inesorabile fede e speranza, ci sono momenti nei quali mi
sembra di sedere sul terrazzo incantato, credendo nella realtà di
quell'avvenire che di lassù aprivasi allo sguardo.

  ¹ 1864

Ivi incontrai il maggiore Mosto, comandante dei carabinieri genovesi,
e mentre gli raccomandavo di aggiugnere alla sua schiera come semplice
soldato il capitano Ungarelli ferrarese, il caporale di guardia mi
annunciò che otto giovinotti di mia conoscenza bramavano di parlarmi.
Risposi li facesse passare.

Avanzavansi con passo vacillante, a guisa di convalescenti, squallidi
le vesti e l'aspetto. La barba rasa da alquanti giorni, crescendo
uniforme, faceva risaltare il malaticcio pallore del loro volto di
venticinque anni, anzi tempo alterato dai solchi della vecchiaia che
in quell'età sono i segni di lunghi tormenti e di angoscie profonde;
gli occhi erravano incerti o si affisavano senza guardare, e pareva
che il pensiero affievolito non avesse più virtù d'illuminarli. Io non
ne ravvisai un solo, e dissi sottovoce a Mosto:--Non li conosco.

Accostatisi e vedutomi, notai un subito rianimarsi delle loro
fisonomie come all'incontro di persona amica; io stetti sospeso in
atto; ed essi:--Non ci riconoscete più? esclamarono con accento velato
dalla commozione e un po' forse dal dispetto per la mia freddezza
inattesa. Siamo tanto mutati? La vostra sposa ci raffigurò
immediatamente e ci ha diretti qui a voi.--E voo scià, proseguì uno di
loro volgendosi al maggiore genovese, avete dimenticato Pezzi, che
_scio Carlo_ chiamava Sant'Andrea?

Mosto sentì rimescolarsi, e cangiò colore non al nome di Sant'Andrea,
ma a quello di Carlo suo giovine fratello caduto a Calatafimi.

--Veniamo, altri soggiunse, dalle galere di Favignana. Il 22 luglio
del 1857 ci stringeste la mano quando accompagnaste Pisacane a bordo
del _Cagliari_ nel porto di Genova, e ci diceste:--A rivederci fra
poco. Passarono tre anni; ora...

Trasalii a tali parole, ogni sillaba delle quali fu un getto di luce,
e interrompendoli mi gettai immezzo a loro, li abbracciai tutti ad una
volta, e come meglio mel consentivano l'agitazione, la gioia, la
maraviglia, il rossore, li nominai ad uno, ad uno, e proruppi:--Vivi,
ancora vivi!

E da capo strinsi loro la mano e li assicurai collo sguardo, colla
voce e col sorriso dell'allegrezza. Poscia ricominciai:--Ma non siete
tutti! Dov'è B...?

--Cadde nel conflitto di Sanza.

--E i fratelli F...?

--Furono trucidati dagli abitanti di Sanza.

--E G...?

--Morì di consunzione in carcere.

E chiesi d'altri assai; e di tutti riseppi la tragica fine, o per mano
dei contadini, o delle truppe di Ferdinando II, o dei manigoldi.
Chiesi in fine se qualcuno di loro avesse veduto cadere il colonnello
Pisacane. E veruno lo vide, e ciascuno ne parlava con diverso
racconto. Il modo della morte, pur troppo indubitabile, di quel
valoroso rimane tuttavia e forse rimarrà un'incognita.

--Or bene, ripigliai, in che posso aiutarvi?

--Vi domandiamo due cose: otteneteci di appartenere al corpo dei
carabinieri genovesi, e presentateci a Garibaldi.

--Il maggiore Mosto che qui vi ascolta, ne è il comandante.

Alzata la destra alla berretta gli fecero il saluto militare, indi si
atteggiarono sul _guarda voi_. Mi apparvero tutt'altri da coloro di
poco innanzi: il patriottismo, l'ardore guerriero e la speranza
avevano visibilmente rinnovellate quelle membra affrante.

--Sarò orgoglioso d'avervi compagni, disse il maggiore accarezzandosi
la lunga barba; ma le catene e le sventure vi fiaccarono la salute.
Non reggerete alla prima tappa.

--Provateci, rispose un d'essi con rispettosa fierezza.

E un secondo:--Tagliata la corda che c'incurvò a guisa d'arco, ci
raddrizzammo come prima.

E un terzo:--Giudicateci dall'animo e non dalla magrezza.

A cui il maggiore:--Sapete maneggiare la carabina di precisione?

--Sappiamo; e ancora più la baionetta.

Alle categoriche risposte il maggiore non ebbe di che replicare, e li
accettò nella sua piccola falange, la più segnalata fra i Mille.

Il dittatore, appoggiato al parapetto della galleria, contemplava
affettuosamente Enrico Cairoli, giovinetto pavese che aveva la fronte
forata da una palla di Calatafimi, e un semplice O di panno proteggeva
lo scoperto cervello. M'avvicinai e gli dissi che i superstiti
compagni di Pisacane desideravano di stringergli la mano.

--Fateli venire, ei rispose con vivacità; quanti sono?

E in così dire mi seguiva nella sala.

Gli otto, presagli la mano, lo divoravano cogli occhi, che in un
attimo si bagnarono di lagrime, e le loro labbra tremanti non seppero
articolare un solo detto.

--Ecco, sclamò egli voltandosi a me, ecco in epilogo la filosofia
della storia: noi che la fortuna favorì colla vittoria abitiamo in
palazzi reali. Questi prodi, perchè vinti, vennero sepolti nei
sotterranei di Favignana. Eppure la causa, l'impresa, l'audacia furono
identiche.

--Forse il tempo non fu così bene scelto, io osservai, e certo la
popolarità del capo non così grande.

--I primi onori a Pisacane precursore, e a questi bravi nostri
pionieri, ripigliò il Generale posando amorevolmente la mano sulla
spalla del più vicino.

Lo sguardo di lui, il suono della voce, la sua non avara ammirazione
pel loro capitano adorato parve infondessero nuovo sangue nelle vene
di quegli afflitti. Le traccie dell'atmosfera del carcere scomparvero.
Eglino si sentirono uomini e soldati ancora una volta.

Garibaldi, ideologo talvolta per diletto, ma pratico sempre per
istinto e per perizia dei casi del mondo, comprese che nel pallore di
quei visi l'appetito c'entrava per qualche cosa, e che, se i conforti
dello spirito furono necessari, un paio di polli arrosto e una
bottiglia di Marsala non sarebbero stati inutili. Ordinò pertanto che
si apprestasse loro una refezione e li gratificò di qualche scudo.

Dopo il silenzio d'alcuni minuti, il Generale, ritiratosi nella
propria stanza, mi fece di lì a poco chiamare. Egli giaceva sul suo
letticciuolo di ottone, il gomito sinistro appoggiato al guanciale e
il capo alla mano. A' piedi del letto c'era un tavolino quadrato
ripieno di carte, che servivagli da scrittoio, all'angolo opposto la
catinella e la brocca; sul dosso d'una sedia il _recado_¹, indi un
cassettone con suvvi una scatola di sigari; lo scudiscio che consiste
in una striscia di pelle nera rotolata dall'uno dei capi a forma di
manico; un piccolo specchio, il cappellino, il fazzoletto di seta che
suole portare sulle spalle; la sciabola a canto del letto, e
nell'angusto spazio fra questo e il cassettone, due sedie.

  ¹ Sella americana che in campo si svolge in piccolo letto

--Sedetevi, dissemi, e fumate. La scatola costà sul cassettone
contiene sigari di Nizza. Fumate di quelli. Essi sono, soggiunse con
mestizia, la sola cosa che mi avanza della mia povera Nizza. E in
questo dire, secondo il costume poco rovinoso dei Genovesi, accendeva
il solito mezzo sigaro. Io tacqui per non turbare con inutili
invettive la santità del suo dolore.

--Bisogna provvedere, sapete, a codesti bravi ragazzi.

--Generale, hanno chiesto di appartenere al corpo dei carabinieri
genovesi, e Mosto gli ha accettati.

--Davvero? Sempre i soliti straccioni! Dopo una pausa ripigliò: avete
steso il progetto per la vostra scuola?

Glielo presentai; egli lo approvò; anzi volle l'Istituto capace di
seimila allievi.--Organizzatelo senza indugio, conchiuse con piglio
contento.

--Sì, generale, a patto che l'opera mia sia gratuita, e che io vi
segua quando risalirete in sella...

--Dunque fate presto.

--Per far presto, Generale, bisogna ch'io non dipenda dai ministri, ma
da voi direttamente.

Senza replicare egli scrisse di suo pugno il seguente ordine:

    «_Comando in capo dell'esercito nazionale._

                                «Palermo, 24 giugno 1860.

«Il signor Alberto Mario è da me autorizzato ed incaricato
dell'organizzazione del Collegio Militare. A tale oggetto gli saranno
somministrati i mezzi necessari.

                                «G. GARIBALDI.»

Munito di questa illimitata autorità, feci dichiarare, con decreto
dittatoriale, pertinenza dell'Istituto l'ospizio dei trovatelli,
fabbrica grandiosa e acconcia al mio uopo, con un reddito di 17,000
ducati. I sessanta trovatelli furono cambiati in allievi
dell'Istituto. Dalla materia prima, che il maggiore Rodi manipolava in
piazza d'armi, estrassi il primo battaglione di mille giovani dai
quattordici ai diciassette anni. Cominciata subito per costoro la
clausura, cessò la paga dei tre tarì. Il dittatore mi confortava
d'uffiziali egregi della schiera dei Mille; e fra i volontari
affluenti dall'alta Italia parecchi giovani, o ingegneri, o avvocati,
o giudici, o ancora studenti di università venuti in Sicilia per
combattere, molto virtuosamente mi si proffersero nell'increscioso e
umile officio di bassi-uffiziali. I ragazzi da educarsi, pronti di
mente e generosi, ma semibarbari e insofferenti di legge, non potevano
essere domati che dall'energia intelligente.

Gettate le basi d'un sistema completo d'istruzione militare
elementare, riserbai ad altro tempo la superiore. Percorsa la carriera
fissata, gli alunni per esame sarebbero usciti bassi-uffiziali o
sottotenenti. Condizioni per entrarvi, fede di nascita e fede medica.
Le scuole vennero aperte immediatamente, e nel giro d'una settimana
agivano in piena regola. Le manovre, la ginnastica, la scherma, il
bersaglio, gli studî, la fermezza, le buone maniere e l'esempio dei
capi trasformarono a vista d'occhio quei monelli di Palermo in fieri e
compiti alunni.

Affidai il comando del primo battaglione al maggiore Rodi. Vissuto
lunghi anni nelle foreste americane, in lotta perpetua colla natura e
coi soldati di Rosas, contrasse un po' le sembianze d'uomo selvaggio
in certi lampi dello sguardo, in certi moti combinati di
raggruppamento e di slancio, che ricordavano il balzo della fiera, in
certi gridi acuti come quei degli abitanti dei Pampas. Guadagnatisi
gli spallini di maggiore dagl'infimi gradi a furia di prodezze, non
era in molta confidenza coi libri e con le penne. La paterna tenerezza
di lui pei suoi _piccoli diavoli_, siccome ei li chiamava, toccava il
cuore, benchè non troppo proficua alla disciplina.

Sui rapporti serali dei capitani essendo io obbligato di condannare
agli arresti, per tre, per cinque o per dieci giorni parecchi di
costoro, il maggiore agitavasi, e la sua mano di legno urtava nella
sciabola, volendo accennare all'accusatore di tacere. Faceva segni
cogli occhi, tossiva, si soffiava il naso.

--Maggiore, vi prego...

--Sono agli ordini, signor comandante, volevo dire..., poveri
ragazzi..., dieci giorni di prigione..., fa tanto caldo..., per questa
volta... Ma (alzando la mano di carne alla berretta) chiedo scusa.

Un giorno, visitando la prigione, lo sorpresi in atto di porgere agli
arrestati ciambelle infilzate nella punta della spada.

--Signor comandante, egli fece alquanto imbarazzato, stavo riducendoli
alla ragione.

--Colla punta della spada?

--Avevo in tasca una chicca: che vuole! i Siciliani sono ghiotti di
caramelle.

Entrato nel carcere, scopersi che avevano scassinata la porta e
apprestata la fuga.

--Sa, comandante, osservò il maggiore con aria di lumeggiare il lato
estetico dell'attentato, che ci volle una bella forza a smuovere
questa porta: sono gagliardi come beduini codesti capi ameni! E,
nell'enfasi dell'esclamazione, dava uno scapezzone a quell'uno che gli
stava più vicino. Io ordinai che fossero incatenati. Nell'udire la
spietata parola in suono che non consentiva replica, il maggiore
impietrò. Mandai a rinforzare il posto di guardia ed uscii. Egli mi
seguì in silenzio. Nel varcare la soglia si rivolse ai detenuti, e coi
denti stretti e le labbra socchiuse alzò contro di loro il pugno. Io
lo vidi con la coda dell'occhio, ed egli assettandosi la tunica e
atteggiandosi a severità, con voce grossa e con faccia burbera,
ingiunse alla sentinella di guardarli a vista. Indi, ammiccato il
caporale di picchetto, gli commise di rasserenarli con un residuo di
caramelle che levossi di tasca e gli porse di sottecchi. Se non che il
caporale, tenero della legge e dell'ordine, credette dover suo di
mangiarsele.

Del resto, il maggiore Rodi era valente istruttore, e in piazza d'armi
inesorabile e fulmineo. In un mese il suo battaglione manovrava come
un corpo di veterani; e gli venne fatto di rendere mansuete quelle
nature vulcaniche col fascino della bontà, che lampeggiava sul suo
volto abbronzato a guisa di vene d'oro in quarzo.

Avvezzi alla libertà vagabonda, avidi del denaro, e beati a un tempo
di darlo ai parenti bisognosi, i quali prudentemente aggiravansi a
poca distanza per ritirarlo appena distribuito, quei ragazzi trovavano
insopportabile la clausura, insopportabile ancora più e ingiusta la
perdita del tre tarì. Ripensando che altri mille dei loro amici
avevano la libertà e i tre tarì, studiavano la fuga.

L'edificio dell'Istituto ha figura di un vasto rettangolo che
abbraccia il cortile. La cucina, il refettorio, i magazzini, la
cancelleria, le scuole al primo piano, al secondo i dormitori.
All'appello del mattino mancavano or otto, ora dieci alunni.
Nottetempo, arrampicandosi sulle spalle l'uno dell'altro sino alle
elevate finestre delle sale, annodate coperte e lenzuola, senza badare
al pericolo di fiaccarsi il collo, calavansi sulla strada, e rimessi i
cenci di casa, correvano all'alba fra i compagni di piazza d'armi a
ripigliarsi i tre tarì. Immediatamente raccolsi e chiusi nel monastero
di San Polo quei mille, accelerando l'ordinamento del secondo
battaglione. Tolta l'esca della paga, fu rimossa la causa della fuga.
Per maggiore sicurezza affidai la guardia dell'Istituto a un picchetto
di soldati della brigata Dunne, e collocai sentinelle agli angoli
esterni dell'edifizio.

Il colonnello Dunne, inglese, apprestava una brigata di Siciliani, e
sentendo imminente l'azione, industriavasi di colmare, come meglio gli
poteva riescir fatto, le larghe lacune dei suoi quadri. Adagiato su
una scranna nella spianata vicina all'Istituto, in soprabito di seta
cruda, fumando una pipa turca, esercitava le sue genti all'armi, che
per bizzarria vestì d'assisa bianca. Egli sedeva al centro ed esse
movevangli in giro a modo di ridda. Dunne guardava con occhio lucente
l'infiorescenza primaverile del mio primo battaglione, l'aria
marziale, la precisione dei movimenti, il precoce sviluppo fisico di
quei giovinetti.--Cari ragazzi! esclamava. Quanto sono contento di
cooperare anch'io col mio picchetto di custodia allo incremento di
questa gemma d'istituzione!--Per manifestargli la mia simpatia, una
mattina, ritornando col battaglione dalle manovre, ordinai alla banda
di suonare il _God save the Queen_, e al mezzodì, nel rilevare il
posto, egli mandò il picchetto doppiato. Era una gara di cortesie.
Nonostante mi mancavano sempre nuovi ragazzi, benchè sapessi di certo
che nessuno fosse più sceso dalle finestre. Un dì a caso ne ravvisai
uno, nuotante entro un'assisa bianca fra i soldati di guardia.

--Come sei qui? gli domandai maravigliato.

Arrossato e confuso ei rimaneva senza parola.

--Come fuggisti? parla, ripigliai con voce imperativa e scuotendolo
per la pistagna.

--Signor comandante, i soldati di milordo mi hanno detto che col
signor milordo sarei andato alla guerra fra poco, e un di loro mi
condusse in caserma.

--Quanti fuggirono?

--Molti, ma non so il nome di tutti.

Io tenevo d'occhio le finestre, ed eglino, sogghignando, se la
svignavano per la porta. Licenziai il picchetto, e il colonnello,
nella probabile persuasione che quei cari ragazzi se ne fossero iti a
lui in piena regola, me ne restituì alcuni. Gli altri avevano mutato
nome. Quind'innanzi cessarono le evasioni: gli alunni cominciarono a
capacitarsi che un tempo avvenire, ben altrimenti del recente passato,
onorevole e rispettabile stava loro dinanzi, e l'Istituto procedeva
alacremente e prosperava.

Incalzato dalle necessità del tempo, risoluto di partire con
Garibaldi, non risparmiai fatiche e diligenze. Vedevo e constatavo
ogni cosa di per me. Assistevo alle manovre, alle prove della banda
musicale, alle lezioni dei professori; verificavo le provvigioni di
cucina, saggiavo i cibi, vegliavo alla pulitezza delle mense e delle
stoviglie, all'esatta quantità delle razioni, alla salubrità
dell'edifizio e all'igiene. Sopraintendevo all'opera degli architetti
e dei muratori nella riforma delle case appartenenti all'Istituto.
Visitavo conventi e pubblici edifizî, per farne scelta, in vista dei
seimila alunni. Mercè dei pieni poteri, provvidi largamente i
magazzini d'ogni suppellettile militare. Organizzai l'amministrazione
in guisa che nel maneggio del denaro, stante un reciproco sindacato,
ci fossero le maggiori guarentigie. Feci arrestare un uffiziale
pagatore che sorpresi nella colpa, il quale fu condannato a dieci anni
di galera. All'infuori di questo fatto, fuvvi una emulazione di
onestà, di abnegazione, di buon volere.

Per proteggere l'Istituto dalle possibili ostilità del governo che
dovea succedere alla dittatura, lo denominai _Istituto militare
Garibaldi_. Ed anche presentemente si legge sul frontone dello
stabilimento codesta iscrizione. L'Istituto fu rispettato. Ed oltre il
nome di Garibaldi lo protesse la pubblica opinione, e massime
l'affetto del popolo, che guardava con orgoglio i propri figli
trasfigurati in _galantuomini_, appellativo del ceto civile nelle Due
Sicilie. Garibaldi, che n'era il vero fondatore, tenevalo sovra ogni
altra cosa carissimo e lo faceva argomento delle sue speciali
sollecitudini. Spesso, accompagnato dallo stato maggiore, capitava
all'Istituto e ogni mattina in piazza d'armi nell'ora della manovra.
Scendeva da cavallo, s'informava d'ogni particolarità, dava
suggerimenti, e ordini e provvedimenti efficacissimi, ed inebbriava
colla sua presenza uffiziali e allievi.

In poco d'ora l'Istituto non popolavasi di soli figli della plebe. La
sua buona fama, l'entusiasmo dell'epoca che tirava all'uguaglianza, le
seduzioni della carriera militare in momenti di guerra, e la non
ultima attrattiva del _gratis_ vi condussero giovinetti di famiglie
civili, alcuni dei quali dell'alta Italia.

Ma non ogni cosa correva liscia. Quando l'ospizio dei trovatelli venne
abolito e trasfuso nell'Istituto, Garibaldi mi raccomandò di trar
partito dei maestri e dei guardiani dell'ospizio. Mi trovai quindi al
tu per tu con un frate professore e confessore, e col cappellano.
Ripugnavami la presenza del frate, e d'altro canto non osava
dipartirmi dalle raccomandazioni del Generale. Mi gli mostrai poco
benevolo, assistetti in attitudine di diffidenza alle sue lezioni,
censurai il suo metodo d'insegnamento, ma egli imperterrito faceva
orecchie da mercante. Gli dissi un giorno che io non poteva comportare
la cumulazione di due impieghi, e ch'ei scegliesse fra la cattedra e
il confessionale.

--Scelgo il confessionale.

--L'uffizio di confessore non ha stipendio: non posso stipendiare un
sacramento.

--Sta bene; e poichè debbo mangiare, accennando in ciò dire alla
propria persona di sei piedi, m'atterrò alla cattedra.

Battuto su questo terreno, immaginai di conferire ai professori e
agl'impiegati un grado militare nominale, coll'obbligo di portarne il
distintivo sul berretto. Il frate, antiveggendo l'ilarità della
scolaresca per lo strano accoppiamento del berretto di luogotenente
con la cocolla di San Francesco, chiesemi tempo a decidersi e più non
ricomparve.

Ma non così mi è venuto fatto di sbarazzarmi del cappellano, che
stavasi abbarbicato al suo posto come edera a muraglia. Era uomo di
media statura, sui cinquant'anni, d'occhio fine e astuto, di modi
ossequiosi: non diceva mai no; però sull'apparente condiscendenza
intesseva difficoltà, distinzioni, obbiezioni, onde venivagli detto no
di seconda mano.

Ito il frate, dopo lungo discorso sui privilegi antichi del clero di
Sicilia, che lo mantengono relativamente indipendente dalla Santa Sede
e pertanto estraneo alle sue vicende e alle sue passioni politiche,
m'insinuò la proposta di assumersi egli l'officio della confessione,
sin che avessi nominato un confessore fisso.

--Caro don Pietro, gli risposi, gli allievi sono fanciulli; incapaci
di peccare, è inutile la confessione.

--È vero, signor comandante. Anch'io non accetto l'opinione dei
teologi, che la ragione e la risponsabilità comincino a sette anni. Ma
quivi ne abbiamo di diciassette, e so che parecchi di loro libarono al
calice del piacere, e la loro purità...

--Chi ve l'ha detto, don Pietro?

--Eh! si sa; veruno l'ignora, e poi...

--Chiusi nell'Istituto faranno penitenza.

--È giusto; però il pensiero esce dal cancello dell'Istituto, e sfugge
alla vigilanza dei guardiani. Lo spirito, signor comandante, può
peccare come la materia.

--Caro don Pietro, il lavoro indefesso, ininterrotto, variato,
ascendente, occupa il loro spirito, e la sera la materia affaticata fa
un sonno solo, e senza sogni, fino all'alba.

--Voi avete ragione. Se non che, nella mia qualità di prete, ricorderò
con tutto il rispetto, che la Chiesa comanda che la confessione...

--Qui comando io.

--Senza dubbio. A proposito, dimani è domenica. A che ora desiderate,
signor comandante, ch'io dica la messa? Non se ne celebrò ancora una
sola per questi ragazzi, dacchè l'Istituto esiste.

Ad un mio movimento d'impazienza il cappellano, addolcendo
sensibilmente la voce, soggiunse:--Veramente in tanta furia di lavoro
non avanzava tempo nè spazio per la messa. Io, credetemi, mi presi
licenza di riparlarvene nell'interesse dell'Istituto medesimo, che sta
tanto a cuore al dittatore e a voi.

--Penso che la messa presupponga la chiesa, e la chiesa deve ancora
fabbricarsi. Se ne discuterà quando le finanze dello Stato saranno più
floride.

--In prova della mia devozione a voi, non debbo tacervi che i parenti
mormorano di già.

--So, don Pietro, che vi gradiva più l'ospizio dei trovatelli che non
l'Istituto militare. Nessuno mormora. I fanciulli affluiscono sì
numerosi che rimandai al mese venturo l'accettazione di cinquecento di
loro per mancanza di spazio. Don Pietro! seguite un mio consiglio:
acqua in bocca. Sapete che ci sono molti aspiranti alla nomina di
cappellano.

--Signor comandante, mi raccomando a voi. Per mostrarvi quanto siami
prezioso l'Istituto, mi vi offro da capo lettore gratuito di storia.

--Io nominerò ai vari battaglioni cappellani, che ammaestrano gli
allievi ad amar gli uomini, l'Italia, la libertà, e che gl'imbevano di
feconde e virili massime di morale. Quand'eglino potranno pensare da
sè medesimi, adotteranno quel culto che a loro parrà migliore;
ascolteranno la messa del prete, o il sermone del pastore, o la voce
solitaria e spontanea della coscienza. Non ignorate che s'entra in
questo Istituto senza la fede di battesimo.

Il cappellano, che ha capito il mio latino, temendo di perdere il
comodo alloggio e la paga di capitano, trovò modo di salvare la fede e
il salario col benefizio d'una distinzione e d'una seconda intenzione.

--Signor comandante, disse, la disciplina militare e la legge canonica
m'impongono di obbedire ai superiori. Le vostre idee non contraddicono
alla mia fede; soltanto non sono tutta la mia fede. La differenza fra
ciò che voi volete e ciò ch'io credo verrà giudicata da Dio. Signor
comandante...

In questo punto il portiere entrò con un biglietto che mi chiamava al
padiglione.

--Dimattina, così il Generale, non assisterò alla manovra dei ragazzi.
Fui invitato a colazione a bordo d'un vascello inglese. Volete venire?

--Grazie, Generale; dimattina devo comporre il secondo battaglione e
inaugurare il bersaglio dell'Istituto.

--Visitaste la villa dei Gesuiti?

--Sì, Generale. Vasto e grandioso palazzo, ma troppo lontano. È già
lontana, benchè al paragone vicinissima, la splendida villa Airoldi,
che mi permetteste di occupare. Benchè capace di 400 alunni, vi
rinunciai, anteponendole il convento di San Polo.

--Appunto a causa di San Polo vi chiamai qui. Per la terza volta la
sorella di Rosalino Pilo, monaca di questo convento, mi fa istanza
premurosa che il convento venga restituito. Come posso dir no alla
sorella di quel prode che mi precorse e morì? Cercate altro luogo. Ne
avete tanti a vostra scelta!

--Mi rincresce, Generale; temo sia tardi per appagare il voto della
sorella di Pilo...

--Perchè? m'interruppe egli alquanto irritato.

--L'ho in parte sfabbricato e rifabbricato per adattarlo ai bisogni
dell'Istituto, vi si lavora tuttavia, e nelle presenti angustie
dell'erario ci spesi già quindicimila lire. Oggi le monache non
saprebbero che farsi del trasformato edificio. Ma per esse ne
adocchiai un altro migliore.

--Bene, procurate d'accontentarle, replicò egli domato dall'argomento
delle quindicimila lire, quando i suoi generali avevano due lire il
giorno di paga. D'ora in poi lasciate in pace le mie monache.

I desiderî di Garibaldi erano comandi; ed io m'affrettai a San Polo
col proponimento di soddisfare la sorella di Pilo. Ma i lavori spinti
alacremente volgevano al termine. L'architetto mi dimostrò col nero
sul bianco che a disfare e rifare come prima ci voleva il doppio dello
speso.

Il convento, ricinto d'altissime mura, giaceva immezzo ad una selva
d'aranci, di cedri, d'ulivi, di fichi d'India, solcata da viali
d'alberi di pepe e di sughero. V'erano giardini, e peschiere, e getti
d'acqua. Non so quanto le mistiche spose di Gesù Cristo, coll'ali
invescate della terrestre voluttà che spirava da quelle fragranze
pericolose, da quegli ombrosi recessi, da que' studiati spettacoli
d'una vegetazione intertropicale, potessero innalzarsi alla
meditazione delle pene del purgatorio.

Sotto quei boschetti, durante la fabbrica, serenava il secondo
migliaio dei monelli che l'indomani dovevano diventare il secondo
battaglione dell'Istituto.

Il mattino del 18 luglio, banda in testa, i due battaglioni avviavansi
alla piazza d'armi. Le ultime righe del secondo si componevano di
fanciulli di sei in otto anni; piccola carabina alla spalla, berretta
piegata sull'orecchio sinistro, cinturino sotto il mento, testa alta,
aria fiera, passo ardito, marcia in linea di mezza compagnia, distanze
mantenute, conversione in colonna, secondo i casi, come vecchi
soldati. Un'onda di popolo erasi riversata sulle vie, e le madri
popolane traevano in coda ai figliuoli guerrieri, spargendo lagrime e
facendone spargere agli spettatori.

Al ritorno un infermiere dell'ospedale dei feriti mi consegnò un
biglietto di mia moglie così concepito: «Il Generale s'allontanò da
Palermo; l'ambulanza ricevette l'avviso di seguirlo.»

Volo agitatissimo all'ospedale di San Massimo, e vi trovo Ripari, capo
medico, mezzo costernato e mezzo furente, il quale dava ordini,
contr'ordini e colpi di frustino per accelerare l'allestimento
dell'ambulanza. Gli era un andirivieni di medici, di chirurghi,
d'infermieri, di farmacisti e di ammalati colle ferite non ancora
rimarginate, supplicanti di ritornare alle proprie compagnie. Mia
moglie, nell'ultima stanza intesa ad infarcire di filacce, di bende e
di agrumi i sacconi dei letti, mi fece:--Sei pronto a partire dimani?
Noi partiamo dimani.

Ed io a lei sorridendo:--Non ti affannare, Garibaldi fa colezione a
bordo di un vascello inglese.

--Molto probabile! mentre i nostri si battono a Meri!

--Da quando in qua?

--Fruscianti capitò qui cogli ordini. Il Generale s'imbarcò con gli
aiutanti, le guide, i carabinieri genovesi e la brigata Corte arrivata
testè da Gaeta.

--Dunque ieri m'ingannò! Impossibile!

Ritornai, non so se sdegnato o trasognato, nella prima stanza. Ivi
rividi Ripari ignudo sino alla cintola e supino sul pagliericcio. La
settenne galera di Pagliano lo disavvezzò dalle materasse, dalle
lenzuola e dalla biancheria.

Data, un minuto prima, al bucato l'unica camicia di lana, non
avanzavagli che l'_uniforme_ per cuoprirsi. Il suo baule non contenne
mai filo di cotone o di lino, nè mai odorò di lavanda.

Condiscese al pagliericcio pel decoro del grado di colonnello, ma
letto favorito eragli la panca.

Benchè stretti amici, bisognava in certi casi lo avvicinassi con
cautela, essendo egli spinoso come un'istrice, e d'altra parte, facile
a intenerirsi come una donzella.

--Ci ha corbellati ambedue, io principiai.

Rizzatosi a sedere e calati i piedi a terra, cominciò a far segni
dispettosi sul pavimento col frustino. In quel mentre un disgraziato
Siciliano gli si accostò, porgendogli un foglio di supplica per
divenire chirurgo di battaglione.

Voltegli le spalle nude e lasciatolo col braccio teso e col foglio in
mano, Ripari, dirigendosi a me, proruppe dolorosamente:

--L'accompagnai a Roma nel 49, in Lombardia nel 59, l'altr'ieri a
Marsala, ed ho sessant'anni. Non me l'aspettavo! Ricevetti appena
dianzi l'ordine di apprestare l'ambulanza e di _seguirlo_!

--Dove andò?

--Pare che Medici siasi impegnato in disuguale combattimento con Bosco
presso Milazzo. Garibaldi accorse in aiuto.

--Partiremo insieme?

--Va bene; io me ne andrò dimattina.

Ne seppi abbastanza; m'affrettai al padiglione.

I Palermitani, sbalorditi, chiedevano con ansietà se Garibaldi li
avesse veramente abbandonati. Aiutanti ed uffiziali mostravansi
afflitti del non meritato obblio.

Al generale Sirtori, capo dello stato maggiore e depositario della
potestà dittatoria, io rassegnai immantinente il mio ufficio di
comandante.

--Rimarrete al vostro posto, egli mi rispose seccamente. Non siete un
giovinetto che abbia bisogno di guadagnarsi gli speroni.

--Generale, l'accettai da Garibaldi col patto di rinunciarvi e di
seguirlo appena ripigliate le armi.

--Comunque, dovete restar qui finchè l'opera vostra sia compiuta. Un
soldato più o meno non conta. Sarebbe un delitto lasciar perire
l'Istituto.

--Non soffrirà per la mia assenza. Esso va coi suoi piedi. Basta mi
nominiate un successore.

--Ciò che non farò punto.

--Generale, io non sono militare.

--Avendo assunto il comando dell'Istituto, siete nell'elenco dei capi
di corpo, e avete il grado di colonnello.

--Ma, generale, non supporrete, spero, che io abbia preso sul serio
questo grado. Vedete, sono ancora un _borghese_: quando indosserò la
_camicia rossa_ ciò sarà come un soldato.

--Dio! che Dio mi dia pazienza! egli sclamava fremendo
nell'adempimento d'ingrati doveri che lo tenevano lontano dal campo
ove anelava di trovarsi. Tutti, ripigliò, impazzarono. Ecco qua la
centesima rinunzia ricevuta nelle sei ultime ore. Rimanete... al
vostro... posto... Capite l'italiano?

--Bene, generale, accordatemi un permesso di tre giorni. Se il
dittatore respingerà la mia preghiera, vi prometto che mi riavrete
qui.

--Andate al dittatore o al d....

--Grazie, generale.

Tornai in gran premura all'Istituto, col proposito d'irmene
possibilmente la sera. E per fermo non mitigò la mia brama l'incontro
della brigata Dunne che scendeva alla marina.

Preceduto dalle notizie, mi vennero presentate le dimissioni degli
uffiziali e dei sotto-uffiziali.

Qui mi casca l'asino. Come indurli a desistere, quand'io m'accingo a
lasciargli? E con che cuore d'altronde patire che l'Istituto appena
surto rovini? A riflessioni finite m'abbottonai l'abito e con volto
severo parlai nella seguente conformità:--Il prodittatore rifiutò la
mia rinunzia, ed io non posso accettare la vostra. Raddoppiamo i
nostri sforzi, e quando io possa dire onestamente a Garibaldi,
«l'Istituto si regge anche senza noi,» egli certo ci accorderà l'onore
di combattere.

Cuoceva a quei bravi giovani l'indugio anche di un'ora, pur eglino
consentirono di rimanere sin ch'io fossi rimasto, ed uno di loro
suggerì che ciascuno si cercasse un sostituto. Accettai la proposta, e
avanti sera ne furono rinvenuti parecchi fra i garibaldini, i quali,
rifiutatisi di dimorare all'ospedale dopo la partenza dei proprii
medici e chirurghi, e tuttavia troppo deboli per riprendere le armi,
accolsero con gioia di sostituire i loro più fortunati commilitoni. Il
povero Rodi dibattevasi penosamente fra due contrarii affetti. Era
diviso fra il desiderio di ricongiungersi a Garibaldi, che non aveva
mai fatto una campagna, dal trentaquattro in poi, senza di lui, e la
tenerezza per i suoi _piccoli diavoli_, i quali lacrimando lo
supplicavano di non li lasciare o di condurli alla guerra.

Lusingavami di trattenerlo, dimostrandogli prossimo il tempo di far
marciare il primo battaglione.

--Signor comandante, è pronto adesso.

--Ma non abbiamo ordini.

--Volete procurarveli?

--Sì.

--Allora differisco d'andarmene.

Tale risoluzione diminuiva di non poco le mie difficoltà. Erami ancora
mestieri rendere conto formale della amministrazione, e appianare il
cómpito al mio successore, riassettando il meccanismo dell'Istituto.
V'impiegai quattro giorni di assiduo lavoro, ed arrivai in Milazzo a
battaglia finita.

Battevano le otto pomeridiane, e Garibaldi dormiva.

Nell'uscire dal quartier generale intesi chiamarmi dal maggiore Mosto,
appoggiato ad un balcone di faccia.

Varcata la soglia d'una grandissima porta, mi trovai nel chiostro d'un
monastero mutato in ospedale. Salii: nei lunghi corridoi poca paglia o
qualche rara coperta erano letto ai feriti più avventurati; gli altri
giacevano sul pavimento col capo appoggiato alla bisaccia del pane,
unico guanciale. C'erano feriti dei due campi.

Strinsi la mano a Mosto tutto polveroso, rotto dalla fatica e triste,
congratulandomi di ritrovarlo vivo e sano.

--È andata bene! gli feci; narrami.

--Vincemmo, ma a caro prezzo. Il mio corpo decimato secondo il solito.

--Come si diportò Ungarelli?

--Da valoroso.

--E come dubitarne? Ho gran voglia di rivederlo.

--Trovasi laggiù nel cortile.

--Dove? costà?

--Sì. Morì sul campo d'una palla in fronte. Venne raccolto cogli altri
miei e trasportato quivi.

--Morto!

--Non lo sapevi?

Mi si agghiacciò il sangue. Così giovane, così bello, così
intelligente, così buono! Io non potevo associare l'idea della morte a
tanto splendore di vita. Mosto per distrarmi mi variò dolore.

--Gli otto superstiti compagni di Pisacane, che mi raccomandasti, si
segnalarono. Cinque sono caduti.

--Li trasportarono a Barcellona, soggiunse mia moglie approssimatasi a
noi in quel punto. Rota, Bonomi e Cori si potranno salvare, ma non
credo Conti e Sant'Andrea.

--Quant'altri de' miei, signora Jessie, avete in custodia? le dimandò
il maggiore.

--Venti per certo; i rimanenti giacciono dispersi in chiese umide. A
Barcellona fu una gara di quel nobile popolo per ricoverare i feriti
nelle proprie case; qui non si trova nemmeno paglia da riempire i
sacconi portati da Palermo.

Procedendo con mia moglie lungo il primo corridoio, una voce sottile e
debole mi salutò per nome. Voltomi, vidi tre ragazzi sulla paglia
coll'assisa bianca macchiata di sangue.

Ed ella:--Sono i tuoi alunni dell'Istituto, fuggitivi alla brigata
Dunne. Guarda codesto (e m'indicò un fanciullo addormentato con una
vescica piena di ghiaccio applicata al moncone sinistro), fu amputato
or ora, povero bambino: ha solamente dodici anni. Mi disse:--Sarò
buono, se ella mi tiene, signora; non griderò; piangerò un pochino. Lo
tenni, onorò la sua parola, e mi disse dopo che io piansi più di lui.
È vero. Adesso dorme, come fanno quasi tutti finita l'operazione.

--Siete in collera con noi? mi chiese il più grandicello pigliandomi
la mano e carezzandola. Ci perdonate? Tanti della nostra brigata sono
morti o feriti. Il colonnello dichiarò che dopo la battaglia di
Milazzo nessuno potrà dire che i Siciliani non si battono.

Io mi sentiva soffocare e non potei parlare; baciai quelle fronti
pallide lasciando sul letto alcuna piastra e corsi all'aria fresca.

È molto mesta la notte della vittoria, quando non si ha partecipato
alla battaglia!

L'indomani visitai il Generale, che mi stese la mano con queste
parole:--Vi aspettavo.

--Dopo la battaglia, Generale? Voi avete dimenticato la promessa.

--Non dimentico mai! Remigando verso il vascello inglese ricevetti il
dispaccio di Medici, e m'imbarcai subito con quanti avevo sotto mano.
Non importa; vi compenserò, non dubitate.

--So, Generale, che vi esponeste ad un conflitto personale con alcuni
lancieri. Non considerate che la riuscita o la rovina della impresa
dipende unicamente dalla vostra vita?

--Se così è, vivrò per compierla. Porgendomi un sigaro, proseguì
coll'usata modestia: fu una semplice combinazione. Tacque per poco,
indi ripigliò: pensate che la costituzione bandita da Francesco II
abbia appagati i Napolitani?

--Avrebbeli forse, senza la spedizione di Marsala. Il re è giovane ed
innocente delle colpe del padre; ma i Napoletani odiano la sua stirpe
impastata di perfidia. D'altronde, l'unità nazionale oggi domina idea
sovrana, che voi, Generale, con questa spedizione faceste scendere
quaggiù dai cieli dell'astrazione e dell'utopia. Quind'innanzi nessun
profitto locale potrà soddisfare gli Italiani.

--Fino all'ultimo momento del mio soggiorno a Palermo mi si tormentò
con perpetue istanze di annessione al Piemonte. E tuttora la
cospirazione prosegue; mi s'intralcia il cammino. Che la facciano! A
me bastano poche migliaia di soldati per balzare in Calabria.

--A Palermo vi manifestai la mia opinione, ed ora ve la ripeto: Mero
grido di partito. Se voi cedete la Sicilia prima d'avere Napoli,
perdete la base d'operazione, e vi verrà impedito o quanto meno
contrastato il transito dello Stretto. Il programma fissò lo scopo
dell'impresa. Si parlerà d'annessione a Roma. Voi ne ammoniste di già
chiaramente i Palermitani dal poggiuolo del palazzo reale con quelle
parole monumentali, «dopo le battaglie, le urne e le assemblee.»

--Non siete persuaso che i Siciliani desiderino l'annessione?

--Desiderano l'unità italiana, non conoscono che Garibaldi.

--Sì, bisogna profittare dell'aura.

Garibaldi ascoltava il mio parere, come quello d'ogni patriota,
benignamente sempre. Ma è inesatta la voce diffusa e creduta ch'ei
ceda alle influenze e pieghi alle sollecitudini ed ai consigli altrui.
Veruna accusa più di questa lo crucciava; e se ne rammaricava sovente.
Io gli stetti vicino negli svolgimenti del dramma del 1860, e posso
affermare che egli ha un'idea propria sulle cose, lungamente e
solitariamente meditata. Solo quell'idea determina le sue azioni. Però
la piccola guerra, il raggiro, l'insidia, l'opposizione occulta e
pertinace lo irritano e lo stancano. Come leone che si sente avvolto
in una rete, ne rompe le maglie e va via sdegnoso.

Poscia, ragguagliatolo sullo stato dell'Istituto, sulla sostituzione
degli uffiziali, lo pregai di nominare altra persona in vece mia.

--Tenete in mano vostra la direzione e sceglietevi un vice-direttore.
Un bel giorno manderemo a chiamare il nostro primo battaglione: per
adesso lasciamo le cose come stanno. Indi, datemi alcune commissioni
che rendevano necessario il mio ritorno a Palermo, soggiunse: Mi
raggiungerete a Messina. Le truppe di Bosco ora s'imbarcano a bordo di
legni francesi. La vittoria decisiva del 20 chiuse il nostro lavoro in
Sicilia.

Quattro giorni in appresso mi gli presentai a Messina in camicia rossa
e colla nomina in tasca di sottotenente d'ordinanza di lui.

La spensierata festività della reggia normanna non riapparve al
quartier generale di Messina. Garibaldi, assorto in gravi pensieri,
divenne taciturno, e la sua fronte, sempre spianata e serena, si fece
corrugata e scura. Ogni dì, e spesso due volte, egli percorreva la via
da Messina al Faro.

Un dopo pranzo ve l'accompagnai in carrozza col maggiore Stagnetti, e
non si pronunciò verbo mai nell'andata e nel ritorno. Egli, come
soleva, salì sulla torre ad interrogare per lunga ora col cannocchiale
la riva opposta.

Ma più del problema militare del passaggio che il suo genio avrebbe
certamente sciolto, turbavanlo gl'inciampi politici che incontrava ad
ogni passo. E massime una lettera di Vittorio Emanuele che lo pregava
di rinunciare alla liberazione di Napoli, a cui peraltro il Generale
rispose, «le popolazioni mi chiamano; io mancherei al mio dovere e
comprometterei la causa italiana se non ascoltassi la loro voce.»
Cessata pertanto ogni incertezza, risoluto di proceder oltre, raccolse
tutte le forze nella costruzione d'un ponte invisibile fra Cariddi e
Scilla. Epperò egli sentivasi alfine nel proprio elemento, e dall'urto
delle difficoltà materiali scoppiavano per lui scintille di nuova
luce.

Il 7 agosto io era di guardia al palazzo. Chiamato nella sua
stanza:--Volete prender parte, mi disse, ad una impresa audace e forse
decisiva?

--Generale! risposi con impeto di contentezza.

--Domani alle quattro pomeridiane al Faro. Sarà opera di pochi scelti.

L'indomani, avviandomi al Faro in vettura, verso le due, incontrai il
dottore Ripari, l'invitai a montare, e gli ripetei il colloquio della
vigilia con Garibaldi.

Al vecchio soldato fluì subito il sangue alla testa, e nella lusinga
di potersi rifare della mancatagli giornata di Milazzo:--Vengo
anch'io, esclamò.

--E l'ambulanza generale?

--Troverà modo di tenermi dietro. Intanto vado io.

Garibaldi era a bordo dell'_Aberdeen_ ancorato sulla rada. Salimmo.
Egli passeggiava sul ponte.

--Eccomi agli ordini, Generale.

--Partirete col colonnello Muss..., e apparterrete al suo stato
maggiore.

--Generale! così Ripari, se mi permettete, andrò anch'io in compagnia
di Mario.

E il Generale con occhio affettuoso e con benevola ironia:--Non è
affare per voi; siete troppo vecchio!

Alle inaspettate parole, Ripari, acceso e spento quasi ad un punto,
stette muto e immoto. Poi riscotendosi mi stese la mano, sillabando
con voce abbassata d'un tono:--Sono troppo vecchio! Addio. Saltò in
una lancia, disparve, e tornò a Messina a piedi per provare a sè
stesso d'essere ancora abbastanza giovane.

Sull'imbrunire capitarono successivamente quattro ufficiali ad
avvertire il Generale che le loro squadre trovavansi al luogo fissato.

--Va bene: tornate là e attendetemi.

Un quarto d'ora appresso, seguito dal generale Medici, da due aiutanti
e da me, egli scese in un palischermo. Postosi al timone, si sguizzò
inavvertiti fra le molte barche, e s'entrò in un canale che serpeggia
intorno alle trincee del Faro. Alla foce stava preparato un navilio di
settanta barchette e sulle ripe alcuni gruppi di gente armata; quivi
fucilieri, costì cacciatori, colà guide, in silenzio, mentre
sull'attigua spiaggia dello stretto riagitavansi e romoreggiavano
migliaia di soldati nell'imminenza della ritirata.

Il Generale mi mandò al capo d'ogni gruppo per ordinare l'imbarco di
tre uomini in ciascuna barchetta. Ridiscesi noi a mare, le settanta
navicelle circondarono il nostro palischermo. Il Generale rapidamente
spartille in isquadre distinte per numeri. Ciascuna barchetta
governavano quattro rematori siciliani e un timoniere. Vi ebbe nel
primo istante un po' di confusione; mancavano i _revolvers_, le scale
d'assalto, alquanti soldati e parte della munizione. Alfine tutto fu
in punto. Quand'ecco le guide, armate di carabine, s'accorgono che le
cartucce superano la portata dell'arma; se ne sparge la notizia.

--Generale, gridò il non troppo accorto comandante della spedizione,
le cariche non vanno alle carabine.

Il momento era supremo; ogni indugio impossibile. Prontamente e con
accento soggiogatore, Garibaldi rispose:--Fatevela a pugni!

S'udì un sì collettivo ed elettrico.

Indi, ordinatomi di entrare nella barchetta del comandante,
maestrevolmente sviluppò in un girar di ciglio quell'ingombro
galleggiante che a foggia di spira avvolgeva la sua lancia. I tamburi
avevano già battuta la ritirata.

La quiete regnava profonda. Noi non udivamo che la voce di Garibaldi a
intervalli, sonora, concitata, onnipotente.

--O Rossi! rasentate la costa, dirigetevi sulla punta del Faro. Così
egli comandava in dialetto genovese.

Rossi, genovese, capitano di mare, sedeva al timone della prima
barchetta occupata dal colonnello Muss..., da Libero Stradivari, da
Ergisto Bezzi e da me.

Manovrando su e giù lungo la linea, il Generale stabiliva le distanze
fra barchetta e barchetta, fra squadra e squadra, e ammoniva i
timonieri. Egli più a mare di noi diresse la propria lancia alla punta
del Faro, disegnando una retta, e vi arrivò mentre la mia barchetta
spuntava dall'ultima estremità di Cariddi, e si affacciava al nostro
sguardo lo spettacolo del doppio mare.

--O Rossi!

--Generale!

--Puntate la prora su Alta Fiumara. Vicino a terra piegate a destra.
Approdino tutti sulla vostra sinistra.

E volgendo la parola al corpo di spedizione:

--A voi l'onore di precedermi. L'impresa è ardita, ma ho fede in voi.
Vi conosco a prova. Ci rivedremo fra poco... E intanto la piccola
armata gli sfilava davanti.

Suonavano le dieci. La brezza notturna increspava leggermente il mare;
le correnti dello stretto ci spingevano alquanto fuori della bocca del
canale, onde timoneggiando verso il punto fisso, l'avventurosa
flottiglia formava un arco stupendo, che io dalla mia barca in testa
di colonna vedevo mano mano disegnarsi. La notte era stellata e senza
vento, e fantastici volumi di nuvole coprendo la luna, spandevano una
oscurità propizia sul nostro passaggio. Il timoniere coll'acuto occhio
marinaro aveva a tutta prima ravvisati due legni borbonici della
crociera, i quali, passando sotto Alta Fiumara, muovevano alla volta
di Scilla. Verso il mezzo dello Stretto la luce rossa dei fanali e il
distinto brontolio del vapore che scaricavasi dal minor tubo, ci
segnalavano due o tre altre navi da guerra nemiche.

--In che l'oggetto della spedizione? dimandai al comandante, amico
mio.

--Nell'assalto inopinato del forte di Alta Fiumara, durante la notte.
Dianzi travestito penetrai in Calabria, m'affiatai con qualche
sergente calabrese mio compaesano; fo capitale sovra una parte del
presidio. Padroni del Faro da un lato, la presa di Alta Fiumara
assicurerà il transito dell'esercito, impedendo col fuoco dei due
forti di fronte l'avvicinarsi dei legni di Francesco II.

--Conducesti teco le guide del luogo?

--No, le troveremo di là. Appena a terra, egli mi commise, dividerai
il corpo in tre schiere, piglierai il comando di quella di destra e
risalirai il torrente fino alla strada quetamente, indi piegando a
sinistra, assalirai il forte dalla parte superiore, le altre
l'investiranno dal lato opposto. Una scala ad ogni cinque uomini. Mi
fu promessa una porta aperta: il resto colle scale, coi revolvers,
colle baionette. Un colpo di cannone annuncierà al dittatore il fatto
compiuto.

--Santo diavolone! Un vapore! Siamo perduti! ulularono esterrefatti i
nostri rematori.

Il pauroso grido volò di barca in barca, come eco cento volte
ripetuta. Girai l'occhio sulle barche seguaci, e notai un attimo di
sosta; un moto oscillatorio agitava quella magica curva natante, che
solo si discerneva pel solco argenteo dell'acqua e per le fosforiche
scintille provocate dal colpo dei remi. Ma essa conteneva intrepidi
petti, ai quali il profondare sarebbe sembrata una festa al paragone
del retrocedere.

--Non lo vedete? là sulla dritta? ci viene addosso, ripeterono i
rematori con voce soffocata, stesi boccone e cercando puerilmente
riparo dietro la sponda dello schifo. Noi li afferrammo per la veste,
e col revolver li costringemmo a rialzarsi e a remigare.

Rimessi in piedi ricaddero ginocchioni; con parole rotte dal singulto
e colle braccia aperte, imploravano misericordia per le loro famiglie,
invocando santa Rosalia e la Madonna dei sette dolori. Ripresi i remi,
si sforzarono di virare di bordo. Allora saltammo noi ai remi; laonde
eglino giudicarono miglior consiglio l'obbedire. Una scena consimile
accadde in ogni battello.

--Eccolo, eccolo là! gridarono.

Di fatti una massa nera, che noi non sapemmo distinguere dapprima,
avanzavasi visibilmente sulla nostra direzione.

--Ferma, comandò il timoniere Rossi, che in tale frangente mostrò
l'abituale bravura.

--Morte per morte, io dissi al comandante, dobbiamo tentare
l'arrembaggio.

--Il vapore più veloce di noi, rispose Rossi sorridendo della mia
imperizia, non si lascerà avvicinare, e ci manderà a picco standosene
alla debita distanza.

Nondimeno fu trasmesso comando d'investire il vapore in caso di
attacco.

Frattanto quella massa nera diventava sempre più manifesta e meno
nera, e non andò guari che in parte apparve bianca. Ci raggiunse
alfine.

--Un brigantino mercantile, proruppero in coro i rematori.

--Un brigantino, un brigantino! s'udì ripetere su tutta la linea: e il
brigantino col vento in poppa e a vele spiegate tragittando a qualche
metro da noi nel più alto silenzio, piegò verso l'ovest, e si perdette
rapidamente nell'oscurità.

Rinfrancatisi, i marinari si diedero a vogare a tutta lena.--Quelle
tre luci rosse costà, osservò uno di loro indicando colla mano due più
alte e la terza più bassa, sono due vapori e una cannoniera. Li
notammo partendo. Se ci veggono, siamo a tiro.

Ancora un quarto d'ora e la spiaggia calabrese ci si offerse alla
vista come una livida striscia sull'onda bruna.

--Avanti! comandò Rossi a' marinari; cacciate la prora nel lido. E
vôlto a noi: Seduti, signori. Indi con forza, a mezza voce, ai primi:
Voga, voga! Ed ecco la prora penetrar con violenza nella sabbia della
riva.

Desideroso di toccare per primo il suolo di Calabria, spiccai
prestamente un salto e fui a terra, ma il sottotenente Bezzi divise
meco quella priorità. In pochi minuti approdarono successivamente le
settanta barchette a mancina della nostra: poscia, vuote dei soldati e
delle scale, spesseggiarono al Faro.

Su quel ponte invisibile traversarono lo stretto duecentodieci
garibaldini.




II.

I pionieri.


In obbedienza alle ingiunzioni del comandante, correndo lungo la
spiaggia, composi le tre schiere.

Dal dosso sporgente del colle ci sovrastava il forte di Alta Fiumara
che a noi pareva già d'avere in mano.

Tornato al comandante, riseppi che le guide paesane mancarono al
convegno, ond'io a lui in suono di domanda:--Dunque?

Ed egli a me tranquillamente:--Si fa senza guide.

Postomi alla testa dell'ala destra, cinquanta uomini, salii l'asciutto
torrente di Alta Fiumara. I sassi bianchi ond'era aspro il letto
riflettevano una certa specie di chiarore in mezzo al buio fittissimo
che c'involgea da circa mezz'ora. Toccai prestamente la strada
maestra, e snodai alla bersagliera la mia squadra per approssimarmi
inavvertito al forte.

Sopravvenuta una vettura a tre cavalli, ne feci scendere i passeggieri
ingombri d'improvviso stupore, non forse dalla presenza di gente
armata, sibbene dal non paesano accento.

--Donde venite?

--Da Reggio e andiamo a Scilla. Siamo calabresi.

--Tranquillatevi. Non vi vogliamo alcun male. Ma per ora dovete
sostare.

--Signore, viaggiamo per negozi privati.

--A voi Calabresi saranno famigliari questi monti.

--Io li conosco, disse impetuosamente un giovinotto. Come cacciatore
li tentai per ogni verso.

--Va bene. Tu verrai meco mezz'ora.

--Signore, interruppemi altro di loro con voce di pianto, il mio unico
figlio! abbiate compassione d'un povero vecchio. Anch'io ho pratica
dei siti; concedetemi in grazia ch'io v'accompagni in cambio di lui.

--Verrete entrambi. Non ho un minuto da perdere. Chi mi regala un
sigaro?

Tutti ad un fiato:--Io.

Avuto il sigaro, fu acceso uno zolfanello, e a quella fiamma brillò la
camicia rossa.

--Ah! esclamarono esultando, garibaldini! Quando sbarcaste? quanti
siete? c'è Garibaldi? Nella tempesta dei quesiti mi diedero baci e
strette di mano e di braccia e di collo.

Poi con favella ansiosa soggiunsero:--Badate, signor capitano, che a
un quarto d'ora di qui oltrepassammo un battaglione di regii, diretto
a Scilla per rilevare i presidî dei forti.

Spedii immediatamente il sottotenente Perelli¹ ad avvertirne il
comandante.

  ¹ Questo valoroso pavese è stato ferito al petto nel
    combattimento del 21 luglio 1866 a Bezzecca.

Interrogatili sulle forze borboniche da Reggio a
Scilla:--Quattordicimila uomini, disse il vecchio. E voi?

--Il nostro nome è legione!

Frattanto mi venne udita una vivissima moschetteria e poco dopo un
colpo di cannone dal forte. Ordinato al cocchiere d'andarsene, augurai
la buona notte ai viaggiatori, trattenendo le due guide.

--Eccoci scoperti, pensai; l'impresa fallì; non ci avanza che di
vendere cara la vita. Raccolti i miei, mossi verso il forte in linea
obliqua per comunicare col resto della colonna, che giudicai in grave
pericolo, avendo alle spalle il mare, e per vigilare ad un tempo
l'arrivo del battaglione nemico. A breve tratto di là rovesciai e
dispersi una pattuglia borbonica alla baionetta, traendo due
prigionieri. Un momento appresso mi fu segnalato un drappello di
soldati all'alveo del fiume. Invertita la fronte e avvicinatici l'un
l'altro:--Chi va là?--_Calabria_--_Messina_: nostra parola d'ordine.
Il maggiore Missori e le guide.

--Che c'è di nuovo?

Ed egli:--Venuti per sorprendere fummo sorpresi.

--Ed il resto della colonna?

--Muove parallelamente alla montagna.

--Ma come accadde che il nemico s'accorse di noi?

--Il comandante non sapeva nemmeno ove giacesse il forte. I cacciatori
Bonnet, i quali formavano la sinistra, spintisi fino alla cinta,
s'imbatterono in una grossa pattuglia.--Arrendetevi, disse
l'ufficiale. La pattuglia rispose con una scarica a pochi passi. I
nostri d'un balzo le si avventarono addosso e la ributtarono
precipitosamente nel forte, malconcia e scemata. Portata la notizia
colassù, tuonò il cannone d'avviso. Ecco quindi in vista i fanali di
due vapori da guerra.

--A momenti un battaglione di regii avvilupperà tra due fuochi il
corpo del comandante e fors'anche il nostro.

--Il comandante lo sa.

--Appiattandoci dietro il ciglione superiore alla strada, potremo,
benchè pochi, cogliere all'impensata il battaglione nel suo passaggio,
fulminarlo a bruciapelo, sbaragliarlo e vendicarci dell'impresa
mancata.

--L'ordine preciso è di guadagnare la montagna. Terremo però d'occhio
il battaglione, per tutelare i nostri se in ritardo. Cerchiamo una
guida al primo casolare.

--Ne ho due meco.

Collocate sentinelle morte a corta distanza dalla strada, volteggiammo
sulla sinistra sin che avemmo certezza che il grosso della colonna
pervenne in sicura parte e che il battaglione passò oltre. Poscia,
rivalicato il torrente, si cominciò l'ascesa per luogo dirupato e
talora quasi insuperabile, figurandosi a parapetti. Se il buio e
l'esagerata opinione delle nostre forze, siccome risapemmo dai
prigionieri, non trattenevano il nemico dall'inseguirci, eravamo
perduti. In quei frangenti desideravamo le scale che, diventate
impaccio, furono abbandonate. Montando l'uno sull'altro, superammo i
parapetti. All'ultimo dei nostri rimaso si sporgeva dall'alto un
fucile ch'ei afferrava a due mani, e, stampando passi scivolanti sul
parapetto, venivagli fatto di alzarsi sino alla portata delle braccia
d'altri soldati che tiravanlo al nuovo stadio. Affranti dalla fatica,
grondanti di sudore, si proseguì fino a notte alta quel sentiero da
camosci. Gradualmente alleggerito l'animo dell'angoscia per la non
riuscita spedizione, abituati, come si era, alla vittoria, e pel
temuto corruccio di Garibaldi, si tirava innanzi esilarati di tempo in
tempo da qualche facezia dei soldati, molti dei quali studenti
d'università.

--Una capanna! esclamò uno di loro dall'altezza del nuovissimo
parapetto. La speranza di trovarvi acqua da bere balenò quasi raggio
di luce ricreatrice, quando si intese uno sparo di fucile, ripercosso
di monte in monte. Subitamente ciascuno pose mano alle armi.--Cosa da
nulla, disse un soldato in dialetto veneziano: nel porgere il fucile
lungo il parapetto, partì la botta e mi forò la mano. La palla aveva
trapassato il palmo della mano. Gli diedi la mia pezzuola per fasciare
la ferita e lo condussi alla capanna. Il solo medico della spedizione
trovavasi col comandante. Il ferito, curato ivi alla meglio, continuò
intrepido la marcia, abbastanza disastrosa.

Un lumicino di ferro d'un becco, appeso ad un candeliere di legno
ricurvo, rischiarava con torbidi getti di luce la lurida e negra
stanza della capanna, appestata dall'odore di antica fuliggine che
l'ampia gola del camino esalava. Non valsero le nostre parole e la
cura d'ingentilire la voce a rassicurare una donna ed una ragazza,
rannicchiate sovra un giaciglio di paglia fradicia, le quali il
singulto quasi soffocava, perchè invitammo il marito e padre di
guidarci per miglior via. Non le vinse la pietà del ferito, non le
acquetò qualche moneta d'argento gettata loro in grembo, nè il
risaperci garibaldini e liberatori. Garibaldi e la libertà erano una
persona ed un'idea ignote in quella capanna. Le insolite armi in
quella inviolata solitudine ed in quell'ora della notte privolle
d'ogni senso di ragione.

Il pastore, che vide seguìto il suo insistente rifiuto di
accompagnarci dalle minacce, ed avvertì in due paia di piedate
sufficienti un principio d'esecuzione, si risolse di vestirsi.
Inforcate le brache di spelato frustagno, mozze al ginocchio, calzò
due sandali, di cimossa la suola e il tomaio, foggiati a punta ritorta
e legati con fettuccie a treccia intorno al collo del piede, ond'ei
camminava queto ed inavvertito come il Sonno dell'Ariosto che ha le
scarpe di feltro. Indi, messo un cappello conico di panno nero frusto,
orlato di velluto, dal cui vertice svolazzavano due liste pure di
velluto, e preso sotto il braccio un corto gabbano, disse addio alla
moglie ed alla figlia, le quali, prorompendo in acute strida, si
strinsero l'una l'altra convulse e disperate.

Sui muti passi del pastore ripigliammo il tribolato viaggio per
viottoli più agevoli. Presso la prima ora del mattino il cielo
principiò a rasserenarsi; potevamo scorgere la vetta sospirata, a cui
dovevasi arrivare. Vedevamo la lanterna di Cariddi ai nostri piedi e
più lontano lunghe strisce luminose che c'indicavano Messina, e più
lontano una piramide immensa e scura che sembrava sorreggesse l'arco
del cielo, ed era l'Etna. La notturna brezza, l'aria fine, la vista
dell'orizzonte ci rinfrancarono le forze semispente.

Si procedeva spediti, perchè nessuno di noi possedeva sacco o cappotto
o panno: non avevamo impicci d'ambulanza, nè di viveri, nè di
munizioni, e nemmeno di sigari.

Partiti per un'impresa di quattr'ore, per una sorpresa, ci trovammo di
un tratto capofitti nell'ignoto, con venti cartuccie ciascun soldato.

--Siamo in Aspromonte, ci fece il pastore, montagna deserta molte
miglia all'intorno. Quivi la terra si coltiva a patate e a frumento;
gli agricoltori vi ascendono dalle coste o dai più rimoti villaggi a
seminare e a mietere. Boschi di roveri, di pini e di faggi cuoprono la
massima parte di codesti dirupi.

A tali notizie lusinghiere, onde il pastore compulsato dalle nostre
interrogazioni, ci veniva consolando, i soldati facevano i più ameni
commenti, finchè si toccò in sull'alba la vetta.

Persuasi che la vetta fosse una vetta, ci occupò alta meraviglia nel
vedere spiegarsi al nostro sguardo una sterminata pianura, in fondo
della quale spiccava da capo la montagna. Licenziato il pastore,
cercammo ricovero in un pagliaio, ma il tremito delle membra e lo
stridore dei denti per vento freddissimo ci contrastarono il sonno,
malgrado la stanchezza grande, finchè il sole non ci ebbe intiepiditi.

Ci svegliammo alle nove, poi vennero le dieci, poi le undici.

    «. . . . . e l'ora trapassava
    «Che il cibo ne soleva essere addotto
    «E per suo sogno ciascun dubitava.»

Stretti a consulta sul modo di vettovagliarci, disputavasi con varia
opinione senza che un partito razionale fosse manifesto, quando da
lunge comparve un cavaliero che, trottando alla nostra volta traverso
i campi di frumento mietuto, agitava per l'aria il cappello. Seguivano
più lente la sua traccia due mule cariche.

--Sento il fluido animale del prosciutto che s'accosta, disse un
soldato.

--Ed il fluido vegetale del pane che l'accompagna, soggiunse un
secondo.

Col cannocchiale del maggiore speculai i provvidenziali quadrupedi, ed
annunciai due barili. Un flauto a questa novella modulò dolcemente le
note del brindisi nell'_Ernani_:

    «Allegri beviamo...»

--Un flauto! sclamai con gioconda sorpresa.

--È un giovane volontario bergamasco, sorse a narrarmi un vicino, che
inneggia alla lieta fortuna. L'Orfeo della spedizione. Ha sempre
marciato e combattuto col flauto in tasca.

Il cavaliero, le mule, i barili, il flauto, i presagiti prosciutti
mutarono d'incanto in tripudio le prime malinconie. Il flautista,
finito il brindisi, suonò una polka, che ballarono parecchie coppie di
soldati. Altri con voci combinate e fuse insieme l'accompagnavano
benissimo a guisa di violoncelli e di contrabassi. Sembravamo una
brigata di virtuosi ad una festività campestre, anzichè un povero
manipolo di patrioti militanti, avventurato fra quattordicimila
nemici, diviso da' suoi per un ordine di fortificazioni, per la flotta
e pel mare. L'Jonio e il Tirreno con onda purpurea, baciando i lidi
della Sicilia, la quale, avviluppata da una nebbia di luce d'oro,
pareva palpitasse in quel misterioso amplesso, l'indefinibile mormorìo
delle foreste di faggi, ond'era chiomata l'erta vicina, che
propagavasi sulla pianura in suono di note vocali, davano colore e
tono a quell'idillio.

Frattanto arrivò il cavaliero.

Noi l'abbiamo amorevolmente circondato, e gli facemmo magnifiche
accoglienze.

--Nella notte, egli fece, sparsa la novella in Reggio del vostro
sbarco, il comitato segreto vi spedì sei mule cariche di viveri, e mi
mandò sull'istante per ragguagliarvi che bande armate di Calabresi vi
raggiungeranno. Il nemico ne sequestrò quattro. Ma, continuò quel pio
per attenuare la dolorosa impressione patita dall'uditorio, si
riparerà senza indugio alla perdita.

Il maggiore Missori ed io, invitato il nostro ospite a scendere di
sella, ci appartammo seco lui per chiedergli particolareggiate
informazioni sullo stato delle cose. Egli ci chiarì che il paese
aspettava Garibaldi, pronto e risoluto a secondarlo, che la
costituzione borbonica ottenne accoglienze irrisorie, che ogni
transazione colla famiglia regnante diventò oggimai impossibile, che
del resto le truppe rimanevano fedeli, che si sarebbero battute sino
agli estremi, malgrado le disfatte di Sicilia, che, oltre i diciotto
battaglioni custodi alla marina, dieci guardavano il punto strategico
di Mileto, donde facilmente avrebbero vietato l'ingresso nella seconda
Calabria a forze tre volte superiori.

--La cura di ciò spetta a Garibaldi, osservò il maggiore. Sapete ch'ei
conosce il segreto di vincere coi pochissimi i molti, e d'espugnare
fortezze senza uopo di cannoni; come avant'ieri Milazzo.

Durante il colloquio, il cavaliero ed io ci guardavamo con curiosa
indagine come chi fruga nella memoria un'idea smarrita, onde
finalmente gli dissi:

--Mi pare di conoscervi.

--E a me voi.

--Io non venni mai in Calabria. Voi viaggiaste?

--Dopo undici anni di galera, nel cinquantanove viaggiai a spese di
Ferdinando II verso l'America. S'era in sessanta, e giudicammo miglior
consiglio indurre il nocchiero a sbarcarci nella Gran Bretagna. Mi
chiamo Gerace e nacqui calabrese.

--Ecco! vi conobbi a Londra.

--Tornai in Calabria di nascosto per prepararci degnamente ai nuovi
eventi. Garibaldi si mostrerà contento della mia patria.

Egli si assunse di traversare nella notte lo stretto con nostre
lettere al Generale. Il _lapis_ c'era, ma la carta mancava.

L'arrivo delle mule e la tirannia dell'appetito interruppero la
ricerca della carta.

--Ecco qua la carta, disse il maggiore mostrando un foglio greggio che
avvolgeva una forma di caciocavallo; e vi stese il rapporto al
dittatore. Sopra un pezzo rimasto io scrissi a mia moglie, per
assicurarla col fatto della scrittura ch'ero vivo e sano.

--_Sans adieu_, disse Gerace nel dipartirsi da noi. Ricomparirò con
una mano di Calabresi entro due giorni.

Le scolte del nostro piccolo accampamento annunciarono la colonna del
comandante. Sospese le mense, si aspettarono gli amici.

Per più ruinosi sentieri del nostro arrampicaronsi essi, e noi li
rivedemmo stracciati e sparuti. Ma l'insperata refezione e il favoloso
bicchier di vino distribuito a ciascheduno rinnovellarono gli spiriti
afflitti e fecero dimenticare le sopportate tribolazioni.

Rimessi in cammino e traversato l'altipiano, ci arrestammo ad una
fattoria che sorge al piede del monte di Sant'Angelo. Ivi piantammo
gli alloggiamenti. La fattoria, vecchio edificio solidamente costrutto
e chiuso, aveva le sembianze d'un castello. Secolari faggi
ombreggiavano i suoi dintorni, temperavano gli ardori quasi tropicali
dell'agosto in quell'ultima regione d'Italia, e davano asilo alla
nostra milizia. Il comandante e lo stato maggiore abitavano la casa
dei contadini, prospiciente la pianura, che componevasi della cucina e
di tre cameruccie basse, affumicate e misere. Il resto dell'edificio
granai, cantine, fienili, rimesse e stalla; ma senza grano, senza
vino, senza fieno, senza carri, senza animali. I due cordiali
contadini ospiti nostri, cedettero il gramo letto coniugale al
comandante; noi si dormiva sulle panche.

Il quartier generale era relativamente numeroso e singolare. Il
colonnello comandante, un maggiore, quattro capitani, un luogotenente,
due sottotenenti. Tre mesi addietro, di cotesti nove, uno era poeta,
due avvocati, uno mercadante di tele, uno fotografista, uno notaio,
uno ingegnere, uno agricoltore e uno letterato; quasi tutti soldati
volontari nelle guerre italiane dell'indipendenza, indi esuli, o
carcerati. Il coraggio e l'intuito supplivano alla scienza militare.

La mala riuscita della spedizione scemò autorità al comandante, il
quale sentì il bisogno di agire dietro proposte discusse nel seno dei
nove. I nove componevano il Consiglio di guerra in permanenza, il
quale entrò in funzioni il mattino del 10 agosto. Altri propose di
gettarsi sopra Cosenza e provocare l'insurrezione nelle due Calabrie
superiori, altri di tentare un'irruzione su Reggio. Vinse il partito
di attendere sino all'indomani i soccorsi calabresi e di eseguire,
quale obbietto invariabile della nostra azione, una serie d'assalti
improvvisi lungo lo stretto, tirandoci dietro il maggior nerbo di
nemici possibile, per assottigliare i reggimenti che presidiavano la
costa, e rendere così più agevole lo sbarco a Garibaldi. Stabilita
inoltre la nostra base d'operazione sui gioghi d'Aspromonte, eravamo
in grado di ricevere istruzioni fresche da Garibaldi stesso.

I contadini c'informarono che avremmo trovate qua e là pecore, patate
e cipolle, e limpidissime fontane da per tutto. Laonde rimaneva
sciolto il problema delle vettovaglie.

Sul meriggio capitarono ben centoventi calabresi in sandali, cappello
conico e brache corte a similitudine del nostro pastore. Li guidava De
Lieto. Ognuno aveva fucile con baionetta, due pistole a pietra alla
cintola e coltello. Il giorno susseguente crebbero d'un centinaio
capitanati da Plutino, e d'un centinaio la sera con Gerace. De Lieto e
Plutino reggiani, Gerace di Catanzaro.

Io contemplai con ammirazione in quegli alleati uno dei più belli tipi
della razza umana. Appartenevano essi alla costa bagnata dall'Jonio ed
erano campagnuoli. Di statura media, di membra asciutte e vigorose; i
capelli nerissimi cuoprivano, come nelle statue antiche, la fronte
quadra e piena, e sotto due sopracciglia sottili e leggermente arcate
sfavillavano grandi occhi a mandorla, neri quanto i capelli; pure un
senso arcano di mestizia velava la vivacità della loro espressione. Il
naso era fine e olivastra la tinta del viso, ornato di barba folta. La
testa, piuttosto piccola, posava sovra un collo erculeo, pei calori
estivi ignudo; ignudo aveano anche il petto velloso. Parevami che la
vetustissima stirpe della Magna Grecia si fosse in costoro mantenuta
nella sua primitiva integrità. Certamente due famiglie differentissime
abitano le sponde dello stretto di Messina. Se nella calabrese si
addita l'innesto greco sul tronco italico, nella sicula vi si discerne
l'innesto africano. In me le due genti, come i due paesi, produssero
l'impressione di due mondi.

Epperò di tre nuovi uffiziali, di data ancora più recente,
arricchivasi il Consiglio di guerra. E sommò a dodici. De Lieto e
Gerace capitani; Plutino colonnello. Costui, de' principali cittadini
di Reggio e di molto seguito in quest'ultima Calabria, venne a
dividere la nostra sorte per afforzarci della sua influenza politica
nelle nostre operazioni militari, e, abbellito il proprio nome di fama
guerriera in tempi pendenti all'eroico, per presentarsi a Garibaldi,
dopo lo sbarco, governatore nato della provincia, o quanto meno capo
della guardia nazionale. Veramente la sua azione politica non ebbe
grandi occasioni di manifestarsi in quelle selve e in quei deserti
campi di patate, ma risentimmo il salutare influsso de' suoi anteriori
provvedimenti, nella spedizione periodica dalle circostanti borgate
delle sante mule cariche di vivande e di vino. Ed elle arrivavano
scalpitando, ragliando, alzando il muso e aprendo le labbra al
sorriso, quasi per chiara coscienza del pietoso officio. E fra i
soldati riconoscenti altri ne tergeva il sudore, altri ne confortava i
riposi con eletto strame.

Il colonnello Plutino, uomo sui cinquant'anni, gentiluomo, di viso
simpatico e di voce, alto e prestante della persona, di facile e
sensato eloquio, guadagnossi prestamente gli animi; e le sue attinenze
personali col conte di Cavour, se lo resero men gradito nel nostro
campo ove predominavano spiriti democratici, conferirono certamente
qualità al suo nome e al suo consiglio. Lungamente esule, pratico di
varie genti, accostumato alle lotte della politica, aveva acquistato
quella destra pieghevolezza che schiva la discussione ardente, e
concede posto d'onore all'altrui opinione, quell'arte di non istancare
con prolisso discorso, quella perspicacità di svolgere un'idea alla
volta, inducendola da un fatto, ma celando che essa fosse la morale
della favola.

La presenza di lui turbò i pensieri del nostro comandante. Calabresi
entrambi, agognavano al primato nelle Calabrie, e l'uno appariva
intoppo all'altro. Benchè il comandante fosse colonnello e garibaldino
solamente da una settimana, Plutino vedeva con occhio torbido sul
crine del duce del primo sbarco in Calabria tremolare una fronda
qualunque d'alloro, che mancava alla propria corona; presagiva che
l'evento, benchè fallito nel suo primo scopo, avrebbe procurato al
rivale una pericolosa celebrità; se ne rodeva e meditava di
scavalcarlo.

Di poco favorevoli apparenze, piccolo, magrissimo e livido, il
comandante non possedeva nè eloquenza, nè scienza, nè pratica
militare. Mi sollecitò in Milazzo di condurlo in assisa di colonnello
alla presenza di Garibaldi. Dichiaratoglisi esperto dei luoghi e degli
uomini calabresi, e in segrete comunicazioni coi soldati del forte
d'Alta Fiumara, ei s'impegnò di consegnargli il forte in una notte, se
condottiero di pochi dal cuore saldo. Il patriotismo di lui era
provato, il coraggio presunto, non dubitabili i concerti narrati.
Tanto bastava al Generale per affidargli l'impresa. In quanto al
successo, Garibaldi riposava con animo tranquillo sugli uomini onde
formò il piccolo corpo di spedizione.

Se non che il comandante stavasi pago di campeggiare in Calabria, nè
gran che si doleva del forte non preso, e forse non ci aveva mai
pensato molto seriamente. Almeno i nostri soldati così credevano, e ne
mormoravano, e rammaricavansi d'obbedire ad uomo che non conobbero in
campo, e tanto più acerbamente per gl'indugi frapposti al pronto
operare, sembrando loro tardi di segnalarsi agli occhi di Garibaldi
con qualche gesto degno del proprio passato. Desideravano che il
comando venisse assunto dal maggiore Missori, capo delle guide a
cavallo, valoroso e amabile uffiziale. Taluno nel Consiglio dei Dodici
favellò in questa sentenza, e ne nacque disputa penosa e infiammata.
Gli uffiziali calabresi parteggiavano pel comandante come paesano e
noto in quelle provincie. L'istesso Plutino ne li secondava, perchè,
consigliere e difensore degli atti prudenti e d'una cauta strategia,
antivedeva in che gravi repentagli sarebbe stato tratto dall'audacia
del maggiore.

Si statuì alfine, sulla mia proposta, che il colonnello, serbando il
comando ideale, provvederebbe all'agitazione politica da promuoversi
nelle Calabrie, e che il comando reale l'avrebbe il maggiore. Il
colonnello piegò a cosiffatto divisamento, avvegnachè una lettera di
Garibaldi, consegnata durante la seduta, ingiungevagli di porsi
d'accordo col maggiore.

Subitamente il maggiore, un calabrese ed io, cavalcando le mule dei
viveri, calammo a mare per esplorare le forze e le intenzioni del
nemico. Pervenuti ad un poggio che domina il forte Torrecavallo,
vedemmo schierato un battaglione intorno alla cinta, reduce dalla
messa. Ci mostrammo sulla sommità a due tiri d'arco. L'inattesa
apparizione di due camicie rosse alle spalle del forte provocò il
segno dello all'armi. Il battaglione dopo varie manovre ci salutò a
carabinate. Noi ci affacciammo successivamente da altri poggi, e
mentre un'ala dei regii cercava di girarci, i rimasti ci saettavano
alla bersagliera. Nel dubbio che i nostri volteggiando fra quei colli
studiassero un assalto, tutti i posti nemici, nella lunghezza di
parecchie miglia, si atteggiarono a difesa. Intanto noi, ripetuta la
via, sul tramonto smontammo ai nostri alloggiamenti. Abbandonato
immediatamente monte Sant'Angelo, si mosse al nord-ovest d'Aspromonte,
salendo all'altipiano dei Forestali da cui spiccasi l'ultima cima di
quell'immenso gruppo appenninico, tragicamente illustrato due anni più
tardi, nell'istesso mese, dal generale Garibaldi. E vi giugnemmo
all'alba. Il quartier generale si stabilì in una casa nuova, non
finita, deserta, detta dei Forestali. La casa giace dove l'altipiano
finisce e principia l'erta pittoresca, deliziata da copiose sorgenti
d'acqua freschissima e pura che serpeggiano in ruscelli perenni.
Volgeva il quinto giorno. Nè pettine aveva solcato i miei capelli, nè
acqua confortata la mia faccia, nè l'unica camicia ottenuto il cambio
nel suo ministero da più pulita compagna. Un paio di guanti gialli che
fin allora non cavai, solo oggetto di lusso, conservarono
sufficientemente nitide le unghie e le mani. Malgrado il sonno e la
stanchezza grande, non mi riescì fatto di addormentarmi. Stetti tre
ore in uno stato di febbrile vaneggiamento. Indi mi riscossi:
spaventato e frenetico fuggii l'orribile albergo. Sembravami che cento
formiche brulicassero sul mio corpo, mordendolo senza misericordia. Le
giudicai formiche al tatto, ma erano pulci bisavole alla vista. Corsi
al ruscello, e con precipitazione sbattendole dai panni le annegai.
Risalito il ruscello ove l'onda spandevasi in laghetto, ridivenni
l'uomo di cinque giorni avanti, con un lustrale lavacro. Poi m'accorsi
che mancavano i pannilini. Epperò mi rasciugai al sole, e riposai
soavemente all'ombra di quei boschi superbi sovra un letto soffice di
foglie cadute in molti autunni.

Faggi e pini a ombrello e alcuna quercia si raggruppano ivi in masse
diverse e spartite: l'accozzamento di verdi differentissimi e la più
differente struttura degli alberi inducono una combinazione attraente
di prospetti e di colori. La comune robustezza e la comune vetustà
imparentano quella varietà mirabile. Gli alti fusti e le separazioni
delle masse, permettendo alla luce di penetrarvi, conferiscono
all'insieme una trasparenza che rende eleganti quelle forme
gigantesche. Fra una massa e l'altra s'interpongono umili famiglie di
nocciuole, di minori alberelle e d'odorifere madreselve, onde si
disegnano sentieri e viottoli e meandri che paiono opere d'arte
squisita. Pochi passi dalla pendice separano la mite temperatura della
primavera dagli ardori dell'altipiano, ove nella notte il freddo è
intenso. Quivi il sole ci bruciava, e le stelle c'intirizzivano.

L'altipiano descrive un semicerchio di molte miglia di raggio, la cui
base è l'erta, e solo punto sull'orizzonte il cilestro cono troncato
dell'Etna. Ad enormi intervalli notasi, unica piacevole discordanza in
quella interminabile monotonia, qualche capanna e qualche chiuso per
le vacche, ma nessun vestigio d'animale vivente. L'altipiano sta a
cavaliere di Torrecavallo, di Scilla e di Bagnara; e la fama che due o
tre migliaia di calabresi armati campeggiassero con noi, pose il
nemico in grave cura.

Esso spinse una forte ricognizione sino a Monte Sant'Angelo, e sguernì
il lito da Torrecavallo a San Giovanni di due battaglioni, che si
attendarono sulle alture. Dilungandoci dalla fattoria di Sant'Angelo,
noi ci dirigemmo alla volta di Reggio. I contadini della fattoria
udirono susurrare d'una sorpresa in questa città, e interrogati dal
nemico, lo assicurarono che vi ci eravamo avviati. Se non che nella
notte, operato un subito _dietro fronte_, si ascese ai Forestali.

Il maggiore Missori propose al Consiglio dei Dodici un'irruzione in
Bagnara. Plutino obbiettava vivamente che Bagnara guardavano tremila
borbonici, che le truppe di Scilla ci avrebbero minacciato di fianco,
che da Sant'Angelo saremmo stati circuiti e impediti nella ritirata ai
Forestali, che destreggiandoci intorno alle occupate altezze avremmo
parimente conseguito il fine di costringere alquanti battaglioni sulle
nostre pedate, e che frattanto nuove bande paesane sarebbero giunte
ausiliarie al nostro campo.

--Noi, signor Plutino, replicò il maggiore, non contraemmo l'abitudine
di numerare il nemico; i Mille di Marsala vinsero a Calatafimi e
liberarono Palermo. Qui siamo devoti a morte, ma vogliamo morire
degnamente. Se rifiutate di seguirci coi vostri, andremo soli; troppo
sciolti e snelli del resto per non isfuggire ai tardi movimenti di
truppe regolari.

I partigiani dei propositi più arditi, costituendo i tre quarti del
Consiglio, votarono per Bagnara. Plutino, vuotato il sacco delle
obbiezioni, concluse volgendosi a noi:--Quando vi ascolto e vi guardo,
bravi giovinotti, io vi adoro, ma siete matti. Nondimeno starò con voi
sino alla fine.

Partimmo a mezzanotte, e traversato l'altipiano si cominciò la discesa
per luoghi quasi impraticabili e inusitati. La luna cortesemente
illuminava la via, ma su quelle ripidissime chine sgretolate si andava
più spesso a ruzzoloni che sui nostri piedi. Una risata ad ogni caduta
mantenne la colonna nel miglior umore, e alleviò una marcia di dieci
ore consecutive. Le squadre calabresi non risero mai, perchè colle
loro scarpe di cimossa reggevansi in gamba meglio di noi; ed anche
perchè la giovialità e l'allegria spensierata degli Italiani del nord
contrastano notabilmente colla serietà mesta e contemplativa degli
Italiani del sud.

Toccati i dorsi che dividono i versanti di Scilla da quelli di
Bagnara, vi collocammo i trecento calabresi affidandoli a Francesco
Curzio, l'uffiziale-poeta dello stato maggiore. Essi ci proteggevano
il fianco sinistro.

Eravamo scesi già sino alla zona abitata. Olivi, vigneti, cedri,
aranci, alberi di frutti d'ogni sapore ingemmavano quei clivi
lussureggianti. La vista del mare azzurro, della Sicilia, delle isole
Lipari, le quali pel purissimo aere sembravano vicinissime, la
certezza di menar le mani fra poca ora, e sopratutto l'incontro
d'un'osteria c'innondarono il petto di gratissimi affetti.

I nostri soldati, seduti sotto i festoni delle viti, piluccavano
beatamente i pingui grappoli pendenti di zibibo, a titolo d'antipasto.
Lo stato maggiore entrò nell'osteria. L'oste ci attendeva sulla porta
con uno schioppo da caccia a due canne e col cappello in mano. Datoci
con lieta faccia il benvenuto, soggiunse:--Eccellenze! viva l'Italia!
Io verrò con voi indicatore e guida, e intanto pongo a vostra
disposizione la mia canova e il mio forno.

Dietro di lui lampeggiavano due stupendi occhi cilestri che ci
guardavano con fanciullesca curiosità. L'oste appartandosi
proseguì:--Vi presento la mia figliuola, che avrà l'onore di servirvi.
Vestì gli abiti di festa all'annuncio della vostra visita, perchè
ell'è garibaldina. Comparve sulla soglia della bettola una bianca,
bionda e dolce giovinetta sui diciassette anni, che con garbo ci
salutò.--Guà! esclamai, la Madonna del Sacco di Andrea del Sarto! Chi
entrò nel chiostro dell'Annunziata in Firenze, ricorderà l'affresco
insigne di Andrea. La soave testa della vergine è qualche cosa di più
umano delle Madonne di Raffaello, e di più divino delle Madonne del
Murillo.

Uno zendado di panno caffè con frangia d'oro piegato a quattro doppî
copriva il capo della vergine calabrese e pioveale dietro le spalle.
Cinque fili di corallo le fregiavano il collo e il seno. Di sopra ad
una veste bianca scollata, con le maniche a campana, dal gomito in giù
ricamate agli orli ed all'ingiro della parte superiore del braccio,
essa portava un'elegante tunica fimbriata, di lana cremisi, alquanto
più corta della vesta. Il busto pure di lana cremisi, semi-aperto
davanti, con duplice riga trapuntata, disegnava due leggiadre curve
sopra le spalle.

Allo spettacolo d'una sì peregrina e delicata bellezza noi restammo
sospesi in atto. Io dimandai all'oste in quali acque avess'egli
pescata la rarissima perla.

E costui con visibile emozione:--Sua madre era una gentildonna. Io
nacqui in casa di lei e vi crebbi staffiere. Pare che fossi piuttosto
belloccio. Fatto sta che l'amai e che ella mi amò. Fuggimmo.
Diseredata, visse povera meco e felice, e morì due anni or sono. Il
mio pensiero, il mio lavoro, i miei guadagni, la mia vita io consacrai
ad allevare Luisa. Ella non serve nessuno, perchè voglio accasarla per
bene.

Ed io a lui:--A guerra finita, qualche giovinotto garibaldino te la
dimanderà, e da oggi mi offro compare dell'anello.

--Eccellenza, vi bacio la mano, conchiuse con enfasi l'oste arzillo.

In questo mezzo, la fanciulla apparecchiò la mensa sotto la pergola e
l'oste ci cosse una frittata. Rimirai lunga fiata, mentr'ella ci
mesceva il vino, le sue piccole mani vellutate e nitide come quelle
d'una duchessa.

Indi, approntati alcuni orci di vino e vari canestri di pane, che
l'oste in fretta mandò a comperare alla borgata di Solano, Luisa
percorse la fronte della colonna, dispensiera di cibo e d'entusiasmo.

Per ordine di Missori, il capitano Federico Salomone aveva già
opportunamente disseminate sentinelle ad impedire la discesa in
Bagnara di chicchessia. Verso mezzodì ci rimettemmo in cammino, ed
ecco Bagnara ai nostri piedi: grossa terra fabbricata sul colle e
serpeggiante alla marina. Vedevamo sulla spiaggia una striscia di
barchette, vedevamo l'andirivieni degli abitanti e dei soldati alla
spicciolata. Un vapore da guerra avanzavasi proveniente da Scilla, ed
una barchetta gli remigava incontro a ricevere o a recare dispacci.
Veruno indizio che il nemico si fosse avveduto di noi o che
sospettasse alcun male al mondo. La difficoltà riducevasi nel
sottrarci ai cannocchiali della nave. Vennero tolte le baionette e
rivoltati i fucili per evitare il bagliore delle canne. Scendemmo in
catena quatti quatti per mezz'ora, guizzando fra gli alberi, le siepi
e le viti. Ma Bagnara distava più che a primo aspetto non sembrasse. A
un tratto il monte dirupando, si dovette l'un dopo l'altro calare per
entro una fessura a scaglioni, aperta nel masso, di cento metri di
precipizio. Poscia distesi nei vigneti e negli oliveti, e procedendo
alla sordina, capitammo finalmente sopra Bagnara al tocco e mezzo.

Io comandava l'avanguardia composta dei cacciatori Bonnet. Pervenuti
allo sbocco di una strada, volli cavarmi il puerile capriccio di
tentare il guado sparando il primo fucile, datomi da un soldato¹,
contro alcuni lancieri a cavallo. L'inopinato mostrarsi di bande
armate e combattenti che parevano fioccate dai cieli, seminò lo
spavento e la confusione negli abitanti, i quali con gemiti e lai
pietosi affollavansi a rifugio nelle barche dei pescatori. Ci venne
udita la generale. Indescrivibile la baraonda dei regî; ma in tremila,
eglino potettero bentosto ricuperarsi dal primo turbamento. Dopo
mezz'ora più compagnie d'infanteria ci s'avventarono contro da diverse
direzioni; s'accese un fuoco vivo e le respingemmo successivamente. In
pari tempo da Bagnara di sopra, sulla nostra destra, un movimento di
fanti, di cavalli e di cannoncini sulle schiene dei muli mirava ad
interromperci il ritorno. Laonde pacatamente ci ritraemmo;
all'avanguardia nella discesa, ero alla retroguardia nella salita.
Giunti all'ardua scala della rupe, i miei cacciatori avevano bruciata
l'ultima cartuccia. Il bergamasco flautista, uno di loro, vuotata più
presto de' compagni la giberna, pose mano al flauto, e fra il sibilo
delle archibusate suonava in aria di scherno _La bella Gigogin_,
equivoca canzone lombarda, che ci fece prorompere in argoliche risa.
Ma il nemico parve svogliato di venirci a panni. Cotti dal sole,
trafelati, quando piacque agli Iddj montammo all'ultimo gradino.
Ripiegando sovra Solano, trascorremmo a sinistra dell'osteria, più
veloci dei regî che volevano interdirne quel passo strategico; però
più veloci di poco.

  ¹ Questo soldato si chiama Achille Olivieri e vive a
    Castel d'Ario nel mantovano.

Ivi si mangiò e si bevve in pace. Io alloggiai in casa d'un prete, il
quale mi ammannì un piatto di maccheroni al pomodoro e mi diede una
camicia di bucato, in cambio della mia che rassomigliava alla
tavolozza d'un pittore. Però essa era di finissimo lino, e l'accorto
prete giudaicamente me ne infilò una di cotone piuttosto sdruscita.

--Badate ch'è consacrata, ei mi disse con ciera di furfante.

Ed io di ripicco:--Se non che la mia vi paga i maccheroni d'un
trimestre!

L'odore di bucato mi sollevava ad un mondo nuovo! Quanti dolci
pensieri, quanti ricordi, quanta delizia da quell'odore! Steso sul
sofà e rapito in mezza estasi m'addormentai. Il prete rientrò nella
camera e scuotendomi diabolicamente:--Il nemico, il nemico, ululava;
presto, presto, non mi compromettete.

Traballando, instupidito dalla stanchezza e dal sonno, esco e m'unisco
al residuo dei compagni sulla piazza.

Alcuni istanti prima v'era arrivato l'oste a tutta corsa, senza
cappello, senza gabbano, coi capelli irti, tralunato, cadaverico,
disperato. Appena potè articolare le seguenti parole:--Gl'infami
trucidarono mia figlia!

Oppresso da mortale angoscia cadde svenuto. Scoppiò un'esclamazione
d'orrore dal petto d'ognuno di noi e dei paesani accorsi; e ci rodemmo
le mani d'esser troppo pochi e senza munizioni per trarne immediata
vendetta. In mancanza d'acqua di Colonia, riversammo una secchia
d'acqua di pozzo sul capo del padre infelice, il quale tosto ricuperò
i sensi.

Parlando e piangendo raccontò che millecinquecento uomini muovevano a
marcia forzata verso Solano per circondarci e conquiderci; che un
distaccamento, invasa l'osteria, minacciato di morte la figlia, perchè
soccorse e onorò i garibaldini, le consentì la vita a patto del
disonore; che, essendosi ella fieramente rifiutata, ed avendo
impugnato un coltello da cucina per ferire chiunque avessela
avvicinata, un sergente destramente l'agguantò al polso e disarmolla;
che dibattendosi ella e svincolandosi dagli infami amplessi e
gridando, uno di loro le vibrò un colpo di baionetta sul volto. La
vista del sangue inebbriò quei crudeli, che di più colpi la
trafissero.--La selvaggia scena, proseguì quello sventurato,
rappresentarono sotto gli occhi miei, guardato da un picchetto di
soldati e destinato ad una regolare fucilazione. Profittando della
ressa dei sopravvegnenti e dello scompiglio causato dalla curiosità,
mi sottrassi ai custodi, balzai nel vigneto. Inseguito per un miglio e
fulminato, alfine mi perdettero d'occhio, e col cuore rotto mi
trascinai fin qui.

Da una formidabile posizione sopra Solano aspettammo di piè fermo per
due ore il nemico, il quale non osò nemmeno penetrare nel borgo, sin
che non ebbe certezza che ripigliammo la via del ritorno.

Da quell'altura si assiste ad uno spettacolo che forse non ha pari:
l'arcipelago Eolio, il golfo di Gioia, lo stretto di Messina, ed alle
due estremità del quadro due vulcani, Etna e Stromboli. Che mare! che
monti! che cielo! che luce! che linee! che palpito di natura! quante
memorie! quanti secoli! quanti popoli! quante civiltà!

Il sole tramontava. Involuto in una nebbia leggiera, pigliò figura di
globo rosso, e l'occhio poteva affisarlo impunemente. Parve che quel
globo posasse alcuni minuti secondi, come sovra candelabro, sulla
punta dello Stromboli, piramide isolata in mezzo al mare.

Pieno la mente del magico tramonto e dell'imagine di Luisa morta, che
sul mezzodì contemplai fiorente di vita, di bellezza e con tutto un
mondo incantato davanti all'ingenuo pensiero, rifeci malinconicamente
le sei ore di strada che avanzavano per arrampicarsi ai Forestali.

Pervenuti al sospirato altipiano, ci venne veduto gran chiarore sulla
direzione della nostra casa, il quale cresceva a misura che
c'inoltravamo. Che il nemico si fosse spinto costassù da Sant'Angelo
fu la prima idea nostra. Epperò sostammo per raccogliere la colonna e
regolarne le mosse colle debite precauzioni. Ventidue ore di moto per
quelle rupi esaurirono le forze della nostra gente.

Appena fermati, quasi tutti si addormentarono di primo acchito. I
Calabresi, rimasti alla retroguardia, serbaronsi freschi e gagliardi,
e li collocammo in prima linea, guardiani del sonno d'un'ora
consentito agli altri.

Faticosamente si ottennero da quelli cinque cartuccie delle cinquanta
onde ciascuno aveva zeppa la giberna, e le distribuimmo ai nostri già
rinfrancati e presti. Con movimento obliquo su tre ordini si
procedette innanzi, impiegando due ore e mezzo a fendere l'eterna
pianura. La luce mano mano diventando gran fiamma, cadde ogni dubbio
che non fosse fuoco d'accampamento. Eseguito un movimento di fianco
sulla destra, per tentare di gettarci a ridosso dell'erta, si
mandarono alquanti cacciatori a riconoscere il vero. Scopersero
costoro cinquanta calabresi accorsi ad ingrossare la nostra schiera, i
quali, costrutta una pira di vecchio legname razzolato intorno alla
casa dei Forestali, vi s'assisero dappresso placidamente per
riscaldarsi, e novellare, ed affettare prosciutto, e mescer vino. Si
mangiò adunque divinamente, si bevve un bicchiere di più alla salute
de' nuovi commilitoni, che s'assunsero per quella notte la guardia del
campo, e si dormì profondamente fino alle dieci.

L'impossibilità di trasportare i feriti tra quegli scoscendimenti ci
obbligò di lasciarli a Solano. Il nemico trasseli prigionieri, ma li
trattò con umanità, forse considerando che anche noi ne avevamo dei
suoi. Un messo speditoci da un patriota di Solano riferì ch'ei vennero
trasferiti a Reggio.

--Entro un mese andremo a riprenderceli, gli disse Missori.

Un fuggevole sogghigno d'incredulità sfiorò la bocca dell'astuto
messaggiere montanaro. E la medesima incredulità mantenne
inespugnabili al nostro apostolato i prigionieri borbonici.
Impossibile indurli a militare sotto la nostra bandiera e a ridiventar
liberi. Anteposero il proprio stato, benchè dovessero seguirci e
partecipare ai nostri pericoli. Io particolarmente m'occupai di
convertirli alla religione della patria italiana. Ma non m'è venuto
fatto nemmeno di ottenere il menomo ragguaglio sulle cose del nemico.
A qualunque quesito, l'uno come l'altro regolarmente rispondeva:--_Non
saccio_.

Il messaggiere per cortesia non rivocò in dubbio l'asserzione del
maggiore, nè bastatogli l'animo di spingere l'adulazione sino a
simulare di aggiustar fede a ciò ch'ei giudicava l'assurdo, mutò
discorso, avvertendo che aveva seco la cassetta dei medicinali, e una
sacchetta di biancheria per filaccie commessa da noi a Solano. Così
dopo una settimana potè curarsi la mano del veneto ferito la prima
notte, impassibile come uno spartano, arguto come un ateniese. Il
chinino ci restituì una mezza dozzina di malati della terzana: ma
senza lacryma-cristi e senza bistecche non erano sanabili altri sei o
sette esinaniti dalle fatiche.

Quel mattino tutti i soldati vispi e ciarlieri aggiravansi nudi e
crudi intorno al ruscello, da essi denominato il Giordano, altri
bagnandosi, altri risciacquando le camicie o sbattendole su qualche
sasso, o distendendole al sole. Una buona dormita, il bagno, il
bucato, e la prima zuppa calda con brodo di prosciutto distribuita
poi, li abilitarono a nuove gesta.

Nel Consiglio dei Dodici si discusse maturamente, il medesimo mattino,
la nostra situazione. Volgeva il settimo giorno dallo sbarco; esigui
gli aiuti calabresi; veruna notizia di Garibaldi; sfiduciate le ultime
lettere del Comitato di Reggio; incertissimi i viveri, quasi sempre
rapiti dal nemico; e finite le munizioni.

Riversiamoci nella Calabria citeriore, propose il capitano Salomone,
appena tornato dalle solite escursioni per istudiare i luoghi,
com'egli solea dire, e collocare gli avamposti. Gli avamposti
costituivano la sua idea fissa, e quando noi, dopo una giornata di
cammino, ci sentivamo rifiniti e rotte le ossa, egli tranquillamente
si addossava la cura di descrivere un cerchio di sei o sette miglia di
montagna «per istudiare i luoghi e collocare gli avamposti.» Nato
abruzzese, partecipava alla natura ferrea degli orsi, suoi
compaesani.--Penetriamo nel Cosentino; al nostro mostrarci, quelle
fiere popolazioni sorgeranno e conquisteremo a Garibaldi un lido per
l'approdo, e gli daremo una provincia per l'azione. Che cosa ci
ripromettiamo fra questi burroni e questi boschi deserti? Qui noi
possiamo gettare i nostri denti dietro le spalle come Cadmo, ma non ne
nasceranno patrioti armati. Se il nemico possiede un'oncia di senso
comune, con poche pattuglie volanti può impedire le vettovaglie, e
senza consentirne l'onore di un fatto d'armi, in cinque giorni può
averci a discrezione, ovvero al giorno sesto visitarci cadaveri su
questo Calvario.--

L'enfasi, l'inaspettata erudizione ellenico-cristiana, l'accento
abruzzese, il crescendo della voce, lo sguardo semi-serio
dell'oratore, il mappamondo sulla tunica di tela russa colorito dal
sudore, il capitano Nullo, l'eroico Nullo, che lisciandosi i lunghi
baffi neri coronò la concione in suo dialetto bergamasco con un _miga
mal!_ e un _bravo Cadmo_ scattato di bocca dal maggiore, provocarono
un'ilarità benevola e prolungata. Ed egli, il simpatico e valoroso
abruzzese, rise al nostro riso.

Alzossi con rigido sembiante il colonnello M... comandante _in
partibus_:--Più gravi di quanto pare vogliansi considerare sono le
riflessioni del capitano Salomone, e degna d'esame la sua proposta.
L'impresa di Cosenza fia non meno ardua e pericolosa che il nostro
campeggiare in Aspromonte, epperciò conforme ai vostri appetiti di
gloria. Quivi non abbiamo munizioni nè modo di trovarne, onde
l'istessa soddisfazione dei combattimenti ci viene contesa. Nato nel
Cosentino, vi ho parentela numerosa, e amici, e clienti, e, non fo per
dire, il mio nome vi suona gradito. Non credete millanteria, se vi
affermo che il paese risponderà virilmente al nostro appello e
all'audacia del nostro movimento. Nulla conosciamo di Garibaldi, e
trascorsero oggimai sette giorni. La nostra missione in questi luoghi
è compiuta.

Il colonnello Plutino, a cui non garbavano le nostre scorrerie
temerarie sull'esempio di Bagnara, e ancora meno sarebbegli garbato
vedere il rivale sollevato sugli scudi nella Calabria citeriore, si
oppose energicamente a quel disegno, asserendo problematica
l'influenza del preopinante.

Questa frase dura ruppe il vaso delle ire distillate in segreto, e i
due colonnelli si saettarono parole crudeli con pallide labbra.
Richiamatili all'argomento e consigliati di risolvere le questioni
personali su altro terreno, Plutino ricuperò la calma consueta, e
suggerì di ripiegare su Gerace, forzando il nemico a distaccare dalla
sua base d'operazione considerevoli forze per inseguirci sulle rive
dell'Jonio.--In tale forma eviteremo, egli conchiudeva, d'essere
tagliati a pezzi ai passi di Mileto e di Monteleone, prima d'arrivare
a Cosenza, e staremo a campo in terre popolose e liberali. Accresciute
le nostre file, potremo stendere la mano ai patrioti di Catanzaro e
stabilire in questa città il focolare dell'insurrezione delle tre
Calabrie.

--Ieri, io così parlai, piombando su Bagnara, provvedemmo
all'ambulanza, dimani troveremo altrove la munizione. Il nemico è
laggiù allo stretto; al di là vi sono i nostri che anelano di
tragittarlo. Noi non gli daremo posa sin che non l'avremo in buona
parte attirato quassù. Che importa se esso quivi ne circuirà, batterà,
distruggerà, purchè venga fatto a una legione di sbarcare? Il piano ci
dà patate discrete, l'erta chiare, fresche e dolci acque. Questo il
nostro centro, questo il nostro posto.

E il sottotenente Zasio:--Non sappiamo nulla di Garibaldi, ma quando
ei tace agisce. «Precedetemi, e a rivederci presto,» disse quella
notte che ci mandò qui. Egli suol fare più che non prometta. Senza
navi da guerra non può tentare con molta gente lontani sbarchi.
Uccello di terra e di mare, saprà toccare il continente sotto il naso
del nemico, in questo estremo lembo della penisola. Quivi dobbiamo
aspettarlo, aspettarlo combattendo per stringergli la mano sul lido
ov'egli approderà.

--Propongo un'invasione a Pedavoli, disse il maggiore; là procureremo
la munizione, ordineremo comitati rivoluzionarii, e di là minacceremo
Palmi.

--A Pedavoli, interruppe Plutino, fu assassinato dal popolo il
patriota Romeo nel 1848; quel popolo borbonico si opporrà al nostro
ingresso, e noi dovremo bagnarci di sangue concittadino.

--Dove si mostra la camicia rossa, gli rispose Nullo con un accento
che non ammetteva replica, guerra civile niente. La camicia rossa è
l'assisa del popolo.

Si deliberò la spedizione a Pedavoli.

A traverso foreste secolari di roveri e per vallate anguste e
profondissime, dopo otto ore di sudato cammino giungemmo a Pedavoli al
nord d'Aspromonte. Io m'era procacciato un mulo che montavo a bardosso
e beavami nel pensiero di economizzare le mie povere forze ridotte
agli sgoccioli. Ma la china del monte cadeva sì ripida che, per non
scivolare dagli orecchi della bestia, fu gran mestieri smontare.
Questa volta anche i Calabresi, malgrado i sandali e la singolare
destrezza, dovettero accontentarsi di scendere sdrucciolando come noi
e poi di salire a quattro gambe. Io ritentai il mulo, salendo, ma
scivolato dal verso della coda, rotolai giù alcuni metri sin che un
albero mi trattenne.

Dovetti starmi pago di ascendere con mani e piedi, come gli altri.

La colonna sostò ad una frescura di castagni superiormente al
villaggio. Il comandante e noi, stato maggiore, s'entrò fra quelle
mura temute. Pedavoli contiene duemila abitanti, e giace in una
stretta gola. Era il quindici agosto. Il villaggio parato a festa,
affollato di montanari del circondario, avvivato da bande musicali
venute da Palmi, celebrava l'Assunta. La popolazione, stupefatta della
nostra inesplicabile comparsa, ci guardava con dilatati occhi. Noi
percorrevamo l'unica contrada, fatta a budello, in mezzo ad una turba
che aprivasi gradualmente dinanzi e si rinchiudeva dietro a noi.--Ecco
la casa ove trucidarono Romeo, ci fece il capitano Salomone, il quale
nel quarantotto avea militato sotto gli ordini del nobile martire
calabrese e fu testimone della sua tragica fine. Bisogna vendicarlo.

Quando di repente aperta la porta della casa, ne uscì una mano di
Calabresi, de' nostri, mormorando le parole:--Fuggirono!

Costoro, vecchi compagni di Romeo, staccatisi chetamente dalla propria
squadra, penetrarono là entro dalla banda del cortile per placare
l'ombra, giusta la loro frase, dell'estinto condottiero. Ma la
famiglia degli uccisori fortunatamente riparò a Palmi, tosto che si
seppe della nostra visita.

Rimandammo con severo comando gl'indisciplinati, e ci dirigemmo al
palazzo del comune. Sparsa la voce che noi fossimo venuti a far pagare
il fio ai Pedavolesi per la morte di Romeo, un visibile sbigottimento
si dipinse su tutti i volti. Dall'altro canto noi sospettavamo che la
popolazione meditasse di assalirci, e si stava in sull'avviso. Avevamo
già cautamente provveduto che la colonna ci attendesse coll'arma al
piede. Due paure trovavansi di fronte.

Stemmi, busti in gesso e ritratti borbonici decoravano la sala
comunale: il segretario, curvato dai settant'anni e sordo, sedeva
aggomitolato in una logora poltrona di pelle voltando la schiena alla
porta. Capitatigli noi sopra per di dietro improvvisi, il maggiore gli
picchiò sulla spalla. Ci ravvisò in un attimo il segretario, saltò in
piedi colla sveltezza di vent'anni, e cercò di ricuperarsi dallo
sgomento appartando il seggiolone e ponendosi gli occhiali.

--E il maggiore a lui:--Siete il sindaco?

--Eccellenza, sono sordo.

--Siete il sindaco?

--Il segretario, eccellenza. Ho servito quarantadue anni. Spero che il
generale Garibaldi...

--Dov'è il sindaco?

--Giovannino, rispose volgendosi all'usciere, conduci qua don Saverio;
digli che...

--Spicciatevi, interruppe il maggiore.

--Va, figliuolo, digli che venga subito. Signori illustri, io ho
servito la patria, mi spetta la giubilazione con paga intera. Lor
signori non vorranno cacciarmi sulla strada con sette figli. Evviva
sempre Garibaldi!

--E quei busti di Ferdinando II e di Francesco II? gli domandò
Salomone.

--Ho due figli gendarmi, uno guardia urbana e uno carceriere,
signorino. Le pubbliche magistrature sono dignità tradizionali nella
mia famiglia.

--Che magistratura esercitavate voi quando i vostri concittadini
uccisero Romeo? ripigliò Salomone.

--Ah! Romeo, buon'anima. Peccato che la memoria di lui... Tant'è la
sua riputazione rimase macchiata.

--Macchiata! sciagurato sgherro borbonico, proruppe Salomone colle
pugna chiuse.

--Macchiata, eccellenza, proseguì il segretario in atteggiamento
supplichevole e con aria ingenua, dalle calunnie del governo di
Ferdinando II. Perla d'uomo Romeo! Posso attestarne, perchè fui suo
carceriere in altri tempi... Ecco don Saverio!

Il sindaco ci accolse graziosamente, fornì la nostra truppa di viveri
e ci volle ospiti suoi.

Naturale curiosità punse la moltitudine in grande frequenza verso il
castagneto ad ammirarvi quei terribili garibaldini, onde la fama aveva
divulgate cose portentose, nelle quali entrò senza punto di dubbio la
coda del diavolo. Erano laceri, scottati dal sole, smagriti dai
disagi, ma in ogni soldato discernevansi ben presto i lineamenti, il
contegno e i modi del gentiluomo.

Distribuiti una razione di vino, di pane, di salame fettato e sigari,
pagata sul luogo ogni cosa da ciascheduno con alto stupore della folla
spettatrice, svanirono a poco a poco i reciproci sospetti,
principiarono a fraternizzare insieme i nostri ed il popolo, e fatte
venire le due bande musicali, la solennità religiosa e la processione
per la Madonna tramutaronsi in una festa da ballo che si protrasse
sino a notte. Cantarono inni patriottici insegnati e appresi al
momento; e con questo musicale apostolato, colle _furlane_, colle
_monferrine_ e colla _tarantella_ le turbe s'accesero d'entusiasmo
italico. Capo orchestra Libero Stradivari, pronipote dello insigne
fabbricatore di violini.

Dai discorsi, dal portamento, dalla cortesia e dal pagare a pronti
contanti, quei montanari compresero che non eravamo soldati di
mestiere, che militavamo per una causa generosa, epperò le mogli e le
figliuole, derogando dalla selvatichezza nativa, obbliata la chiesa e
l'Assunta, parteciparono al ballo campestre.

Il sindaco ci preparò un lauto pranzo e invitò gli uomini principali e
liberali della terra. Gli uffiziali calabresi rifiutarono l'invito e
s'astennero dall'ingresso in Pedavoli. Accusavano la popolazione della
morte di Romeo; censuravano la nostra imprudente fiducia e predicevano
un tradimento. Essi accamparono le loro squadre in poggio più
eminente, per separarsi dai paesani.

--Non scendete a Pedavoli? dimandai al colonnello Plutino.

--A vendicare Romeo?

--No, a mangiare un pollo arrosto.

--Temo il veleno, o un'archibusata dalla finestra d'un granaio.

--Contemplai or ora la mensa imbandita del sindaco; c'è fior di
maccheroni, e burro eletto, e mastelletti opimi di miele, e vini
prelibati, e frutta superbe, e fiori, e olezzante biancheria, e posate
d'argento e lieti visi. A questi patti, caro colonnello, vale la pena
di lasciarsi avvelenare.

--Ottimamente; ma non vengo.

Dopo pranzo il comandante M..., in tutta la pienezza della sua
autorità politica consentitagli dal Consiglio dei Dodici, istituì un
Comitato di rivoluzione in Pedavoli, spedì lettere-circolari in tutte
le città e borgate della Calabria, con istruzioni di ordinamento e
d'insurrezione simultanea alla notizia dello sbarco di Garibaldi. Il
valentuomo sottoscrisse codeste circolari nella seguente conformità:

«M..., colonnello di stato maggiore, aiutante di campo del dittatore
generale Garibaldi, comandante in capo il primo corpo di spedizione
sbarcato sul continente con pieni poteri civili e militari!»

Poscia si mandò a Palmi per la munizione che doveva esserci ricapitata
in Aspromonte.

L'indomani retrocedemmo, e sulle quattro pomeridiane rieccoci al
nostro campo dei Forestali, ove ci aspettava una bella francese,
_madame Le M...._, corrispondente del _Journal des Débats_, partita la
vigilia da Messina. C'informò che il dittatore scomparve, che
l'ansietà e la perplessità erano universali, che il grido pubblico
dava noi per morti e seppelliti.

Alle sei il capitano Salomone, reduce dagli avamposti, annunziò che
alcune masse nere discernevansi ad intervalli alle estremità
dell'altipiano. La nostra Armida se ne tornò senza indugio, e rapì un
Rinaldo dello stato maggiore.

Missori ed io, oltrepassati gli avamposti, ravvisammo un grosso corpo
di nemici spartito in tre colonne. Le due ali, avanzando più
rapidamente del centro, intendevano a precluderci ogni scampo. Alle
sette e mezzo seimila uomini con cavalleria e pezzi da montagna,
sviluppati in una linea di cinque miglia, ci si offersero in battaglia
a breve distanza.

Dalla nostra parte i Calabresi occuparono la sommità dell'erta, i
duecento le falde. I malati vollero che li trasportassimo con noi; ma
il medico dimenticò nella casa le medicine, e i cuochi abbandonarono
le pecore scuoiate, i prosciutti e il pane. Era il crepuscolo. Le due
ali nemiche a perdita d'occhio raggiunsero i monti e penetrarono nei
boschi, il centro s'innoltrò a un miglio dalla casa; due compagnie di
cacciatori ne esploravano le circostanze per impadronirsene.

--Non c'è ragione, disse Nullo alla testa delle guide, che i nostri
malati rimangano senza medicine e noi senza prosciutti.

E un soldato:--Andiamo a pigliarceli.

E più voci:--Andiamo.

Scendemmo in trenta, e, scambiate alcune carabinate, con una corsa
alla baionetta disgomberammo il sito, e mercè della sinuosità del
terreno, delle piante, dell'oscurità crescente, traemmo in salvo
pecore, cerotti e pentole. Quindici al trasporto e quindici alla
difesa. Non si lasciò indietro nè un'oncia di carne, nè una benda.
Qual cena rapita ai cacciatori napoletani lassù! in quella solitudine
_senza tempo tinte_!

Troppo affaticati per consolarci di essere riusciti nello scopo
prefisso alle nostre operazioni militari, adescando sui nostri passi
cotanto nervo di nemici, abbiamo dormito tre ore. Altri però, non io,
dormì. Il freddo crudissimo s'impossessò senza misericordia della mia
povera persona, protetta da un paio di calzoni di tela e dalla camicia
rossa. Due guide, Stradivari e Lena, stavano accovacciati a me da lato
sotto una grama coperta. Lena mi raccontò che, sospeso tra la veglia e
il sonno, io protendeva le braccia tremanti e irrigidite verso la
coperta coll'ansia del naufrago, e che egli, vinto dalla pietà, me ne
stese un lembo sulle ginocchia. Ricordo che in quella notte implorai
la morte come gran ventura; avevo la sensazione

    «Dell'infinita vanità del tutto;»

e la convinzione che mi sarei lasciato tagliare a pezzi dai
Napoletani, impotente, non dirò di difendermi, di muovermi. Il mio
pensiero pareva anch'esso gelato come le membra. L'ultima e forse
l'unica cosa pensata fu che Cocito, ove si gela, era troppo più
terribile pena di Malebolge ove si brucia, e che Dante se ne
intendeva.

Trascorse quelle tre ore assassine, venne comandato di rimettersi in
viaggio. Fatti venti passi a guisa d'ubbriaco, ricuperai via via l'uso
delle giunture e della coscienza, e ridiventai me stesso. Si camminò
indefessamente tutta la notte, e fra le altre contentezze si dovette
guadare un torrente sino all'inguinaia, ma, rincalorite le membra, non
ci si abbadò gran che. Abbiamo corso il tramite d'una freccia tra
quelle foreste e quei valloni verso mezzodì, per isguizzare
dall'abbracciamento stimato inevitabile del destro corno borbonico.

La sùbita partenza ci crucciò soltanto in causa della munizione.
Temevamo che il nemico l'avesse sorpresa strada facendo, e per giunta
avesse fucilato i portatori. Non potevamo attenderla a Pedavoli senza
essere tagliati fuori da Aspromonte, senza smarrire l'obbietto delle
nostre manovre.

Il momento era grave. Il nemico, dieci volte più poderoso, c'inseguiva
come un limiero. Qualche giorno ancora e avrebbeci presi o gettati in
mare. Impossibile nè voluta una contromarcia al nord. L'opportunità e
la fortezza dei siti rese inutili dal difetto delle munizioni. O
cedere o morire. Il dilemma sfolgorava dinanzi agli occhi ardente e
inesorabile. Spartite le poche vivande della casa dei Forestali,
furono scarsa colazione. Nessuna speranza di mule per il desinare. La
vigilia si mangiò una sola volta, il mattino, in Pedavoli. E la
dimane? E il giorno appresso? Abbandonando l'altipiano dovemmo dire un
mesto addio alle patate. Sulla massima altezza di Aspromonte, nella
più stupenda foresta di pini veduta da me, le pigne vennero invece di
patate. Taluno susurrò di travestimento, di discesa all'opposta
marina, e di veleggiamento alla chetichella per Catania. Tal'altro
mostrò buon viso alla capitolazione offertaci dal nemico
dianzi:--trasporto in Sicilia armati--onori di guerra. Ma codeste
pusillanimi ciarle senza conseguenze, derise e respinte da altre
ciarle contradditorie, interruppe un grido prolungato d'entusiamo
riecheggiato per la pineta.

Due intrepidi abitanti di Pedavoli, conducendo tre mule cariche,
seppero schivare il nemico, deluderne l'attenzione, e con travagli
incredibili camminando giorno e notte per sentieri assurdi, portarci
cartucce e pane.

--Credete che il pane sia avvelenato? io chiesi sogghignando a
Plutino.

--Perchè?

--Lo cossero fornai di Pedavoli!

--Ma la morte di Romeo?

--Ma la vita di noi!

--Insomma, volete indurmi a perdonare.

--E a mangiare il pane.

Adunate in circolo le sparute genti, il maggiore disse con tranquilla
energia:--I nostri sforzi furono coronati; il nemico s'ostinò sulla
nostra orma indebolendo grandemente le linee dello stretto. Noi siamo
quasi circondati. Ma adesso che abbiamo le munizioni, possiamo farci
valere per tre o quattro giorni ancora. Il nemico mi propose una
capitolazione onorevole. Risposi che i garibaldini non capitolano. Ho
interpretato il vostro pensiero?

--Sì, urlarono cinquecento bocche.

--Ma se alcuno tra voi non si sentisse la virtù pari al cimento, se ne
vada sin che c'è tempo. Fra qualche ora sarà troppo tardi.

Egli tacque. E seguì un silenzio solenne. Indi riprese e dimandò:

--Nessuno parte?

Ogni capo di compagnia rispose:--Nessuno.

Proseguendo di cresta in cresta verso il sud e solleticando il nemico
a tenerci dietro senza che mai gli riescisse fatto di ghermirci,
improvvisamente la notte del diecisette ci gettammo sull'altro
versante dell'Appennino, e dopo venti ore disastrose per dorsi cirenei
e calvi, non consolati mai d'ombre nè di fontane, sostammo nel fondo
d'una valle.

Alla sinistra, sul fianco d'una montagna rocciosa, scoscesa e per
avventura inespugnabile, biancheggiavano in lontananza le case di
Bova, le quali si specchiano nell'Jonio. Alla destra ergesi un colle a
pan di zucchero, sulla cui sommità sembra che esulti il paesetto di
San Lorenzo.

Il colonnello Plutino vigorosamente perorava per Bova:--Ivi troveremo
un sicuro rifugio fino allo sbarco di Garibaldi. Conosco il sito e gli
abitanti e ne rispondo.

E il maggiore con amaro ripiglio:--Noi venimmo qui per batterci e non
per nasconderci. Con tale intendimento, suppongo, Garibaldi ci affidò
questo posto d'onore. Occuperemo San Lorenzo. Di là minacceremo la
linea nemica da Melito a Reggio; come d'in sulla cima d'Aspromonte
l'abbiamo minacciata da Torrecavallo a Palmi.

A raffermarci in cosiffatto proponimento capitò il signor Rossi,
sindaco di San Lorenzo, il quale in nome dei suoi conterranei ci ha
invitati colassù «per la vita e per la morte.» Montati su
quell'eccelso apice, vi fummo ricevuti a braccia aperte e
generosamente ospitati. Il sindaco aperse la sua casa allo stato
maggiore: poltrone, sofà, letti elastici, zanzaliere; ogni bendiddio!
bagni, specchi, pavimenti alla veneziana. Dopo la capanna del pastore,
la fattoria di Sant'Angelo e la casa dei Forestali, l'appartamento del
sindaco ci parve la reggia di Priamo.

Il diecinove, eletto presidente della Commissione di difesa e
d'approvigionamento, spiccai varie squadre alla requisizione di bovi e
di farine, e fortificai il mulino ad acqua alla radice del monte. I
Calabresi dovevano presidiare la cittadella e i duecento infestare i
regii lungo il semicerchio della via consolare alla marina da
Amendolio a Melito, a Montebello, a Motta San Giovanni: centro San
Lorenzo. Il nemico, custode della costa, s'accinse alle offese, e di
tal forma la bisogna procedeva letteralmente secondo le nostre
intenzioni.

Chiamato il sindaco, gli susurrai:--Signor Rossi, il vostro comune
dovrebbe compiere un atto coraggioso e importante.

--Quale?

--La decadenza della dinastia borbonica e l'inaugurazione della
dittatura di Garibaldi, in nome della libertà d'Italia.

--E chi salverà gli abitanti dalla vendetta del re?

--Noi, deliberati di combattere sino all'ultimo fiato, e Garibaldi che
verrà fra poco. Non sentite l'aura ispiratrice delle grandi cose? Non
vi seduce la gloria che questa piccola terra abbia, per prima al di
qua del Faro, osato bandire il diritto umano e il diritto della patria
italiana in danno e in onta dell'esosa stirpe che da centotrent'anni
disonora il nobile popolo meridionale? Non vi sorride l'onore di
associarvi il nome vostro?

A queste parole il sangue fluttuava alla testa del brav'uomo;
goccioloni di sudore gli colavano dalla fronte; le sue obbiezioni
divenivano più fiacche; io lo urgeva, se non con potenza d'argomenti,
certo con molto gesto e con fervidezza di sguardi e d'accento.
Finalmente egli se n'andò sclamando: «Vedremo!» Raccolse subito il
Consiglio comunale. Entrarono i padri coscritti in brache corte, in
sandali, in cappello conico, in manica di camicia, colle mani callose,
colla pelle abbronzata, ma col cuore schietto e chiuso al timore.
Un'ora di poi s'udì il tamburo che chiamava il popolo a comizio.

Dal balcone del comune il sindaco, circondato dai padri, proclamava il
governo nazionale. Tuono d'assensi, applausi e pubbliche allegrezze.

--Voi, mi stillò all'orecchio l'indomani il prudente colonnello
Plutino, al quale non gradivano forse questi atti d'indole popolare,
vi addossate con troppa leggerezza la risponsabilità di vedere
probabilmente raso il borgo e trucidati i borghigiani.

--Non avrò tempo pel rimorso, considerando che dovremo esser rasi e
trucidati noi dapprima.

Il fragore del cannone troncò il nostro dialogo.

Senza indugio riunimmo i soldati. Il cannone romoreggiava indefesso.

--Garibaldi! Garibaldi è arrivato, ripeteva giubilando ciascuno di
noi. Prorompendo tutti da San Lorenzo alla marina, un corriere al
galoppo recò il seguente biglietto al maggiore:

    _«Sbarcai a Melito. Venite_

        «G. GARIBALDI.»

Alle sette con affrettato passo si giunse sul monte che sovrasta a
Melito. Sul monte parallelo e separato dal nostro per una stretta e
profondissima gola accampava Garibaldi con quattromila uomini. Un
grido prolungato di gioia e un agitar di berrette salutarono la nostra
venuta. Era la sera del 20 agosto. Giù a mare il _Franklin_, che
trasportò Garibaldi, giaceva arenato, il _Torino_, fulminato da due
navi borboniche, divampava, ed una terza nave mandava a noi un
benvenuto di granate e di bombe. Il mattino del 22 eccoci sotto
Reggio. Garibaldi, impegnato già nell'assalto, aveva guadagnata
un'altura che domina la città. Quivi lo rivedemmo a mezzogiorno. Ci
accolse amorosamente e ci beò col suo sorriso.

Frattanto il nemico da un colle più elevato ci tempestava con un
micidiale fuoco di fila. Garibaldi ne lo sloggiò alla baionetta. Ma
alle spalle il forte, nel cuore della città, ci disturbava. Garibaldi
ingiunse al maggiore di scegliere una trentina dei nostri cacciatori,
di accostarsi al forte cautamente e tirare ai cannonieri. Affacciato a
un poggetto, soggiunse ai trenta che discendevano:--Spargetevi per
ischivare la mitraglia. Non voglio un solo ferito.--Il maggiore,
inteso ad altre cure, ne affidò a me il comando. Io li condussi a
mezzo tiro di carabina. Eglino uccisero buona parte dei cannonieri.
Noi avemmo un solo ferito. Destri e coraggiosi, in due ore di fuoco
incessante costrinsero il forte a inalberare la bandiera bianca e ad
arrendersi.

In quel giorno furono promossi i topi che aiutarono il leone. Io
diventai luogotenente.




III.

Veni, vidi, vici.


La sera della espugnazione di Reggio, Garibaldi, siccome suole,
coricossi alle otto e mezzo. In letto egli costumava leggere i
giornali, fumare mezzo sigaro, e ciarlare confidenzialmente con alcuni
amici suoi del quartier generale, che ritti gli facevano cerchio.

Il generale Bixio, entrando vivacemente, avvertì il dittatore che il
nemico ritiravasi lentamente verso Villa San Giovanni, e dimandò se
dovevasi sorprenderlo. E Garibaldi, affisando con sembiante di
compiacenza l'audacissimo fra' suoi luogotenenti, che gli favellava in
vernacolo genovese sì caro ai suoi orecchi:--I nostri soldati hanno
bisogno di riposo, e voi curatevi la ferita. Domani sorprenderemo il
nemico.

--Sto benissimo, replicò Bixio, col braccio sinistro al collo, colpito
di palla il mattino.

E Garibaldi sorridendo:--Le palle che feriscono voi, sembrano di
pastafrolla!

Poi dirigendosi al suo Basso fedele:--La carrozza per le cinque.

--Scommetto che il generale, Bixio nell'andarsene bisbigliò a Basso,
fa assegnamento di pigliarsi con una scarrozzata le due brigate
borboniche.

Garibaldi rifecesi brioso e ringiovanì come al padiglione della reggia
di Palermo. Nella sua lunga missione di liberatore, quel giorno deve
segnalarsi fra i più luminosi perchè dei più decisivi.

Calatafimi preluse a Palermo: Reggio a Napoli. Aggiugni che lo sbarco
a Melito gli costò più pensieri dello sbarco a Marsala.

Volgendo il discorso al marchese Trecchi suo aiutante, inviato e
agente di Vittorio Emanuele, dissegli con qualche mestizia, ma senza
amarezza:--Il vostro ammiraglio Persano aveva l'ordine di lasciarmi
colare a picco.

Quivi Nullo mi susurrò in linguaggio bergamasco:--E senza la miseria
d'un palischermo per salvare il marchese, amico di casa!

Udillo il generale e rise; indi ripigliò:--Per passare lo stretto ci
fu mestieri girare mezzo Mediterraneo da Messina a Caprera, a Palermo,
alle acque di Malta, a Melito, e Persano con due fregate gustava da
Messina la musica delle cannonate borboniche contro i nostri tapini
vapori da trasporto.

--L'ammiraglio ed i suoi padroni vollero tributarvi tutto il merito
dell'impresa, generale, io soggiunsi ironicamente, sbirciando il
marchese il quale, uomo senza fiele, e forse impensierito del bagno in
cui l'avrebbero abbandonato gl'ingrati amici, si ritirò con noi
facendo eco alle celie.

Alle cinque Garibaldi chiamò Missori, promosso la vigilia a
tenente-colonnello:--Precederete colle guide la mia carrozza verso San
Giovanni, non più d'un miglio.

--Permettete, generale, che vada anch'io colle guide? dimandai. Ed
ottenni.

Eravamo una ventina. Le guide a cavallo formavano a un dipresso la
guardia del corpo; leggiadri ed eleganti giovani di famiglie distinte
dell'Italia superiore, o patrizi, o proprietarii, o studenti. La
presenza di Garibaldi, che rende valenti i timidi, aveva esaltato il
loro coraggio siffattamente che ne nacque tra essi una tacita gara
d'audacie e di follìe. Il generale in ogni occasione andava temperando
quella foga e:--Non più d'un miglio dalla mia carrozza (replicò al
comandante Missori); segnalato il punto d'arrivo del nemico, datemene
notizia.

Il generale Cosenz doveva sbarcare a Bagnara colla sua brigata,
precludere ai regii la ritirata per via di terra, e, côlti tra due
fuochi, stringerli ad accettare battaglia in condizioni sfavorevoli, o
ad imbarcarsi: ciò che agevolmente poteva loro riescir fatto, coperti
dai forti di Punta del Pezzo, di Torrecavallo, di Altafiumara e di
Scilla, e protetti dalle navi di guerra; imperocchè la strada maestra
costeggia la marina.

Gli aiutanti e una scorta di duecento soldati a piedi seguivano la
carrozza. Noi la precedemmo al galoppo del miglio prescritto ed anche
di due.

La riviera orientale dello stretto è tutta florida di paeselli, di
ville, di giardini, di piante odorifere, di melagrani, di laureti e di
vigne. Sotto un viale d'aranci, un gentiluomo ci apparecchiò alcuni
canestri d'aurea uva e di fichi. Egli dissemi con poetica elocuzione:

--Il passaggio dei vostri cavalli traccia una riga corruscante; luce
della libertà.

Gli abitanti accorrevano e ci guardavano attoniti, sentendosi ad un
girar di ciglio sciolte le mani dalle antichissime catene.

In breve si cominciò a pestar la coda regia, afferrando parecchi
soldati rimasi più del necessario al vino e all'acquavite. Com'eglino
cadevano in nostra potestà, li consegnavamo alle guardie nazionali del
villaggio, che di tanti militi ingrossavasi all'istante di quanti
fucili erano presi.

Mentre ci occupavamo dei prigionieri, Missori, il tenente Damiani e
altri corsero a diporto sino alla vista della retroguardia.

Ritornati, ci narrarono d'averla avvicinata a trecento passi, e
condussero nuovi prigionieri. Ond'io al maggiore Nullo:

--Andiamo a vederla anche noi.

--Vi attendo qui, fece Missori, perchè di quattro miglia precorremmo
già il generale.

Nullo, il sottotenente Ergisto Bezzi, io, il sergente Quajotto di
Mantova e due guide, a spron battuto muovemmo a satisfare la nostra
curiosità. Alle prime case della lunga borgata di San Giovanni
sovrapposta al forte la Punta del Pezzo, il conduttore della
diligenza, trattenuto e interrogato da Nullo, ci assicurò essersi i
borbonici di molta via dilungati. Egli favellava con voce dispettosa e
ci guatava con occhio bieco.

--No, no, costui v'inganna! affermarono in coro i paesani.

Ed io a Nullo:--Arrestiamolo; ha il muso sinistro e probabilmente
indosso carte nemiche.

E m'apposi. Frugato, saltarono fuori lettere del generale borbonico ad
agenti borbonici in Reggio, per ragguagli sulle forze e sulle mosse di
Garibaldi.

Allora i paesani uscirono nella seguente argomentazione:

--Spia del nemico, dunque s'impicchi.

Ma Nullo tagliò in due l'entimema dicendo:

--La cura di ciò al dittatore; per adesso lo do in custodia della
guardia nazionale.

Noi proseguiamo il nostro galoppo. Gli abitanti, dalla strada e dalle
finestre mirando le sei camicie rosse in tanta fretta sulle calcagna
delle truppe regie, opinano si tratti d'oratori al nemico. Indi a
poco, girato un gomito della strada, c'imbattiamo in un corpo di
cinquanta soldati, su due file, l'arma al piede, al di qua di un
ponte. Con impulso unanime ci avventiamo loro addosso a briglia
sciolta vociando:

--Abbasso le armi, siete prigionieri.

Côlti all'impensata, impauriti dalla tempesta dei nostri cavalli e dal
tuono imperioso della nostra intimazione, quei soldati posano le armi
a terra. Ma comparsa sul ponte nell'istesso momento una testa di
colonna, gli arresi ripigliano il fucile. Avevamo questi di fianco,
quella di faccia. Che fare? O perire fuggendo, o perire assaltando.
Eravamo sei. Ciò dico ora; allora mancava il tempo da ponderare le
probabilità. L'intimazione, la comparsa della colonna, la ripresa
delle armi e l'avanti fulmineo di Nullo si succedettero in quattro
battute di polso. Confitti gli sproni nei fianchi dei cavalli, in un
baleno balziamo sul ponte. Davanti alla nostra furia apresi la
colonna, ed eccoci sull'altra sponda del torrente fra le braccia della
brigata Briganti, distesa parallelamente alla strada sul largo della
piazza di Villa San Giovanni: presso al ponte due squadroni di
lancieri, quindi l'infanteria. Col grido di _viva Garibaldi, deponete
le armi, venite con Garibaldi_, percorriamo da un capo all'altro la
fronte della brigata a guisa di rassegna in campo di manovre. E poichè
gl'immobili e sbalorditi soldati nè ci ammazzano, nè ci imprigionano,
frenando al passo i cavalli cominciamo su tutta la linea l'aperta
propaganda di ribellione.

--Garibaldi costà coll'esercito doppiato da nuovi sbarchi, là Cosenz
con quattromila uomini vi circondano. Voi italiani come noi. Perchè
questa guerra fraterna? Unitevi a Garibaldi. Andiamo insieme a Venezia
contro lo straniero. Garibaldi conserverà i vostri gradi. Vi chiamò
valorosi Garibaldi a Calatafimi, ma le vostre battaglie, combattute
per un tiranno, sono ingloriose. Volete la gloria? combattete per la
libertà d'Italia. Stracciate le insegne del vostro re, il quale vi
disonora. Venite con noi, o arrendetevi. Viva l'Italia! Viva
Garibaldi!

La nostra franchezza, l'inusitato linguaggio, il caso nuovo di
sentirsi arringati dai nemici, il nome di Garibaldi, l'arcano influsso
dei tempi, la convinzione che i nostri li abbiano investiti, alcune o
tutte insieme tali cause, producono l'effetto che numerosi _viva
l'Italia, viva Garibaldi_ scoppiano da quelle schiere, e molti soldati
dipartendosi dalle file, vengono a baciarci le ginocchia, le mani,
l'arcione.

Gli ufficiali, dispostissimi a rimpolpettarci con quattro palle in
petto, interdetti dallo inatteso entusiasmo dei gregari, tacciono con
viso ostile. Ma avvedendosi che per poco andare la brigata ci stende
la mano e si sfascia, raccolgonsi insieme in consiglio.--Succede un
intervallo di silenzio e di aspettazione. Io antiveggo in quel
silenzio il tentativo fallito e il nostro eccidio, riflettendo che i
medesimi soldati si batterono accanitamente in Reggio venti ore prima.
Un caporale veterano, appoggiato ad un colonnino dirimpetto alla sua
squadra, e che io notai a far segni e strisce irose per terra col
calcio del fucile, principia a discorrere della fedeltà militare, del
giuramento e dell'onore. Sul volto di quei soldati che l'udivano
manifestansi indizii d'esitazione e improvvise faville di nuovi e
truci pensieri.

Gli slancio contro il cavallo, che impennatosi lo toglie all'occhio
dei suoi e gli saetto a mezza voce:--Ti taglio la gola,
manigoldo!--Ond'egli ammutolì.

Gli ufficiali intanto comunicarono a noi e alla brigata la risoluzione
di rimettersi al voto del proprio generale per passare con Garibaldi o
rimanere alle bandiere.

E Nullo:

--Venga il generale! conducete qui il generale.

--Il generale, io soggiungo, comunicherà la sua decisione a Garibaldi.
Accompagnamolo a Garibaldi.

Il generale Briganti fu rinvenuto in chiesa, mentre recitava il
rosario. Narravasi dopo che vi avesse cercato asilo nell'idea che la
brigata fosse avviluppata e senza scampo. L'aspetto ed il contegno di
lui smentivano, in mia opinione, la diceria.

Al suo comparire noi gli movemmo incontro con segni di rispetto.

--Generale, fece Nullo con militare concisione, v'intimo di seguirci
per trattare col dittatore Garibaldi i termini della resa della vostra
brigata. Il dittatore trovasi costì dappresso alla testa
dell'esercito.

Il generale, soggiogato dall'accento energico, dall'occhio fiero e dai
baffi magiari di Nullo, ma, suppongo, ancora e veramente più dalla
scrollata disciplina dei suoi che l'accolsero fra gli evviva a
Garibaldi, rispose con sereno ciglio:

--Figliuoli miei, con tutto il piacere!

Nullo ed io gli cavalcavamo ai lati; da tergo una mano di lancieri.

Briganti oltrepassava i sessant'anni; bell'uomo, d'aspetto marziale,
garbato ed affabile.

--Ben contento, continuò parlando, di conoscere il glorioso vostro
capo, bravi giovanotti. Alfiere sotto il re Murat, militai anch'io per
l'indipendenza d'Italia sul Po. Ora la mia fede di soldato è legata a
Francesco II, e non la romperò. Del resto, ammiro il vostro valore e
m'è simpatica la causa che sostenete.

Ed io:

--Generale, onore a chi serba la data fede!

Ed egli, guardandomi con pupille accese:

--Parole saggie.

--Ma la fede al vostro re vi rende infedele alla patria e vi fa
spargere sangue fraterno per mantenerla schiava. La prima fede
all'Italia, Voi dovete ricomparire generale sul Po nel 1860, ove foste
alfiere nel 1815, contro lo stesso nemico. Ivi l'onore va in compagnia
della gloria.

Nel mentre di questo mio sermone di morale politica, spuntava dal
ponte una carrozzella di camicie rosse. Missori, non avendo più
notizie di noi, venne ad attingerne. Gli abitanti del luogo
raccontarongli l'evento, ed egli entrava in carrozza con Damiani,
Zasio e Manci, sottotenenti delle guide, nel mezzo della brigata
nemica ad alimentarvi il nostro apostolato.

La popolazione accorse in grande frequenza sul nostro passaggio
esultando dell'insperata salvazione nostra, su cui stette lunga ora
trepidante. Rivedendoci, col generale Briganti, ci coperse d'ovazioni
e di applausi, con ciera smarrita, come di chi assiste al compimento
di un prodigio.

Garibaldi distava da noi quattro miglia, e il generale Briganti non
sapendo capacitarsi di non incontrare un soldato nostro dopo due
miglia:

--Dov'è dunque il dittatore? dimandò. Non trovasi così vicino come mi
faceste supporre!

Nullo, colle fiamme alle guance, risentito dell'indiretta allusione
alla slealtà, rispose con acerbo detto:

--Quando sole quattro miglia separano Garibaldi dal nemico, questi è
battuto o preso. Ieri voi foste battuti, oggi siete presi.

Briganti ammutolì e spinse il cavallo al trotto. Io, per indorargli la
pillola, vedendolo annuvolato e mortificato, soggiunsi con voce
intermittente a cagione del trotto:

--Generale, nella guerra la realtà figura l'ordito, e la finzione il
tessuto.

Rallentò egli la velocità, non so se rabbonito dalla mia spiegazione o
perchè compiti i sessant'anni non sia troppo agevole parlare
trottando. Proferì alcune frasi che non ricordo, quando capitò il
marchese. Nullo glielo presentò in qualità di capo del quartier
generale.

Il marchese tenente-colonnello mi fece:

--Potete tornare indietro.

Ed io a lui:

--Accompagno il generale a Garibaldi.

--L'accompagno io.

--Ma il generale viene con noi, perchè fummo noi che...

--Me ne incarico io.

La disciplina mi turò la bocca e tornai. Tornò anche Nullo,
abbandonando al marchese gli allori per la non sua impresa. Nondimeno
qualche minuto di poi voltai il cavallo e arrivatogli a panni gli
dissi all'orecchio:

--Spedite un aiutante a schierare opportunamente i duecento soldati
usciti da Reggio. Briganti crede presente l'esercito. Importa non si
ricreda.

Indi mi ricongiunsi a Nullo, dirigendoci ambidue verso la brigata per
rinfocolarvi lo spirito della rivolta. Ma dovemmo cedere alle istanze
dei borghigiani, che vollero scendessimo in casa d'uno di loro a
ristorarci. Con argomentazione perentoria agguantate le briglie ci
forzarono all'obbedienza. Discinta la spada, mi beatificai con un
catino d'acqua fresca, adocchiando contemporaneamente nella propinqua
sala la mensa festante di diverse frutta che parevano colte nel
paradiso terrestre, onde tardavami d'irrorare la gola arsa dal caldo e
dalla sete, allorchè un paesano salendo le scale a salti con voce
trarotta ci avvertì che un picchetto di lancieri borbonici
spesseggiava, per riunirsi alla brigata. Colla faccia tuttavia bagnata
e grondante, monto in arcione e mi precipito dietro quei cavalieri.
Avevo un cavallo di sangue inglese che volava come Baiardo. Nullo
balza in sella un istante dopo, ma lo lascio indietro a perdita
d'occhio. La briglia sul collo del corsiero, oltrepasso il picchetto
nemico. Girato il cavallo, grido ai sopravvegnenti:

--Indietro! siete prigionieri: al quartier generale di Garibaldi!

Un maggiore, due capitani, un medico di reggimento, quattro sergenti e
otto soldati.

Il maggiore, conte C..., sguainò la sciabola.

Adesso, pensai, m'infilzano.--Io ripetei immantinente, ingrossando la
voce:--Indietro! e soggiunsi:

--Anche il generale Briganti sta in nostra mano.

--Andiamo a Garibaldi, esclamarono i soldati voltando i cavalli. Alle
parole e ai movimenti dei soldati, il maggiore, ringuainata la
sciabola, mi disse con isforzata rassegnazione:

--Dunque prigioniero; ho una bandiera ed è vostra.

--La darete a Garibaldi. Italiani voi come noi, fatevi soldati della
libertà. Avrete avanzamenti e combatteremo insieme gli Austriaci,

Frattanto sopraggiunse Nullo.

Alla mia concione enfatica, piovuta sull'animo degli ufficiali, come
acqua sulle piume di un'oca, il maggiore di rimbecco replicò con
ironia signorile:

--Gli Austriaci sono lontani e i nostri costà d'appresso. Per arrivare
a quelli bisogna battere questi. Vi pare!...

Ma i sergenti facendo caracollare i cavalli mormoravano:

--Sì, andiamo con Garibaldi.

E dopo di loro i soldati. Il conte accigliato seccamente gli ammonì
con queste parole:

--Obbediremo ai comandi del nostro capo.

L'interrogai d'onde venissero, e mi rispose:

--Da una ricognizione.

--V'ho acchiappati in tempo, amabilissimi, ragionai meco stesso: se
foste riusciti alla vostra brigata, l'avreste indotta a decampare più
che di passo, annunciando Garibaldi discosto con iscarsa gente. In
quanto al vostro generale, avreste, al postutto, sperato di cambiarlo
coi nostri uffiziali in carrozzella.

E al maggiore non mancava l'animo a ciò, sibbene l'appoggio del suo
manipolo.

Durante il cammino si ciarlò di politica, di guerra e perfino di
letteratura. Egli si appalesò cavaliere e di molti studii.

In fama di _filibustieri_, ci ascoltava con istupore, scoprendone
gentiluomini.

Garibaldi alloggiava nella casetta di un campagnuolo. L'anticamera
riboccava d'uffiziali, di patrioti del vicinato, e di corrispondenti
di giornali esteri.

--Oh! proruppe il marchese.

--Tant'è, caro marchese, eccomi qua: vi presento il conte C...,
maggiore, e questi signori capitani. E me n'andai per non essere
indugiato nell'entrare in camera di Garibaldi.

--Non si può, non si può! mi cantarono, impedendo il passo alcuni
aiutanti di campo; il generale è in colloquio con Briganti.

--Briganti o non Briganti, bisogna che gli parli senza ritardo.

Dibattuto il sì e il no calorosamente fra le due parti, alfine Basso
mi annunciò. Entrai.

--Una parola, generale.

Briganti si ritrasse in disparte a guardare alcune vecchie carte
geografiche appiccicate alle pareti. Noi ci accostammo alla finestra.
E Garibaldi a me:

--Che lancieri sono codesti?

--Nullo ed io li facemmo prigionieri or ora con un maggiore e tre
capitani.

--Ebbene, che cosa volete?

--Generale, penetrammo nel campo nemico a predicarvi la ribellione;
gli animi della brigata sono sossopra; gli ufficiali si peritano, ma i
soldati vogliono posare le armi. Basta che voi mandiate a gran passi
le due compagnie onde adesso disponete a far atto di presenza presso
il campo borbonico, avanguardia presunta dell'esercito. Sola
condizione espressa per decidere la brigata ad arrendersi.

Io ritenevami tanto sicuro del fatto mio e con tanta foga di
convinzione pronunciai il mio sermone che m'aspettavo dal generale un
sì di petto. Egli con favella pacatissima rispose:

--Lasciate andare: non ve ne fidate; io conosco questa razza di gente;
lasciate andare!

E qui calarono le penne della mia presunzione. Nondimeno insistetti,
ed egli, non avvezzo a repliche, si tirò sugli occhi il cappellino. Al
noto segno di mal'umore, io sull'istante soggiunsi colla mano alla
visiera:

--Generale, sempre agli ordini vostri.

--Bravo, fecemi con amichevole accento; ed uscii.

--Nullo, andiamo.

Afflitto e irritato lo ragguagliai dell'abortita opera nostra,
censurando il rifiuto del generale.

--Se egli, come noi, conchiudevo, fosse stato testimone della
dissoluzione morale della brigata, avrebbe mandato le due compagnie in
carrozza.

I compagni nostri, che desinavano cogli uffiziali borbonici in
un'osteria contigua all'accampamento, divisero il nostro dispetto e il
nostro cordoglio, rinacerbito poscia dall'arrivo di Briganti, del
maggiore e dei capitani, che sedettero a mensa con molta fame e con
assai tranquillità.

In su quel punto una guida ci avvisò ansiosamente dell'arrivo di
Garibaldi. Salutati i nemici, fummo in sella in un lampo con lo
spavento in cuore non gli fosse teso un agguato; e via alla
carriera... Incontratolo a breve tratto di là, con la solita calma ci
disse:

--Venite meco.

Abbandonata la strada maestra, pigliammo il monte a dritta. Gli
cavalcava a lato un prete, che appellavano don Cicillo, in qualità di
conducitore, e dopo mezz'ora si smontò ad una villa signorile. Da un
finestrino del granaio, Garibaldi si pose a speculare col cannocchiale
San Giovanni, la brigata Briganti e superiormente una seconda legione
nemica.

--Che soldati son quelli? chiese Nullo a don Cicillo.

--La brigata Melendez.

Non istette guari a spuntare sulla via tortuosa incassata nel monte
ragguardevole colonna de' nostri.

Tutti i vincitori di Reggio. Garibaldi appena riseppe dell'avventurosa
visita di noi sei nel campo nemico, della conseguente sospensione
della ritirata, degli animi titubanti dei borbonici, del loro generale
costretto a parlamento, mandò frettoloso comando che si vuotasse
Reggio di soldati, sollecitandoli verso San Giovanni per sentieri
indicati. Compresi allora il riposto significato del diniego di lui ai
miei inesperti suggerimenti, arrossii delle mie critiche e mi persuasi
che non conoscevo sillaba delle cose di guerra.

Garibaldi e don Cicillo davanti, noi di dietro, e dietro di noi la
colonna, silenziosi e cauti si girò il monte di San Giovanni. Protetti
dall'oscurità, il generale condusse i suoi battaglioni all'opposto
versante e li dispose in triplice semicerchio sulla sommità
sovrastante agli accampamenti regi. Colassù, verso le dieci, una
staffetta gli recò la novella che il generale Cosenz, sbarcato la
vigilia con due mila uomini a Bagnara, e combattuto a Solano,
attendeva un cenno ai Forestali. Garibaldi al chiaro di luna scrisse
col lapis in un pezzetto di carta: «Venite subito sopra San Giovanni a
marcia forzata.» Poi chiamato Nullo:

--Scegliete cinquanta uomini di vostra fiducia, stendeteli in lunga
catena e, radendo il suolo come draghi, avvicinatevi alle prime linee
dei regi. Molestateli tutta la notte, impedite che ei dormano e
innanzi l'alba coll'istessa diligenza ritornate.

Innanzi l'alba si discese a piedi in più bassa parte, occupando il
monte da un fianco all'altro in linee concentriche. Sulla sinistra fu
collocata sovra un poggio la riserva, e l'artiglieria più in giù; a
diritta la strada maestra, unico passaggio, volgendo ad angolo,
insuperabilmente dominavano i carabinieri genovesi. Impossibile la
ritirata o la fuga. Al primo sole il nemico si trovò costretto dalle
braccia di ferro di Briareo. Mentre i battaglioni gli sfilavano sotto
gli occhi aprendosi come branche di scorpione, Garibaldi comandava e
raccomandava non rispondessero al fuoco del nemico, il quale ci
tempestava con quattro obici e colle carabine dei cacciatori.

Garibaldi poscia andò a collocarsi solo e ritto, siccome statua sovra
piedestallo, sulla calva cima del monte. Visibile a tutti gli sguardi,
vedevalo anche il nemico e salutavalo con una pioggia di granate che
cadevangli intorno o scoppiavano in alto. Cinquemila camicie rosse in
una serie di curve parallele gli fiammeggiavano ai piedi, formidabili
e pittoresche. Alla base agitavansi irosi e impotenti i nemici ch'ei
sbaragliò tante volte, e di prospetto esultava bellissima e maestosa
la Sicilia ch'ei liberò. Era l'apoteosi dell'eroe.

Conferito il comando di ciascuna linea ad un suo aiutante di campo,
ordinò a me di unirmi al marchese.

Ambedue, passeggiando da un capo all'altro della nostra schiera, si
vigilava affinchè i soldati non perdessero l'imposta pazienza.

Il nostro silenzio non sembrava vero al nemico, il quale raddoppiava
di vigore e di precisione ne' suoi colpi invendicati. Ognuno di parte
nostra sedeva sul pendìo col fucile per terra, aspettandosi d'un punto
all'altro di passare a miglior vita da quella comoda giacitura. Nè
tutti più tardi si rialzarono. Udivo un sordo fremito nelle file e
notavo la mal celata ansietà di placare le ombre dei compagni spenti,
sommergendo i regi nello stretto. Pure, durante tre ore consecutive di
quella gragnuola di palle, non un solo schioppo si sparò dal nostro
campo, benchè l'avanguardia fossesi accostata ad un tiro di pistola
all'opposta avanguardia.

A me quella inflitta immobilità e quell'astensione dalle offese
apparivano enigmi indecifrabili; ma, rimembrando il granchio del
giorno prima, non dubitava ne dovesse emergere un risultato solenne
quanto imprevedibile.

--Caro marchese, io cominciai, sediamoci qui, e fumiamo un sigaro.

--Non fumo che dopo colazione.

Nell'accendere il sigaro, una granata scoppiata a pochi passi ci gettò
sul volto grumoli di terra.

--Ecco la colazione; fumate, marchese.

--Per aver pace fumerò.

Le palle dei cacciatori sibilavano spessissimo vicino a noi; onde io
ricominciando:

--Certamente, marchese, vi riconobbero. I cacciatori vogliono uccidere
l'amico del re nemico. Vi veggo e non vi veggo.

--Ma voi non siete qui anche voi?

--Sì, ma non partecipo ai vostri amori, e codeste le sono palle che
non mi riguardano.

--Stranezze di voi altri repubblicani! Di razza felina, dicono: per
altro nella vostra specie ridonda la giovialità. Ma bando agli
scherzi: qui tirano da indemoniati; se morissi, raccogliete questa mia
borsa ad armacollo; la seconda tasca contiene una carta depositaria
delle mie ultime volontà. Consegnatela alla mia signora, in Reggio.

--Povera e bella signora! dovrò raccomandarla al vostro re?

--No, perdio!

--Ho capito...

Alla quarta ora Garibaldi fece inalberare bandiera bianca, e scorgemmo
ondoleggiante dal tetto d'una casuccia in prossimità del nemico una
coperta di lana confitta ad un palo e sostenuta da un soldato. Di
repente il soldato stramazzò boccone sul declivio del tetto e la
bandiera cadde su esso.

--Gli mancò un piede, dissi al marchese; si rialzerà, ma ciò prova che
Garibaldi e bandiera bianca stanno insieme, come l'acquasanta e il
diavolo.

--Pregiudizi! sclamò il marchese con filosofico sogghigno.

Se non che l'oste moltiplicava le offese, il soldato caduto non si
rizzava, ed un secondo spuntò dall'abbaino a risollevare la coperta di
lana.

--L'hanno ucciso! l'hanno ucciso! Ah! gl'infami! ognuno gridò; e
tutti, punti dall'istesso sdegno, si vibrarono sui piedi
minacciosamente. E non si stimi lieve assunto l'averli frenati. Il
fuoco indi principiò a rallentare, e grado grado tacque. Chiamati, il
marchese ed io salimmo a Garibaldi.

--Andate a Melendez, egli comandò al marchese, intimate che consegnino
le armi, e che se ne vadino a casa.

Discese il nobile oratore, e a suon di trombetta entrò nella tenda del
generale regio.

In questo mezzo la staffetta della vigilia ricomparve a narrare
imminente l'arrivo della brigata Cosenz da Aspromonte.

--Movetele incontro, ingiunsemi Garibaldi, e schierate un reggimento
sulla sommità del monte. Il secondo gli si accampi da tergo di
riserva.

A un quarto d'ora di là sostava l'ambulanza generale proveniente da
Reggio, e con essa rividi dopo venti giorni la moglie mia, la quale mi
donò un paio di floride pesche. Assegnati i luoghi alla brigata, porsi
a Garibaldi la più bella pesca del paio, che gli fu inaspettata,
peregrina ed unica vivanda in quella giornata.

La brigata Cosenz, opportunamente venuta e stesa a foggia d'immenso
festone sull'arco della montagna, completava la scena stupenda e
conferiva a noi, per la prima ed ultima volta durante la campagna, una
superiorità assoluta sui borbonici.

Il corpulento marchese, affannato dall'alpestre passeggiata,
accompagnò al dittatore due uffiziali a parlamento, un capitano e un
sottotenente.

Garibaldi sedeva a terra fumando, dopo mangiata la pesca,
l'invariabile mezzo sigaro. E noi lì da presso.

Si volse al capitano con ciera fosca e con un punto interrogativo. Il
capitano, avvezzo alle etichette militari, alla pompa delle
decorazioni, degli spallini e dei pennacchi, parve sorpreso della
giacitura del generale, dell'abito modesto, del cappellino più
modesto, del mezzo sigaro d'un soldo e della squallida comparsa dei
suoi aiutanti. Tradendo da fuggevoli contrazioni della bocca un senso
d'alto dispregio, si diffuse in una lunga parlata sulla efficacia
delle proprie posizioni, sulle forze prepotenti, sulle navi,
sull'arrivo del general Viale.

E Garibaldi troncando quella sventurata eloquenza:

--Veniamo al fatto. Posso trarvi prigionieri o gettarvi in mare; ma vi
lascio partire disarmati o venire col vostro grado al mio campo. Vi do
tempo sino alle due pomeridiane. E rimandolli.

--Meglio gettarli in mare e vendicare il soldato della bandiera bianca
assassinato, proruppe un sottotenente vestito a nuovo e assiso sul
ciglione.

Garibaldi, udendo il feroce consiglio, girò lentamente il guardo sul
crudele interlocutore.

--Chi è quel gagliardo? m'interrogò sottovoce.

--Gallenga il regicida, corrispondente del _Times_.

Non sorrise egli, perchè grave pensiero l'occupava in quel punto, ma
l'ala dell'ironia gli sfiorò, passando, le gote.

Quivi un episodio alla marina richiamò l'universale attenzione. La
_Borbona_, pirofregata regia di 50 cannoni, transitava fra Scilla e
Cariddi.

La nostra artiglieria da campo, in batteria alla spiaggia del Faro,
osò attaccarla. Noi godevamo di lassù, come da loggia di anfiteatro,
lo spettacolo nuovo e ammirando. I nostri giovani artiglieri tiravano
da disperati. Notavamo con chiara veduta ogni colpo esatto o fallito,
e con cuore palpitante esclamavamo:

--Basso! alto! bene! ancora!

A Garibaldi

    «Sì buon guerrier al mar come all'asciutto»

scintillavano gli occhi d'inusitato splendore.

--Peccato che si guasti, perchè nuova, gorgogliava il marchese. S. M.
il re Vittorio Emanuele non ci manderà le sue congratulazioni per
questa ragazzata.

--_Laissez les enfants gagner ses épérons_, risposegli Garibaldi senza
staccare dal ciglio il cannocchiale.

Prime armi in vero della sua artiglieria!

Mutò i fianchi più d'una fiata la nave superba, e molti danni e morti
seminò, ma s'ebbe accoglienze di mano in mano più aspre. Più spessi i
colpi e più certi partivano dai nostri cannoni, ed essa, o fosse
elezione o necessità, si risolse di proseguire la rotta, bersagliata a
poppa meglio dal furore che dalla ragione, poichè si tirò anche quando
le palle non arrivavano, e quei rimbombi innocenti sembravano od erano
salve di gaudio.

Ripresentatisi oratori gli stessi uffiziali, invece dell'attesa
risposta perentoria, fecero scialo di retorica, tentarono
tergiversazioni, chiesero dilazioni, allusero alla speranza di vicini
aiuti, o d'imbarchi notturni, e nell'ipotesi d'una combinazione posero
patto indeclinabile la promozione di tutta l'uffizialità. Garibaldi,
abbassato il cappellino, tuonò:

--Non mercanteggio, ed ora rifiuto gli uffiziali. Andate voi a
Melendez, proseguì indirizzandomi la parola, e tirando di tasca
l'oriuolo: intimategli la resa a discrezione entro venti minuti
dall'arrivo. Sono le quattro; alle quattro e trentacinque assalterò.
Avvisatene Menotti all'avanguardia. Andateci anche voi, soggiunse al
marchese e al capitano Angelini.

Calammo a gran passi, per giugnere nel quarto d'ora prescritto.

Discesi all'avanguardia, Menotti, insofferente di nuove dimore,
scoppiò con labbro corrucciato:

--Ancora parlamenti! Se comandassi io! Papà è troppo buono!

Io gli comunicai i comandi del padre suo, e procedemmo oltre.

Toccato l'intervallo che separa i due campi, gli oratori regi ci
inculcarono di rimanervi perchè non guarentivano la nostra vita dal
furore dei soldati.

--Riferiremo noi al generale Melendez l'_ultimatum_ di Garibaldi, e
ritorneremo qui a parteciparvi la volontà del nostro capo.

Indignato più che stupito dallo strano linguaggio, risposi:

--Noi non temiamo il furore dei vostri soldati. Se con aperta
violazione del diritto delle genti saremo assassinati, Garibaldi ci
vendicherà. Non uno di tutti voi escirà vivo da questo campo
scellerato. Guardate!

E col dito indicai le nostre schiere che si condensavano alla nostra
volta.

Il sole piegato all'occaso suscitava un infinito sfolgorìo dalle
baionette agitate e brunite. Il rumore cupo della marcia concitata e a
balzi, e lo strepito delle armi, pervenivano chiari al nostro
orecchio. Quella paurosa sensazione penetrando, pel duplice adito
della vista e dell'udito, al cervello dei soldati borbonici, deve
avervi raddrizzati alquanti pensieri irrazionali.

--Ora, ripigliai, conducetemi alla presenza di Melendez.

Ivi la china del monte s'interrompe e dilatasi in largo piano
orizzontale, festante di vigneti e d'orti, ove campeggiava la brigata
Melendez. Quinci il monte dirupasi sino alla Villa San Giovanni.
Introdotti a Melendez, gli ripetei senza esordio il corto dilemma di
Garibaldi, coll'oriuolo alla mano. Il gentile marchese s'industriò di
addolcire con melato eloquio l'acerbità del mio detto, e, con esempi,
citazioni, sillogismi, di trarre il vecchio generale a mansueti
consigli. Ma io rammemorando la cura di Garibaldi, per suoi motivi a
me oscuri ma religiosamente riveriti, d'evitare la lotta, tagliai di
netto le argomentazioni del marchese con queste parole:

--Generale, ancora otto minuti. Vedete costà? la procella s'avanza.

--Interrogherò i miei uffiziali, rispose con palese turbamento, e si
ritirò lasciando a metà la concione del marchese, il quale piombato su
me imperterrito, ne compendiò il resto con la seguente appendice:

--Credete; ci vuol pratica in tali negozi. Voi foste troppo letterale
nell'ambasciata; io con bella maniera e con un tantino di dialettica
infransi la sua ostinazione e lo persuasi. Vedrete che cederà.

--Non ne dubito. Peccato che non abbia ascoltato la seconda parte del
discorso! Avrebbe ceduto addirittura.

--Perchè dunque, egli riprese mestamente, mi guastaste le uova nel
paniere?

Ma il nostro colloquio fu alla sua volta guastato da alti clamori. I
soldati di Briganti, stanchi dei sotterfugi onde vennero tenuti a bada
nella giornata, consapevoli delle proposte di Garibaldi, smossi e
rilasciati la vigilia dalle arringhe dei sei garibaldini, convinti
ancora più dalla rovina sovrastante, gettarono le armi, abbandonarono
gli uffiziali e s'avviarono in frotte giubilando per tornarsene alle
proprie case.

Mancavano tre minuti al ventesimo. I comandanti separandosi da
Melendez corsero ai loro corpi. Melendez e noi movemmo ad incontrarci
a vicenda. Egli ci annunziò la resa. Ed ecco Menotti coll'avanguardia,
e un momento di poi Garibaldi. Una batteria, molti cavalli,
quattromila fucili, e il forte Punta del Pezzo spoglie opime. La notte
si dormì a San Giovanni.

L'indomani mattina (25 agosto) cavalcammo verso i forti della costa.
All'affacciarsi di Garibaldi i presidî, senza intimazione, senza
minaccia, senza apparato di forze nostre, ne uscivano spontanei e
inermi. Così vuotaronsi successivamente Torrecavallo, Altafiumara,
Scilla, quasi per incantesimo. Quei forti e le batterie del faro,
formando un triangolo inespugnabile, vietavano il transito delle navi
nemiche e proteggevano gli sbarchi delle nostre genti. Garibaldi,
raggiante di gloria e di gioia, circondato dai suoi generali Medici,
Bixio, Sirtori, Cosenz, contemplava la discesa dall'ardue rôcche dei
trasognati borbonici, e, accortosi della presenza di mia moglie,
dissele con benevolo motteggio:

--Signora, non ho bisogno della vostra ambulanza. Vedeteli là con che
buon garbo se ne vanno. Andremo a Napoli posteggiando.

Appellatomi con cenno, mi commise di passare lo stretto e di ordinare
al generale Milbitz l'immediato imbarco per la Calabria di seimila
uomini e delle artiglierie. Eseguii, ritornai, lo raggiunsi al di là
di Scilla, ove dormì al rezzo d'una pergola a lato della strada.
Durante la _toilette_ lo ragguagliai del fatto mio.

Ed egli:--S'imbarcarono subito?

--Subito.

--Assisteste allo sbarco?

--No. Ma a quest'ora...

Il pettine in mano, i capelli non ancora spartiti, interrompendomi a
mezza frase:

--Io costumo, quando una cosa mi preme, di star sin ch'è fatta, e
allora vivo sicuro che è fatta.

Sentendomi colorire il volto di tutte le tinte dell'iride, una dopo
l'altra, gli risposi:

--Generale, non me lo direte due volte.

Taciturno e col capo chino quel giorno e l'altro non potevo estrarre
dal cuore la spina del rimprovero. Giusto e meritato senza dubbio; ma,
dedotto da un ordine d'idee a cui il mio pensiero non s'innalzò,
parevami caduto dalle stelle. Militando con Garibaldi, reputasi soave
parzialità della fortuna la visita d'una palla al paragone d'una
censura, anche lieve, di lui. Una forse tra le cause occulte di ciò
che il vulgo denomina--i suoi miracoli.

I soldati delle due brigate disciolte furono quel fiocco di neve in
alpe che, rotolando, diventa valanga. Sul loro passaggio decomposero e
travolsero seco i battaglioni di Bagnara, di Palmi, di Mileto, ove i
cacciatori del 14° uccisero il generale Briganti. Poi l'informe massa
si disperse, e ciascuno per vario cammino riparò ai sospirati alberghi
domestici, memore delle ineffabili disfatte, e apostolo della
generosità di Garibaldi.

Rividi il conte C..., maggiore dei lancieri, già mio prigioniero. Mi
ravvisò egli e strinsemi la mano con emozione, e fra l'altre cose mi
disse:

--Grand'uomo il vostro Garibaldi!

--Lo so.

--Ma agli occhi miei probabilmente per motivi diversi dai vostri.

--E perchè no?

--A San Giovanni ci poteva schiacciare o mandar prigionieri in
Sicilia. Quattromila nemici di meno! Qualunque generale l'avrebbe
fatto. Egli tollerò, tacendo, le nostre provocazioni, e tre ore di
offese. Questa sdegnosa magnanimità soggiogò l'animo dei nostri
soldati più di tutte le sue vittorie.

--Affeddedieci il solo magnanimo nel suo campo! Se stava a noi, vi
avremmo a suon di baionetta cacciati in seno al gran _padre Oceàno_.

--Evidentemente doveva essere il solo. Egli solo, comprendendo i tempi
e il quarto d'ora, italiano contro italiani, divinò con sùbita
ispirazione tutti i risultati della rifiutata battaglia e della
consentita libertà. Con un lampo di genio vide lo sfacelo delle nostre
legioni diroccando l'una sull'altra, e in fondo del quadro il trionfo
della sua idea trasfigurata in prodigio.

--Sorite demagogico, per cui il predicato della proposizione
antecedente diventa il soggetto della susseguente.

--Voi scherzate e avete ragione. Ma io gemo sul precipizio della mia
causa.

--Perchè non vi unite al grand'uomo, campione della causa buona?

--Perchè il giuramento, la gratitudine, la fede di gentiluomo mi
legano al mio re.

--Tornate a casa o in campo?

--Vo a Monteleone per congiungermi al corpo di Viale. Persevererò
finchè avrò incontrata la morte. Voi morrete per la libertà, io pel
dovere. Il vostro sepolcro sarà infiorato dalla lode; il mio non avrà
che il compianto di qualche rara anima imparziale.

Io non so, ma le parole di codesto cavaliere della _legittimità_, di
codesto paladino del dovere convenzionale, mi produssero una penosa
impressione e mi destarono un interesse per lui molto affine alla
tenerezza. Nel distaccarmi da esso avevo un gruppo alla gola e gli
dissi addio con voce commossa.

Pochi giorni appresso lo incontrai in altro campo sfortunato, ov'ei
ripassò sotto le medesime forche caudine. Poscia riseppi che cadde
trafitto nella battaglia del Volturno e che venne sotterrato con calce
in una fossa promiscua fra mille cadaveri. E l'indistinta sepoltura
contese alle sue reliquie la dolcezza del sognato compianto.

Da San Giovanni principiò la corsa trionfale di Garibaldi fino a
Napoli. Le lagrime, le ovazioni, i fiori, i baci, le benedizioni di un
popolo immaginoso, che credevasi emancipato da un _fiat_
sovrannaturale, piovvero lungo trecento miglia sul capo del vincitore.
Entro un modesto calesse, lo precedetti a caso con mia moglie
nell'ingresso a Palmi. Le vie, le piazze, le logge, i poggiuoli, le
terrazze, riboccavano di popolo. Un grido inarticolato, continuo,
frenetico, ci salutò. Le donne, massime, curvandosi fuori delle
finestre sin quasi a precipitarne, ci protendevano le braccia, con
occhi, con visi, con detti deliranti. Hanno pigliato me e lei per
Garibaldi e sua figlia. E quando più tardi capitò il vero Garibaldi,
esausti i petti, rauche le gole, esalato il profumo dell'entusiasmo,
s'ebbe amorose, ma non forsennate accoglienze. E qualche altra fiata
mi accadde d'essere scambiato per lui. Il secondo giorno dell'entrata
in Napoli, alla festa uffiziale nella chiesa di Piedigrotta,
Garibaldi, inginocchiato sovra un cuscino di velluto, riceveva,
dall'arcivescovo in pontificale la palma che solevasi d'antico
offerire l'8 settembre al re delle Sicilie. Io gli stavo ritto di
dietro ed eranmi ai lati Liborio Romano e Bertani, quando, abbracciato
con islancio e stretto la testa fra le mani ed il seno palpitante
d'una giovane e vezzosa gentildonna, fui baciato e ribaciato sulle
labbra. Io non mi opposi per non parere scortese. Indi proruppi con
gemito:

--Signora, ahimè! ma questi è Garibaldi.

Nelle Calabrie avanzavano tuttavia intatti ventimila borbonici fra
Monteleone e Cosenza. Il general Viale aveva divisato di contrastarci
il varco difficile di Monteleone; però, temendo che gli sbandati
sopravvegnenti da Mileto involgessero nell'istesso disastro la sua
brigata, rinunciò al disegno e si ritrasse. Noi godevamo il fresco
sotto gli ulivi giganteschi delle pianure di Gioia. Un frettoloso
messaggiero portò la notizia a Garibaldi, che la sera sarebbe sbarcato
a Nicotera un colonnello regio con proposte di capitolazione. La Masa,
Basso ed io saliti in carrozza col generale si corse a Nicotera.

--La dedizione del nemico, io osservai, con doppie forze delle nostre,
con posizioni vantaggiose, e a trenta miglia da noi, stimo il maggior
miracolo della campagna. Fors'esso impaurì delle truppe disciolte.

--Potrebbe sottrarsene, obbiettò Garibaldi, accelerando la ritirata
verso Napoli. Deve senza dubbio scendere a patti, perchè i bravi
Calabresi gli avranno nuovamente precluso il passo.

Un fiumicello diramato in due o tre rivi impedì a mezza strada
l'avanzarsi della carrozza. Valicato il primo rivo saltando da un
ciottolone all'altro, ci mancò il beneficio dei ciottoloni nel secondo
e nel terzo, ed il generale la Masa opinò di retrocedere per tentare
miglior guado.

--Non torno mai indietro, fece Garibaldi, e con piedi bagnati toccammo
l'opposta ripa. Al termine d'una camminata faticosa di nove miglia in
terreni sabbiosi, declinammo alla marina, facendo negli orti suburbani
di Nicotera una copiosa provvista di fichi, frutto sovra tutti gradito
al generale.

Aveva dianzi ormeggiato ivi la nostra corvetta il Tukery. V'entrammo,
soffocati dall'afa, per ristorarci. Veduti gli opimi fichi, il
generale n'ebbe allegrezza grande: e, fico per fico mangiato, ne
descriveva i pregi.

--Più zuccherosi a mio gusto quelli di Nizza, soggiunse, in forma di
postilla, Basso, suo compaesano.

Al nome di Nizza, tacque il liberatore esule, e cessò la festività
della conversazione. Abbandonati i fichi e la corvetta, montammo per
una cordonata, che arieggiava il bramantesco, in cima del ripidissimo
colle ove giace Nicotera.

La notte, introdotto il colonnello borbonico nella camera di
Garibaldi, stettero entrambi in privato discorso mezz'ora.

Poi questi mi ordinò di accompagnarlo a bordo. Il colonnello entrò
lieto e uscì intorbidato. Pungevami curiosità di saperne qualche cosa.
Accennai alla bellissima rada di Nicotera, al valore dei soldati
napoletani, ed a non so quali altri argomenti atti ad ingraziarmigli,
e finalmente gli domandai:

--Vi combinaste?

--No. Il generale fu spinoso e inflessibile.

--Stupisco che non abbia accettato di rimandarvi liberi e disarmati
come Melendez e Briganti.

--Questo ei voleva. Io gli chiesi il passaggio tutelato sino a Napoli,
per risparmiare nuovo sangue. Tre brigate sostenute da altre due nel
Cosentino non possono piegarsi all'ignominia di cedere le armi davanti
a villani insorti.

--Ma voi siete stretti fra gl'insorti e noi. Ineluttabile la resa.

--Noi ci batteremo.

--Come vi piace.

A questo punto del dialogo, egli entrò nella lancia della corvetta il
_Tancredi_ e ci augurammo la buona notte. E in vero ai fianchi dei
regi e di fronte s'accese l'insurrezione come funesta ghirlanda di
fuoco. Ardeva nel Cosentino, in Basilicata, in Capitanata, nelle
Puglie. Gl'insorti del barone Stocco vittoriosamente contrariavano
nella ritirata le tre brigate. Al sud di Tiriolo le montagne solcate
da un ampio torrente, si sollevano a picco formando un bastione
convesso insuperabile. Alla base la strada si biforca; un ramo d'essa
lo gira, il secondo lo fende serpeggiando fino alle altezze di
Tiriolo. Poche squadre bastano per vietare l'accesso a molti
battaglioni. E c'erano le squadre dai cappelli conici, dalle brache
corte e dalle scarpe di cimossa: e quegli alpestri cacciatori con
infallibili moschetti tenevano le porte chiuse in faccia al generale
Ghio.

Garibaldi sollecitò la marcia dei suoi verso Monteleone. A Mileto
alloggiò nel palazzo del vescovo, da cui fuggì inorridito
ricoverandosi all'ombra d'un pero fuori della città. Io frattanto allo
sbocco della piazza passavo in rassegna i reggimenti per iscoprire il
mio cavallo rubatomi a Nicotera la notte. Venne il cavallo e lo
conobbi. Montavalo un giovinotto, aiutante d'un colonnello d'oltralpe.
Furioso per le dieci miglia a piedi da Nicotera a Mileto in causa del
furto, saltai davanti al colonnello e al giovinotto e trattenni per le
briglie i cavalli d'ambidue.

--Scendete, dissi a costui; questo è il mio cavallo che voi rubaste a
Nicotera.

--Egli scendendo e abbandonandomi il cavallo, rispose:

--Lo presi d'ordine del comandante.

Con pronuncia ostrogota tentò costui di giustificarsi, ma io
l'interruppi con queste parole:

--Sul monte di Villa San Giovanni, signor comandante, vi cantai più
volte--alta la testa--quando la piegavate col moto della civetta al
fischio delle palle. Mi rubaste il cavallo per vendicarvi?

--In quanto a te, soggiunsi al giovinotto manutengolo, voglio
scaldarti le orecchie con quattro sciabolate qui sulla piazza, subito.

E volgendomi al sottotenente De Cristoforis di Milano, che rideva
della scena eroicomica:

--Siimi padrino.

Ritiratosi il comandante senza pronunciar verbo nè avverbio, il suo
degno aiutante, il quale oltre la camicia aveva rossi anche i calzoni,
osservò che, trovandoci noi davanti al nemico, ne avrebbe dapprima
dimandata licenza a Garibaldi.

Ne avvertii Garibaldi, ma la licenza non fu mai dimandata, nè più
potei ripescare il giovinotto. Due anni dopo, il comandante segnalossi
contro l'uomo che avevalo alzato a quel grado.

Corsi al pero. Il generale giaceva sopra alcune pezze di damasco
ecclesiastico stese sull'erba e comandava si cercasse il maggiordomo
del vescovo.

--Questa genia pretina, esclamava con insolita collera, è uguale
dappertutto. M'hanno assegnato a posta quel letto affinchè fossi
mangiato vivo.

--Che cosa accadde? feci a Basso sul cui volto riverberava l'ira di
Garibaldi.

Il generale corcatosi in casa del vescovo, due centinaia di cimici,
senza la retroguardia, lo svegliarono mangiando le sue carni. Per la
prima volta in sua vita egli conobbe la via della fuga.

Dopo due ore di sonno, restituito alla calma abituale, mandò a
liberare il maggiordomo.

Oltrepassato Monteleone, ove la famiglia Gagliardi diedeci ospitalità
principesca, ci apprestavamo ad una seria battaglia contro le tre
brigate, allorchè si riseppe che per un ordine sbagliato o mal
compreso del nostro capo dello stato maggiore generale, agl'insorti,
le tre brigate ottennero il passo franco e scapparono. La congiunzione
coll'altre due della prima Calabria avrebbe loro assicurato il cammino
su Napoli, ingrossandosi d'ottomila uomini in Basilicata, e avrebbele
abilitate d'affrontarci con solida speranza di successo.

Le nostre divisioni s'allungavano sovra una linea di molte miglia
accelerando il piede verso Monteleone, epperò impossibile di
riafferrare il nemico che s'aveva già lasciato alle spalle Tiriolo.
Nondimeno Garibaldi commise si raddoppiasse la velocità. Egli in
calesse precorse l'esercito di lunga mano.

Adagiato sul carrozzone dell'ambulanza, per altra via e la mercè di
rapidissimi cavalli, precorsi Garibaldi. Mia moglie comperò un
centinaio d'uova, cammin facendo, e si fece punto fermo a un'osteria
oltre la Termopile oramai invano insuperabile. L'osteria era vuota
d'ogni provvigione.

--Vuota per i borbonici passati testè, non per voi, disse l'oste
patriota. Cateriniella, proseguì voltandosi alla figliuola, fa
trasportare il vino e il pane.

Egli avevali nascosti in una fossa vicina. Indi a venti minuti ci
raggiunse il generale col barone Stocco.

--Oh! esclamò sorridendo appena vide mia moglie; qui madama? Avete
invertito le parti. L'ambulanza che deve seguire alla coda, antivenne
l'avanguardia.

Ed ella di rimando:

--Se non vi occorrono le nostre coppette, non vi saranno inutili le
nostre vivande. Venni a prepararvi la colazione.

Una solenne frittata di sessanta uova in quel derelitto luogo parve
all'affamato quartier generale più pellegrina dape di tutti gli eletti
e pruriginosi cibi, onde gl'industri cuochi del Gagliardi fregiarono
il banchetto di Monteleone. Un tuorlo d'uovo sbattuto nello zucchero e
diluito in un bicchier di vino fu sostanzioso alimento alle guide e ad
altri uffiziali.

Rimbionditi così, ci rimettemmo alacremente in viaggio. Traversato
Tiriolo, la notte si prese stanza a San Pier di Tiriolo. Io alloggiai
in una umile casa privata in compagnia del sottotenente Picozzi, del
capitano Canzio e di Antonio Gallenga.

Dopo cena continuarono a letto le più pazze risate per uno
schioppettio di motteggi di codesti due uffiziali burloni a tutte
spese del Gallenga. Ma ecco d'improvviso ci sentiamo diabolicamente
abburrattati, con cigolìo di porte, di stipiti, di travi e di
muraglie. Io caddi dal letto; Gallenga n'era sceso, e barcollando come
briaco, sillabò:--Il terremoto!--I sussulti e le oscillazioni
perseveravano. Io agguantai in tempo la lucerna in atto di
capovolgersi e la mantenni accesa. La sua luce tremolante illuminava a
sprazzi la guancia costernata, il costume in _naturalibus_ e le
capriole del Gallenga; laonde più potè in noi questo quadretto
fiammingo che la coscienza della sovrastante ruina, e abbiamo riso
sino ad averne lo stomaco doloroso. Seguìta la calma, l'ex-regicida,
ricoricandosi, mormorava fra i denti:--Il malanno e la malapasqua. La
stanchezza ci vinse e dormimmo sino all'alba, insensibili a nuove ma
più umane scosse.

All'alba in sella. A ventiquattro guide, comandate da Nullo, fu
commessa una ricognizione sul nemico trascinatosi alcune miglia di là.

--Badate, Garibaldi raccomandò secondo il consueto, di non inoltrarvi
troppo.

Io m'aggiunsi a quello stuolo d'amici, e via.

Dopo otto miglia eccoci al tu per tu coi posti avanzati delle tre
brigate. Erano le cinque ore. Un torrentello separavali da noi.
Discernevamo i comignoli delle case e il campanile del villaggio di
Soveria situato in una valle oblunga. Sulla sua destra il colle si
erge a forma di poggio ove altre case disseminate biancheggiano, e vi
scorgemmo squadriglie di cacciatori. A sinistra le sinuosità del
terreno si addolciscono, quindi si rizzano in colline a curva. Nel
retrocedere per ragguagliarne Garibaldi, mi rivolsi a Nullo con queste
parole:

--Permetti che io vada prima ad intimare la resa al condottiero
borbonico?

La mia proposizione suscitò qualche ilarità negli amici, visto il
nostro numero di ventiquattro, e considerato che il generale era
lontano cinque o sei miglia e da quindici a trenta l'esercito.

--Lasciami andare; tentiamo. Terrò in ciarle il generale nemico e
Garibaldi potrà sopraggiungere.

Stette Nullo sospeso; poi acconsentì. Per rendermi autorevole mi diede
la sua berretta di maggiore, il luogotenente Zasio per compagno e una
guida. Spiccato un ramoscello di salice e appiccicatovi a foggia di
pennoncello la mia pezzuola, con codesto segno parlamentare
precedevami la guida. Un cacciatore con carabina spianata ci cantò
l'_alto chi va là?_ E la guida:

--Oratore di Garibaldi!

Introdotti nel campo, presentossi un capitano, e scambiati i saluti
d'uso, gli feci con gravità:

--Il dittatore, generale Garibaldi, manda me, suo aiutante di campo, a
conferire col vostro comandante supremo.

--Il general Ghio?

Io ignoravo se Ghio od altri fosse il comandante, ma risposi come chi
sa:

--Appunto.

Forse per ostentazione delle loro forze non ci bendarono gli occhi.

In tutta la lunghezza del villaggio, sui due lati della contrada
scintillavano a intervalli i fasci d'armi.

I soldati altri addormentati, altri seduti; quelli in piedi scuoiavano
e rosolavano agnelle e pecore. Bella gioventù, perfettamente
equipaggiata. Stava adunata sulla piazza la cavalleria, e
l'artiglieria in fondo al villaggio.

Novemila fanti, cinquecento lancieri, cencinquanta gendarmi e undici
cannoni. L'ingombro dei cariaggi, delle ambulanze, dei muli rendeva
malagevole la nostra traversata, benchè i soldati ci facessero ala con
segni di rispetto e assai più di sbalordimento, perchè veruno di loro
pareva potesse spiegarsi come noi, creduti lontanissimi, fossimo già
alle loro calcagna. Palleggiati per quattro mesi di sorpresa in
sorpresa, eglino sentivansi moralmente oppressi da una forza arcana,
invincibile e inevitabile. Nelle stanche menti Garibaldi assunse grado
grado le proporzioni e la parvenza del Fato. Traluceva dai loro
sembianti il presentimento di nuovi e non immaginabili guai, e
affisando con molta fame e con rimesso ciglio le agnelle alla bragia,
sembrava dubitassero che cuocerle non fosse sinonimo di mangiarle.

Il capitano conduttore ci fece salire una scala di legno esterna d'una
casipola di contadino all'estremità di Soveria, padiglione del
comandante.

Aperta la porta senza toppa, entrammo in una cameruccia atra pel fumo
d'un ampio camino, ove la massaia e tre soldati attizzavano il fuoco
sotto un paiuolo di fagiuoli, e sotto una tegghia di stufato che,
gorgogliando, esalava soave odore di garofano. Presso una trave
ospitale del soppalco nidificò una coppia di rondini, che con fidati
voli andavano e venivano da un finestrino senza impannata. A traverso
le fessure del vecchio solaio scorgevansi accatastate alla rinfusa
nella stanza sottostante biche di paglia e fascine, e tini e botti. A
lato del camino, su due scansie, una lista di piatti di peltro in
costa e una di terraglia smaltata, e in basso due secchie a foggia
d'anfora, di rame lustrato, appese a ganci di ferro orizzontali. Nel
mezzo un tavolo ovale rivestito di noce in parte scrostata, e una pila
di tre mattoni che pareggiava la differenza d'un piede rotto. Alla
parete opposta del camino un letto con coltre di damasco in seta,
articolo di lusso, che si consente anche il povero nelle Sicilie.

Il generale Ghio, curvato sul tavolo, studiava una carta topografica
nel momento ch'io m'affacciai sulla soglia della porta. Superava di
poco i quarant'anni; di pelo nero, di viso bruno, di membra asciutte,
aveva nei lineamenti i caratteri dell'intelligenza, dell'energia e
della crudeltà. Rammentai che, colonnello a Padula nel 1857, fece
falciare dai paesani in armi trentasei seguaci di Pisacane
prigionieri. Erami adunque nemico e odioso. C'invitò a sedere con
accoglienze compite.

--Figliuoli miei, disse ai tre soldati, andatevene. E con essi si
ritirò il capitano.

--Orsù, signor maggiore, in che posso servirvi?

--V'intimo in nome di Garibaldi di arrendervi a discrezione.

--Garibaldi non si contraddice; dimandai e m'accordò la ritirata su
Napoli.

--Certo non si contraddice: venne per vincere e non per essere
battuto, permettendo che vi concentriate in Napoli. L'errata
interpretazione d'una frase del generale Sirtori indusse le squadre
del barone Stocco ad aprirvi lo sportello della gabbia.

--Aperta la gabbia, ci vogliono ben altre reti per pigliare e spennare
diecimila uomini!

--Generale, se preferite la battaglia, ci batteremo; e ci batteremo
come da noi si suole. Ma sul vostro capo la risponsibilità
dell'inutile strage.

--Un soldato non si batte mai inutilmente. Quando ogni altro argomento
vien meno, sta incrollabile la ragione suprema dell'onore.

--L'onore non si scompagna mai dalla giustizia. Morendo avvolto nella
vostra bandiera, non sareste pertanto onorato. La vostra causa non è
giusta. Voi servite un esoso tiranno.

--Signor maggiore! egli proruppe rizzandosi e battendo il pugno sul
tavolo. Le sue pupille apparvero vitree e senza luce.

--Siamo nemici e vi parlo da nemico.

I tre soldati, solleciti dei fagiuoli, rientrarono con un fastello di
legna. Ghio, trapassando dall'ira alla calma, con mite favella disse:

--Ma, figliuoli miei, lasciatemi in pace; andate. E leggermente
spingendoli accompagnolli alla porta.

Io continuai:

--Generale, rinunciamo alla discussione astratta, e veniamo al
concreto. Voi vi aggirate in un equivoco. Vi credete libero e siete
prigioniero.

--Come?

--Le bande armate di Morelli occupano fortemente le montagne di
Cosenza. Una legione nostra sbarcata a Sant'Eufemia, per la via di
Nicastro vi minaccia il fianco sinistro. Garibaldi vi romoreggia alle
spalle con tre divisioni. E poi la Basilicata è in fiamme; il paese
ostile vi nasconde i viveri, e vi obbliga di nutrirvi a tempi ineguali
e incerti con qualche gregge involato.

--Le mie informazioni non corrispondono al vostro quadro.

--Fallaci informazioni; nuovo documento dell'avversione universale.
D'altra parte, generale, i vostri soldati, affranti dalle fatiche,
scorati dalle disfatte e figli di questa patria risorta all'alito
della libertà, si negheranno d'avventurarsi a nuovi sbaragli, convinti
oggimai che la dinastia borbonica è irrevocabilmente perduta. Io
v'invito da capo a consegnare le armi e a sciogliere le vostre genti
come Melendez e Briganti. Garibaldi vi offre gli stessi patti.

--Non accetto.

--Or bene, generale; la lotta e subito.

E m'alzai prendendo commiato.

--Ascoltate, Propongo di decampare da questi luoghi alidi per sole
otto miglia. A Scigliano troverò acqua pei soldati. È una semplice
ragione umanitaria. Non mi vi determina nessun riflesso strategico. Di
là, meglio chiarito sulla mia situazione, tratteremo e ci accorderemo.

--Quivi e non altrove, oggi e non domani, la resa o la battaglia. Nè
io ho autorità di dipartirmi da questo dilemma. Ma pongasi fine agli
indugi: scegliete.

--Signor maggiore, vi prego di riferire la mia proposizione al
generale Garibaldi e di riportarmene la risposta. Io vi attenderò.

--Vana prova. Pure riferirò. Non ricomparendo, significherà che
Garibaldi rifiuta di rispondervi, e che, declinati da voi i consigli
della ragione, egli s'appiglia alla ragione delle armi.

E ci separammo. Nel cuore del villaggio un colonnello correndoci
incontro ululava:

--Arrestateli, arrestateli; tradimento: bande d'insorti ne circondano.

Avvicinatosi, rinfocò la filippica con ciera stravolta:

--Voi ci assicuraste il libero cammino fino a Napoli, ora espierete la
mancata fede.

Un nugolo di soldati e d'ufficiali alla rinfusa ci avviluppò con
grinte dure e sinistre.

--Nessuna promessa, colonnello, io gli risposi con pacata risolutezza.
Le nostre promesse a voi, miratele sulla punta della nostra spada, che
in questi accenti abbiamo sguainata. Se siete soldati d'onore e non
assassini, largo al parlamentario!

Spronammo i cavalli e ci aprimmo il varco. Intanto un lanciere al
galoppo portava il comando del generale Ghio che nessuno ci torcesse
un pelo.

Il drappello delle guide aspettavaci con ansietà e principiava già a
non aspettarci più. Narrai l'aneddoto, ed all'omerica rassegna delle
nostre forze furono fatte le più grasse risate del mondo. E Nullo a
me, allungandosi i baffi:

--Va a ragguagliarne il generale.

Dopo un miglio m'avvenni nel generale Cosenz accompagnato da due
aiutanti, il quale sperava per mezzodì nell'arrivo d'un suo
battaglione colle lingue fuori. Dopo tre miglia, incontrai Garibaldi,
sui colli di sinistra alla testa di un migliaio e mezzo di calabresi
condotti dal maggiore Mileti. Rendutogli atto dell'avvenuto, lo
interrogai se dovevo recare la risposta a Ghio.

--Che risposta! venite con me, andremo a dargliela di costà la
risposta!

Garibaldi, nel dispiccarsi dall'esercito coll'esigua scorta delle
guide e degli aiutanti a fine di ghermire per le falde dell'abito il
corpo di Ghio sguizzatogli di mano, fece a fidanza sulle squadre degli
insorgenti calabresi. Le rinvenne per verità, e con la sua arte
inimitabile di destreggiarsi sui monti, pensava molestare ed impedire
il Ghio di tanto, suscitandogli intorno nuove genti e nuove armi, che
le proprie divisioni avessero tempo di giungere.

Ghio aspettava la risposta; i soldati di lui cibavansi con penosa
incertezza le agnelle rubate, e noi, un migliaio che circuiva dieci
migliaia, in meno di due ore li avviluppammo. Il nemico diffuse tosto
in catena i suoi battaglioni di cacciatori e le offese stavano per
iscoppiare. Da un campo di maiz notavamo distintamente le esperte
manovre di quei cacciatori, e il generale Sirtori opinava ch'ei a loro
talento potessero tagliarci a fette tutti quanti. Sirtori guardava il
lato militare ed esterno della situazione e tornava difficile
obbiettargli; ma all'intuito di Garibaldi non isfuggiva la visione del
lato morale ed intrinseco. Conoscitore dell'aritmetica delle
rivoluzioni, computò su numeri misteriosi ma reali, e verun diverso
pensiero lo inforsava.

In questo mezzo spesseggiavano a manipoli i più lesti camminatori
delle nostre schiere ad afforzare le gracili file dei cappelli conici.

Smontati di sella, penetrammo fra le case del poggio che domina
Soveria. Garibaldi visitò i diversi posti: arditissimo quanto cauto ed
antiveggente, diede le disposizioni necessarie per la varia fortuna,
indi si collocò nel centro della prima linea a fianco d'una strada
incassata che precipita a Soveria. I nostri della destra trassero
alquanti colpi contro i cacciatori, ma i cacciatori tacquero. Nuovi
colpi e l'istesso silenzio. Allora s'intesero voci sparse di _Viva
Garibaldi, siamo fratelli_. Le medesime voci riecheggiarono fra i
borbonici.

Accostandosi via via e questi e quelli, si confusero insieme e si
abbracciarono.

--Adesso la pera è matura, esclamò Garibaldi.

Se non che il grosso dell'esercito nemico accampava in Soveria. A
mezzodì sopraggiunse un battaglione di Cosenz e si postò sulla strada
maestra. Allora il generale voltosi a me:

--Tornate a Ghio; gli do tempo a decidersi fino al tocco.

Andai col maggiore Caldesi. Avvertivasi già nelle truppe un incipiente
movimento di decomposizione e di sfacelo. Ma non trascorsero cinque
minuti, che vi capitò in mezzo Garibaldi, soletto.

Propagatasene elettricamente la notizia, un nugolo d'uffiziali
staccatosi dalle compagnie gli fece ressa intorno, anelando di
vederlo, di conoscerlo, d'ammirarlo. I fanti buttarono via i fucili, i
lancieri abbandonarono i cavalli, gli artiglieri i cannoni.

--A casa, a casa, urlarono tumultuariamente. E in meno di un'ora
quelle armi e quel campo furono nostri.

Garibaldi da Soveria andò a Napoli coi cavalli di posta.




IV.

Dittatura di tre giorni.


Era il 7 settembre del 1860. Il conflitto delle diverse violente
ineffabili emozioni provate in quel giorno del nostro ingresso
trionfale in Napoli, immezzo a trecentomila persone che piangevano di
gioia, che deliravano d'entusiasmo, all'improvviso e incruento
passaggio dalla schiavitù alla libertà, e alla vista della figura
raggiante e simpatica di Garibaldi emancipatore, aveva esauste le mie
forze. Sentii, all'avvicinarsi della notte, che il mio cervello non
reggeva oggimai ad alcuna reazione, quando al largo del palazzo
d'Angri, ove Garibaldi prese stanza, e in via Toledo, l'onda popolare
riagitandosi come in tempesta, migliaia di _carrozzelle_ montate
confusamente da donne, frati, soldati, cittadini, correndo su e giù
fra gli ululati di _Viva l'Italia una_, un immenso carro in forma di
bastimento, che tiravano sedici bovi fantasticamente bardati, trasse
con grande strepito davanti al palazzo, pieno di cantori e di
suonatori i quali eseguivano per la prima volta l'_Inno_ indi famoso.
Epperò appena finita la guardia, e il generale si coricò, consegnato
il mio indirizzo nel caso d'una chiamata, seguii un napolitano gentile
all'albergo suggerito da lui e mi trovai installato con mia moglie in
un quartiere confortevole, donde prospettavasi il Largo delle Pigne.

--Possibile, cominciò ella, l'ingresso in Napoli nel numero di
quattordici, e Garibaldi dittatore? Dicono puntati i cannoni di tutti
i forti sulla città e in armi quattordicimila soldati borbonici. Come
gli occhi del generale si dilatarono e l'aureola che circondava la sua
fronte fiammeggiò passando davanti alla reggia! i soldati affascinati
gli rendettero gli onori militari? hai...

--Sì, sì; lascia da banda le rapsodie, risposi guardando con avido
occhio il saccone elastico, le materasse egregie e le lenzuola di
bucato che m'invitavano dall'alcova con atti cortesi.

Dopo quattro notti dormite in vettura da Castrovillari a Napoli e
venticinque per terra da Aspromonte a Castrovillari col firmamento per
soffitto, la visione d'un letto soffice e la prospettiva di dodici ore
di sonno sembravanmi l'apice della umana felicità.

--Viene o non viene la cena? dimandai impazientemente al cameriere
entrato in quel punto con le mani vuote.

--Signore, un gentiluomo in abito nero, spada al fianco, fascia a
tracolla insiste di parlarvi. Lo accompagna un ispettore di polizia.
Quest'ultima frase fu aggiunta con evidente rincrescimento. La porta
dell'alcova, continuò il cameriere con frettolosa parola, mette ad un
corridoio e giù per la scala di dietro. Signore! additandomi la porta;
indi scomparve.

--Garibaldi in pericolo, dissi a mia moglie, e qui si fa la morte del
topo. I quattordicimila soldati pensarono che noi siamo quattordici.
Guadagnata la porta, proseguii: ricevili, e di' che vengo subito.
Proverò di raggiungere il generale; che imprudenza allontanarsi dal
palazzo! Tutto lo stato maggiore, meno Basso, sarà assente.

Ed ella:--Lasciami venire, se no, una seconda volta ci chiuderanno in
carcere separata.

--Che! anche se vieni non ci metteranno insieme. Non apparire così
smarrita: il caso per noi non è nuovo nè il peggiore. Ti ho detto che
cosa dovevi aspettarti quando volesti assolutamente accompagnarmi.

--Va, sono qui, rispose ricoverando il suo coraggio; ed io via come
una freccia.

Arrivato alla scala mi venne udito uno scoppio di risa. E un momento
dopo il personaggio colla barba bianca e la spada al fianco
stringevami, baciavami, e sfogava la sua contentezza con impeto
meridionale. Era Mignogna. Nacque in Basilicata, visse quindici anni
in galera coll'appendice della tortura, dieci in esilio ove io lo
conobbi. Sbarcò a Marsala coi Mille e lo rividi in agosto a Messina.
Di gran seguito nella sua provincia, precedette Garibaldi per
agevolargli la strada di Napoli.

--Scendete subito, così favellò, e venite con noi; la carrozza ci
attende. Vi presento Mele mio compagno di prigione e da stamane
ispettore di polizia, il quale vi desidera ospiti suoi.

Non valsero obbiezioni, si dovette obbedire senza indugi.

Il buon letto dell'ospite era troppo buono; abituato alla terra dura e
all'aria aperta, il chiuso della stanza pareva mi soffocasse, e la
morbidezza delle piume destavami la sensazione del vuoto; laonde girai
sino al mattino intorno a me stesso. Scesi, apersi la finestra che
dava in un poggiuolo e rimasi come uomo stupefatto davanti ad uno
spettacolo inatteso. La tenue luce dell'alba non toglieva alle lave
ardenti, che solcavano in due linee parallele e orizzontali il Vesuvio
a due terzi del suo dorso, l'apparenza di grandi masse rutilanti di
carbonchio. Sarebbesi creduto il cono del vulcano semiaperto da un
punto fisso a guisa di coperchio, e scorrente dall'immensa fessura un
fiume di gemme colate. Quel rosso cinabro intenso, ondulante,
contrastava decisamente con la tinta di calcedonio, la quale come velo
diafano involve la natura nei pochi minuti che precedono la comparsa
del sole. Gradualmente le lave sembravano disinfiammarsi e
impallidire, e il golfo di Napoli venivasi disegnando magnifico,
voluttuoso e inenarrabile. Ond'io poetando proruppi:--Splende così la
prima aurora della libertà!--Mentre mi cullava in cosiffatte
contemplazioni, erasi accalcata sotto il poggiuolo una turba da me non
avvertita di popolani che mi affisavano in silenzio. Appena rinvenuto
dalla mia estasi mi chinai a riguardare la contrada e tuonò un _Viva
Garibaldi!_ Avvedutomi che la camicia rossa causò l'assembramento,
feci una riverenza e mi ritrassi tirandomi dietro la persiana. Non
veduto, vidi che la folla tosto si diffuse e si confuse
nell'ondulatorio e perpetuo movimento di gente sulla spiaggia di Santa
Lucia. E lungo codesta spiaggia sorgevano in fila più di cento enormi
leggii, a quattro palmi l'uno dall'altro, e da tergo verso il
muricciuolo, a mare, tavoli e panche. Sorto il sole, ciascun leggìo
venne scoperchiato da un personaggio scalzo, scollato, in farsetto e
berretta frigia; spartivasi in caselle a scacchiera, ed entro ogni
casella parevami ravvisare un pezzo cristallizzato a colori
vivissimi.--Un museo mineralogico, pensai, sulla pubblica via! e i
curiosi naturalisti che ci sono in questo paese!--Riseppi che
ell'erano frutta di mare, e lazzaroni pescatori i seminudi Linnei. La
sera a quei tavoli s'accosta numerosa gente che, alla brezza del
golfo, cibasi con delizia grande di quei molluschi aperti, rose e
giacinti e fiordalisi marini mollemente natanti in un umore di
porpora. Ghiotta grazia di Dio onde ogni sera mi confermai lo spirito
e lo stomaco, assiso sulla panchetta al chiaro di luna col Vesuvio
all'ovest, il leggìo all'est, a settentrione il Castello dell'Uovo e
al sud il piatto di molluschi. E a quella mensa degli Dei trassi
parecchi de' miei commilitoni, e si combinò per la sera del 12
settembre un'imbandigione in tutta regola. Io m'impegnai per le frutta
di mare, le ostriche, il pane; Nullo pel vino di Capri e i maccheroni,
altri pel Lacrima-Christi e le angurie.

Sul mezzodì del 12 di ritorno al palazzo d'Angri da una visita al
Castello dell'Uovo, mi si chiamò con premura alla Segreteria. Il
colonnello Bertani, segretario generale del dittatore, mi presentò un
signore sui cinquant'anni, d'aspetto grave, di faccia e di persona
quadra come il _miles romanus_, vestito in nero, giubba a tagliere,
cravatta bianca e berretta da capitano nella mano sinistra su cui
brillava un cammeo. Nel mentre m'affacciai sulla soglia della porta,
questi stava parlando con accento vibrato, con fisonomia alterata, in
piedi.

--Ho capito, me l'ha già narrato, interrompevalo Bertani con manifesta
impazienza, e contento del mio apparire volsemi il discorso:--Il
signor B..., sindaco di Forio d'Ischia.

Il sindaco, sbirciatomi in un baleno, non mostrossi molto entusiasta
di me, e me ne accorsi da una leggera e velocissima contrazione che
sorpresi sull'angolo destro della sua bocca. Certamente egli immaginò
un uffiziale superiore splendido di ricami d'oro, algerina di
_cachemire_ bianco sulle spalle, stivali alla scudiera e speroni
affibbiati, onde riluceano le sale del palazzo d'Angri. Ma
disgraziatamente io non ero che luogotenente, avevo un cappellino nero
conforme a quello di Garibaldi, fatto rossastro dal sole e dalle
rugiade notturne, tutto gualcito perchè mi servì di guanciale durante
la campagna; avevo un paio di calzoni di panno grigio e una tunica
rossa annerita all'ingiro dalla cintura della spada e con larghe
macchie di terra e d'erba.

--Il signor sindaco, proseguì Bertani, giunse testè apportatore della
triste novella che a Forio d'Ischia scoppiò una forte sommossa a
favore del governo caduto, la quale egli opina si dilati e possa
mettere sossopra tutta l'isola. Con grave pericolo remigò sin qui per
chiedere al governo aiuto immediato, un uffiziale energico che
comandi, mezzi sommarî; per offerirsi ad ogni sbaraglio, e promettere
l'uso della propria influenza nella parte liberale, sorpresa e
battuta, ma coraggiosa e capace d'alte prove se soccorsa in tempo. Il
dittatore non dissimulò il turbamento cagionatogli dalla inaspettata
notizia, e dopo breve silenzio disse:--Manderò A. M.; e ci licenziò.
Egli ti attende per darti le debite istruzioni. E, rivolto al sindaco,
soggiunse:--Si affidi a questo uffiziale, e vedrà in poco d'ora
sbarbato ogni segno di ribellione nell'isola.

Malgrado la scelta di Garibaldi, malgrado le assicurazioni così
formali del suo segretario, il sindaco non parve molto soddisfatto, e
chinato il capo e gli occhi, aperte le braccia lungo le coscie tanto
da formare con queste e col gomito per vertice due angoli acuti, con
aria rassegnata rispose al segretario:--Eccellenza!

--Addio frutta di mare! mormorai gemendo: e rammemorai l'_adieu rotî_
di Rousseau fanciullo mandato a letto prima di cena.

Ritornando nell'anticamera del generale con cera scura, col cappellino
all'orecchio, strascicando la sciabola sui pavimenti di maiolica delle
sale, non curai la solita gente addensata sull'uscio e trattenuta
dalle sentinelle: chi guaiva _eccellenza!_ chi _colonnello!_ chi
_signorino_, chi _bacio le mani_, e chi tacendo alzava l'indice per
significare _ascoltate una sola parola_. Ed io soleva essere loro
forse più che altri cortese; respinti quasi sempre da' miei camerati,
ne introducevo al generale quanti più mi veniva fatto, imperocchè egli
non accomiatava veruno sconsolato. E udii storie pietose di domestici
lutti incredibili e ignorati, perchè la mano di Ferdinando II arrivava
terribilmente ove l'occhio sempre non arrivava. Ma questa volta tirai
diritto con cuore indurato ed entrai nella camera del generale a
ricevere gli ordini. Bertani e il sindaco mi tennero dietro.

--Andate subito in Ischia, mio rappresentante con pieni poteri.

Il sindaco esclamò:--_Alter ego_, e Bertani gli tirò la falda della
velata in segno di silenzio. Il sindaco balbettò sotto voce:--_Aggio
caputo_.

Il generale continuò:--Domate la ribellione, restituite la libertà e
tenetemi ragguagliato.

--E se occorre...? io domandai raffigurando con le braccia uno
schioppo spianato.

--Siate giusto e umano.

Ritiratomi, Nullo in anticamera mi fece:--Mandai il vino di Capri e i
maccheroni a casa tua.

--Rimanda a pigliarli.

--E perchè?

--Vo in Ischia.

--Ai bagni?

--Ad eseguire una _Sainte-Barthélemy_.

--Che!

--C'è la reazione in armi. Forio cadde in sua mano.

--E le frutta di mare?

--Al ritorno.

--Ma se cadi?

--Offrile a' miei Mani e fa le libazioni d'uso.

Per ischivare i petenti e i piagnoni del corridoio principale, me ne
andai da una porta secondaria. Nel vestibolo del palazzo il sindaco,
che mi corse a panni, toccatomi leggermente una spalla, disse a capo
scoperto.

--Signor colonnello, la mia carrozza è costì a vostra disposizione.

Ed io seccamente:--Non sono colonnello.

--Perdonate, colonnello; il segretario mi commise di consegnarvi
questo documento firmato dal dittatore, che comprova l'autorità
conferitavi dell'_alter ego_.

--Sta bene.

--Ci vorrà un battaglione per isbarcare nell'isola autorevolmente. A
quale caserma comandate, colonnello, che il cocchiere ci conduca?

--All'ospedale dei feriti di San Sebastiano.

Salii in carrozza, e veduto a caso sul portone un giovinotto lombardo,
sergente che appartenne all'Istituto militare di Palermo:

--Siete in servizio? gli dimandai.

--Nossignore.

--Avete la rivoltella?

--L'ho.

--Montate in cassetta.

A San Sebastiano feci chiamare mia moglie occupata nella
trasformazione del Collegio dei Gesuiti in ospedale, e la informai di
che si trattava.

A cui ella:--Vengo anch'io. Non vi ha feriti in Napoli, e dobbiamo
sospendere ogni altra preparazione finchè non giunga l'ambulanza
generale.

Ond'io al cocchiere:--Ora a Pozzuoli.

Il sindaco, pietrificato, mi guatava con pupille stupide, e io leggevo
sulla sua fisonomia:--Codesto originale forse si pose in capo di
soffocare la rivolta con un sergente, con una pistola, con una
moglie!--Ma non osò fiatare a cagione del mio muso duro. Egli si
lusingò che io avrei guidato una schiera dei vincitori di Calatafimi e
di Milazzo per dare la caccia ai villani d'Ischia e per guardia
d'onore di lui nel suo ingresso in Forio. Intanto dovette starsi pago
che nessun contrassegno di grado mi distinguesse, onde a suo agio
poteva chiamarmi e annunciarmi colonnello.

Percorremmo via Toledo, Largo di Palazzo Reale, e voltammo a Santa
Lucia. Una fitta moltitudine, intesa ad ascoltare un frate che
predicava da una bigoncia a ridosso della fontana di marmo bianco
edificata al tempo degli Spagnuoli, ingombrava l'ampia via verso la
metà. Dietro la bigoncia sorgevano due trofei d'armi antiche di
cartone, involute di fasce tricolori, e a sinistra un fazzoletto di
seta a banderuola col ritratto di Garibaldi. Abbiamo impiegato cinque
minuti per penetrare nel cuore della folla dirimpetto al frate, ove
fece mestieri d'arrestarci. Il frate,--uomo di sessant'anni; bianchi i
capelli e la barba; di tinta ulivigna; d'occhi chiari; di sopracciglia
lunghe, foltissime e nere, che conferivano al suo sguardo una virtù
soggiogatrice; alto, asciutto e vigoroso delle membra; tuonava con
voce terribile; la sua posa era artistica, i suoi movimenti tardi,
appropriati ed energici. Quando stendeva le braccia davanti a sè con
mani aperte, le dita strette e il guardo fiso e immoto, quella massa
di donne e di lazzaroni curvavasi in figura di vasta onda di mare. Il
frate irradiava sulla folla una corrente magnetica come sovra una
sonnambula. Durante la sosta ci vennero udite le seguenti parole in
dialetto napolitano:

--... Ora che sapete che cosa ha fatto, vi dirò chi è. Giù le
berrette, popolo peccatore; guarda lassù, a Iddio e implora ch'ei ti
renda degno d'ascoltare la verità. Lassù!

Nel pronunciare questo avverbio, il frate mago, sollevato il braccio
destro, appuntò l'indice al cielo con sì imperioso gesto che le mille
teste della muta e commossa moltitudine macchinalmente si alzarono e
parea invocassero la discesa dello eterno spirito. Trascorso qualche
minuto secondo, il frate ripigliò:

--Or bene; nel fondo dell'anfiteatro di Pozzuoli, san Gennaro, alla
vigilia del martirio, chiamato a sè l'unico figliuolo, gli disse: «Va,
fuggi, affidati a una barca e remiga verso la Liguria; là sarai salvo,
là dai figli dei tuoi figli nascerà un figlio maschio, con capelli
come i raggi del sole, con faccia di leone, che non berrà vino nè
bibite forti, che si nudrirà di frutti della terra e avrà nome
Zibeppe, e gli uomini lo conosceranno dalla camicia rossa intinta nel
mio sangue, di cui dimani empierai un'ampolla che porterai teco in
esilio. Codesto mio nipote diletto tornerà alla terra de' suoi padri
vendicatore e redentore; i tiranni che avranno contristato il mio
popolo napolitano dilegueranno davanti a lui, e a questo popolo egli
apporterà libertà e maccheroni...

A tal passo della orazione, il sergente, tolte le redini di mano al
cocchiere, spinse i cavalli a suon di frusta, la folla s'aperse, il
rumore delle ruote soperchiò la voce del predicatore, e una triplice
risata traboccò dalle labbra del sergente, di mia moglie e dalle mie.
Il sindaco serio, e forse offeso della nostra empietà, spingando le
mani su e giù delle saccoccie, faceva le fiche contro la jettatura.

Il cocchiere, il quale probabilmente adottò la medesima precauzione
del sindaco, avvedutosi soltanto della risata del sergente, ne lo
redarguì con la seguente intemerata:

--Il signorino ha torto di ridere al padre Pasquale: egli è un
sant'uomo; ha patito dieci anni in catene al bagno di Nisida, per la
causa del popolo. Non riderebbe mica il signorino se conoscesse quanto
il padre abbia lavorato per convertire codesti infedeli di Santa
Lucia, serbatisi tutti affezionati a Bombino, finchè li convinse che
Zibeppe procede da san Gennaro.

Velocemente passato Chiatamone e Chiaia, pervenimmo alla Grotta di
Posilipo, al disopra della quale vuolsi sepolto Virgilio.

--L'ha scavata Lucullo o Agrippa? chiesi al sindaco per distrarlo e
porlo nell'imbarazzo.

Ma il valentuomo mi regalò una lezioncina di storia e di archeologia.
Citò gli autori che opinavano per Lucullo e quelli per Agrippa;
dimostrò l'insussistenza delle due opinioni, e conchiuse sostenendo
averla scavata in più rimoto secolo i Cumei e i Napolitani insieme,
per reciprocità commerciale; e con ciò capitammo a Pozzuoli.

Il governatore di Pozzuoli, da cui l'isola d'Ischia dipendeva,
avvisato per telegrafo del mio arrivo, s'affrettò all'albergo ove
discesi. Lo interrogai quali fossero le ultime notizie d'Ischia.

Ed egli:--Quelle portate dianzi dal sindaco.

--Mandaste esploratori?

--Mandai un esploratore, il quale non tornerà prima delle undici.

--Nessun abitante dell'isola si mostrò in Pozzuoli?

--Il sindaco.

--La guardia nazionale è armata?

--Un battaglione di cinquecentosei uomini.

--In quanto tempo può raccogliersi?

--Sta schierato vicino al porto per far onore al rappresentante di
Garibaldi.

--Sarebbe disposto a marciare?

--Una buona metà.

La consegna d'un dispaccio da Baja troncò il dialogo fra il
governatore e me. Nel forte di Baja esisteva il massimo deposito di
polveri dello Stato; artiglieri e fucilieri borbonici lo custodivano.
Alle intimazioni di resa risposero temporeggiando; uno di loro, nativo
di Baja, disertore, narrò aspettarsi dal presidio nella notte tre
legni borbonici per caricarvi le polveri e trasportarle a Gaeta, e
giudicò possibile dal canto nostro un assalto improvviso sulla fiducia
del presidio nelle trattative.

Provvidi che nella notte trecento della guardia di Pozzuoli insieme ai
militi di Baja circuissero il forte, ne impedissero l'uscita e
l'entrata, intimassero la resa alla dimane e all'uopo procedessero
all'assalto. Assegnai ai rimanenti del battaglione l'officio di
riserva in Pozzuoli, raccomandai al governatore di vigilare e trasmisi
un telegramma a Garibaldi.

Passato in rassegna il battaglione e tenutagli una breve concione
marziale, il sindaco, che avevalo covato con gli occhi, chiesemi
flebilmente:--E per Ischia?

Ed io asciutto asciutto:--Il mio sergente.

Scendemmo al porto ove stava pronta una snella barca veliera.
Traversando la piazza, osservai due statue collocate di prospetto ai
due lati opposti, una di Lollio pretore e augure, l'altra di San
Gennaro in sul punto di benedire. Questo contrasto di cattolicismo e
di paganesimo, la coesistenza di due mondi, di due civiltà, di due
tradizioni contradditorie che si additano ad ogni passo nella
provincia di Napoli, riflettesi nella gente napolitana in cui si
confondono ingegno arguto e grossa superstizione, in cui si combinano
Vico e Pulcinella. Interrogai il sindaco se san Gennaro trinciasse
contro la jettatura dell'augure.

Ed egli di ripicco, punto dal mio irriverente sarcasmo:

--No, colonnello, benedice ai fedeli, perdona agli empî e prega per
tutti.

Dissimulando la freccia scoccatami con tanta destrezza, entrai in
barca e ci ponemmo alla vela.

Mancavano due ore a sera. Il sole dell'occidente vestiva di porpora il
golfo di Baja che incurvavasi sulla nostra diritta. La barca
veleggiando da Pozzuoli al Capo Miseno tracciava la corda dell'arco.
La molle aura, le tinte calde e vaporose dell'autunno, il mare oleoso,
la calma della natura, la presenza augusta di ventidue secoli di
storia che pareano figure solenni assise sui gradini dell'immenso
anfiteatro, conciliavano al silenzio e alla contemplazione a cui non
s'è mai così disposti quanto dopo la tumultuosa vita degli
accampamenti, la tensione morale delle rivoluzioni, le sensazioni
irritanti dei pericoli, e le logoranti fatiche di una lunga campagna.
Nell'incanto di quella scena, nel cumulo di tante memorie, nello
spettacolo di tante rovine, vidi Annibale minacciar Miseno; assistetti
ai funerali di Scipione, schivo della patria ingrata, a Literno;
all'agonia di Silla in Pozzuoli; di Tiberio alla Dragonara; e di
Porzia in Nisida; udii il tragico _ventrem feri_ di Agrippina
all'imperatore matricida ripercotersi d'eco in eco sul lago Lucrino;
penetrai nelle logge principesche della villa di Cicerone mentr'egli
componeva _Le questioni accademiche_; seguitai con ansia Bruto che
studiava un rifugio nei giardini di Lucullo; salii sul cassero della
nave capitana di Sesto Pompeo nel quarto d'ora in che i Triumviri a
cena spartivansi il mondo romano; visitai la flotta d'Augusto
all'àncora; guardai al trionfo di Caligola sul ponte costrutto fra
Pozzuoli e Baja, all'esercito sul ponte, al notturno sole di milioni
di fiaccole, al banchetto, al proditorio tonfo in mare dei magistrati
imperiali e degli amici dell'imperatore briaco; ripopolai la costa dei
circhi, dei portici, dei giardini, delle ville, dei templi di Nettuno
e di Venere genitrice, delle stufe e dei bagni di Nerone, del palazzo
di Cesare, della Piscina mirabile, della gioventù elegante di Roma, e
nel mio entusiasmo classico ruppi il lungo silenzio declamando quel
verso d'Orazio:

    _Nullus in orbe sinus...._

Il sindaco terminandolo:--_Baiis praelucet amenis_.

--Precisamente! io soggiunsi, e le fantasime sparirono.

Intanto s'era girato il Capo Miseno, ed ecco le isole di Procida e
d'Ischia, e verso levante Cuma e le rive euboiche celebrate da
Virgilio.

--Costà, narrò il sindaco affisando la parte esterna del promontorio,
si pescano eccellenti murene; presso al lido sorgeva la villa
dell'oratore Ortensio, il quale pescava gli antichissimi avi delle
presenti murene, e avevane addestrata una che alla sua voce accorreva
a lui e attirava perfidamente le compagne nell'agguato.

--Domata la ribellione, imbandirete la nostra tavola dittatoriale
colle ultime nipoti delle murene d'Ortensio.

--Colonnello, la pesca in questa notte medesima.

Già al corto crepuscolo succedeva la notte; ancora un miglio, indi
sbarcammo in Procida sulla costa di San Cattolico.

Traversammo l'isola a piedi, con un appetito che la brezza marina acuì
e più acuto allora rendevano gli effluvî degli aranci e dei cedri. Per
giunta lo spietato sindaco ci descrisse le migliaia di grassi fagiani
e di francolini della caccia reale di Procida. Laonde fra le murene
dell'indomani della lotta e i francolini che presumevamo mangiare la
vigilia ci sembrava mill'anni di arrivare alla prima stazione del
viaggio. Il sindaco continuò il racconto nella seguente conformità:

--Con regio bando proscritti dall'isola tutti i gatti, nel secolo
scorso, per non danneggiare la propagazione di quei nobili augelli, in
pochi anni moltiplicarono a miriadi i ratti e divennero una
spaventevole calamità. Giardini e case e chiese e sagrestie e armadi,
e fin'anco le canne d'organo, ogni cosa invasero e rosero codesti
ratti; le provvisioni domestiche; i cadaveri prima della sepoltura, i
ragazzi nelle cune giacquero in preda dell'orribile flagello. L'isola
diventò inabitabile. Finalmente i paesani corsero ai piedi del re,
seminando sul suo passaggio un gregge di tali quadrupedi, e ottennero
la revocazione del disastroso decreto. Tolta poscia la caccia, ora e
fagiani e francolini abitano il parco di Caserta.

La chiusa gelò sul labbro la sensazione di piacevolezza che l'aneddoto
vi dipinse.

Dall'opposta sponda della Cornicella, sovra altra barca tragittammo lo
stretto canale che separa le due isole, e approdammo in Ischia.

Posto piede sulla terra ribelle che al nuovo sole mi proponevo di
percuotere col braccio della mia plenipotenza, il sindaco ci condusse
ad una casa due miglia lontana da Borgo d'Ischia. La padrona
introdusse dittatore e dittatrice in una modesta camera da letto e
favellò in questi sensi:

--Ecco i fiammiferi, ed ecco la bottiglia d'acqua. Posso servirli?

--Grazie, noi rispondemmo, ed ella partì.

Acconciatomi in fretta, discinta la spada, camminando su e giù per la
stanza, e stropicciandomi le mani, aspettavo cupidamente la chiamata a
tavola.

--Tu fai il moto della fiera nella gabbia poco prima del pasto,
osservò mia moglie; ma non ravvisasti nel saluto della padrona una
bella e tonda _felice notte_?

--Tu mi sgomenti! esclamai.

Indi a mezz'ora uscii tentando la via della cucina.

Silenzio, fuoco morto, e lumi spenti. Il sergente dormiva
nell'anticamera il sonno dello sfinimento sovra una sedia, il sindaco
russava sul sofà, e i padroni di casa eransi ritirati.

--Signor sindaco! gridai scuotendolo senza cerimonie.

Il pover uomo, fregandosi gli occhi, balbutì:--Colonnello!

--Si costuma l'ospitalità dell'arcivescovo Ruggeri nella vostra isola?
Qui si sviene di fame.

--Colonnello, siamo discosti dal Borgo e in casa, non esiste bricciolo
di pane.

Il sergente svegliatosi m'informò che ad un ricco proprietario del
Borgo, il signor L..., non parrebbe vero d'offrirci la cena, ma che il
sindaco volle conservato il secreto sulla nostra presenza nell'isola.

--Vi do tempo un'ora, e altre parole non vi appulcro--cantai al
sindaco ponendolo sotto custodia del sergente, e rientrai nella mia
camera.

--Indovinasti!

E la moglie a me sorridendo:--Mi congratulo del perfettamente assunto
piglio dittatoriale!

Accesi il sigaro, mi gettai sul letto senza speranza a meditare sulla
vanità delle umane grandezze, e così gemei:

--Sovrano assoluto dell'isola e arbitro dei destini di
ventiquattromila abitanti, mi tocca venire a letto senza pranzo e
senza cena! E dopo una pausa ripigliai:--Il sindaco forse suppose che
i garibaldini si pascano di vento come il Rabicano dell'Ariosto; o
forse divisò vendicarsi del mio umile sbarco, senza seguito di
soldati, senza rumore di proclami, senza pompa proconsolare, siccome
egli dee avere fantasticato sull'ali della sua classica erudizione, e
promesso a' suoi amici politici.

Adagio adagio mi si velarono gli occhi e i pensieri e m'addormentai.
Lo stomaco travagliato agendo sul cervello con vibrazioni ineguali vi
suscitò imagini strane e sconvolte; sognai asserragliamenti e campane
a stormo; sognai che il sindaco mi calava in un pozzo, mentre Nullo,
Giulio Cesare e simili eroi divoravano murene, frutta di mare e
francolini.

--Signor dittatore, la cena in tavola, disse mia moglie svegliandomi.
Come Nerone avreste incendiata la vostra Roma, se non levavo in tempo
il sigaro caduto sulle lenzuola.

Il signor L..., rinvenuto dal sindaco, fornì la mensa di pane, di vino
e d'un piatto di calamari e di naselli pescati appositamente.
Trattandosi d'un uffiziale di Garibaldi, i pescatori del luogo
volontieri diedero mano alle reti nell'insolita ora, e per tutta
ricompensa vollero vedermi, assicurarsi ch'ero uomo come gli altri
uomini, e, secondo la consuetudine delle Sicilie, baciarmi la mano. Il
signor L...., che interrogai sullo stato dell'isola, ripetè le notizie
di gravi torbidi in Forio sparse il mattino dal sindaco, e soltanto
aggiunse che il battello a vapore, il quale salpa da Forio a mezzodì e
soffermasi a Borgo d'Ischia per Napoli alle due, non ricomparve, che
Borgo e i territori di Casamicciola e di Lacco favoreggiavano
caldamente la causa d'Italia e Garibaldi.

Ingiunsi al sindaco di spedire immantinenti una staffetta a' suoi
amici in Forio avvertendoli del mio sbarco, e mandai ordine al
comandante la guardia nazionale di Borgo di distaccare alle sette del
mattino una compagnia per una passeggiata militare verso Casamicciola
e mezza compagnia per girare il monte Epomeo al lato opposto fino a
tre miglia da Forio, e incaricai il signor L... di procurarci le
cavalcature.

L'isola è un gigantesco cono vulcanico, la cui base ha un circuito di
diciotto miglia, e il vertice elevasi all'altezza del Vesuvio. Questo
cono si appella monte Epomeo. Noi viaggiavamo lungo la costa
settentrionale fra gli olivi e i vigneti che rivestono da cima a fondo
l'isola meravigliosa. Il sindaco ci illustrò ogni zolla e ogni sasso
con erudizione d'antiquario e d'agricoltore.--Narrò che un terremoto
separolla da Procida; che Omero e Pindaro l'appellano _Inarima_ perchè
abitata da scimmie, che le incessanti esplosioni vulcaniche la
mantennero deserta sino ai tempi del re Jerone; che nel 1302 venne
nuovamente derelitta da un ombrello di fuoco emerso dalla Solfatara
pel corso di due mesi; che nel 1440 Alfonso d'Aragona ne cacciò tutti
gli abitanti maschi e costrinse le vedove a sposare uomini catalani e
spagnuoli. Poscia si diffuse sulle sorgenti termali di Castiglione e
di Scroffa, e ci fece gustare il _duplice ficu_ cantato da Orazio.

Sostammo allo stabilimento dei bagni di Casamicciola, a corta distanza
dal focolare della rivolta. Io stetti alquanto perplesso sul partito a
cui appigliarmi: la ragione militare suggerivami l'uso delle armi; ma
a me, soldato della libertà, ripugnava il versare sangue cittadino.
D'altra parte non eranmi ben chiari, dalle informazioni del sindaco,
la portata, l'indole e l'oggetto della insurrezione: a lui più d'ogni
altra cosa caleva persuadermi della necessità di raccogliere in sua
mano temporaneamente ogni potestà di toga e di spada. La situazione
poteva aggravarsi con una irruzione di borbonici della vicina Gaeta;
però riseppi che da tre giorni non segnalossi alcuna delle due navi di
Francesco II. Sembravami consiglio prudente piantare il mio quartiere
generale a Casamicciola, commettere ai sindaci dei comuni fedeli di
spedire in fretta distaccamenti di guardie nazionali verso la cima
dell'Epomeo soprastante a Forio, che avrebbero formato il centro del
corpo d'operazione; poi di mandare in Forio, oratore, il mio sergente,
intimando di deporre le armi e d'inviarmi deputati.

Se non che lo spirito garibaldino, forse per alcuna ora sopito nel mio
cuore, si ridestò repente e disperse tutte sì fatte anticaglie.
Rammentando che entrammo in quattordici a Napoli e che Napoli fu
nostra, scrissi un biglietto di contr'ordine alla guardia del Borgo e
comandai al mio seguito:--A cavallo per Forio.

Dissi e me ne andai dalla sala troncando a metà il gesto e la parola
del sindaco allibito. Rimontammo sui nostri asini, io in testa di
colonna, poi mia moglie, poi il sergente e in coda il sindaco.
All'ultima svolta della strada, un miglio da Forio, nuvoli di polvere
annunciavano la popolazione in marcia. Appena i ribelli ci potettero
discernere, s'intese un fragore come di tuono, e i più prossimi a noi
correndo e ululando ci si avventarono addosso con aspetto di
forsennati, ci abbracciarono e baciarono piangendo e delirando. Era
una miscela di ragazzi, di signore, di contadini e di giovani
bennati.--Garibaldi! Garibaldi! Biondi la barba e i capelli, mi
scambiarono per Garibaldi. Li assicurai che non ero Garibaldi.

---Non importa, è la stessa cosa.

Alcuni notabili presero le redini del mio asino; le signore e le
fanciulle, vestite di bianco e ornate di bende tricolori, circondarono
mia moglie, e una di loro spiegò su lei un'ombrella di damasco e
d'oro, l'ombrella del Viatico, e le colmarono il grembo di mazzi di
fiori che ad ogni passo dell'asino cadevano a destra e a mancina e
venivano surrogati da nuovi mazzi. Nel momento dell'ingresso in città
si udì uno scoppio di mortai, il suono di tutte le campane e di bande
musicali; le finestre parate di scialli e di tappeti; la contrada
letteralmente coperta di frondi e di fiori, e noi si procedeva sotto
una pioggia di confetti e di ghirlande. Sulla piazza la guardia
nazionale schierata ci presentò le armi; il rullo dei tamburi
s'aggiunse all'assordante frastuono delle voci, delle campane e agli
interminabili spari di mortai. A sinistra sorgeva un altare posticcio,
altissimo, sfarzosamente addobbato con numero grande di candele
accese; un prete in piviale e due ale di chierici in cotta agitavano
turriboli e cantavano il _Benedicite pueri Dominum_.

Frattanto i gentiluomini palafrenieri guidavano il mio ciuco oltre il
palazzo di città e inutilmente li supplicai di condurmi a casa.

--Eccellenza, mi ripetevano, consentite questa soddisfazione al popolo
che brama vedervi.

E dovetti adattarmi di percorrere tutti i viottoli di Forio su quella
semiseria cavalcatura.

Rinvenuto dal primo stupore di essere accolto a mazzi di fiori anzi
che a colpi di fucile, curai con diligenza di schivare lo sguardo
della moglie durante il lungo supplizio di cosiffatta processione. Ma
ritornando dal capo d'una fra le vie minori mi trovai necessariamente
viso a viso con lei, la quale malignamente m'indirizzò queste
parole:--Salut, roi d'Yvetot.--La somiglianza al re modello che

    _Sur un âne pas a pas
    Parcourait son royaume,_

m'ha colpito sì vivamente, che dovetti mordere il labbro per mantenere
la serietà, sforzo tanto più difficile, avvenga che strappatasi la
logora cigna del basto, non mi sentivo in grado di smontare, certo di
non mettere a terra i piedi per primi, nè mi sentivo saldo in arcione
nel su e giù delle contrade in collina. Colavami a goccioloni il
sudore per le guance, all'idea di compromettere con ignobile caduta la
gravità della suprema magistratura!

Il sergente dal suo canto aveva pigliato la cosa in sul serio, e gli
applausi, onde fu coperto a cagione della camicia rossa, se li prese
per sè, proprio per sè. Spacciatosi mio segretario, accoglieva
suppliche, accordava patrocinio, dava speranze d'impieghi, di
promozioni, e in breve gran frequenza di clienti ingombrava la sua
anticamera, ove piantò in qualità di sentinella e di usciere un milite
della guardia nazionale del picchetto destinato al mio appartamento.

Il municipio, i magistrati, l'uffizialità della guardia, molti
spettabili cittadini spesseggiarono alla mia residenza in atto di
omaggio al luogotenente del dittatore. Io risposi rallegrandomi che al
solo mostrarsi della camicia rossa, simbolo di libertà e di giustizia,
la reazione borbonica di Forio, che afflisse l'animo di Garibaldi,
fosse scomparsa; segno indubitabile che una minoranza audace soverchiò
la popolazione con istantaneo assalto. Soggiunsi che, risoluto di
estirparla senza pietà, di soddisfare alla ragione del popolo, di
avviarlo col lume del diritto e della moralità nella vita nuova, io
facevo assegnamento sui nobili istinti di esso, sulla cooperazione
delle autorità, sul coraggio della guardia nazionale e sui consigli
disinteressati degli uomini liberali. E terminai:--Se dovremo
combattere, io sarò primo al pericolo, fiero di esporre la mia vita
per la salute degli abitanti di Forio.

Finita la concione, aspettavo che gli uditori, stesa la mano in atto
di chi giura, si profferissero difensori deliberati della terra nativa
e della patria comune.

Tacquero tutti, mirandosi l'un l'altro con occhio smarrito; pareva che
quelle fisonomie e quell'atteggiamento significassero o ch'io
farneticavo, o che eglino avevano paura. Il mio discorso cascò come
carbone acceso in una secchia d'acqua. Girai il guardo in cerca del
sindaco: chiesi di lui; ei s'era ritirato. Invitai il comandante della
guardia nazionale ad avvicinarsi, e più voci risposero:--Il comandante
è il sindaco. Al silenzio e alla immobilità un sommesso favellìo
sottentrò, e un decomporsi e ricomporsi in gruppi diversi come di
gente che affrettatamente ponga in sodo un'idea. Alfine un
sottotenente della guardia nazionale, avanzatosi quale interprete del
sentimento collettivo, disse:

--Eccellenza, il signor B..., uomo ricco, ambizioso e prepotente, si
fisse in capo d'esser a un tempo sindaco e comandante della guardia.
La violazione della legge e la incompatibilità delle due funzioni
provocarono rimostranze per parte della guardia a cui appartiene il
fiore della cittadinanza. Nel breve periodo della costituzione di
Francesco II l'abuso passò liscio; ma, fuggito Francesco davanti a
Garibaldi, lo s'invitò formalmente di dimettersi da uno dei due
uffizî. Infiammato da' suoi criati, diniegossi con alterigia di
rendere ragione al diritto, sostenendo che tale concentrameto di
poteri consuonava col governo dittatoriale, e che, nel rimutato ordine
pubblico, lo spirito turbolento della nostra plebe doveva rattenersi
con mano vigorosa. Il malcontento, sceso immezzo al popolo di cui egli
mostrossi sempre schivo e dispregiatore, cominciò a manifestarsigli
con dimostrazioni palesi di ostilità. Si riseppe aver egli detto che
sarebbe corso a Napoli e tornato con un battaglione di garibaldini per
ridurre a segno questa canaglia. Quindi l'altr'ieri sera una turba di
popolo, eccitata dagli emuli di lui, irruppe irritatissima verso le
sue case imprecando e minacciando. In quell'impeto scattò qualche
colpo di fucile e di pistola; ed egli si sottrasse destramente al
pubblico risentimento, e col favore dell'oscurità gli è venuto fatto
di gettarsi in una barca, d'irsene a Pozzuoli e di là a Napoli. Se
l'hanno rispettato nel vostro ingresso in Forio, ciò avvenne per
ossequio a Vostra Eccellenza.

--Ma la reazione borbonica? io dimandai.

--Nessuna reazione al mondo, nessun fatto all'infuori di quanto
esposi. Gli abitanti di Forio caldeggiano la libertà e adorano
Garibaldi. Il sindaco ha calunniata la sua città.

Gli astanti accennarono affermativamente alle parole dell'oratore,
tranne un solo:

--Il signor B... è uomo ambizioso, questi rispose, e il sentimento
della vendetta talvolta lo acceca; ma ponete a calcolo, Eccellenza, i
molti e influenti partigiani di lui, il disinteresse e l'integrità
sua, e la valentìa nell'amministrazione della cosa pubblica.

La rivelazione inattesa e difficilmente indovinabile del sottotenente
lumeggiò senza misericordia il lato grottesco e ridicolo della mia
arringa melodrammatica.--Sindaco empio! mormorai fra i denti.

Dissimulando alla meglio lo stato mio deplorabile di quel momento, mi
congratulai della levità dell'evento, promisi riparazione pronta, li
pregai di deporre alla porta il loro nome e il loro indirizzo, e con
leggero inchino li accomiatai.

Rimaso soletto, dovetti sorridere della burla, beatissimo del resto
che la fosse una burla. Pure non mi riesciva di capacitarmi come mai
il sindaco immaginasse d'ingannare così goffamente il governo e me, e
di farci strumenti per la sua riconferma di tiranno di Forio. Non
volli giudicarlo sovra un'accusa, veridica nell'insieme ma ostile
nello spirito, e tenendo conto delle osservazioni del secondo oratore,
m'affiatai in singolare colloquio con parecchie persone avverse e
favorevoli all'accusato. E conobbi che la città, divisa d'antico,
soggiaceva alle influenze rivali di due famiglie, la famiglia B... e
la famiglia R..., che il B..., uomo di molte lettere, di più gagliardo
animo e più opulento degli R..., comechè questi gli soprastassero per
nobiltà di casato e per l'affezione del popolo, ottenuto l'uffizio di
sindaco, assunse anche il grado di comandante della guardia perchè non
l'avesse qualcuno degli R..., temendo il rivale armato; non rinunciò
alla carica di sindaco perchè intollerabile a lui la dipendenza, quale
comandante della guardia, dal padre degli R... sindaco inevitabile.
Conobbi che il messo spiccato il mattino dal signor B... recava
istruzioni affinchè, tenuta occulta la mia venuta, gli amici di lui al
mio ingresso in città mi circondassero in attestato di onoranza,
impedissero che altri m'avvicinasse, mi ragguagliassero a loro modo
sugli eventi, mi spiegassero i segni sicuri di animavversione popolare
contro essi e contro il B... quali riprove della reazione, e
m'inducessero a riaffidare le due spade al B... come provvedimento
eccezionale consigliato dalla situazione. Conobbi ch'egli procacciò si
trattenesse in porto a sua disposizione il battello a vapore, a ciò
che io stessi separato dagli altri anche nel ritorno. Ma il signor
L..., il nostro anfitrione di Borgo d'Ischia, aveva anch'egli
trasmesso avviso della mia visita a Forio, epperò tutta la tela ordita
dal sindaco cadde in un batter d'occhio sfioccata e guasta.

Mandai a chiamarlo. Egli avea illividita la gota, ma tranquillo il
sembiante, e cominciò:

--Colonnello, le murene d'Ortensio, pescate oggi, sono in Forio.

--Sono pure in Forio, signor B..., i granchi al secco che pigliaste in
questi due giorni.

--Signore, non vi comprendo.

--Entro mezz'ora rimetterete in mie mani il sigillo della città. Voi
non siete più sindaco.

Quivi mi fece la riverenza di persona rassegnata e obbediente.

--Nominerò sindaco in vece vostra il signor R...

--Rimetto in vostre mani anche il grado di capitano della guardia
nazionale.

--Vi proponeste di antivenirmi? Vuota precauzione. Chi vi conferì il
grado di capitano?

--In verun caso avrei sofferto di dipendere dal mio maggiore nemico.

--Voi magistrato, per abuso di potere, per rapporti non veri,
dipenderete dal bargello tra poco.

--Preferisco questa dipendenza alla prima. Errai, nol nego, ma con la
convinzione di giovare al pubblico bene. La mia amministrazione fece
rifiorire la città; capo della guardia, ordinai un corpo modello.

--E le cause della vostra inimicizia col signor R...?

--Cause profonde: le ereditammo dai padri nostri, s'annidano nelle
molecole del nostro sangue, vivono nella memoria di antichi lutti e di
offese recenti.

--Voi dovete espiare le colpe commesse come magistrato.

--Saprò espiarle degnamente, da gentiluomo.

--Non basta. Dovete saperle espiare da patriota.

--E come?

--Accettando il comando della guardia. Eccovi il brevetto di nomina
che vi ho firmato.

--Colonnello, pretendete l'impossibile.

--La vostra colpa esige la maggior punizione, e questa è la punizione
che v'infliggo in virtù della mia autorità. Oggi vi attendo a pranzo
in assisa di capitano.

E senza concedergli agio a più lungo dialogo, lo salutai ed ei si
ritrasse.

Immediatamente trasmisi, col mezzo del sergente, al signor R... il
decreto della sua nomina a sindaco di Forio, e l'accompagnai con
lettera cortese, avvertendolo che io stesso mi riserbavo di ricevere
in persona la risposta di accettazione, in casa sua.

La notizia in un attimo corse la città e vi suscitò gioia universale.
Il popolo riaffollatosi nuovamente sulla piazza battendo le mani e
bociando _Viva Garibaldi! Viva la libertà!_ insistette che mi
accostassi alla finestra. Io dissi ch'ero venuto a compiere un'opera
di riparazione e anche di conciliazione, perchè giustizia e amore
ispiravano la missione emancipatrice di Garibaldi; che in un paese
come Forio, non solcato da fazioni avverse alla redenzione d'Italia,
gli odî privati, nati e inveleniti nei tempi tristi della oppressione,
dovevano scomparire in un'opera fraterna di rinnovamento nazionale;
che perciò nominai sindaco il signor R... (applausi prolungati),
nominai comandante della guardia il signor B... Silenzio profondo per
alquanti secondi; e poscia s'intesero alcuni sì qua e là, finalmente
un _sì_ generale. La banda suonò l'inno e ne nacque un tripudio
indescrivibile.

Il signor R... era un vecchio settuagenario e cieco, d'aspetto nobile
e dolce, decoroso della persona, e altamente rispettato nell'isola.
Diventò cieco nella galera di Ventottene, ove Ferdinando II lo tenne
lungh'anni rinchiuso perchè fautore di libertà e nemico aperto dei
Borboni sino dalla rivoluzione del 1820. Egli mi ricevette nella sua
libreria; ampia sala decorata di busti e di antichi ritratti di
famiglia. Le scansie, gli armadi, lo scrittoio, il leggìo, il canapè,
ridondavano d'intagliature della decadenza adattate alla sala, sulle
cui pareti erano colorati ad affresco peristili, portici, loggie,
scale con colonne spirali, con figure a cavalcione dei cornicioni,
secondo il gusto introdotto dal Borromini nel secolo XVII.

Lo trovai seduto in una poltrona, il cui dossale sovrastava di due
palmi alla sua testa calva, e al dossale un'arme gentilizia baronale
dell'istessa noce tarlata. Ai piedi gli folleggiavano quattro nipoti
fanciulli; le nuore trapungevano una bandiera tricolore per Garibaldi;
la sorella di lui filava bavella da una rocca di _bambou_; la figlia
del primogenito, giovinetta diciottenne, d'una bellezza orientale,
inginocchiata sovra un cuscino, la testa sul braccio sinistro del
padre di suo padre, leggevagli la mia lettera.

Affacciatomi alla porta:

--È lui! dissegli ella piano.

Assurse il barone con alacrità, e guidato per mano dalla nipote mi
mosse incontro e si abbandonò fra le mie braccia con tale effusione
d'affetti che quasi venne meno, ed anche gli occhi miei si
inumidirono.

--Un seguace del nostro redentore sotto il mio tetto! Ah! Nora, Nora,
egli esclamò, sollevando le spente pupille al cielo. Fossi tu vissuta
a vedere questo giorno!

--Oh gran Dio! lo fosse, proruppe una delle nuore, mentre tutte e la
sorella del barone mi si appressavano con un geniale benvenuto dipinto
sul sembiante.

La lacrima che mi tracciò una riga sino al mento, avvertita dalle
signore, servì di passaporto al loro animo, le sciolse dagli impacci
del riserbo al contatto d'un forestiero, e me le improvvisò ausiliarie
nell'indurre il barone, che opponeva la cecità e gli anni, ad
accettare l'officio di sindaco.

La giovine Norina condussemi al balcone che dava sul mare, e
indicandomi un gruppo cilestro in lontananza:

--Quella è Ventottene; il nonno giacque là incatenato tredici anni; e
quivi la nonna soleva sedersi e piangere, e morì pregando invano pel
suo ritorno. Io porto il nome di lei, soggiunse, alzando sui miei li
suoi grandi occhi nuotanti.

Con una specie di famigliarità squisita e con delicata curiosità,
negli intervalli di silenzio del barone, quelle gentili mi strinsero
con cento interrogazioni sul genio, sulla virtù, sulla bellezza di
Garibaldi, sui pericoli corsi, sui prodigi compiuti, sulle speranze,
sull'avvenire. La loro commozione e la gratitudine salirono al colmo
quando le regalai dell'unico ritratto del generale che tenni sempre
meco nel portafogli con la firma autografa di lui.

Ma a me importava vincere il signor R... in un altro campo. Dopo una
discussione animata in cui la Norina pugnando al mio fianco rivolse
contro il nonno l'ingenuità della sua eloquenza, la musica della voce,
il magisterio delle carezze, e le seduzioni della preghiera, egli
acconsentì di deporre sull'ara della patria gli ereditari rancori
contro i B..., che per sì lungo tempo contristarono la terra materna e
velarono la serenità d'una virtuosa famiglia.

Solo la vecchia zia, rigida conservatrice di tutto intero il passato
dei baroni di R..., ritornò taciturna e implacabile alla bavella e al
bambou.

Appoggiato al mio braccio, il generoso vecchio venne alla mia
residenza fra due fitte siepi di popolo, a cui di rado mostravasi,
amoroso e riverente.

Nella sala vidi il signor B..., vicino a mia moglie, in assisa di
capitano, impallidire come un cadavere alla comparsa inaspettata del
vecchio cieco, seguìto da' suoi figli e da molti amici che invitai a
pranzo.

Me gli accostai dicendo:

--Ben contento di trovarvi qui, capitano! ora bisogna provarmi che il
patriota non la cede al gentiluomo.

Ed ei con occhi scintillanti e con labbra bianche:

--La vostra dittatura è guanto di ferro che mi stritola. Orrenda cosa
sempre la potestà assoluta!

--Mia moglie aspetta il vostro braccio.

E ci avviammo alla sala da pranzo. Il barone s'assise accanto a lei e
a canto a me il capitano. Ella, ed io con qualche pena abbiamo dato il
_La_ alla conversazione; il cibo e i vini ci furono preziosi alleati,
e le bande musicali e i battimani incessanti del popolo nella
sottostante piazza.

Rizzatomi, e fatto silenzio, cominciai:

--Il popolo applaude a questo banchetto di fratellanza; sa che noi qui
compiamo un atto religioso, sa che...

In questo mentre, mi annunziarono una deputazione, che feci introdurre
frettolosamente, capitata a salvare in tempo la mia riputazione
oratoria, che naufragava nel banco delle scipidezze.

--Signor sindaco, signor capitano! favellò l'oratore della deputazione
con una breviloquenza perentoria; il popolo raunato vuole salutarvi
riconciliati.

Tali parole elettrizzarono la sala e ridussero a nulla ogni
resistenza. La voce ferma e sonora dell'oratore popolano sembrava
l'eco della voce onnipotente della moltitudine. Tutti si alzarono, e
mia moglie, guidato il barone all'altro capo della tavola, e presa la
mano del capitano la congiunse a quella del sindaco con queste parole:

--Consentitemi che io sia pronuba alla riappacificazione di due uomini
onesti.

--Giovanni B..., e l'accento solenne dell'onorando cieco suscitò
un'emozione in ogni cuore, dite che nel nome d'Italia e di Garibaldi
noi abiuriamo il passato.

--Abiuro, balbettò il capitano finalmente vinto.

Si abbracciarono, visibilmente commossi, questi uomini, ai quali venne
insegnato di odiarsi fin dalla culla, e obbedienti al comando del
popolo si presentarono sul poggiuolo. I commensali dietro di loro coi
candelabri accesi illuminavano la scena dei due nemici che si
stringevano la mano.

Era un quadro di Gherardo delle Notti.

  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .

Fissata la partenza per mezzodì, combinai di evitare una nuova
ovazione, sguizzando da una porticina per qualche straduccia alla
rada. Ma la signora B..., la fanciulla _dagli occhi nuotanti_, e altre
loro amiche stavano attorno a mia moglie con carezzevoli istanze
acciocchè ci trattenessimo alcuni giorni ancora. Promise ella il
nostro ritorno, e intanto impegnavale ad apprestar filaccie e
pannilini per l'ospedale di San Sebastiano, e a rallegrare la tediosa
convalescenza dei feriti con aranci, con limoni e coi prelibati vini
onde Ischia va celebrata. Si dovette adunque scendere alla marina per
le vie principali.

Sul punto di partire fui trattenuto dalla visita di uffiziali
borbonici; un maggiore, un capitano e tre luogotenenti. Il maggiore,
vecchio e calvo; e veruno degli altri giovine; tutti in gran tenuta:
calzoni rossi, tunica azzurra, due bottoniere a curve convergenti
dalla punta delle spalle alla cintura; spallini alla francese, di filo
d'argento; una placca dorata con la corona borbonica in rilievo,
davanti al collaretto dell'abito, e un alto _schakò_ in mano.

--Io sono il comandante della rôcca di Procida, questi i miei
uffiziali, principiò il maggiore: ci recammo qui per prestare omaggio
al plenipotenziario di Garibaldi.

Quindi si avvicinarono per baciarmi le mani. Io le ritrassi
dispettosamente dicendo:

--Non sono un padre abate!

E il maggiore:

--Eccellenza, _noi teniamo moglie e piccirilli_; battuto Francesco II,
ci accostammo al governo nazionale. Ignoriamo qual sorte ne si
riserbi, e ci raccomandiamo a vostra eccellenza.

Durante gl'ingenui detti del maggiore, i suoi commilitoni con
patetiche e supplici fisonomie, con le mani, alto un metro da terra,
indicavano i _piccirilli_.

Quadro di riso e di pietà.

Ed io stringendomi nelle spalle:

--Veramente non saprei...

Tutti ad un tratto, collo torto e languidi occhi, interrompendomi:

--Una parolina di vostra eccellenza!?...

--Fate, ripigliai interrompendoli alla mia volta, atto formale
d'adesione al nuovo stato, e per decreto del dittatore in data di
Salerno il vostro grado verrà riconosciuto, previa l'osservanza
d'altro decreto in data di Palermo, che vieta di baciare la mano.

Allora il maggiore:

--Voi siete giovane, ed io posso essere vostro padre; permettetemi che
vi abbracci.

E mi abbracciò, e gli altri mi abbracciarono. Io poco dittatorialmente
mi sottomisi alla funzione di reliquiario, cercando di capacitarmi se
costoro fossero soldati o sagrestani, e guardando se disotto al balteo
della spada pendesse il rosario.

All'esultanza frenetica del giorno innanzi, succedette la mestizia
dell'addio. Parve una scena di famiglia; la partenza d'uno di casa.
Addio senza strepito, quasi muto; al nostro passaggio ognuno si
scopriva il capo, molti ci stendevano la mano anche da lungi, e molti
avevano gli occhi rossi. La spiaggia, il molo, le case prospicienti il
porto rigurgitavano di spettatori. Quando il vapore si mosse,
_Grazie_, gridarono, e ci salutarono con le pezzuole bianche, e
stettero a guardarci fin che il battello scomparve girando il primo
capo al nord.

Il mare agitato mi costrinse di corcarmi senza indugio, e in quello
stato di languore malaticcio mi lasciai andare in metafisicherie
platoniche.

--Basta un raggio di giustizia e di bontà, io pensava, sceso dalle
arcane e temute sedi del governo, per fare miracoli di codesti popoli
della Magna Grecia, che hanno i nervi sottili e sensitivi
dell'artista; e sono artisti. Il sentimento del bene ai loro occhi
come a quelli di Platone s'imparenta al sentimento del bello; e sulle
ali d'ambidue si ascende così facilmente alla cognizione del vero!

Compagni al mio ritorno erano sul ponte il signor B..., il quale, allo
spettacolo di quelle genti meste che ci salutavano dal lido, mi
ripetea il verso di Virgilio:

    «_Exoritur procurva ingens per litora fletus:_

i figli del barone e parecchi giovani patrioti i quali mi
vezzeggiavano affinchè li presentassi a Garibaldi. Di repente il
battello s'arrestò per frattura nella macchina. Piccolissimo,
stravecchio e senza àncora, veniva palleggiato ignominiosamente dalle
acque ingrossate, e risicavasi d'urtare contro gli scogli di Procida.
Sui volti sgomenti del mio corteo leggevasi che col rompersi della
macchina erasi rotto l'incanto della presentazione a Garibaldi. E
rivoltomi al signor B... celiando:

--Ieri abbiamo mangiato le murene d'Ortensio, oggi le murene
mangeranno noi.

Il pover'uomo s'industriò di sorridere, per debito di cortesia
gerarchica, alla mia freddura; allargò la bocca, ma il riso non venne.

--La lancia è a mare a vostra disposizione, dissemi il capitano di
bordo.

--Mandatela a Procida per altre barche; ce n'andremo tutti in quelle.

Se l'essere restato a dividere il pericolo comune non infuse coraggio
alla brigata, posela nell'obbligo di nascondere la paura. Nondimeno
taluno segnavasi di soppiatto, altri agli angoli del ponte
sbottonavasi il panciotto, tirava di sotto alla camicia un amuleto in
raso ricamato e premevalo sulle labbra.

Intanto, rigonfiate le onde già abbastanza gonfie da una fresca
brezza, si ballava egregiamente; ma per buona sorte il legno, spinto
al nord verso il lido euboico, allontanavasi dall'isola. In capo a due
ore i battelli di salvamento ci raggiunsero e si vogò a Procida.

Prima di sera toccammo terra a Pozzuoli.

Il mio pensiero riposava nella visione dell'umile cameretta di Santa
Lucia, ove mi sarei rifugiato a momenti, gettando nel golfo la clava
del supremo arbitrio, ridivenendo il solito luogotenente
_d'ordinanza_. E ripetevo, scherzando, a mia moglie un brano di
Molière: _Ils m'ont fait médecin malgré mes dents. Je ne m'étais
jamais mêlé d'être si savant qua cela._

Il governatore di Pozzuoli trovavasi sul luogo dello sbarco, e in una
magnifica carrozza di corte a lento passo si percorse la città tutta
bandiere e applausi.

Ond'io a lui:--Perchè ciò?

--Per onorarvi d'avere protetta in tempo la polveriera di Baia.

Salimmo al palazzo del governo sovra un poggio, ove fu apparecchiata
una mensa sontuosa di oltre cinquanta coperti, con isplendidissima
illuminazione in cera, con addobbi di damasco e di corone innumerevoli
di fiori, con lusso di vini francesi, con copia grande di gelati, che
soglionsi nelle Sicilie distribuire a metà e alla fine del pranzo.

Abituato ai pasti forse un po' troppo frugali di Garibaldi, credevo di
trasognare a quello spettacolo sibaritico, che Garibaldi virtuoso
avrebbe disapprovato apertamente, e che io mi limitai a disapprovare
in segreto. Ricordai la mela acerba che in cammino da Nicotera a
Mileto il generale, seduto a terra, mi buttò dicendo:--A voi, fate
colazione. E fu la colazione.

Dovetti ascoltare sonetti e discorsi, dovetti udire e dire cento
insipide frasi a un centinaio di persone statemi presentate, le quali
tutte intercedevano di accompagnarmi al palazzo d'Angri. Ringraziai e
rifiutai quanto più gentilmente mi riescì fatto. Vane ripulse, perchè
più di venti carrozze aspettavano sul piazzale. Si partì alfine per
Napoli. Ogni carrozza riboccava di signori, di uffiziali e di
sott'uffiziali della guardia nazionale, e ben cinquanta torce a vento
rischiaravano la strada con una lunga e rosseggiante striscia di luce
e di fumo. Alle ore dieci si sboccò dalla grotta di Posilippo. Un
sudor freddo piovevami dalle tempia all'idea di smontare al palazzo
d'Angri con un seguito mostruoso che somigliava a una mascherata di
carnovale. Garibaldi sarebbesi annoiato, e i miei amici del quartiere
generale non m'avrebbero più lasciato in pace per simile trionfo alla
romana dopo tanti eserciti debellati e tanti popoli soggiogati! Giunto
davanti alla mia porta di casa in Santa Lucia, comandai al cocchiere
di fermarsi. Scesi con la moglie; tutti scesero.

--Vi ringrazio della compagnia, dissi; sto qui di casa; felice notte!




V.

I Sanniti moderni


Per una porticina del primo cortile a sinistra del palazzo reale di
Caserta si sale a quei mezzanini le cui finestre prospettano la
piazza, da un lato, e, dall'altro, una selvetta odorosa del gran
parco. Dodici stanze disposte ad angolo retto compongono
l'appartamento; bislunghe, basse, poveramente mobiliate. Ivi il
dittatore, sulla fine di settembre, trasportò il quartiere generale.
Ad un manipolo di lancieri a piedi n'era affidata la guardia:
cappellino piatto con falde rovesciate e parallele al giro della
callotta; camicia rossa, brache cenerine, e una lunga asta con picca.
Null'altro. Garibaldi aveva ideato d'ordinare una legione di codesti
astati, per avventarla, in date occasioni, contro i reggimenti nemici
e infilzarli. Ma il manipolo apparve poco seducente e rimase manipolo.

La sala d'aspetto frapponevasi alla camera del dittatore e alle camere
degli aiutanti. Nella prima di queste, la sera, ritornati dal campo,
convenivamo in parecchi a colloquî geniali, a ciarle e a dispute
politiche. Parte del quartiere generale professava opinioni
democratiche, una parte seguiva le dottrine del conte di Cavour, e
altri, particolarmente addetti ai servigi privati di Garibaldi, non
s'affannavano gran che fra le due tendenze, e stavansene paghi di
ripetere le opinioni e i detti di lui. Al comando del quartiere
generale venne assunto da qualche settimana il colonnello Paggi. Il
Paggi, buon soldato, ardente fautore della Casa di Savoia e della
libertà ristretta, mostravasi appassionato delle discussioni
politiche, e capitava spesso nel nostro circolo per conquiderci e
costringerci ad abbracciare la sua fede. Uomo complesso e rubizzo,
parlava in chiave di soprano con trafitture di acuti e striduli suoni,
e aiutavasi nella tempestosa eloquenza d'una gesticolazione a larghe
ruote; afferrava per un braccio l'interlocutore, forzandolo così
all'attenzione, e, accennando addirittura di no col capo,
interrompevalo; e gli pigliava una mano e tenendogliela abbassata
proseguiva nel suo dire, senza dar tempo all'obbiezione o senza
prestarvi orecchio. Le sue idee scattavano nella loro nativa e agreste
origine, non alterate dalla lettura nè lambiccate dalla meditazione.
L'italiano ch'ei parlava era mescolato di genovese, con una sintassi
tutta sua. I tempi dei verbi, i generi, i numeri non gli recavano il
menomo affanno; ei li considerava pedanterie dei grammatici.
Affezionato a Garibaldi, che seguì in varie campagne, pesavagli che
questi inchinasse a democrazia, e ancora più che noi gli fossimo
graditi e vicini. Scaltro e diffidente come ligure, ma buono di cuore
e diritto come capitano di mare.

La sera del 10 ottobre io entrai nella stanza del circolo con la
tabella in mano dell'_ordine del giorno_.

--Dunque dimani lo champagne a Napoli, disse il tenente colonnello
Missori.

--Chi paga? dimandò il capitano Zasio.

--Paga Mario, oggi promosso capitano,

--Pagherò, salvo il caso di forza maggiore. Ecco l'ordine del giorno.
E lessi.

L'ordine del giorno proibiva agli uffiziali del quartiere generale
d'andare a Napoli senza un biglietto di permesso, da non accordarsi a
più di due alla volta. Scrittura di tutto pugno del Paggi. Un paio di
sugosi periodi ingemmati da una coppia di sconcordanze, e una sola
delle due g che si abbicano nel suo cognome.

--_Mo sta bono!_ fece con frase e accento romagnuoli il maggiore
Caldesi in atto di avvicinarmisi, visibilmente incredulo.

--Come? credete ch'io falsifichi le scritture? Leggete, ecco qua
l'autografo.

Mi corsero tutti intorno: e anco chi s'era corcato scese in fretta dal
letto, _in naturalibus_, per verificare la mia lettura. Tant'è, i due
spropositi brillavano, e la _g_ mancava. Il colonnello entrando ci
chiappò sul covo e ci pose in grave imbarazzo, perchè io tenevo in
mano il corpo del delitto.

--Caro Paggi, cominciai con quella maggiore disinvoltura consentitami
dal minuto critico, ma pronunciai il cognome con una sola _g_, ciò che
non favorì troppo la ricuperazione della serietà desiderata. Caro
Paggi, vi ringrazio d'avermi risparmiato, con quest'ordine del giorno,
una ventina di piastre in champagne.

Ed egli, girando l'occhio sospettoso sugli uffiziali:--Non mi pare
argomento d'allegrezze!

--Taci, Mario, non mi amareggiare, esclamò Caldesi; manderemo Mingon a
Napoli per comperare lo champagne. Berà anche il colonnello. Non è
vero, colonnello? Qui fra noi, alla buona.

La diversione del maggiore Caldesi ha sviato l'attenzione del
colonnello, il quale dimandò:

--Chi è Mingon?

A cui Caldesi:

--L'ordine del giorno non lo tange. Mingon, amico mio, famigliare e
concittadino, fa meco la guerra per diletto. Lo generò Faenza, lo
rapì... Eccolo qui per lo appunto.

Mingon, entrando, a Caldesi:

--Ooh!

Caldesi a Mingon:

--Ooh!--Ooh! era il saluto consueto del domestico al padrone, e di
questi a quello.

Il colonnello a me:

--Il generale vuole parlarvi.

--Vo subito.

Lo trovai accigliato e cogli occhiali sul naso, seduto al tavolo,
esaminando e firmando carte di Stato.

--Leggete questa lettera, mi disse.

Ravvisai subito dalla scrittura una lettera di Mazzini. Lessi e stetti
aspettando ch'egli parlasse per primo.

--Mazzini mi esorta, così principiò, e mi spinge di gettarmi su Roma;
mio primissimo divisamento entrando in Napoli. Ma come lasciarmi a
tergo sessantamila uomini fra Capua e Gaeta? Appena partito, Napoli
sarebbe stata ripresa, e il continente perduto. Nella battaglia
campale e decisiva del 1.º e del 2 ottobre li abbiamo battuti e
fiaccati irreparabilmente; ne facemmo cinquemila prigionieri, e li
riducemmo all'impotenza di assaltarci. Ma che per ciò? Cinquantamila
armeggiano là tuttavia, sufficienti, se noi lontani, a ripigliare il
perduto. Andremo a Roma, non mancherà tempo. Impossibile adesso.

--Giustissimo. Forse, appena giunti in Napoli, quando l'Europa
stupefatta pareva dubitasse se voi foste uomo o nume...

--Ma vi giugnemmo soli. Di molte tappe a noi s'addietrava l'esercito,
e contro i soldati di Bonaparte bisogna la ragione della baionetta.

--V'ha un mezzo, generale, se non m'inganno. E quivi egli fece un
segno d'attenzione con un tantino d'ironia sulle labbra e dentro gli
occhi. Si afferma che procedenti dalle Marche ci visitino i
Piemontesi. Lasciandoli alla cura dei cinquantamila borbonici, non
potremmo noi frattanto in ventimila irrompere per altra via su Roma?

--I Piemontesi vi si opporrebbero; donde la necessità di aprirci il
passo coll'armi. La guerra civile... no!

--Se stesse a me, generale, non andrei a Roma, nè vorrei i Piemontesi
a Napoli.

--Che cosa fareste? Sentiamo anche questa.

--Mi chiuderei nelle Due Sicilie finchè vi avessi organizzata la
libertà e un grand'esercito di patrioti. Poscia direi ai Piemontesi:
«Fratelli cari, dobbiamo emancipare Roma e Venezia; sia gara fra noi
di chi fa meglio. Indi il plebiscito.»

--So che vorreste la repubblica. Io sono repubblicano come voi; ma la
mia repubblica consiste nella volontà della maggioranza.

--Voi, eletto dittatore, rappresentate quella volontà. Io, del resto,
m'appello al plebiscito, ma a stranieri cacciati. Bramerei collocata
l'urna sui trofei della vittoria.

---Se vedete Mazzini, conchiuse il generale ponendo termine al
colloquio, riferitegli la mia risposta.

Rientrato nella sala degli aiutanti:

--_Te vegnet no an te a bagulàa?_ mi disse Nullo sorridendo, disteso
sovra il letto, fumando un sigaro, ascoltando e tacendo come soleva.
Paggi aveva la parola. Gli altri uffiziali sedevano intorno al letto
di Missori, che serviva di palestra.

--Un momento, caro Paggi, così Missori troncando la facondia del
colonnello. Mario potrà ragguagliarci quanti dell'esercito
settentrionale caddero nella campagna delle Marche.

--Seicento fra morti e feriti in tutta la campagna, io risposi; la
metà di meno di quanti ne perdemmo noi in una sola battaglia, il 1.º
ottobre.

--Seicento? cifra di partito! gridò il Paggi.

--Cifra pubblicata nella _Gazzetta uffiziale_ di Torino, dal generale
Fanti, comandante della spedizione.

Ed egli di rimando:

--Abborro le bugie, perciò non leggo gazzette.

--Nè libri, per non perdere l'originalità, susurrò fra parentesi il
capitano Zasio.

--Ben detto, colonnello. Ora allungate gli orecchi, e ascoltatene una
che le vale tutte in mazzo.--Tirai di tasca la _Perseveranza_ e
continuai:--Ecco un giornale dei vostri, e narra che la nostra
vittoria del 1.º ottobre devesi agli artiglieri e ai bersaglieri
piemontesi.

--I bersaglieri non li vidi, ma una ventina di artiglieri ci si
trovava.

--E venti artiglieri, tuonò Nullo in bergamasco, sconfissero più di
cinquantamila borbonici?

--Però il 2 ottobre, ripigliò con turgide gote il colonnello, un
battaglione di bersaglieri, venuto il mattino da Napoli, partecipò
alla lotta e fece più centinaia di prigionieri. Negatelo, proseguì
volgendosi a me; voi eravate presente in Caserta Vecchia.

--Sì, ma prima del battaglione irruppero in Caserta i Calabresi, ai
quali spetta il vanto dei prigionieri. Se non che i cinquemila,
spoglia opima della giornata, se li pigliò la brigata Sacchi e la
divisione Bixio. Il padre Loriquet, per quanto sembra, è l'Urania
invocata dagli storici del vostro partito.

--Io non so di Loriquet nè di Urania; ma confesserete, disse
riappiccicando il discorso con Missori, che la campagna delle Marche
fu brillante e gloriosa.

E Missori:

--Io non vi smentisco, ma voi scemate i meriti dei vostri,
esagerandoli, e, peggio, mettendo a pari codesta impresa con quella di
Garibaldi.

--Ammetterete almeno, notò il marchese Trecchi, il quale volea fare
d'un pruno un melarancio, che l'impresa superi moralmente quella delle
Due Sicilie per la demolizione del Papato e per la trasfigurazione di
Vittorio Emmanuele in Enrico VIII.

Ed io, di ripicco e con risentita parola:

--Il Papato è a Roma e non a Rieti, nè a Gubbio, come il pensiero ha
sede nel cervello e non nelle calcagna. Nè il Papato si demolisce con
la religione cattolica. «Conserverò la religione degli avi, scrisse il
vostro re.» I Valdesi e Giannone possono rendervi testimonianza quale
religione e quali avi fossero quegli avi e quella religione. Sapete,
marchese mio, lo scopo della brillante campagna delle Marche?
L'invasione del regno per tagliare le ali all'aquila di Caprera.

--Udite i recentissimi sensi di Sua Maestà a me, ambasciatore del
generale: «Sono amico di Garibaldi, ammiro il valore dei garibaldini,
verrò a stringervi la mano sul Volturno e a completare le vostre
vittorie: le deputazioni d'ogni parte mi vi chiamano» Ditemi di
grazia, caro Mario, che sarebbe di noi senza questo intervento? Già la
reazione si manifesta nel Molise, e un oratore di Bojano capitò
stamane a impetrare dal dittatore aiuto d'uffiziali esperti e qualche
battaglione.

--Lo so. Il nemico allungò il suo corno sinistro e fece una punta ad
Isernia per foraggiare, per suscitare partigiani negli Abruzzi, e per
contrastare il passo all'esercito del nord. Innocenti sforzi!
Garibaldi or ora mi disse: «L'abbiamo fiaccato il 1.º ottobre; è
impotente.» Se ciò non fosse, esso avrebbe ritentata la sorte
dell'armi contro noi per debellarci e tornare vincitore in Napoli,
innanzi all'arrivo del vostro re. Il quale se ci sapesse vinti,
volterebbe il cavallo per Torino. Noi assalteremo Capua in breve. È il
voto dell'esercito, il nostro sospiro, e una speranza scesa da alte
regioni.

--Domando la parola, Caldesi interruppe sbadigliando: scendiamo anche
noi come la prelodata speranza da codeste nuvole in terra ferma. Si
compera lo champagne, sì o no? Mingon, sentinella vigilante, attende
gli ordini. Mingon! Dove andò? Dorme! La vostra eloquenza, ragazzi,
gli ha conciliato il sonno.

--A dimani, a dimani, s'udì da più voci.

--_Se conclud mai na gott_, esclamò Nullo, e ci separammo.

--Sai, Mario? mi disse Caldesi; anche stanotte, di guardia alla porta
del generale! Il colonnello Paggi è la mia croce. Due volte di già, la
guardia in questa settimana!

--E due volte toccò anche a me.

--Vittime designate entrambi del suo furore antidemocratico.

Ritiratomi nella mia stanza contigua a quella del colonnello Paggi, lo
interrogai intorno alla causa dell'ordine del giorno.

Ed egli:--Non avete inteso oggi il generale quando a mensa, circondato
da più di trenta uffiziali del seguito, pronunciò quelle fulminanti
parole: «A pranzo trenta, in campo dieci o dodici!»

--E vi lusingate d'infiammarli alla passione delle battaglie col
vostro elisire?

--Almeno non andranno a fare gli eroi su e giù della via Toledo e ai
Giardini della Villa, mettendo sossopra, senza averne diritto, i cuori
delle belle napolitane.

Vi defraudarono della vostra porzione? Quelle povere belle, vedovate
dalla vostra tirannide, imprecheranno contro di voi, e ogni speranza
d'un loro sorriso per voi s'estinguerà per sempre. Ma esse opinano che
la medesima distanza divida Caserta da Napoli e Napoli da Caserta. E
con simili ciarle ci addormentammo placidamente.

L'indomani all'ora antelucana brulicavamo, secondo il costume, nella
sala, bevendo il caffè e aspettando il generale. Il quale indi a poco
comparve avvolto nel _poncho_ e il fazzoletto di seta sulle spalle.
Noi gli facevamo ala per seguirlo. In quel punto gli mosse incontro un
gentiluomo sui cinquant'anni, cappello in mano. Il colonnello Paggi e
i maggiori Gusmaroli e Stagnetti gli saltarono addosso come molossi,
intimandogli a voce bassa ma concitata di ritirarsi, chè in quell'ora
il generale aveva ben altro pel capo. Solevano codesti uffiziali
tenere lontana da esso quanta più gente potevano per camparlo dalla
noia delle petizioni o dei lunghi discorsi, e principalmente per un
senso febbrile di esclusivo possesso della persona di lui,
dimenticando che l'uomo del popolo e dittatore doveva ascoltare,
conoscere, appagare quanti più gli fosse venuto fatto. Vedevano
perfino di mal'occhio e con gelosa ansietà, se noi stessi, aiutanti
suoi, gli parlavamo spesso, massime in colloquio appartato e politico.
E il generale, a cui tornava molesto il troppo zelo, con guardo
acceso:

--Lasciatelo passare.

E queglino, ingrulliti, ristettero e diedero volta.

E il gentiluomo:--Signor dittatore, non so risolvermi di ripartire per
Bojano senza il soccorso che v'ho chiesto.

--Mi narraste ieri di tremila patrioti armati e pronti; questi bastano
a domare la reazione, o a limitarla dov'è. Il paese liberato deve
saper custodire la libertà da sè stesso. Voi, maggiore delle guardie
nazionali di quella provincia, capitanate i tremila.

--Senza la presenza di soldati vostri, senza l'autorità e la guida di
uffiziali del vostro seguito, e fra i più valorosi, non se ne caverà
alcun costrutto.

--Se dovessi mandare battaglioni e aiutanti miei ad ogni grido di
paura, non mi basterebbe l'esercito di Serse. Difendetevi da voi, vi
ripeto.

--Il vostro rifiuto, eccellenza, vi costerà, oltre al Matese, il
Molise, e forse gli Abruzzi.

--La vostra ostinazione va diventando più forte della mia pazienza.

Abbassato il cappellino sugli occhi, il generale troncò la
conversazione e mosse verso la scala; il gentiluomo gli andò a panni
al lato sinistro, allungando il collo a interrogare di profilo la
fisonomia dell'interlocutore, a spiare l'opportunità di un secondo
tentativo; e si discese tutti nel cortile. Garibaldi, arrestatosi
d'improvviso, tanto che il gentiluomo per moto concepito si trovò d'un
passo più avanti di lui, mandò Basso a pigliare il cannocchiale. E
Basso:

--L'ho meco, generale.

Il gentiluomo profittò dell'istante per ritentare la prova:

--Siatemi indulgente, generale, ponetevi nel mio posto; l'interesse
del mio paese mi fa diventare importuno; voi siete patriota anzitutto,
e comprenderete....

--Ora non ho tempo, ne riparleremo stasera: addio.

Quegli scomparve, e noi uscimmo sulla piazza. I primi languidissimi
albori insinuavansi nella notturna oscurità, la quale si tingeva del
color di piombo. All'opposto lato della vasta piazza si discerneva la
pallida colonna di fumo della vaporiera, e si udiva il brontolìo della
valvola che accennava quasi all'impazienza della sosta. Un ampio
stradone conduce dal palazzo alla ferrovia; a diritta e a mancina
serenavano le squadre calabresi che non capivano ne' due edifizî ad
arco elittico; ali staccate della massima Villa Reale d'Europa.
Intendevansi gl'indistinti e lievi rumori d'un accampamento poco
innanzi alla diana, l'ultimo rimutar di fianco nel sonno, qualche
sonito d'arme, qualche accento velato e fioco di chi si risveglia,
qualche schianto di fiammifero. Noi passavamo.

--Garibaldi! Garibaldi! taluno già desto gridò. Più ratto che non
succeda al rullo mattutino del tamburo, quel nome fece assorgere i
dormienti che s'assieparono, traballando, sul ciglio dello stradone
per riguardare le adorate sembianze dell'eroe, per augurargli il buon
giorno, per susurrargli una parola d'amore.

La vaporiera ci trasse a Santa Maria, quindi la carrozza a
Sant'Angelo, e a piedi facemmo l'erta fino alla sommità;
pellegrinaggio di ciascun giorno. Il fianco meridionale del monte
famoso è aspro per materie rocciose, vedovo d'erbe e d'alberi, tranne
poche betule, meno rare verso la cima; all'est, una profonda fessura
lo discerne da altro monte, in fondo alla quale su due piani stavano
in batteria quattro cannoni nostri di grosso calibro; al nord, esso
scoscende al Volturno, e all'ovest protendesi in costa ardua lunga e
intercisa di creste a similitudine di muraglia merlata. Dalla sommità
si scuopre l'opima valle del Volturno, il quale, serpeggiando a vista
d'occhio dall'oriente al tramonto fra ripe incassate, sembra
un'interminabile striscia d'argento colato e fluente; le montagne sino
a Sant'Angelo e Cajazzo lo accompagnano parallele nel suo viaggio,
quindi divergono, ed esso, abbracciata Capua con figura parabolica, si
devolve al mare, fecondando d'irrigue acque ed abbellendo la pianura
di Terra di Lavoro.

Dal vertice di Sant'Angelo, Garibaldi, con assiduo pensiero, vigilava
i movimenti del nemico e meditava il passaggio del fiume per irrompere
fra Capua e Gaeta, dividere l'esercito borbonico e, dimezzato,
conquiderlo oggi sul Volturno, la dimane sul Garigliano. Ivi il
giovine monarca delle Sicilie avrebbegli consegnata la propria spada.
Così davanti al prestigio del suo nome caddero le rocche dello Stretto
ed i castelli della capitale; così si dileguarono cinquantamila uomini
davanti alla sua carrozza da Reggio a Salerno; così la flotta, nella
rada di Napoli, ammainate le vele e addobbata, con cento e un colpo di
cannone lo salutò ammiraglio e signore. Ma avuta certezza
dell'intervento del re sardo, lo splendido disegno gli si scoloriva
d'ora in ora. L'intervento del re doveva mutare di pianta il carattere
della lotta: gl'incanti del mago di Caprera dovevano scomparire, e
cessato il prodigio, la realtà riaffacciarsi: un re di fronte ad altro
re, l'uno per raccogliere la corona cadutagli al piede, l'altro per
istrappargliela. L'intervento sostituiva allo straordinario il
consueto, rendeva possibile l'ingerimento della flotta francese e la
prolungata difesa di Gaeta. L'ultimo canto del poema epico era finito.
Seguiva la prosa degli _errata-corrige_, del privilegio dell'edizione,
e del permesso dei superiori.

Garibaldi per avventura antivedeva lo svolgimento di questi eventi. Il
suo più frequente ricordarsi di Caprera e un leggiero velo di mestizia
effusa sul suo volto mi persuadevano ch'egli sentiva chiudersi anzi
tempo il prefisso cammino. Non lo turbava volgare gelosia, nè cruccio
d'ambizione insoddisfatta; folgorante di gloria, e, per naturale
modestia, schivo d'ogni grandezza, affliggevalo la incompiuta eredità
di trionfi popolari ch'ei legava all'avvenire della libertà d'Italia.

Il nostro mostrarci colassù quel mattino fu più del costume
festeggiato a colpi d'obice, di cannone e di carabina. Di là del
Volturno, che corre ai piedi del monte, il nemico aveva postato due
obici alla nostra sinistra, due cannoni rigati di fronte e cacciatori,
dentro buche munite, lungo il fiume. Quella musica formidabile durò
senza posa quattr'ore; i tiri, alti dapprima, abbassavansi con
graduale correzione. Sparsi su quelle creste, eravamo dilettevole
bersaglio ai regi, ma non tornava così agevole il colpirci, come
faceva mestieri, di prima intenzione. Però alcune granate rombarono
appena d'un cubito sovra le nostre teste. In un certo momento,
trovandomi ritto davanti al generale che sedeva appoggiato a un masso,
mentre congetturavansi i casi di un moto in Ungheria con aiuti nostri,
ci sibilò vicinissimo un fascio conico di cannone rigato:--Che
diavolo! disse Garibaldi, e mosse una mano come in atto di scacciare
via mosca importuna; nè più di tanto la conversazione rimase
interrotta. E la medesima interruzione si riprodusse in un quarto
d'ora ben tre o quattro volte. Io non osavo suggerire al generale di
assidersi dietro il masso, nel dubbio che il consiglio non sembrasse
abbastanza disinteressato. Nondimeno il silenzio parvemi codardìa, e
per sottrarmi al rimorso, mi gli piantai davanti nella direzione delle
granate. Povero schermo per verità, ma sufficiente a non veder lui
ferito. Egli frattanto, sulla via che mette a Cajazzo scorto col
cannocchiale un corpo di cavalleria e di fanti il quale movea a quella
volta:

--Scendete, fecemi, ai nostri pezzi di grosso calibro, e tirate a
palla su quelle squadre.

Scesi, e i quattro cannoni imperversarono indefessi per oltre un'ora;
indi risalii. Nell'ascesa incontrai mia moglie, annunziatrice d'una
lauta colazione provveduta dal generale Medici, che il mattino ci
accompagnò sul monte. Ragguagliò ella Garibaldi intorno allo stato dei
nostri feriti prigionieri in Capua, visitati dianzi da lei.

--Or bene, generale, gli chiesi, quale fu l'effetto delle cannonate?

Ed egli, col gaudio entro gli occhi:

--Quei signori spulezzarono.

Sotto Capua erasi acceso un combattimento fierissimo d'avamposti, al
quale via via partecipò la brigata Simonetta. Le artiglierie dei
poligoni estremi della fortezza traevano con fuochi incrociati. Ora al
fumo delle moschettate succedeva il rutilar delle baionette vibrate,
ora un manipolo di cavalieri assai lenti retrocedeva sperperato e più
che di passo; ora per gruppi o per masse o alla cacciatora comparivano
sullo spianato dai ripari della fortezza i borbonici, ora dal
contrapposto emiciclo di alberi le camicie rosse. Lunga vicenda di
assalti e di ritirate da entrambe le parti. Noi si godeva il torneo
dal nostro luogo eminente, donde Garibaldi impartiva ordini e
affrettava aiutanti. I nostri, ricacciati, ripararonsi dietro gli
alberi, e i regi rinforzarono i riguadagnati luoghi; la scaramuccia di
prima, diventata più seria, stava per volgersi in battaglia. Quando di
repente le camicie rosse, surte ferocissime alla riscossa, costrinsero
i nemici a precipitarsi verso i bastioni.

--Eccoli provvisoriamente fuggiti, disse in dialetto genovese il
maggiore Canzio, destando l'ilarità di Garibaldi.

I borbonici, dopo quest'ultima furibonda percossa, ristettero da nuove
offese, chiusi in più corto raggio di propugnacoli. E mi venni
confermando nella lusinghiera speranza d'un prossimo investimento
della piazza, perocchè la linea testè conquistata offerivasi meno
malagevole agli approcci. Veramente non luceami chiarissimo se al
corpo del genio garibaldino fossero famigliari gli approcci, ma
confidavo nel genio di Garibaldi, e racconsolavami la rimembranza
della acchiappata dozzina di fortezze da Palermo a Napoli senza
ministerio di parallele e di trincee. Laonde dimandai:

--Generale, diamo presto la scalata a Capua?

Sapevo che a tal genere d'interrogazioni egli non rispondeva mai, e me
ne pentii a mezzo del periodo, ma il labbro fu più pronto della
riflessione. Difatti egli mi guardò con viso contento del voto,
scontento del detto, e tirando di saccoccia un mezzo sigaro stese la
mano per un fiammifero. Acceso il sigaro, ripigliò il cannocchiale e
si tacque. In ciò la risposta. Nondimeno credetti di comprendere che
il giorno dell'assalto si accostasse, e comunicai la mia impressione
agli amici.

Quel dì montarono alla vetta pericolosa di Sant'Angelo Crispi e Carlo
Cattaneo, consiglieri del dittatore. Garibaldi, ravvisato Cattaneo,
mossegli incontro alcuni passi in segno di omaggio a quello splendido
lume d'ingegno e di dottrina. Stati a colloquio qualche tempo insieme,
Cattaneo si restrinse in mezzo a noi, vago dei giovani, semplice,
buono, certissimo di trovare nei seguaci di Garibaldi, se non i più
promettenti intelletti, sicuramente schietti e nobili cuori.

Legato a lui dall'amore di discepolo e d'amico, gli presentai quanti
fra miei compagni fecerglisi d'attorno ammiratori del vecchio filosofo
e del vincitore di Radetzky nelle Cinque Giornate. S'informò egli dei
siti circostanti e degli eventi, e ciascuno gareggiava d'essergli
cicerone.

--Bravi giovani, ei disse: mani armate, libertà e verità. Con queste
tre forze farete l'Italia, farete quel che vorrete; non vi occupate
d'altro e non pensate ad altro.

Intanto il colonnello Paggi e il marchese penetrarono nel circolo, e
dispettosi della presenza del riverito repubblicano, s'accinsero bel
bello a dargli sulla voce. Il Paggi latrava, e discorrendo
s'incaloriva nel proprio discorso. Le risposte sfolgoranti di Cattaneo
gli accendevano le guance e le orecchie, che parevano scarlatte per
morbillo. Dio gli usi misericordia degli svarioni che gli piovvero dai
denti!

Cattaneo ripartì, e noi sedemmo a cerchio ad un solenne fiasco di vino
del Vesuvio, ad alcuni capponi arrostiti, ad un pasticcio freddo,
inusitate vivande onde ci fu liberale il Medici.

Noi si ripeteva già la porzione, mentre il Paggi tergevasi ancora il
sudore olimpico, incominciò:

--Gli agenti di Torino, il capitano Zasio, non si veggono mai quassù;
si avventurano tutt'al più al palazzo di Caserta. Fin qui non si
arrisicano che i togati democratici.

--Sì, sì, rispose Paggi; il vostro Cattaneo sarà un grand'uomo come
voi andate ricantando. In così dire cercava me cogli occhi. Ma oggi
sgocciolò dalla sua bocca un rosario di sciocchezze. Me ne appello al
marchese.

Ci guatammo l'un l'altro come chi aspetta le stimate. Ma prontamente
io interruppi quello stupore con la seguente nozione bibliografica:

--Centocinquant'anni fa, il gesuita Lucchesini scrisse un opuscolo
intitolato: _Sciocchezze scoperte nelle opere del Machiavelli dal
Padre Lucchesini._ L'arguto editore stampò in abbreviazione sulla
costola del libro: _Sciocchezze del Padre Lucchesini._

Se non che il generale aveva già presa la calata del monte, e noi
sollecitamente lo raggiungemmo. I nostri cavalli ci attendevano in una
valletta a metà dell'erta; montati in sella, procedemmo di colle in
colle fino a San Leucio, e percorrendo il parco reale ritornammo al
palazzo di Caserta. Le lepri e i fagiani sbucavano tranquilli e
addimesticati da ogni forra, da ogni cespuglio, da ogni verzura del
parco, e se ne andavano a spasso pei prati e pei viali, raramente
correndo, raramente sull'ala. Le loro giornate volgevano serene in
placidi ozî, in fortunati amori, in pasture pingui e incontestate. La
guerra, che romoreggiava d'intorno a quel sacro asilo, micidiale agli
uomini, tornava ad essi propizia, e propizia ancora più la fuga del re
cacciatore. Quella pacifica democrazia di mammiferi e di gallinaccei
confidava forse nel plebiscito, e si cullava nella speranza che non
verrebbe eletto un nuovo re, massime se cacciatore.

Sull'imbrunire il gentiluomo di Bojano ripresentossi a Garibaldi,
sollecitatore pertinace degli aiuti contro la reazione e affrontatore
imperturbabile del corruccio del generale; talmentechè questi alfine
cedette e nominò il tenente colonnello Nullo al comando della impresa,
il capitano Zasio e me quali suoi aiutanti. Il Paggi suggerì di
aggiungervi il maggiore Caldesi, e vi fu aggiunto. Dovevano partire
dodici guide a cavallo agli ordini del sottotenente Bettoni e due
battaglioni di volontarî del Matese e di Sicilia.

In questo mezzo, da noi, nella stanza usuale, si compilava fantasie
sull'imminente assalto di Capua; quando, faccia radiante e portamento
relativamente leggiadro, entrò il Paggi messaggiero della spedizione
d'Isernia. Corda di violino che si spezzi nella soavità di un motivo,
urta men dolorosamente l'orecchio che quell'annunzio gli animi nostri,
fra i castelli di Spagna, che andavamo costruendo. Capua, ricinta ed
espugnata, e noi sui dorsi selvaggi dell'Appennino, dando la caccia a
qualche villano infellonito! Ma assai più ne cuoceva la separazione da
Garibaldi. Questa spina acuta per noi, era rosa profumata per il
Paggi, il quale fregavasi le mani di veder tolte anche per poca ora
quattro teste calde al contatto del generale.

Caldesi, seduto in un angolo della stanza a lato di Mingon:

--Rassegnatevi, ragazzi, disse con affettuosa e persuasiva favella;
tant'è! Avrete tempo per Capua al vostro ritorno; ve l'assicuro io.

--Bravo Caldesi, ripigliò il Paggi; assennati consigli! Il generale
acconsentì alla mia proposta che voi pure partiate con essi.

Caldesi rizzossi attonito dalla sedia, indi vi ricadde irrigidito, e
girando gli afflitti occhi al fedele Acate, gorgogliò.

--_Ciù_, Mingon!

E Mingon, in dialetto romagnuolo:

--_Boia de Signor!_

L'ineffabile ilarità suscitata da questo quadro imbalsamò la ferita
apertaci dal Paggi, e nella gioconda compagnia di Caldesi subitamente
si presagirono meno amari i giorni della spedizione. Rizzossi egli da
capo, e con movenze piuttosto incerte si avvicinò al nostro gruppo,
accennando di parlare a Paggi.

Caldesi, uomo sui quarantaquattro anni, di media statura e pingue anzi
che no, vestiva una grossa camicia rossa; davanti al bàlteo di filo
d'argento pendevagli un borsello che posava quasi orizzontale sul
convesso del ventre e conteneva la rivoltella. I calzoni aderenti alle
polpute gambe erano in basso racchiusi entro le trombe degli stivali,
girate da una fascia di marocchino verdastro e con le due orecchiette
di fettuccia pendenti all'infuori. Al tacco di questa calzatura
borghese lampeggiavano vistosi e sonanti speroni. Il suo passo era
breve e l'un piede piantavasi a riguardosa distanza dall'altro, quasi
si peritasse del centro di gravità. Aveva sulla fisonomia il sigillo
della bontà inalterabile; e qualche macchiuzza pallente intorno alla
luce degli occhi conferiva al suo sguardo un'espressione che vacillava
fra il serio, l'arguto e l'ameno.

La sua ingenuità schiettissima zampillava originale e spiritosa. Le
idee e le cose riflettevano agli occhi suoi, forse a cagione delle
macchiuzze, una particella meravigliosa ch'egli esprimea con parola
lenta, musicata, nasale e intinta d'accento faentino, provocatrice di
freschissime risate. Cospiratore da vent'anni, or esule, ora
carcerato, soldato nelle guerre dell'indipendenza, deputato alla
Costituente romana, rispettato e popolare in Romagna, si capisce che
se ridevamo di lui, egli possedeva il nostro amore.

Piantatosi davanti al colonnello Paggi:

--Veramente, proruppe, non saprei, ma..., non so se mi spiego..., è
un'ingiustizia..., voglio dire..., vado..., però mi sembra..., dico
per dire..., supponiamo..., potevate proporvi voi stesso..., del
resto, salvo errore..., bella occasione di far parlare di voi..., la
disciplina, non c'è dubbio... _Ciù_, Mingon, andiamo a letto.--E uscì.

Cessata la sensazione piacevole di questa scena, riprese il suo
dominio lo sdegno di prima, e così alterato m'avviai all'appartamento
di mia moglie. Entrai senza pronunziar sillaba, viso lungo, cappello
in testa.

--Che hai? Che cosa ti accadde? ella mi dimandò affettuosamente.

--Il canchero alla reazione! Vuoi venire anche tu?

--Dove?

--Alla caccia dei _cafoni_ in Isernia; cinquanta miglia da qui.

In questo mentre presentossi Pietro di Bergamo, mio soldato di
ordinanza, a ricevere, secondo il solito, gli ordini per l'indomani.

--I cavalli insellati per le sei. Dietro la sella avvolgerai il panno
da campo. Noleggia subito una buona carrozza a due cavalli per la
stessa ora. Condurrai il mio cavallo a mano e t'unirai alle guide.
Null'altro.

E ripigliando il discorso con mia moglie:

--Dunque vieni anche tu? Già si tratterà d'una farsa come quella di
Forio d'Ischia; campane, petardi, confetti, fiori, pranzi, aringhe,
sonetti; ed io ne sono ristucco. Il signor Garibaldi poteva anche
risparmiarmene, sapendo quanto desideravo di assistere alla presa di
Capua.

--Ma tu credi ch'egli prenda Capua? Io non credo. Non credo ch'ei
pensi di bombardare una città. Lascerà questa cura ai generali
piemontesi.

--Però al quartiere generale se ne ragiona come di cosa sicura.
Comunque sia, mi rincresce d'andarmene nell'ora dello scioglimento del
dramma. Vieni tu?

--Impossibile. Ti seguii per assistere i feriti. Mi offersi
d'accompagnarti ad Ischia perchè non ce n'era ancora. Ora gli ospedali
riboccano.

--È giusto.

L'indomani partimmo per Maddaloni, ove stanziavano i due battaglioni
della spedizione. Nullo, Zasio ed io ci sfogavamo contro il signor
Pallotta, il gentiluomo di Bojano; e Caldesi contro il colonnello
Paggi.

Dopo colazione esco dall'albergo per dare un'occhiata al mio cavallo,
e m'imbatto nel gentiluomo, adagiato in una carrozza al gran trotto!
Accennato al cocchiere d'arrestarsi, m'affaccio allo sportello e
dimando al gentiluomo sue novelle.

--Io, soggiungo, ed altri uffiziali fummo distaccati dal quartier
generale per capitanare le vostre genti di Bojano. Non potevate
arrivare più desiderato e più a proposito.

Egli mostrasi turbato come persona sorpresa nella esecuzione di
occulto disegno, e bofonchiando, risponde:

--Vo a Napoli.

--A Napoli! Che c'entra Napoli con Bojano? Abbiate la bontà, signor
mio dolce, di scendere e di seguirmi.

Accoppio all'intimazione un movimento imperioso, da dritta a sinistra,
dell'indice, per cui il gentiluomo si capacita della vanità d'ogni
replica, e discende. Gli amici, coricati sul sofà in sala da pranzo, e
involuti in una nube di fumo dei sigari, in mezzo alla nuvola
ruminavano concetti strategici, e Caldesi sulla tabella del conto
dell'oste scriveva il nome del colonnello Paggi con una sola _g_.

--Vi presento, dissi con solennità, il gagliardo provocatore della
nostra spedizione, che va a Napoli ad aspettarne il risultato.

--Ah! ah! esclamò Nullo balzando in piedi, riassettandosi e
atteggiandosi autorevolmente.

E l'inquisito:--Vo a Napoli, perchè ci ho lasciato il gabbano.

--Che gabbano d'Egitto! rispose Nullo. Forse che da Napoli
raccoglierete i tremila volontari promessi a Garibaldi?

--Un gabbano ve lo darò io, dissi.

Ed egli:--Ho anche altri interessi importanti da combinare.

Ed io di rimando:

--L'importantissimo dei vostri interessi è di difendere il vostro
paese dalla reazione. Ieri tenevate a Garibaldi il linguaggio d'un
antico romano, ed oggi anteponete alla patria il gabbano? Farete la
finezza di venire con noi.

E Nullo:

--No. Egli ci precederà per approntare in Bojano i tremila armati al
nostro arrivo.

--Signori--con supplichevole labbro riprese lo smarrito
gentiluomo--impegno la mia parola d'onore, che domani posteggerò da
Napoli per Bojano; ma è assolutamente necessario che io ci vada oggi
stesso.

--Voi avrete l'onore di comandare l'avanguardia contro i _cafoni_ e i
soldati regi, io gli soggiunsi.

Ed egli al suono di questi accenti mi guardò con occhi dilatati e
fissi che pareano di porcellana. Indi sillabò:

--L'avanguardia!

--Senza dubbio, il posto d'onore a voi, maggiore delle milizie
cittadine, paesano e promotore della impresa.

Nullo conchiuse il dialogo ordinando di ricondurlo alla carrozza, e
volgendo il discorso a lui:

--A Bojano, difilato. Vi raggiungerò con due battaglioni. Frattanto
esplorate i disegni e i movimenti del nemico.

Il pover'uomo, carezzandosi la testa calva e acconciando dalla nuca
verso le tempia i radi capelli grigi, avea il sembiante di persona
oppressa dal presentimento che i _cafoni_ gliel'avrebbero fra poco
cimata e confitta in una picca.

--Voi mi sagrificate! borbottò con voce suffusa da un gemito.

Accompagnandolo alla carrozza lo confortavo con l'adagio che--un bel
morir tutta la vita onora.--Però quell'afflitto d'un tratto si rifece
snello, e pel sùbito fulgore degli occhi scopersi dalla punta di
un'ala il pensiero d'irsene a Napoli per altra via. Sedutosi con tutto
agio, e da quell'accorto ch'egli era, mi disse, con aria di persona
rassegnata:

--Avrei preferito di andare in compagnia vostra, come voi proponeste.
Indi al cocchiere: Gennariello, per Bojano.

Nel punto medesimo sopraggiunse un caporale, fatto chiamare da me,
tosto che sospettai il segreto divisamento del mio nobile amico.

--Monta in cassetta, per Bojano, ai servigi del signor maggiore sino
al nostro arrivo.

E rivolto a quest'ultimo con viso sorridente gli feci:

--Arrivedello!

Il caporale poi mi raccontò che nell'atto della partenza il gentiluomo
mormorò fra i denti al mio indirizzo:

--_Mannaggio_ all'anima tua!

Avviati i due battaglioni, il mattino susseguente li arrivammo e li
oltrepassammo colla nostra carrozza, viaggiando a Campobasso oltre
Appennino.

Raccogliticci e nuovi ai combattimenti, quei soldati avevano aspetto
non troppo marziale e rassicurante.

--Se disponessi di¹ due battaglioni dei nostri Lombardi, osservò
Nullo, m'assumerei d'entrare in Isernia _cum citharis bene
sonantibus_.

  ¹ Le parole "disponessi di" mancano nell'edizione trascritta. (N. d. T.)

--Temporeggiando e destreggiando se ne può trarre partito, notògli
Caldesi. Alle avvisaglie facendo mano mano succedere più gravi
conflitti, io m'affido nella vittoria.

--Quando ci vedranno primi al pericolo, io soggiunsi, supereranno la
nostra aspettazione. A Maddaloni i Siciliani, sotto Bixio, fugarono
alla baionetta più d'una volta le ostinate colonne nemiche.

--Garibaldi, mio caro Caldesi, non ama le lungaggini, nè io le amo più
di lui, replicò Nullo. Potremmo, indirizzando la parola a me, ottenere
i risultati di Bixio se uno dei nostri incorniciasse i due
battaglioni.

Ed io di nuovo:

--Supplirà al valore il numero. I tremila che suppongo troveremo a
Bojano e qualche aiuto che fornirà Campobasso, capoluogo della
provincia, ci abiliteranno ad una guerra corta e fulminea.

Eravamo già entrati nel Sannio. Il Matese e il Molise sui due versanti
dell'Appennino, che noi varcammo sino a Campobasso e rivarcammo sino a
Bojano, furono l'antica patria di quella stirpe guerriera e
formidabile che umiliò Roma nei più fieri giorni della repubblica.
Lungo il viaggio, data qualche tregua alle cure della guerra,
allentammo la briglia al nostro entusiasmo d'umanisti, mutammo per
poco la marcia militare in pellegrinaggio archeologico, e rifrugando
nei nostri studî giovanili di Tito Livio, di Micali, di Niebhur,
c'industriammo di ricomporre leggende, tradizioni, fatti, istituti,
templi, città, collocandoli al loro posto sui dossi silvestri e
desolati di quelle montagne limitate dalla Campania, dalla Apulia,
dalla Lucania; dove un dì fiorirono oltre due milioni di Sanniti, ed
oggi miseramente vi stenta la vita appena mezzo milione di _cafoni_.

--E stimi tu, mi dimandò il capitano Zasio, questi straccioni, con
sandali di pelle di capra, con feltro a tronco di cono, messi sossopra
da un vescovo per riavere il Borbone e la schiavitù, discendenti
legittimi di quei terribili e pomposi guerrieri, che armavano talvolta
ottantamila fanti e ottomila cavalli, e sfoggiavano tuniche marziali
di preziosi colori e scudi intarsiati d'oro e di argento, e
tenerissimi della libertà, facevano sudar sangue ai Romani intesi a
domarli, e domi e pesti e scaduti potevano aiutarli validamente contro
Annibale, e nella rassegna delle milizie dei soci in Roma figurare con
settantasettemila soldati?

--Misericordia! esclamò Nullo, a tanto sfoggio d'impreveduta
erudizione.

--Scommetto che ha il libro in tasca, disse Caldesi procedendo alla
perquisizione personale. Perdio non l'ha! Fresco di collegio il
giovinotto! Mette appena i baffi. Or bene, in che anno _urbis conditæ_
intervenne la rassegna?

E Zasio:

--Nel 529 per paura della invasione dei Galli.

--Bravo ragazzo, riprese Caldesi, verificheremo nella biblioteca di
Campobasso.

--Io non dubito punto, risposi a Zasio, che in codesti _cafoni_
circoli puro il sangue sannitico.

--Le prove! le prove! interruppe Caldesi. Noi sappiamo che Silla,
l'implacabile distruggitore del Sannio, andava ripetendo al terzo e al
quarto, in casa, in foro e pei quadrivî, che Roma non avrebbe riposo
sin che un solo Sannita sopravvivesse.

--Padronissimo il signor Silla; ma noi sappiamo altresì che centomila
pidocchi divorarono prima lui e il desiderio crudele.

--Non dimenticare, ripigliò il capitano Zasio, che di venti città
sannitiche non si rinviene più nè indizio nè memoria.

--Si; con ciò si spiega la scomparsa di tre quarti della popolazione:
però sussistono Telesia, Isernia, Bojano, Eclano, Alfidena. Non ci
troverai più parimente nè i due milioni di libbre di rame in moneta,
trasportato a Roma da Papirio il giovine, nè le armature onde Carvilio
fuse il colosso di Giove in Campidoglio, visibile dalla cima di monte
Albano. Ma che per ciò? Le reliquie dell'antica razza sopravvissero
con le reliquie di quelle città. Caduti i Cesari, passarono sotto il
dominio dei Longobardi, esercito e non popolo: poi sotto la podestà
dei Greci, dei Saracini, dei Normanni, eserciti sempre e non popoli.
Nè popolo fu mai distrutto nell'età moderna. I luoghi disameni, la
vita pastorale e rusticana, le rare e scarse convivenze cittadine non
contribuirono certamente alla mescolanza dei sangui e a nuovi innesti
sul primitivo ceppo. I successivi padroni li avranno tiranneggiati ed
emunti, ma non impalmarono le loro donne, abbastanza brutte. Oggi
costoro soggiacciono ciechi all'autorità del vescovo, che nelle chiese
li stimola alla reazione e li determina alle più atroci vendette in
nome dell'indipendenza.

--Nel tumulto d'Isernia, disse Nullo, mutilarono orribilmente gli
avversarî presi. Un cafone vantava lo squisito sapore del lombo di don
Peppino cotto alla bragia¹. Poi rivoltosi al vetturino lo interrogò
sull'appellativo di _cafone_.

  ¹ Questo fatto ed altri parecchi dell'istesso genere, che allora
    correvano di bocca in bocca, vennero poi riconfermati nel processo
    che di quella reazione fu incoato davanti alla Corte d'Assise di
    Santa Maria di Capua (giugno e luglio 1864).

--_Cafoni_, eccellenza, si chiamano i contadini, e _galantuomini_ i
proprietari.

--Il vescovo dei Sanniti d'una volta, io ripigliai, era il
_Meddix-Tuticus_...

--Ferma, ferma, gridò Caldesi al cocchiere; e il cocchiere arrestò
subitamente i cavalli.

--Che c'è? chiese il capitano Zasio.

E Caldesi con uno scoppio di risa:--Il nome di quel vescovo?

Il giovine Zasio, che in fatto di erudizione non gradiva lo scherzo,
rispose con qualche enfasi:

--Meddix-Tuticus non era un nome proprio, ma il titolo del magistrato
supremo di ciascuna società sannitica. Le loro convivenze erano
teocrazie, e quel titolo è voce di lingua osca.

--No, interruppe Nullo seccamente.

--Come, no? replicò con vivacità e con faccia vermiglia il capitano.

A cui Nullo:--È voce di lingua bergamasca.

Il capitano, la cui serietà erudita dovette capitolare, fece al
cocchiere:--Avanti!

Ma il maggiore Caldesi, vago di nuove celie, mi dimandò:

--Che c'entra monsignor vescovo d'Isernia col tuo _Tuticus_ per la
discendenza sannitica dei _cafoni_?

--Come ora il vescovo, in altro secolo ispiravali e movevali arbitro
il Tuticus, magistrato e sacerdote. Vedi là sulla sinistra quel monte?
È il Taburno. Alle falde, le Forche Caudine.

Ed egli:--Me ne rallegro tanto.

--Sulla cima selvosa sorgeva uno dei sacri delubri custodito da cento
spade fedeli, ove si raccoglievano i Sanniti con religioso tremore,
nel silenzio, nell'oscurità, fra i gemiti delle vittime umane al piede
degli altari scellerati. Là con orribili giuramenti promettevano
sommissione e obbedienza assoluta ai principi sacerdoti. Obbedivano
allora e combattevano per la libertà delle patrie montagne;
obbediscono adesso a una simile autorità, e credono di combattere per
lo stesso fine. I tempi e le forme mutarono, l'istinto di soggezione
religiosa rimase invariato, e sussiste tuttavia vincolo sociale e
ispirazione guerriera.

--Può darsi, osservò con ciera pensosa il capitano, ma le mi paiono
arbitrarie analogie e fragili deduzioni. Un abisso di secoli disgiunge
le due età, e ci vorrebbe la pupilla divina per discernere i
sottilissimi fili del rapporto.

--Io non v'insisto: però v'ha un'altra qualità di prova; le medaglie
scoperte a Rocca d'Aspramonte presso Bojano. Le teste nelle medaglie
paiono fotografie dei _cafoni_; chioma crespa e voluminosa, fronte
bassa e larga, naso schiacciato e narici turgide, zigomi espressi,
mento ampio e labbra senza curve.

--Sembrano i connotati d'un passaporto, fece Caldesi. Se tali le
medaglie, tali i _cafoni_; ma non basta per battezzarli Sanniti. Ci
vuole una prova morale; li vedrò in battaglia.

A Ponte Landolfo ci aperse la sua casa l'esattore delle gabelle, caldo
fautore delle nuove cose e uomo d'accorti consigli. Egli c'informò che
duemila fra soldati regi e gendarmi occupavano Isernia, ove mettevano
capo due o tre migliaia di _cafoni_, i quali mantenevano viva la
ribellione in un raggio di quindici a venti miglia da quel centro.
Costoro, spartiti a squadre che caporali dei gendarmi guidavano,
campeggiavano sui monti dilatando l'orbita della insurrezione a' più
rimoti villaggi, e componevano ugualmente a squadre i nuovi associati
senza distaccarli dalla cultura dei proprî campi.

--E questi, ei proseguiva, sono i più terribili, perchè, scorgendoli
voi alla zappa e alla marra sulle sudate pendici, non ne pigliate
sospetto; ma eglino, ad un segno convenuto, per vie ignote altrui, ad
essi notissime, vi balzano a tergo, oste ordinata e inattesa. Le
vostre genti, quand'anche intrepide, salvo non formino esercito da
schiacciarli, non gl'intimiderà. Solamente li impaurisce il fragore
del cannone. Avete cannoni?

--No.

--Or bene, due cose vi sono indispensabili per vincere, secondo a me
pare: un paio di cannoni, e cautissimo occhio contro le sorprese.

Quivi il maggiore toccandomi colla mano una spalla mi bisbigliò:

--Sai che comincio a crederli Sanniti davvero! Abbiamo lungamente
dibattuto fra noi se dovevano chiedersi i cannoni a Garibaldi; ma
poichè io solo mi vi opponevo, venne deliberato affermativamente, e
commesso a me l'officio d'ire oratore a Caserta per ottenerli. Andai,
dimostrai, insistetti, pregai, ma ritornai senza cannoni. A questa
novella il gabelliere fece un segno di croce sopra il naso. Passate in
rassegna le truppe a Ponte Landolfo, esse mossero per Bojano e noi
deviammo a Campobasso.

Giace Campobasso in una dolce vallea cinta di poggi e di domestiche
collinette floride di vigneti, le quali stranamente contrastano colle
rupi del selvaggio Appennino varcate allora allora. Al nostro ingresso
nella piazza, dalla strada di Civita Nuova arrivava un centinaio di
_cafoni_ insorti, prigionieri di drappelli volanti dei volontari
paesani, legati a due a due con corde ai polsi senza che la
circolazione del sangue abbia messo in gran pensieri i legatori; un
grosso cavo scorrente per lo lungo conservava in colonna le cinquanta
coppie, e _cafoni_ patrioti custodivano e conducevano i _cafoni_
ribelli fra gli applausi della popolazione accorrente e accalcata, e
li gettarono nelle carceri, stivate di già. Le carceri formavano un
lato della piazza, e dalle finestre senza cassettoni, massime di
pianterreno, i detenuti, arrampicati alle inferrate, conversavano
placidamente coi cittadini, e dalle finestre superiori calando borse
chiedevano l'elemosina. Alcuni cappelli tignosi allineati sul lastrico
imploravano con tacita favella l'obolo al passeggiero, e qualche mano
pia distribuiva il rame raccolto ai rispettivi proprietarî. Altri
parlava, altri discuteva, altri chiamava, altri guaiva, altri cantava;
tumulto assordante e perpetuo.

La popolazione ci accolse lietissima, e il signor X..., il più
opulento e riputato dei cittadini, ci aperse le sue case ospitali.

Il tenente colonnello Nullo venne munito dal dittatore di piena
potestà civile e militare nella provincia, per cui l'intendente
De-Luca affrettossi ad ossequiarlo ed a profferirsigli ai comandi.
Alto della persona, bell'uomo, energico, fiero, reprimeva
faticosamente l'ingenita baldanza al cospetto di Nullo più fiero di
lui, e in pochi istanti fastidito della sua facondia romorosa e
soffocante. Con voce metallica e profonda e con gesto soggiogatore,
l'intendente descrisse le sue recenti scorrerie militari in Isernia,
le peregrine prove di valore, gli atti virili di repressione, il
salutare tremore incusso, e sigillò la virtuosa istoria col fatto
della ritirata; secondo me, consanguinea della fuga; gemella della
ritirata di Senofonte, secondo lui.

--Ciò poco monta, sorse a dire Nullo; siete disposto, signor
intendente, a riadunare i vostri commilitoni e a seguirmi?

--Veramente, colonnello, gl'interessi amministrativi della
provincia...

--Bene, bene, riprese Nullo con sottile, ma visibile sogghigno,
provvedetemi d'ambulanze e di viveri che invierete senza indugio a
Bojano.

Frattanto il capitano Zasio, che, pari al Medoro dell'Ariosto,

    «... avea la guancia colorita
    E bianca e grata nell'età novella;
    E fra la gente a quella impresa uscita
    Non era faccia più gioconda e bella,»

era rimaso a geniali colloquî con le signore di casa. Il giovine
guerriero raccontava con ardente linguaggio le meraviglie dei Mille a
una fanciulla di ventun'anni che ascoltavalo con crescente attenzione.
Cognata del signor X... e orfana, visse insieme alla sorella nel
severo raccoglimento d'una famiglia perseguitata dal Borbone, il quale
interdisse per dodici anni al signor X... l'uscita dalla provincia del
Molise. Chiusa in sè stessa, nelle letture assidue, nei lavori
femminili e nelle cure casalinghe ella contrasse abitudini riserbate e
contemplative. Non vide mai Napoli, centro del gran mondo e del bel
mondo. In villa, l'autunno, dalla vetta del monte con avido occhio
cercava quel mondo fra i vaporosi termini dell'orizzonte, schiva delle
assegnate e borghigiane consuetudini di Campobasso, schiva della
pedestre e vulgare gioventù concittadina. Ella perseguiva con pensiero
costante un ideale che in quella valle rimota e solitaria giammai non
avvicinò. Sortiti dalla natura alti e fieri sensi, nudrita d'odio
contro la tirannide che perennemente stillavano le labbra del cognato,
sospirava i terribili mattini della riscossa e della vendetta
nazionale, e idoleggiava ne' suoi sogni un uomo, il quale con gli
studî, con la coraggiosa propaganda avesseli affrettati, e con
valorosa mano avesse aggiunta una foglia alla corona della vittoria.
Nel nobile cuore di un tal uomo, Silvia immaginava di versare il
guardato tesoro di forti e tenerissimi affetti. Non era una bellezza
incontestabile, e per avventura il piglio energico offendeva le
delicate linee della grazia, se pure la sua spontaneità nativa non
rendevalo attraente come il fiore della selva. Spigliata e agile della
persona, avea il passo, la posa, la dignità d'una principessa. Calzava
il breve e asciutto piede con eleganza pericolosa; e se alcuna rara
volta toglievasi i guanti, mostrava una mano lunghetta e rosea, con
pozzette ridenti e con ridenti e rosee e ovali e tersissime unghie.
Aveva bellissimi gli occhi bruni, ai quali le folte ciglia conferivano
un'espressione complessa di voluttà, di mestizia, d'ingenuità, di
penetrazione. I voluminosi e nitidi capelli neri, pettinati a ritroso
e raccolti in un fascio di elaborate treccie, facevano spiccare la
fronte di statua greca, ove esultava la giovinezza. Uno zendado bianco
coprivale a metà la stupenda curva del capo, e aggruppato disotto al
collo scendeva in doppia falda listata di frangia d'oro.

Il velo d'Iside.

Quel dì il capitano e Silvia, attirati inconsapevolmente l'uno verso
l'altra, ebbero più fiate occasione di particolari colloquî: si
trovarono vicini a pranzo, soli a passeggio in giardino nell'ora del
caffè, e dirimpetto in carrozza. Questa serie d'opportunità non fu
ordita, nacque da sè; e noi intertenendoci coi signori X..., vi
abbiamo cooperato. Egli palesossi cavalleresco, appassionato,
eloquente. Vago di sintesi ed educato alla scuola sentimentale degli
umanitarî, le sue idee pigliavano sembianze pellegrine nella mente di
Silvia, e vi s'impressero come una ghirlanda di punti luminosi che
l'abbagliarono. Forse, udite da altre labbra, ella avrebbele accolte
con più cauta deferenza; ma, raccomandate dalla giovinezza e protette
dal valore, ogni acume di critica divenne ottuso. Silvia apparve
ascoltatrice intelligente, interlocutrice vereconda, giudiziosa e
arguta.

Noi c'eravamo accorti di questa simpatia e, per avventura, ne sospettò
anche la sorella. Nell'intervallo in cui il capitano fu mandato da
Nullo all'intendente per accelerare l'allestimento delle provvigioni,
il maggiore Caldesi con pietoso artificio condusse la conversazione su
di lui, e ne sbozzò con forti imprimiture la vita.

Silvia, assisa sopra divano appartato, sfogliando l'albo dei ritratti
e sfiorando col mento la testa bionda d'una nipotina, non dava segno
apparente di attenzione, ma bevea con avidissimi orecchi il grato
eloquio dell'oratore faentino; e quand'egli ragionò del brillante
coraggio di Zasio, io la colsi mentre, disotto agli archi delle
magiche ciglia, essa saettò sul maggiore un'occhiata sfavillante di
gratitudine, e, scolorata in viso, svolse con più rapida mano le
pagine dell'albo.

Al ricomparire del capitano le accoglienze di lei divennero molto più
contegnose di prima, e forse uno zinzino confuse. I loro discorsi mano
mano si fecero meno eruditi, meno abbondanti e i silenzî più
prolungati. Ognuno dei due cercava invano argomenti di chiacchiera,
sentivasi vuota la mente, e dell'inopinata imbecillità stupiva e
dispettava. Lo incontrarsi dei loro sguardi principiò a produrre un
crescente e inesplicabile turbamento, e l'indomani sera, all'opera,
porgendole il braccio sino al palchetto, egli fu assalito da un
tremito, non isfuggito a lei, che gli concesse appena di reggersi in
piedi. Il teatro era illuminato a giorno in onor nostro, ed ella vi
comparve in tutto il fulgore della sua bellezza. L'ampio volume dei
capelli, fisso posteriormente da pettine d'oro a mezzaluna, scendevale
spartito in doppia onda di ricci sul colmo e agitato seno. La profusa
luce di cento lampadi dava alla sua faccia, pallida per l'emozione di
que' due giorni, una trasparenza e un tono di sì squisita delicatezza
che solamente il pennello del Correggio avrebbe saputo colorire.

Alla sinfonia dell'opera precedette l'inno di Garibaldi, nuovo allora
e miracoloso, che cantarono i virtuosi sul proscenio. Dalla
elettrizzata folla eruppe un turbine d'applausi, e in quell'istante di
universale esaltamento, gli occhi dei due innamorati si confusero in
uno sguardo appassionato e decisivo. Dopo lo spettacolo, riconducendo
alla carrozza l'angelica donna, l'uffiziale osò premere leggermente
col suo braccio il braccio di lei, e parvegli che ella non isdegnasse
la tacita dichiarazione. Ignoro se fosse il primo amore di Zasio; era
certamente il primo di Silvia.

Indarno la notte, l'inebriato capitano provò di addormentarsi;
riaccesa la candela, indarno tentò la lettura dell'ultimo
_Politecnico_ che trovò sul tavolo; l'immagine di Silvia
rifletteasigli dominatrice nel pensiero. Parendogli poca l'aria
respirabile nella camera, si rivestì, aperse la porta che metteva in
giardino, e uscì. Ma nemmeno la notturna brezza consentiva al suo
petto traboccante di felicità il libero respiro. Egli esalava la piena
degli affetti in caldissimi sospiri; spiava ne' cieli l'accarezzata
forma, con le mani giunte mandavale baci lassù, e obliandosi esclamò
quasi con un singulto:--Divina Silvia! Silvia non veduta, vide e udì.
Abitava la camera superiore e, da più lunga ora, di dietro allo
sportello della persiana invocava essa pure dal pio raggio delle
stelle quiete al suo cuore commosso.

Il giorno susseguente ci ponemmo in viaggio per Bojano. Il capitano
tesoreggiò il minuto in cui ella passeggiava soletta tra le aiuole del
giardino, le si accostò peritoso, e le disse con voce tremante e con
aspetto smarrito:

--Partiamo; forse non ci vedremo più; una palla potrebbe...

A questa frase s'accorse d'una lagrima sul ciglio di lei e tacque.

--Dunque, addio, Silvia, ripigliò l'agitato giovine.

Silvia, stesegli la mano, quel giorno senza guanti! Egli la strinse
palpitando, e come uscito di sè stesso:

--Silvia, ti amo, balbettò; e fuggì.

Al nostro arrivo in Bojano, Nullo, che immaginò accampati sulla piazza
i tremila volontarî, scorgendo la piazza ignuda, non frenò la sua ira
contro il signor Pallotta.

--Saranno in caserma, fece burlando il Caldesi.

--Dove sono le genti promesse? chiese Nullo ingrecato al gentiluomo
con una ciera che diceva:--Accònciati dell'anima!

--Signor colonnello, mancarono al convegno.

--Avete spedito esploratori?

--Non ne ho trovati.

--Di quanti militi della guardia nazionale pronti a marciare
disponete?

--D'una ventina.

Ed io che conoscevo il lato debole del compare, mettendomi nel
discorso, soggiunsi:

--Li guiderete voi.

--Vi pare decoroso per un maggiore, guidare venti uomini!

L'ingenua risposta ci restituì il buon umore, e pigliammo l'uomo e le
cose dal loro verso, sostituendo l'epigramma e la celia all'invettiva
e alla collera.

I due battaglioni, le guide e i cavalli nostri pervennero già sul
luogo dalla sera antecedente. Il gentiluomo mandò in giro i tamburi
della milizia cittadina per battere a raccolta, e si adunò
l'annunciata ventina con un sergente e due caporali. Mentre Nullo si
congratulava seco loro e li ringraziava, il maggiore Caldesi a me in
aria di canzonatura:

--Questa ventina d'eroi incarna la novissima parola di _Bovianum_,
metropoli della federazione sannitica, e, come ci tramandò Tito Livio,
_opulentissimum armis virisque_.

Lo squarcio erudito del patriota di Faenza riscosse dal sonnambulismo
il capitano innamorato; e, in istile satirico, rompendo il silenzio:

--Sta in difesa di Alberto Mario che _Bovianum_ rimase distrutto da
Silla!

Ma le nostre oziose ciarle troncò un _cafone_ capitato da Isernia, il
quale con allegro sembiante raccontava la improvvisa ritirata dei regi
eseguita nella notte verso Capua con parte dei _cafoni_, e la
scomparsa degli altri per l'appressarsi delle truppe piemontesi. La
grata novella rinfrancò gli spiriti sbigottiti della città che
temevano ad ogni ora una scorreria cafonica, e il novelliero ebbe
carezze e benedizioni. Nullo ordinò immediatamente una ricognizione a
Cantalupo con metà delle genti.

--Sai, Nullo, disse Caldesi con voce più nasale del solito; io non gli
credo, e se fossi in te lo piglierei e lo farei fucilare qui sulla
piazza da questi buoni militi della guardia civica. Che ti pare, eh?

E Nullo:--Si vedrà.

Montati in sella, uscimmo, nelle ore pomeridiane, di Bojano, la quale
si sviluppa in lunga riga alla radice d'un monte dirupato, a dieci
miglia da Campobasso, a venti da Isernia, e forma il vertice
dell'angolo ottuso descritto dalla strada consolare. Mirando ad
Isernia, Bojano costituiva la nostra base naturale d'operazione.
Guadato il fiume Tiferno che le scorre dappresso, movemmo su
Cantalupo, piccola borgata a ridosso d'una ridente collina, un po' a
sinistra della consolare. Giratala con una compagnia, la investimmo di
dietro e di fronte al passo di corsa e vi snidammo uno sciame di
_cafoni_ insorti, i quali ricoverarono velocissimi sovra più alto
monte da tergo, sulle cui sommità ravvisammo altre squadre postate di
riserva e in vedetta. Il fratello del nostro ospite di Cantalupo,
arrivato da Isernia nella notte, ci ammonì che i regî e gl'insorti
accampavano in quella città, e che vi si aspettava da Capua il
generale Scotti con quattromila uomini.

--Evidente dunque, susurrò Caldesi al mio orecchio, che la notizia
fatta spargere in Bojano nascondeva un'insidia. Il perfido messaggiero
certamente ora cammina relatore al nemico delle nostre povere forze.
Quattro palle in petto gli avrebbero chiusa la bocca. Ma Nullo ha la
natura del leone e sdegna di percuotere i colpevoli volgari!

Il giorno seguente (17 ottobre) sul mezzodì, chiamato da Nullo, giunse
il resto della colonna da Bojano e, lasciati cento uomini guardiani di
Cantalupo, si proseguì alla volta d'Isernia. Dopo le due, eccoci
all'altezza di Castelpetroso. Troviamo la borgata letteralmente
deserta, toltine un vecchio e una ragazzetta che ci contemplavano con
atteggiamento d'idioti senza rispondere alle nostre interrogazioni.

--Quest'aria di cimitero, osservò il maggiore, non mi piace. Il
gabelliere di Ponte Landolfo ci parlò di agguati. Ei mi sembra il
caso. Di codesti abitanti non ne vidi uno al lavoro dei campi. Dove se
ne andarono eglino? Il luogo eminente di Castelpetroso è naturalmente
forte; io mi arresterei qui per oggi. Qui abbiamo le spalle
assicurate. Che ne dici, Mario?

--Anch'io, risposi. Non sembra indifferente esplorare la montagna per
chiarire la causa di tale derelizione. E giacchè i Piemontesi avanzano
dalla via di Sulmona, di qui potrebbesi irrompere di fianco sul nemico
accapigliato con essi di fronte. Tale consiglio prudente mi
suggeriscono i dubbî di Nullo sulla fermezza de' nostri soldati.

A cui Nullo:

--Occuperemo Pettorano a due miglia da Isernia; vedetelo lassù, sulla
punta di quel monte a pan di zucchero. Dobbiamo gettarci sul nemico
anzi che arrivi il rinforzo di Scotti. Se gl'insorti ci minacceranno
le spalle, noi sposteremo la nostra base d'operazione da Bojano a
Castel di Sangro, mutandoci siffattamente in vanguardia dei
Piemontesi. Se irresistibilmente attaccati di fronte, ripareremo con
sicurezza su Bojano facendo testa a Castelpetroso.

--Però non credo, replicò Caldesi, che giovi scendere da un'altezza
sicura per risalirne altra dubbiosa.

--L'idea di Nullo è brillante e schiettamente garibaldina, io
ripicchiai, ma presuppone l'idea sorella che noi sfondiamo il nemico
procedente da Isernia per effettuare la marcia di fianco sulla
consolare di Castel di Sangro; la quale idea ne presuppone una terza:
l'intrepidità dei soldati.

Comunque fosse di queste nostre speculazioni e discrepanze
strategiche, prepotendo la massima abituale dell'andare avanti, si
procedette sino ad un'osteria sulla consolare alle falde di Pettorano.
Ivi attendendo le nostre genti, ristorai di acqua e di biada il mio
cavallo, presagendo che in quel dì avrei dovuto contare non poco sul
fatto suo.

Alle quattro facemmo il nostro ingresso in Pettorano.

Da Cantalupo a Pettorano apresi, solcata dalla consolare, una gola
ripidissima e alpestre di ben tredici miglia, convergente sino a
Castelpetroso e quasi parallela sino a Pettorano. Poi essa spandesi in
dolce vallata ove giace Isernia, che si vede e si domina da Pettorano.

Nullo affidò un mezzo battaglione al capitano Zasio, commettendogli di
piantarsi su Carpinone, arduo monte di prospetto a Pettorano. Collocò
il maggiore all'osteria con sessanta uomini di riserva; e a me ordinò
di munire, coi seicento rimanenti, il colle di Pettorano che protende
una delle sue pendici a guisa di cuneo orizzontale verso Isernia.

Ciò fatto, spiegai in catena una mezza compagnia a traverso la gola,
anello tra le falde di Carpinone e di Pettorano. Alle quattro e mezzo
principiò la manovra del nemico da Isernia. Un battaglione di regî, la
più parte gendarmi, avanzava sulla consolare e sui campi laterali con
mezzo squadrone di cavalleria; alle ali _cafoni_ a torme. Per animare
i nostri con una prova segnalata di valore, Nullo mi fece raccogliere
le guide e i soldati d'ordinanza.

Così in diciotto si scese da Pettorano; toccata l'osteria, il maggiore
e Mingon si aggiunsero al drappello. Di là al galoppo all'incontro
dell'avanguardia borbonica sulla consolare. Quei di Carpinone,
testimoni del fatto, ci battevano le mani, e mandavano alte grida
d'entusiasmo ripercosse dal monte di Pettorano. Spintici in prossimità
dei regî, li caricammo a briglia sciolta, e li mettemmo in volta
disordinati.

--Indietro, indietro! I _cafoni_ al monte! urlarono di repente i
nostri di Carpinone. Noi li udimmo, e nondimeno si proseguì
l'irruzione. E per verità vivissime e inaspettate scariche ci colsero
di fianco dalla pendice avanzata di Pettorano, che io avevo guernita
di duecento uomini. Nullo non sapeva persuadersi come quell'importante
posto fosse stato preso senza lotta, e temendo di perdere Pettorano,
divisò di rifare il cammino sino alla borgata. Si accese pertanto un
combattimento strano fra noi cavalieri e i _cafoni_, che dietro agli
alberi ci bersagliavano diabolicamente a pochi passi. Al sottotenente
Bettoni, delle guide, una palla infranse una gamba e lo condussero
alla nostra piccola ambulanza all'osteria. Noi cacciando i cavalli su
per l'erta nell'oliveto con rivoltelle e con spade venimmo alle
strette coi _cafoni_. Intanto, scesi in aiuto alquanti da Carpinone, e
accorsi quelli che io collocai nella gola, dopo un accanito contrasto
ci riescì fatto di ributtare gl'insorti in piena rotta. Nullo mi
ordinò di assumere il comando dei sopraggiunti, d'inseguire i
_cafoni_, di regolarmi secondo le circostanze, e di tornare a
ragguagliarlo. Egli e il maggiore e le guide voltarono il cavallo
verso Pettorano.

Messi insieme un centocinquanta soldati, li guidai contro i fuggenti.
L'avanguardia regia respinta dalla nostra carica a cavallo, il
successivo ritrarsi dei _cafoni_ e lo affacciarsi del mio corpo
persecutore gettarono qualche scompiglio nella colonna nemica, la
quale ripiegava sovra Isernia. Tentò essa due volte di fronteggiarmi,
ma raccolti i miei in massa l'assaltai alla baionetta, e pervenni di
gettarne una parte sulla sinistra e d'impedire il suo ricongiugnimento
col rimanente che per la consolare si rifugiò in Isernia. Mi sorse in
pensiero d'entrarvi insieme alla rinfusa, ma ignoravo quale fosse la
mente della cittadinanza; temevo d'oltrepassare le intenzioni del
comandante, e quantunque i miei avessero superato le mie speranze, non
ero certo della loro virtù per un cimento supremo e cotanto ineguale.
Stetti perplesso alquanto, e al fine deliberai d'impadronirmi della
linea di collinette che limitano la pianura e sovrastano a Isernia;
ove mi collocai. A man ritta la consolare biforcandosi volge ad
Isernia e a Castel di Sangro. Mi rallegravo d'averla sgomberata dai
nemici epperò di poter porgere facoltà a Nullo d'eseguire senza
ostacolo l'antiveduto cambiamento della base d'operazione, se
necessario.

Era già mezz'ora di sera e nessun ordine mi venne trasmesso dal
comandante. Laonde, consegnata ad un capitano la custodia della
collina, rifeci la via al quartieregenerale di Pettorano per riferire
il risultato delle mie operazioni, per apprendere i particolari della
vittoria su tutta la linea e per ricevere nuove istruzioni. Una
sequela d'archibusate partite da Pettorano mi fastidiva il ritorno, e
deploravo il solito vezzo dei volontarî di tirare ad ogni ala di
vento, anche contro ai proprî amici. Giunto con qualche difficoltà a
traverso i campi, intercisi da fossati e da siepi, sulla consolare,
mossi al trotto verso l'osteria discosta circa due miglia. Dopo un
miglio m'imbattei in alcune squadre dei nostri carri senza cavalli.
Riconosciutici a vicenda, queglino mi dimandarono notizie con voci
confuse e paurose, narrando che furono sbaragliati dai regî e che pel
momento favorivali l'oscurità.

--Caso parziale, io risposi con accento rassicurante; noi abbiamo
battuto completamente il nemico e la giornata è nostra.

A tali asseveranze stettero paghi e lieti, ed io tirai diritto al
passo. Il silenzio diventava di più in più profondo e solenne. Dopo
breve tratto, dalla pendice di Pettorano la consolare piega a
sinistra, traversa la gola, poi si ripiega a destra alle radici di
Carpinone. Ivi mi percossero l'orecchio gemiti di moribondi, e la
notte stellata consentivami appena di distinguere alcune masse brune
sul fondo chiaro della strada. Smontai di sella e riconobbi che gli
erano cadaveri e feriti, tragicamente mescolati insieme. Subito
m'acquetai ricordando i caduti nel combattimento che sostenemmo per
espugnare la pendice. Sperando che qualcuno di quei dolorosi potesse
intendermi, li affidai che avrei mandato senza indugio a raccoglierli
e medicarli. Veruno pronunciò sillaba, e l'ininterrotto rantolo
dell'agonia fu la sola risposta che mi venne udita. Ma nel procedere
sul mesto sentiero, la vista frequente di consimili masse brune
funestò i sereni pensieri della vittoria, e mi assicurò che quello fu
teatro d'altre e fiere lotte, mentre io all'avanguardia guadagnavo le
colline d'Isernia.--Quant'è grave il sonno sugli allori! dicevo
sospirando meco medesimo. Affè di Dio, si direbbe che non ci fosse
anima viva! Poveri diavoli, le fatiche della marcia, le ansie della
battaglia li affranse. Solito effetto del primo fuoco. La sensazione
del primo fuoco stanca più della marcia. Avevo ragione di obbiettare
ai dubbî di Nullo sul loro valore, e Nullo si sentirà arcicontento del
torto, considerando che le prime armi dei volontarî americani nella
guerra dell'indipendenza, e dei francesi nel 1792 si riepilogano in
belle e buone fughe. Però se la campagna è seminata di morti a
simiglianza della strada, vincemmo peggio di Pirro.

Con siffatte riflessioni capitai all'osteria. Bruciavo dal desiderio
di risapere gli eventi, di consolare le fauci riarse con un bicchier
di vino e lo stomaco vuoto con qualche vivanda.--Quivi, pensai,
piglierò in un favo il maggiore e Mingon a cena. Entrai, chiamai,
picchiai e corsi la casa di dentro e di fuori. Deserto! nè ospiti, nè
oste, nè creatura viva.--Bene, dissi, l'oste se ne sarà ito saviamente
e gli amici sarannosi ristretti a Pettorano. Ma, perdio, nemmeno un
picchetto di guardia! nemmeno una sentinella! Traversai la consolare e
cavalcai su per la salita di Pettorano, scacciando dall'animo le cure
uggiose che vi faceano capolino. La fantasia mi figurava la statua
della vittoria coperta d'un manto funebre.

A mezzo dell'erta incontrai un pecoraio col suo gregge reduce dai
pascoli propinqui; e con accento nemico rispose alle mie
interrogazioni che non sapeva nulla, e giratami villanamente la
schiena affrettossi alle pecore. Salendo con screscente sospetto, in
prossimità delle prime case di Pettorano arrestai un contadino che
discendeva, e impugnata la rivoltella gli domandai:

--Vieni da Pettorano?

--Sissignore.

--Vi sono gli uffiziali garibaldini, quei dalla camicia rossa?

--No.

--Come no? Dimmi il vero o ti buco la testa con due palle.

--Signore! ci sono i gendarmi e i soldati di re Francesco che mangiano
e bevono in allegrezza.

--Ma gli uffiziali e la truppa garibaldina?

--Circondati e vinti dai soldati e dai paesani, un'ora innanzi sera i
cavalieri tentarono ritirarsi per la consolare, e i fanti per i monti
sulla direzione di Bojano.

Sbalordito da questo annunzio fulmineo, stetti alquanto sospeso e mi
lampeggiarono alla mente in riprova gli ordini indarno aspettati, i
colpi di moschetto di Pettorano, i carri di provvigione e il drappello
tagliati fuori, il silenzio, i feriti senza soccorso, l'osteria
abbandonata. Poscia ripigliai:

--I _cafoni_ dove si diressero?

--Si accamparono sulle alture che dominano la consolare da qui a
Castelpetroso.

--Sono in gran numero?

--Non saprei quanti con precisione, ma certo da due a tremila.

--Tu m'inganni ed io t'ucciderò. Dissi e montai il cane della
rivoltella; indi soggiunsi:

--Precedimi a Pettorano. Mossi il cavallo; e il contadino a me:

--Arrestatevi, signore; v'assicuro che là trovate i gendarmi, e
v'incamminate alla morte. Se volessi ingannarvi, vi direi--andiamo.

--Ebbene, va a verificare di nuovo, io t'attenderò ai piedi della
salita; giurami sull'ostia sacra che ritornerai e mi riferirai la
verità; io ti regalerò due piastre.

--Giuro e vado per accontentarvi; ma i gendarmi ci sono come voi siete
qui.

Parevami codardia lo scendere, eppure trepidando sulla sorte della mia
schiera e risoluto di raggiungerla, scesi. Venti minuti appresso
ricomparve il contadino a riconfermarmi il fatto terribile. Dategli le
due piastre e stesagli la mano, lo ringraziai stupefatto assai più
della sua generosità che della nostra disfatta. Egli, separandosi da
me, mi augurò buona fortuna e mi consigliò di pigliare la cima dei
monti. Io mi avviai verso le colline d'Isernia al mio manipolo. Ma a
poca ora di là l'incontrai sgominato e atterrito e assottigliato; nel
riconoscermi, quei miseri, si racconsolarono alquanto, e riseppi che
un'ora dopo la mia partenza un nugolo di nemici fece impeto sulla
collina, e ne li ributtò all'arma bianca, perseguitandoli.

Io li ragguagliai della situazione, e gl'invitai a seguirmi verso
Bojano, sulla consolare, aprendoci la ritirata con la punta della
baionetta.

--La ritirata di soldati garibaldini, conchiusi, deve risolversi in un
assalto.

Nativi del Molise quei volontarî, pratici dei luoghi, m'invitarono
alla loro volta di lasciare il cavallo, di montare sulla cima delle
montagne, e di cima in cima riparare a Bojano con minore pericolo.

Risposi che in quello infortunio non erami grave il morire, che avrei
stimato viltà abbandonare il cavallo, e che preferivo la morte
affrontando il nemico, alla salute evitandolo. Eglino non pertanto
presero l'erta, ma, divisi nell'opinione, si divisero per le opposte
montagne, ed io soletto voltai e mi mossi sulla consolare. Percorse
due miglia, la gola allargandosi s'impaluda ed esala miasmi crudeli.
Afflitto dalla febbre perniciosa nel settembre e paventandone la
ricomparsa, balzai in piedi, tolsi, disotto alla sella, il panno e me
ne feci mantello. Radi colpi di moschetto disturbarono di poco il mio
viaggio. I cafoni sicuramente si concentrarono alla termopile di
Castelpetroso. Procedevo al passo per non istancare il cavallo
travagliato da nove ore d'incessante lavoro, serbandolo al supremo
esperimento. Un miglio ancora e m'apparve sulla via biancastra una
macchia nera. Dapprima la giudicai un albero abbattuto, ma il rumore
dei passi di gente armata sul dosso soprastante m'indusse a crederla
un gruppo di _cafoni_. In qualche minuto mi s'intimò l'_alto, chi va
là?_ A cui, _Viva l'Italia!_ gridai, e mi spinsi avanti al galoppo.

--Ferma, amici, amici.

Era un pugno di sbandati, fra i quali parecchi uffiziali. Non appena
io pronunciai alcune parole, mi vennero udite dall'alto le seguenti
esclamazioni.--Ah! signor Alberto! signor Alberto! il mio padrone! E
sento un uomo balzare da un enorme masso sulla strada e dietro di lui
un cavallo fare il medesimo salto senza fiaccarsi le gambe. Strettemi
le ginocchia, quell'uomo ripetè con traboccante emozione:

--Ah! signor Alberto! vivo! ora sono contento!

Era Pietro di Bergamo, il mio soldato di ordinanza.

Sei o sette di loro contemporaneamente s'industriarono di chiarirmi
sulle vicende della giornata. Sfogato il naturale talento di
spassionarsi in massa, mi furono cortesi di favellare uno alla volta.
E narrarono che altri trovossi sul colle di Pettorano, altri
all'osteria, e Pietro con lo stato maggiore. Appresi adunque che il
battaglione regio e le due ali _cafoniche_ marciavano da Isernia in
arco di cerchio, di forma che la sinistra toccando il monte di
Carpinone e la destra investendo la pendice di Pettorano, il
battaglione nel centro figurava in seconda linea, e che intanto un
secondo corpo di gendarmi uscito dalla opposta porta d'Isernia, per
celati sentieri irruppe su Pettorano di fianco, appoggiato dalla
manovra simultanea della mentovata ala destra. Quest'ultima operazione
eseguitasi mentre il comandante e noi del suo seguito si assaliva a
cavallo il battaglione del centro, i difensori di Pettorano,
avviluppati da due fuochi, separati da Nullo, che avrebbeli
coll'esempio trattenuti o tratti in opportuno luogo, diedero volta a
passo accelerato. La discesa sulla consolare e il ricongiungimento con
gli amici furono loro vietati dalla presenza di ben tremila _cafoni_
in armi, i quali, sbucati dai versanti esterni della doppia riga di
monti e calativi per primi, preclusero da tergo il passaggio.

Laonde, la scarmigliata colonna, offesa per ogni verso, arrampicossi
sulle scoscese sommità con un filo di speranza di ridursi almeno in
parte a salvamento. In questo mezzo, riedeva Nullo per difendere
Pettorano, ma, pervenuto all'osteria, grosso nerbo di gendarmi e di
_cafoni_ dalle finestre e all'aperto, lo accolse con un fuoco
micidiale. Ricostituita, in mezzo alle palle borboniche, la
retroguardia, già trabalzata dall'osteria, e le guide, con ripetuta
irruzione saggiarono indarno di schiudersi il varco. Allora la scorata
retroguardia rifugiossi al monte, ripromettendosi la compagnia degli
accampati in Carpinone. Nullo, il maggiore Caldesi e sette guide,
rimasti deserti, spronarono i cavalli nella folta dei nemici, e mercè
di quell'impeto, di minacciose grida, di sciabolate e di colpi di
rivoltelle passarono oltre, ma poco più in là urtarono nella
moltitudine dei _cafoni_, e se ne ignora la sorte. Pietro, impedito di
seguirli, dovette cacciarsi col cavallo alla montagna, e fra balze e
greppi penosamente si trascinò là ove lo rividi. Se non che, la
terribilità della situazione non era la morte, giudicata inevitabile,
sibbene il modo della morte. Quegli spietati non accordavano
quartiere, e i caduti nelle loro mani, o feriti o sani, lentamente
uccidevano.

Durante l'esposizione della lacrimevole istoria, io meco stesso andavo
indagando le cause del disastro, e parevami che Nullo, scambiato il
temporeggiamento col tempo perso, errasse scostandosi dalla posizione
gagliarda di Castelpetroso, prima d'avere munite le spalle e
addestrata al fuoco la schiera novizia; e poscia, anteposto all'utile
coraggio la temerità perniciosa, errasse dipartendosi, per avventarsi
col suo stato maggiore sul nemico, dal battaglione di Pettorano. Lui
presente e i suoi, la pendice non sarebbe stata perduta, nè Pettorano
presa senza combattimento, e, in ogni ipotesi, egli avrebbe potuto
colorire il disegno d'invertire l'ordine della guerra trasferendosi,
con movimento obliquo, sulla consolare di Castel di Sangro, mentre le
maggiori forze nemiche adunavansi su quella di Bojano. I nostri di
Carpinone ne avrebbero agevolato la riuscita.

Esaurite le informazioni e le considerazioni, io così parlai a quella
banda di afflitti:

--Strettamente recinti dal nemico cento volte più poderoso di noi,
impossibile la resa perchè esso tortura e scanna i prigionieri e
perchè i garibaldini non si arrendono. Noi siamo perduti. La fortuna
ci ha riserbato questa fine, ma la nostra volontà ce la farà subire
con infamia od affrontare con onore. Probabilmente la notte persuase
il nemico di raccogliersi in Castelpetroso, ov'egli aspetterà le
vaganti reliquie della nostra legione che tentassero il ritorno,
sinchè il nuovo sole gli conceda di trucidarle per la campagna. Lo
stato disperato v'ispiri il coraggio della disperazione. Vi propongo
che ci apriamo il passo di Castelpetroso con la baionetta; io mi porrò
in testa di colonna. Uniti e risoluti, qualcuno di noi potrà escirne
vivo. La via dell'onore è anche la via della salute. Avanti!

Scossi e riscaldati dalla mia concione, benchè adagio, mossero i piedi
e mi tennero dietro. A mezz'ora di là, c'imbattemmo in una carrozza
rovesciata sull'orlo della consolare, senza cavalli. Era la carrozza,
ch'io feci noleggiare a Caserta da Pietro. Dinanzi ad essa giaceva il
vetturino immerso nel proprio sangue, che si dibatteva nell'ultime
angosce della morte. Poco più giù, sulla china, stavano supini varî
cadaveri ignudi; alla luce di fiammiferi ravvisai Bettoni di Cremona,
ferito sotto Pettorano, sottotenente delle guide, Lavagnolo di Udine,
Mori di Mantova, guide; il soldato d'ordinanza di Caldesi e alcuni
altri che non riconobbi; tutti trafitti da arma bianca. Solo il
cencioso vetturino era vestito. M'accorsi che il miserando spettacolo
svigorì gli animi della mia squadra. Pur nondimeno si andò avanti, io
vuotando il sacco delle buone ragioni, e Pietro associandovi alcuna
salutifera piattonata sui renitenti. Un'ora di più, e spuntarono sul
basso della strada varie case della fatale borgata, distaccate da essa
un quarto di miglio; ce le indicarono le striscie di luce uscita dai
balconi socchiusi. Io chiamai quattro dei più intrepidi a precedere la
colonna in due coppie a cinquanta passi per esplorare la strada e
antivenire una sorpresa, con ordine di ripiegarsi sulla nostra fronte
in prossimità della borgata. Faticosamente potei deciderli a venti
passi, e in qualche minuto, indietreggiando, si rimescolarono con gli
altri. E a me che ne li rampognava, una voce ostile mi saettò che
invece di mandare avanti altrui, vi andassi io stesso.

--Andrò, risposi, se uno di voi assume il comando in luogo mio.
Promisi d'essere primo nell'entrata di Castelpetroso e sarò primo. Ad
ogni modo qui siamo tutti ugualmente primi.

Io e Pietro all'antiguardo, e i tetri guerrieri ci tenean dietro
lentissimi. Oltrepassato in pace il casolare, eccoci al fine a
Castelpetroso. Costrutta a tre quarti della montagna ripidissima,
Castelpetroso è una borgata lunga oltre mezzo miglio, tortuosa e
solcata dalla consolare. In quella notte vi si attendarono
effettivamente due migliaia di _cafoni_, perchè punto strategico.

A un gomito della strada arrestai i seguaci, e li arringai di nuovo
quanto più calorosamente mi venne fatto. Frattanto i posti avanzati
dei _cafoni_, impediti di offenderci coi fucili, perchè ivi il monte,
ergendosi a picco, ci cuopriva, rotolarono sassi e macigni che ci
rovinavano addosso; allorquando da un cespuglio di faccia, appartato
dalla consolare, s'intese il _chi va là?_ Pietro chiesemi che cosa
dovesse rispondere.

--Rispondi: _Viva l'Italia!_ No: _Viva Garibaldi!_ Capiranno meglio.

Replicarono alla nostra risposta con un colpo di fucile che chiamò
all'armi le masnade.

--Amici, così io parlai; ora alla prova. Avanti! Viva l'Italia! Io vi
precedo. I sassi piovuti feceli titubare, la carabinata li distolse
dalla forte risoluzione, e retrocedettero. Indirizzatomi a Pietro, gli
dissi:

--Vieni tu?

--Vengo.

Vôlto un pensiero d'addio alla moglie mia, mi spiccai al galoppo.

Il nemico, schierato sul ciglione che costeggia da un capo all'altro
della borgata la consolare serpeggiante, ci aspettava coll'arme
puntata. Una scarica di prospetto ci salutò nell'ingresso, e, girato
l'angolo, fummo tempestati di fianco da un turbine di palle a brucia
pelo. Pietro, che galoppava alla mia sinistra, giudicò prudente di
porsi alla dritta, ond'io coprendolo gli fossi schermo, ed attuando
questa manovra mi levò dal piede una staffa. Inefficace precauzione,
imperocchè nel descrivere le curve e gli angoli della contrada,
eravamo talora fulminati e di fianco e di faccia e da tergo. Un getto
continuo di cartucce accese, tanta era la propinquità degli offensori,
balenava per ogni verso intorno a noi e ai cavalli. Agli spessi
volgimenti aggiungevasi il forte pendìo che ne costringeva a
rallentare il corso, e ci offrivamo al nemico più continuo e più
agevole obbietto. Il mio cavallo, sempre irrequieto e indocile nei
combattimenti, quella notte, forse penetrato della gravità del caso,
aveva messo giudizio e filava diritto come una freccia. Intanto si
andava avanti. Pietro impugnava uno spadone, io la rivoltella per
farci largo nella possibilità d'un assalto sulla via; e studioso
dell'equilibrio mi occupavo nel tempo stesso a tirare or da un lato
ora dall'altro il panno che m'ero già tolto di dosso e avevo posato
sul collo del cavallo: la cura della umidità del di poi e della febbre
probabile, mi distraeva dal fuoco attuale e dalla morte certa. I
_cafoni_, irritati di non vedermi cadere malgrado i cento e cento
colpi, raddoppiarono di lena coll'appendice delle feroci imprecazioni,
degli ululi furibondi, e ne intesi anche di donne. Era un tumulto.
Sulla fine della borgata la strada sviluppasi in emiciclo nella
congiunzione di due monti, ove le offese nemiche allentarono. In capo
ad esso un cavallo ucciso ingombrava il passo: quel di Pietro
trascorse senza difficoltà, ma il mio, affetto dal ribrezzo del
confratello estinto, rinculava, dava volta, impennavasi. Il nemico,
profittando dell'intoppo, mi bersagliò con tiri convergenti e gettossi
sulla strada per afferrarmi. Finalmente, più del ribrezzo, potendo
sull'animo della sconsigliata bestia la logica degli speroni, si
risolse di saltare il morto e di conservare due vivi.

Colà la gola si spalanca, la consolare cala dalla costa all'alveo del
Tiferno e lo traversa; i tiri sempre più discosti e innocenti grado
grado cessarono. Conceduto qualche respiro ai cavalli e acceso il
sigaro:

--Senza di lei, mi fece Pietro, partito fra l'ammirazione e la gioia,
io non ci sarei passato per Dio! e non so chi altri ci sarebbe
passato. Ora possiamo contare d'essere nati due volte a questo mondo.

Nondimeno sino a Cantalupo sovrastava il pericolo d'un'imboscata, e
benchè si progredisse in sull'avviso, estimavamo oggimai un gingillo
qualunque sbaraglio. Ma la consolazione d'avere campata
prodigiosamente la vita in tanto frangente ci amareggiavano il
ricordarci degli amici trucidati, l'ignota fine dei rimanenti e la
scena nuova per noi della sconfitta. Contristati dalla pietà, dalla
incertezza e dall'umiliazione, a mezzanotte s'entrò in Bojano. Sulla
piazza, una pattuglia della guardia nazionale ci fermò e le chiedemmo
ansiosamente novelle e risapemmo che alcuni erano arrivati. Smontati
alla stalla, sparsa di cavalli sdraiati con tale abbandono che
parevano spirati, volai alla casa del gentiluomo, con cuore
trepidante. Sedeva egli sul letto, sgomento e livido come una larva,
con l'orecchio teso, immaginando _cafoni_ ad ogni ala di vento.
Eppure, memore dell'ingrato scherzo di Maddaloni e della catilinaria
della vigilia, nel rivedermi dopo la dispersione e la ruina, un lampo
di soddisfazione guizzò negli occhi incavati, e un fuggitivo sogghigno
gli contrasse gli angoli della bocca. Ne l'ho redarguito più tardi;
per allora gli dimandai affannosamente degli amici. Entrato nella
stanza indicatami, trovai Nullo corcato e Sottocasa da Bergamo, guida.
Eglino a me ed io a loro sembrammo apparizioni. Mi raccontarono
sommariamente che il maggiore Caldesi posteggiò alla volta di
Campobasso per trasmettere un telegramma a Garibaldi, che nulla
sapevasi del capitano Zasio, che quasi metà delle guide perì nella
ritirata, e che appena un'esigua porzione della colonna fin'allora
chiappò la riva.

--Un'ora prima del tramonto, continuò Nullo, circuiti e stretti da
ogni canto, rompemmo violentemente il circolo degli assalitori davanti
all'osteria, percorremmo la consolare, sotto un fuoco di fila a dieci
passi durante cinque miglia, sino al di qua di Castelpetroso, pestando
e ferendo quanti s'ardivano sbarrarci la via. Gl'infami assassinarono
in carrozza Bettoni e qualche altro ferito, Lavagnolo e l'ordinanza
del maggiore che li scortavano.

--Li trovai, interruppi, cadaveri e spogliati.

--Mori, ripigliò egli, ebbe ucciso il cavallo, e aggrappatosi alla
coda d'altro cavallo venne atterrato e spento di moschetto e di
pietra. Il piccolo drappello lottando con valore e con calma
sopravvisse in parte all'eccidio con sì meravigliosa fortuna che
tuttavia parmi una illusione. Non so comprendere come quegli astuti
villani non abbiano asserragliato la strada, e spiego la singolare
fortuna nostra congetturando che tirassero al cavaliere, avidi del
cavallo. E per ciò e per la velocità e per l'audacia radi colpi
percossero.

--A me però, disse Sottocasa, all'uscita di Castelpetroso ammazzarono
il cavallo, ed io rimasi confitto in terra colla gamba destra sotto il
suo ventre. Inutilmente mi sforzai d'estrarnela, e frattanto assistevo
all'andirivieni dei _cafoni_ sul ciglione, intesi a tirare sui
trascorsi, o in attenzione di nuovi vegnenti. Essi non m'uccisero
forse perchè, vittima certa, mi riserbavano a più studiato supplizio;
quando dopo mezz'ora d'agonia, in un sussulto estremo del cavallo che
moriva, cavai la povera gamba lacera e schiacciata. Trascinatomi a
quattro zampe fino al margine della consolare, diroccai a valle. Di
laggiù, tutto ammaccature e guidaleschi, zoppicando e dolorando, in
cinque ore feci le dodici miglia sin qui.

Anch'io li ragguagliai delle mie avventure, lumeggiando in ispecie il
serafico candore ond'erami sorbita la certezza della vittoria, e la
brama, condita d'una dose di vanità, di far rapporto al comandante
delle mie gesta, di cui già avevo ordito la tela della narrazione e
composto il riepilogo sullo stile di Tacito: _il nemico rovesciato in
Isernia, le alture occupate, la via a Castel di Sangro liberata_. Così
eglino, in mezzo alle tragiche imagini di quella giornata, sorrisero
un tantino alle mie spese.

Al tocco ci demmo la buona notte. Dopo sedici ore di sella, e digiuno,
mi addormentai sul sofà nell'atto di svestirmi, e alla dimane trovai
una braca e uno stivale cavati e una braca e uno stivale calzati.

Nella notte e al mattino capitarono nuove genti, ma nessuna traccia
ancora di Zasio. Passeggiando sul mezzodì verso il Tiferno, mi
occupava molto pensiero di Silvia.--E s'ei fosse morto, io mi
chiedeva, che avverrà di lei? come celarglielo?--Mi figuravo la
bellissima donna, desolata, impazzita; mi sentivo pieno il cuore di
compassione e di malinconia.--Fin da ier sera ella sa certo del nostro
disastro, e il maggiore avrà pure dovuto in un modo o nell'altro
confessarle d'ignorare il destino di lui.--Ma le dimande, le risposte,
le supposizioni, la pietà, ond'ero agitato, sospese il trotto d'un
cavallo sul ponte. Ravvisai immantinente il giovine capitano.

Serratiglisi intorno cinquanta uomini delle due compagnie, ond'egli
campeggiava in Carpinone, le quali nella sùbita invasione dei _cafoni_
alla schiena si sparpagliarono, Zasio tentò con vano impeto la calata
sull'osteria nel momento della mischia. Riguadagnata la vetta e
travagliato dai nemici postati in luoghi inaccessibili, destreggiossi,
con avvedute e ardite evoluzioni e con felici scaramuccie, la notte e
il mattino fra boscaglie e valloni e rupi, conducendo due terzi della
brava coorte alla stanza sicura di Cantalupo.

Alle due Nullo rassegnò la riaccozzata colonna sulla piazza di Bojano.
Duecento uomini muti all'appello, e sei dei quattordici distaccati dal
quartiere generale del dittatore. Il giorno successivo ripartimmo per
Campobasso.

In casa dell'ospite X..., a cena, spiegando la salvietta, ciascheduno
di noi vi trovò entro un pugnale di finissimo acciaio con la scritta
all'acqua forte, _vendetta_. Era lavoro d'una fabbrica d'armi bianche
di Campobasso giustamente famosa nelle Sicilie, ignorata altrove, e
dono simbolico di Silvia, presente e malata.

L'indomani sera in teatro, a mezzo dell'opera, i cantanti intuonarono
l'inno di Garibaldi. L'intendente De Luca dal palchetto troncò quella
musica, gridando:

--Basta, basta, non più inno. Viva il generale Cialdini, vincitore dei
Borbonici e dei _cafoni_ al Macerone presso Isernia. Viva il re
galantuomo!

Prima ingratitudine contro il Liberatore, di cui la serie la palla
d'Aspromonte non chiuse.

Noi tumultuando urlammo _Viva Garibaldi!_ Rivolemmo ostinatamente
l'inno, e l'inno fu cantato e ricantato.

Tornando a Caserta, il maggiore Caldesi mi fece:

--Ora credo anch'io puro sangue sannitico i _cafoni_ del Molise.




VI.

L'addio


--Perchè ve ne state laggiù? mi disse Garibaldi, a pranzo, nel palazzo
reale di Caserta, il dì dopo del nostro ritorno dall'infelice
spedizione; accostatevi e narratemi i casi d'Isernia.

Missori, Nullo, Zasio, Caldesi ed io, nauseati della frega adulatrice
e vanitosa di molti uffiziali d'assidersi in mostra vicino al
generale, ci raccoglivamo invariabilmente al lato opposto della mensa.

Conoscendolo insofferente di lunghe ciarle, gli raccontai l'accaduto
con succinto discorso, e il maggiore Caldesi mi soccorse felicemente
rilevando con elocuzione originale i tratti comici della tragedia. A
Garibaldi era noto l'evento per minuto, dal rapporto del comandante
Nullo; ma volle con pensiero gentile promuovere l'occasione di
manifestarcisi contento di noi, benchè battuti, come se gli ci fossimo
ripresentati vincitori.

--Così il Senato Romano, io osservai sorridendo, andò incontro a
Varrone disfatto a Canne.

--Ecco il fattarello analogo! proruppe Caldesi, provocando la risata
degli amici con codesta sua frase ripetuta ad ogni passaggio erudito
che io, per aprirgli la vena faceta, andava con istudiata frequenza
innestando nelle nostre conversazioni.

E proseguì:--Generale, i disastri di Caiazzo e d'Isernia sono le tinte
scure che danno risalto alla luce delle vostre vittorie, e provano che
si vince solo quando voi guidate.

--Fistolo! io esclamai. Non ti sapevo così perito nell'arte del
cortigiano. Sembri un gentiluomo di camera di Luigi XIV.

--Altro fattarello analogo! replicò egli distraendo, col gradito
ritornello, l'attenzione dal suo inusitato volo pindarico.

--Il vostro infortunio, notò con gravità il marchese Trecchi,
largamente riparò per vostra consolazione il vincitore del Macerone,
che il generale nell'ultimo proclama c'invita ad accogliere come
fratello.

Ed io di ripicco:--Fratello d'Abele.

E il marchese:--Malignità di repubblicano!

--Si vedrà... Intanto voi non potrete negare che la sua entrata in
casa nostra senza picchiare alla porta, e il bando del re di Sardegna
ai popoli delle Sicilie non siano un insulto al liberatore e ai
liberati. Il re dichiara d'intervenire, non già chiamato da quello o
da questi, ma da alcuni municipî e da alcuni notabili, per rimettere
l'ordine.

Garibaldi, alzatosi, troncò la discussione, che principiava a
scottare, con queste parole:--Farini scrisse il bando, e il re l'avrà
firmato in buona fede, senza leggerlo. E se ne andò.

Il mattino appresso un aiutante venne ad annunciargli che la divisione
Bixio lo attendeva nel primo cortile del palazzo. I vincitori di
Maddaloni. Scese il generale ad ascoltare la relazione delle gesta
della valorosa divisione nella battaglia decisiva del 1.º ottobre.
Garibaldi e il suo quartier generale, Bixio e i suoi uffiziali
superiori, componevano uno splendido gruppo sulla fronte della
divisione, che distesa per battaglioni non occupava tutto l'immenso
cortile.

A me fu commesso di leggere la relazione. Lessi a tutta gola io, ma la
povera voce non oltrepassando le prime schiere, Vincenzo Cattabene, di
più robusto polmone, mi surrogò. La materia discorsa in quel fascicolo
c'interessava poco, trattandosi delle abituali prove di coraggio
segnalate e lodate; ma allorquando voltata la pagina ci venne udito il
nome di cinque uffiziali, infamati per viltà, rimanemmo
inaspettatamente colpiti da doloroso stupore. Garibaldi comandò che i
tre presenti dei cinque escissero dalle file e si presentassero al
cospetto di lui e della divisione. A me pareva, anzi in quel punto lo
sperai, che i raggi di tante migliaia d'occhi, conversi su quegli
sciagurati, avrebberli come folgore inceneriti prima d'arrivarvi.

Al loro mostrarsi, il tremito delle ginocchia e i battiti spessi e
forti del cuore mi obbligarono di puntellarmi alla sciabola.
Avvenimento nuovo per me e tremendo! L'età giovanile dei colpevoli, il
sentimento della umana debolezza, l'idea che un sùbito turbamento può
sorprendere anche l'uomo di saldo petto, l'apparato solenne della
punizione, la fisonomia e l'atteggiamento d'inflessibile severità di
Garibaldi, destarono nell'animo mio un affetto prepotente di pietà.
Sentirsi dire da Garibaldi «siete un vile,» appariva agli occhi miei
morte peggiore d'ogni morte.

Eppure il supplizio era giusto e necessario.

Frattanto i tre giunsero alla presenza di lui e degli intenti
battaglioni. Garibaldi, saettatili con uno sguardo di Giove
Tonante:--Togliete loro la spada, disse al marchese Trecchi, e a
Nullo:--Strappate dai berretti le insegne del grado.

Il marchese li disarmò, e Nullo gettò con forza a terra gl'infranti
fili d'argento. I tre non morirono. Ma io vidi tramontare dal loro
volto il lume divino dello spirito.

Quindi il generale arringò con eloquenza antica l'intrepida divisione,
e rivoltosi ai tre impietrati:--A voi, tuonò con gesto come di
maledizione, non avanza che di prendere un fucile e di farvi ammazzare
agli avamposti.

I loro nomi disonorò per sempre la _Gazzetta Ufficiale_ dell'indomani.

--All'alba si passa il Volturno; voi starete a' miei ordini;
coll'usato piglio imperatorio dissemi la sera il colonnello Paggi.

--Distaccati dal generale?

Ed egli con visibile compiacenza, sicuro di seccarmi:--Distaccati.

E mi toccò d'inghiottire la nuova pillola.

Durante la notte oscurissima, procedendo a tentoni, potetti
malagevolmente disporre alla marcia, secondo le ingiunzioni ricevute,
le brigate Milano e Eber, che serenavano fra le vigne di costa alla
strada. Verso la fine dell'opera mia sopraggiunse il colonnello Paggi
e m'invitò di condurlo sul luogo della colonna di Pietro Balzani. A
dieci minuti di là, chiestemi le indicazioni necessarie, mi rimandò al
brigadiere Eber. Nel separarmi da lui:--È meglio, l'ammonii, che
camminiate sulla strada per togliervi dalle vie incassate.

--Conosco il terreno, rispose con arroganza; e proseguì a traverso i
campi. Io raggiunsi Eber; e si attese fino all'aurora, coll'arma al
piede, il transito della divisione Bixio.

Persuaso al sonno dalla stanchezza e dalle cadenti stelle, io dormivo
sulla cavezza stando in arcione, e avrei dato un Perù per due metri di
superficie terrestre, ove distendermi. A intervalli fissi, sul punto
di addormentarmi e di precipitare di sella, mi riscotevo per
riaddormentarmi e riscotermi da capo. Mi accadde in quella guerra
d'essere arso dal sole, irrigidito dalla luna, afflitto dall'appetito,
estenuato dalle marcie, ma imparai che il crudelissimo dei mali è il
male del sonno. Finalmente, non ridestatomi in tempo, stramazzai, e la
salutifera botta mi svegliò. Scossa la polvere e fregati gli occhi,
rimettevo il piede nella staffa, allorchè capitò mia moglie che
accompagnava una barella.

--Un ferito!

--Il colonnello Paggi.

--Il colonnello Paggi!?

Spuntava il giorno, e ho potuto discernere un mucchio d'ossa e di
carne e cento lacerazioni sul viso scolorato e semivivo del
colonnello. Pieno di ineffabile compassione e contristato dal rimorso
d'essergli stato molesto in vita:

--Ma come? ripigliai con ansia.

--Oltrepassando il campo laggiù, precipitò entro una via incassata e
tolta alla vista dagli spineti che le crescono ai margini. C'è poca
speranza di salvarlo, e tutta la certezza ch'ei non ridiventi mai
l'uomo di prima.

--Cattivo augurio pel passaggio, tanto tempo meditato, del fiume! Non
vorrei che l'esercito meridionale precipitasse alla sua volta in una
via incassata. Ho paura gliela scavino i guastatori del re sardo!

Codeste strade profonde e serpeggianti a foggia di arterie, le quali
aggruppansi a Capua e facilitano le sorprese nemiche, segano in varie
guise la campagna sulle due rive del Volturno. Infatti, nella
battaglia del 1.º ottobre una schiera borbonica, scivolando per una di
tali uscite fraudolente, sfuggì alla vigilanza della divisione Medici
e comparve repentina e formidabile sul vertice del monte Sant'Angelo
tempestando alle spalle Garibaldi che in più bassa parte con poche
genti tenea testa ad altra schiera di fronte. Qualunque capitano, io
stimo, sarebbe caduto prigioniero, e in tale convinzione i nostri
impallidirono.

Ma Garibaldi con aspetto tranquillo e con prontissima parola mutò le
opinioni dicendo:--Costoro caddero in nostra mano.

Eseguendo un movimento di fianco e calcolando sul preordinato arrivo
d'un battaglione della brigata Sacchi da San Leucio, che arrivò
puntualmente col maggiore Ocari, costrinse il temerario assalitore di
ritrarsi fuori della propria orbita e di cedere le armi alla dimane.

Finalmente venne la mia volta nella disposizione della marcia
generale, e in qualità di capitano di stato maggiore io cavalcava alla
sinistra del brigadiere Eber, indicatore del cammino. Addietro di
venti minuti dalla divisione Bixio, noi avanzavamo soli. La strada,
girando alla base del monte Sant'Angelo, sale e toglie alla vista il
tratto sottostante del fiume.

Eber mi dimandò:--Dov'è il ponte?

--Il ponte! già! ci vuole il ponte! pensai. Per verità a me anima viva
non mi favellò di ponte, e ignoravo anche se il corpo del genio
garibaldino avesse confidenza coi ponti. Bisognava rispondere:--Non lo
so--e rimanere scornato, o indovinare dove ei fosse. E se fosse stato
altrove? Nel duro bivio mi soccorse il mio maestro Bacone con un
ragionamento induttivo: si valica il fiume, dunque c'è il ponte. Di
costà non v'ha ombra di nemico, di qua non si scorge un soldato,
dunque il ponte è vicino. In tre battute di polso succedutisi
l'affanno, il ragionamento, la risoluzione, risposi:--Il ponte è là. E
indicai col dito. Dopo l'affermazione baconiana passarono per me dieci
minuti crudeli. Alla perfine ci vennero veduti e fiume e ponte:
respirai!

Il ponte ideato dal colonnello francese Bordone costrussero mani
inglesi della legione. Compaginato con barche d'ineguale altezza,
strette insieme da funi, presentava un piano ondulato, e le tavole,
mal connesse e mal chiovate, vacillavano sotto le zampe dei cavalli e
sotto il piede dei fanti. Largo quattro piedi, faceva mestieri
tragittarlo a uno a uno; pareva che ogni onda scorrente dovesse trarne
seco un brano; così forte esso crepitava e gemeva! e non istette guari
che un paio di barche furono rapite. Il ponte reclinò il capo nel
fiume, e tutta la scienza meccanica del nostro affaccendato Bordone
non valse a risollevarnelo. Quel magro, lungo e paralitico ponte
provocò l'ilarità prolungata dell'esercito meridionale.

Valicato il fiume e compiuto l'ufficio mio presso il brigadiere Eber,
m'affrettai al generale che antecedeva di qualche miglio.

Il nemico, munita Capua con diecimila uomini, si ritirò sul
Garigliano. Nell'interposta pianura doveva darglisi battaglia insieme
coi Piemontesi, Garibaldi incontrarsi col re sul campo, e ivi
regalargli la corona delle Due Sicilie. Questa voce vestita di forme
poetiche volava di bocca in bocca, e i nostri battaglioni, bramosi di
mostrarsi al paragone dell'esercito regolare, chiarivansi
mediocremente interessati dello incontro drammatico dei due
personaggi.

Si tirava innanzi con tardo passo per vie incassate, strette e
ingombre di truppe, paghi d'aver posto piede alfine sulla riva
contestataci con sì ostinata fierezza, e commentando in vario stile i
prenunziati eventi, allorchè s'intese che il generale Bixio, caduto da
cavallo, ruppesi la testa e una gamba.

--E due! esclamai.

Diffatti poco stante, ad un trivio, lo trovai seduto a terra col capo
fesso, col naso ferito, col viso insanguinato e colla gamba spezzata
prestar mano impassibile agli infermieri, rammaricarsi d'essere
impedito dal combattere, e raccomandare che la disgrazia rimanesse
celata alla moglie.

Garibaldi aveva ordinato che s'arrestasse un prete fuggitivo. Bixio,
immemore del grado e trasportato dalla consueta foga, scagliossi a
tutta briglia sull'orma del prete, e nel girar la via incassata e
selciata, il cavallo, focoso al pari del cavaliero, cadde di fianco,
ed ei rimasto in sella percosse la testa contro la muraglia; la botta
del cavallo gl'infranse la gamba, e la rovina di lui fu la salute del
prete.

In quell'istesso giorno due carabinieri del drappello genovese si
uccisero l'un l'altro a caso, e medesimamente due inglesi della
legione. Giorno di malo augurio anche per gli spregiudicati.

--Se i polli non vogliono mangiare, vorranno bere, fece il console
Appio Pulcro; e fattili gettare in mare appiccò battaglia coi
Cartaginesi e la perdette. Vedi, mio caro (dirigevo la parola al
maggiore Caldesi che ascoltava, sogghignando, il fattarello analogo),
Tito Livio e Machiavelli disapprovano severamente il console. E se noi
non diamo retta a questi segni augurali riducendoci ai nostri
accampamenti d'oltre Volturno, se vogliamo che i polli bevano,
perderemo la battaglia contro il re sardo.

--Contro il Borbone, tu vuoi dire!

--No, no, contro il sardo, il quale venne qui per fare la guerra a
noi.

--Con le armi?

--Con le armi politiche e anche con le belliche, se fia d'uopo. Noi
ora andiamo a firmare l'atto d'abdicazione, ed è troppo presto per la
libertà d'Italia: forse andiamo incontro all'umiliazione, ed è troppo
grave per l'avvenire della democrazia italiana.

--Oggi sei pieno di ubbie e di melanconie; devi avere dormito male
questa notte!

--È vero; m'addormentai in sella e mi svegliai boccone nella polvere.

--Altro segno infausto! proruppe con ironico sospiro il Caldesi.

--Che simboleggia la presente rivoluzione.

Noi si costeggiava una catena di monti in linea perpendicolare al
fiume verso l'ovest, e sulla nostra mancina protendevasi la pianura
soggetta ai baluardi di Capua, presupposto teatro della lotta finale.

Garibaldi mi comandò di salire in cima di quei monti e di riconoscere
se nelle valli a destra apparisse indizio di nemici. Molte precauzioni
simili aveva studiate e adottate il generale per ogni verso.
Mostravasi cautissimo al solito, ma non al solito ardito. Io non
ravvisava in lui il Garibaldi di Palermo e del 1.º ottobre, bensì il
Garibaldi luogotenente del re, il coloritore d'una parte assegnata, di
disegno non suo. Eseguiva e non creava. Era un generoso destriero
umiliato fra le stanghe d'un baroccio.

Un capitano e quattro cavalieri ungaresi mi vennero compagni nella
ricognizione. Superati i greppi dell'ascensione, si cavalcò
penosamente varie ore di cima in cima paralleli alle mosse
dell'esercito. Non abbiamo scoperto nemici; nè amici, imperocchè
villaggi e casolari non consolano quelle vallate e quelle gole. L'aere
ossigenato, la prossimità del mezzodì, il lungo cammino aguzzarono un
appetito assai molesto nella comitiva italo-magiara. I magiari ed io,
in mancanza d'un organo di comunicazione, non avevamo sino allora
articolato verbo nè avverbio, quando alla veduta d'un monastero sulla
metà della costa io ruppi il tedioso silenzio:--_Elyen Lajos Kossuth_.
Quei muti ed affamati commilitoni, al suono del nativo idioma e del
nome di Kossuth, si rifecero snelli e giocondi, e con viso di
riconoscenza ripeterono:

--Elyen! Veramente non mi scaldava il cuore allora un evviva a
Kossuth, ma ell'erano quelle le sole voci magiare di mia conoscenza
per alludere al monastero.

E risovvenendomi che il capitano, come presupposto gentiluomo, avrebbe
dovuto saperne di latino, lo tentai con maccaronica frase: _Monaci
illi, censeo, dabunt nobis panem, caseum, vinumque._ A cui quegli di
botto:--_Bonum! fames nostra est magna._ Mi confortai che in fatto di
latinità del buon secolo il magiaro ed io non facevamo una grinza.

Cogliemmo i monaci a tavola. Sommavano a dieci. Cordialmente ospitali,
cedettero il loro posto e vollero amministrarci le vivande eglino
stessi. Bove bollito e fumante, castagne e vino per noi, e generosa
misura di avena pei cavalli. Acquetate le prime urgenze dello stomaco,
rossa la guancia e gli orecchi, si principiò a ragionare per diritto e
per rovescio di teologia, di frati, di monache; e gli adiposi padri
non si sgomentarono delle mie opinioni eterodosse, reggevano intrepidi
alla barzeletta e ridevano ai lazzi sulla loro equivoca virtù. I
magiari non capivano sillaba, però ridevano.

--Mi rincresce per voi, dissi al padre guardiano, ma questa _ripaille_
finirà presto.

--Davvero! proruppe colla gioia negli occhi un monaco smilzo, pallido
e giovane. Il guardiano troncogli il discorso sulla lingua e lo
rimandò grullo grullo alla sua cella. Indi rivolgendosi a me:--Egli è
un patrizio innamorato d'una ragazza della plebe che il cauto e
giudizioso genitore chiuse qui in penitenza. Ma, ritornando al primo
detto, il dittatore forse avrebbe decretato...

--No.

--Oh! in tal caso ciò che non fece Garibaldi, odiatore di preti e di
frati, non farà il rampollo della pia Casa di Savoia, venuto a
prendere possesso del regno.

--Sentenza d'oro; se pur il sillogismo della storia non sarà più
stringente di quella pietà. Del resto, con Casa di Savoia, se uscirete
dalla porta, rientrerete per la finestra!

Dopo di cui ci separammo discretamente amici.

Tutto quel giorno si spese in assidue peregrinazioni col generale per
esaminare i luoghi, spiare i movimenti del nemico e indovinarne le
intenzioni. Dalla via laterale, a piè dei colli, spingevamo le nostre
indagini sulla grande strada militare che collega Capua a Gaeta,
accostandoci alla portata delle artiglierie della prima. La sera si
piantò il quartier generale intorno a un pagliaio. I nostri cavalli
erano spossati e non un bicchier d'acqua per dissetarli.

Surse il generale dicendo:--Andiamo a cercarne.

Egli e ciascuno di noi, tolto il proprio cavallo a mano, si mosse
errando e quasi brancolando nell'oscurità e per terreni ondulati e
trarotti in traccia della linfa occulta.

Corso e ricorso lungo tratto invano, io dissi a Nullo:--Capisco che
senza la bacchetta di Mosè questa sera i cavalli non bevono.

--Mosè l'abbiamo, e la bacchetta la troveremo.

Calatici giù in una profonda fessura rinvenimmo la linfa sospirata:
pilacchera che le povere bestie, riarse dalla sete, torcendo il naso,
s'ingollarono.

Reduci al nostro pagliaio, io m'acconciai alla meglio un giaciglio e,
come mi vi adagiai, sopravvenne la moglie mia, la quale, corsa alla
sprovveduta in aiuto del generale Bixio, non esitò d'affrontare sedici
miglia a piedi per raggiungermi. Laonde il giaciglio diventò talamo.
Garibaldi, corcato poco lungi da me sul suo _recado_, ragionava
vivacemente coll'intendente generale intorno alla distribuzione dei
viveri, e non sembrava gran che soddisfatto. Poi dimandò:--Provvedeste
la legione inglese di vettovaglie?

E l'intendente:--Mandai presso il colonnello Peard il mio migliore
commissario, e quei me lo rimandò dichiarando che voleva essere
indipendente.

--Ebbene, riprese Garibaldi, che mangino l'indipendenza.

--I legionarî di Peard vivono di caccia. Uccisero già più di cento
maiali.

--Intendete dire cignali!

--Punto: dico maiali rapiti ai contadini che se ne querelarono meco
coi soliti ululati, chiedendo il rifacimento immediato dei danni.

--Vi hanno diritto.

A questo paragrafo del dialogo m'addormentai. Ma in guerra non c'è
pace. Io dormivo da più d'un'ora come un morto, e la voce del
generale, che mi chiamò tre o quattro fiate, non valse a riscotermi;
vi sopperì il gomito della moglie. Ricoverando lentamente gli spiriti,
sollevai la testa e pronunciai con parola velata:--Pronto, generale.

Ed egli:--Insellate il cavallo e cercate la brigata Milano di cui non
si ha notizia. Sviluppatela sulla sinistra.

Invidiando i compagni dormenti e immiserito dal notturno guazzo, che
mi raggelò addosso il sudore effuso dal sonno profondo, montai in
sella con lo stridore dei denti, e per rincalorirmi spinsi il cavallo
a briglia sciolta. Sentendomi rifluire il sangue nelle vene e
racquistata la coscienza, rallentai la corsa e principiai a riflettere
ove mai pescare la brigata smarrita, e pescatala, ove
collocarla.--Quale sarà la sinistra? Un uffiziale di stato maggiore
dovrebbe saperlo, ma io non lo so, nè altri certo dei miei compagni lo
saprebbe. Con Garibaldi, che non chiede manco per isbaglio il parere
altrui e tiene il proprio per sè, gli uffiziali di stato maggiore si
riducono a semplici caporali d'ordinanza.

Esaurite codeste preliminari considerazioni, surrogando alla nozione
l'ipotesi, e stabilendo nella strada militare fra Capua e Gaeta il
punto obbiettivo delle nostre manovre della giornata, mi sembrò
ragionevole che noi fossimo distesi parallelamente ad essa colle
schiene al monte; e supponendo il quartier generale al centro, ne
derivava che la sinistra si trovasse nella direzione del borgo dei
Pignattari verso il Volturno.

Costrutto, come potetti, l'ordine di battaglia e fissato il posto per
la brigata, rimisi la povera bestia al galoppo ora pei campi ora sulla
strada, affidandomi più al suo istinto che al mio discernimento, così
inumanamente fitte erano le tenebre. A lungo andare mi convinsi che
invece di scoprire la brigata avrei dato del capo in una pattuglia
borbonica, e me ne sarei ito sotto scorta agli ozî di Capua. In questi
pensieri stimai propizie le tenebre, dapprima imprecate. Nel mio
viaggio ad S maiuscola fra la strada e i campi, intesi il rumore a
cadenza di soldati in cammino, ed aspettai a piè fermo con pistola
montata. Giunta la colonna a tiro di parola, intimai l'_alto, chi va
là?_ M'avvicinai. Proprio la brigata Milano! La condussi al luogo
designato e volai ad avvertirne Garibaldi. Per buona ventura la
sinistra ideata era la sinistra reale, e pago mi ricorcai con un pezzo
d'agnello arrosto, mancia del generale, perchè il sonno potè più che
il digiuno.

All'alba, dopo ch'ebbi condotti all'avanguardia i carabinieri genovesi
sulla via di Teano, in un punto ove la strada piega a manritta, mi
soffermai con Nullo, ad una vecchia casa abbandonata, e divisi seco
lui fraternamente l'agnello della sera che m'aveva lardellata la
saccoccia. Ivi un drappello di lancieri piemontesi, i quali,
fiancheggiando la fanteria, perlustravano la campagna, ci annunciò che
il re si approssimava. Nullo, fresco del ritorno, l'aveva visitato
nella notte, portatore d'un dispaccio di Garibaldi, e la Maestà Sua,
scesa di letto, lo ricevette in pianelle, in berretta da notte, e in
vesta da camera. Riferendomene alle sensazioni del mio amico, parrebbe
che l'insensibile traspirazione della sacra reale persona non fosse
precisamente identica all'ambrosia onde Omero involvea a guisa
d'odoroso zodiaco i suoi numi guerrieri.

Noi percorrendo, a traverso i campi e sui primi abbozzi d'una
ferrovia, l'ipotenusa del gomito descritto dalla strada, ci arrestammo
ad un bivio per attendervi Garibaldi. Proveniente da Venafro, sfilava
verso Teano l'esercito settentrionale, e la banda di ciascun
reggimento, dipartendosi dalla testa di colonna, sostava da lato a
rallegrarne il passaggio con musiche marziali; quindi le si
ricongiungeva alla coda. Il sito d'intersezione delle due strade era
abbastanza capace, e l'adornavano una casa rusticana e una dozzina di
pioppi. Terreni arati all'intorno, e radi alberi e viti ingiallite
dallo autunno cadente; pianura uniforme e uggiosa. Non tardò guari a
giugnere Garibaldi. Sceso di sella, si pose sul davanti a guardare la
truppa con lieta pupilla. Della Rocca, generale d'armata, se gli
accostò cortesemente. Alcuni uffiziali salutavanlo con visi
sfavillanti; la più parte, fatto il saluto prescritto dal regolamento,
procedeva oltre, inconsapevole o indifferente che il salutato fosse il
liberatore delle Sicilie; sarebbesi detto in quel cambio, se lice una
induzione dalla fisonomia, che eglino fossero i liberatori, e
Garibaldi il liberto. Quando improvvisamente una botta di tamburi
troncò le musiche e s'intese la marcia reale.

--Il re! disse Della Rocca.

--Il re! il re! ripeterono cento bocche. E in vero una frotta di
carabinieri reali a cavallo, guardia del corpo, armati di spada, di
pollici e di manette, annunziò la presenza del monarca sardo.

Il re, coll'assisa di generale, in berretto, montava un cavallo arabo
storno, e lo seguiva un codazzo di generali, di ciambellani, di
servitori; Fanti, ministro della guerra, e Farini, vicerè di Napoli in
pectore, esso pure insaccato in una capace tunica militare; tutta
gente avversa a Garibaldi, a codesto plebeo donatore di regni.

Disotto al cappellino Garibaldi s'era acconciato il fazzoletto di
seta, annodandoselo al mento per proteggere le orecchie e le tempia
dalla mattutina umidità. All'arrivo del re, cavatosi il cappellino,
rimase il fazzoletto. Il re gli stese la mano dicendo:--Oh! vi saluto,
mio caro Garibaldi: come state?

E Garibaldi:--Bene, Maestà, e lei?

E il re:--Benone!

Garibaldi, alzando la voce e girando gli occhi come chi parla alle
turbe, gridò:--Ecco il re d'Italia!

E i circostanti:--Viva il re!

Vittorio Emanuele, trattosi in disparte pel libero transito delle
truppe, s'intrattenne qualche tempo a colloquio col generale. Postomi
con istudio vicino ad ambedue, ero vago d'intendere per la prima volta
come parlino i re, e di avverare se all'altissimo grado corrisponda
l'altezza dell'ingegno e del pensiero. La situazione era epica: suolo
campano e Capua a poca ora; grandi ombre di consoli romani e di
Annibale; incontro degli eserciti di Castelfidardo e di Maddaloni;
vigilia della battaglia; contatto della camicia rossa e della porpora;
d'un principe ricevitore e d'un popolano datore di una corona;
trasformazione d'un regolo in re d'Italia.

Sua Maestà favellò del buon tempo e delle cattive strade, intercalando
le considerazioni con rauchi richiami e con alcune ceffate al nobile
corsiero irrequieto. Indi si mosse.

Garibaldi gli cavalcava alla sinistra, e a venti passi di distanza il
quartiere generale garibaldino alla rinfusa col sardo. Ma a poco a
poco le due parti si separarono, respinta ciascuna al proprio centro
di gravità; in una riga le umili camicie rosse, nell'altra a parallela
superbe assise lucenti d'oro, d'argento, di croci e di gran cordoni.
Se non che, immezzo alla vanità di queste umane grandezze sorgeva in
atto benigno e vestita di realtà l'idea d'una buona colazione che i
regî cuochi precorsero ad imbandirci presso Teano.

In tanto strepito d'armi e corruscare di spallini e ondeggiare di
cimieri, i contadini accorrevano attoniti ad acclamare Garibaldi. Dei
due che precedevano, ignorando quale ei fosse, posero con certezza gli
occhi sul più bello. Garibaldi procacciava di deviare quegli applausi
sul re, e, trattenuto d'un passo il cavallo, inculcava loro con molta
intensità d'espressione:--Ecco Vittorio Emanuele, il re, il nostro re,
il re d'Italia; viva lui!

I paesani tacevano e ascoltavano, ma non comprendendo sillaba di tutto
ciò, ripicchiavano il _Viva Calibardo!_ Il povero generale alla
tortura sudava sangue dagli occhi, e conoscendo come il principe
tenesse alle ovazioni e quanto la popolarità propria lo irritasse,
avrebbe volontieri regalato un secondo regno pur di strappare dal
labbro di quegli antipolitici villani un _Viva il re d'Italia!_ anche
un semplice _Viva il re!_ Ma la difficoltà si sciolse prontamente,
perchè Vittorio Emanuele spinse il cavallo al galoppo.

Tutti noi gli si galoppò dietro, e con noi Farini, il quale,
agguantata la testa della sella, curava poco le redini e meno le
staffe, e ad ogni movimento della bestia le brache aggroppavansigli
alla volta delle ginocchia. Per buona sorte il re, oltrepassati i
villani, si rimise al passo, e il suo ministro restò in arcione, calò
le brache, rassettò la tunica, raddrizzò il berretto, asciugò il
sudore e riatteggiossi decorosamente.

Al ponte d'un torrentello che tocca Teano, Garibaldi fece di cappello
al re; questi proseguì sulla strada suburbana, quegli passò il ponte,
e separaronsi l'un l'altro ad angolo retto.

Noi seguimmo Garibaldi, i regi il re.

Garibaldi smontò di sella nel propinquo sobborgo, e condusse il
cavallo ad uno stallaggio di barocciai a lato della via. Imitato
l'esempio, traemmo i nostri ivi dappresso, guatandoci a vicenda
trasecolati.

--Dov'è ito il re?

--Costà a colazione.

--E Garibaldi non vi fu invitato?

--Ma?

Entrai nella stalla con Missori, Nullo e Zasio, e vi trovai il
dittatore seduto su una pancuccia, a due passi dalla coda del suo
cavallo: stavagli davanti un barile in piedi, sul quale gli fu
apprestata la colazione. Una bottiglia d'acqua, una fetta di cacio e
un pane. L'acqua per giunta infetta. Appena ne bevve egli alcun sorso,
la sputò dicendo tranquillamente:--Dev'esservi nel pozzo una bestia
morta da un pezzo.

Lentamente e in silenzio ripartimmo sui nostri passi per Calvi. Il
sembiante di Garibaldi m'apparve sì dolcemente mesto, che mai mi
sentii attirato verso di lui con altrettale tenerezza.

Fatto centro in Calvi, il generale dispiegò i suoi diecimila uomini
con perspicua diligenza, da un lato fino a Casciano, dall'altro a
Sparanisi, la fronte conversa alla strada che per Sant'Agata mena al
ponte del Garigliano. Corse e speculò minutamente l'intero giorno il
terreno entro un arco di parecchie miglia, e la sera si ridusse in un
tempietto fuori della borgata di Calvi. Mesti della sua mestizia, noi
c'eravamo posti a giacere su poca paglia intorno a lui. Una
deputazione di Siciliani variò la scena muta, empiendo la cappella di
sinedochi, di ipotiposi e di epifonemi. L'onda oratoria di quei
diserti isolani mi conciliò meravigliosamente il sonno. Finiti i
discorsi, partiti gli oratori, il silenzio mi svegliò, e appunto
allora fu recata la novella al generale che una pattuglia di cavalli
nemici avanzavasi arditamente verso il tempietto, provenendo da Capua.

Chiamato per nome, saltai in piedi.

--Andate a scacciare la pattuglia, egli mi fece.

Beato dell'onore di rinnovare a un dipresso le gesta di Orazio
Coclite, cavalcai frettoloso contro il nemico, lusingandomi di
rispondere degnamente alla superlativa fiducia del generale. Però gli
amici miei, testimoni del comando ricevuto, probabilmente
appartenevano a quella scuola storica che considera il Coclite, lo
Scevola, il Curzio ed altri di codesta risma, figure simboliche
dell'età poetica di Roma, e deliberarono di non lasciarmi solo fra
venti spade. Usciti chetamente dal tempietto, mi tenner dietro ad uno,
a due, a tre, e bentosto vidimi in un sodalizio di gagliardi che
abbassarono di un tono l'impresa. Sulle nostre pedate s'incamminarono
alquanti uffiziali dei corpi ivi attendati, e caporali e soldati,
avvegnachè si fosse un pochino diffuso il rumore dell'impresa.
Quell'uno adunque, designato da Garibaldi ad una singolare tenzone
contro l'avventurosa pattuglia, diventò cinquanta. Oltrepassate le
ultime sentinelle degli avamposti, ci profondammo nell'ignoto in cerca
della pattuglia. Quand'ecco il suono dell'ugne dei cavalli ce la
prenunzia. Gli uffiziali a piedi e i soldati si spiegano in due ali
sui campi per colpirla con fuochi obliqui ed accerchiarla, mentre noi
cavalieri sulla strada la investiamo di fronte.

Pistole e carabine in punto, e avanti! In un lampo le piombiamo
addosso, e gli snelli volteggiatori delle ali l'hanno già
circondata:--Ferma, giù le armi, prigionieri!

Il condottiero, sbigottito e obbediente, depone la frusta ed arresta
il baroccio carico di mattoni, tirato da quattro cavalli.

L'indomani, sul mezzodì, udivasi il rombo del cannone sul Garigliano.
Venne mia moglie a chiedere provvedimenti per l'ambulanza generale.

Garibaldi le rispose con accento incisivo e con fredda compitezza:--I
miei feriti giacciono all'altra riva del Volturno! E tacque.

Noi stemmo sospesi e intenti per indovinare a cui alludesse tale
risposta. Vidi sul suo volto un graduale passaggio, quasi per note
semitonate, a un più mite e rassegnato senso di tristezza; indi egli
ripigliò con voce blanda e con inflessione esclamatoria:--Signora, ci
hanno messo alla coda!

Allora compresi la recondita causa del suo turbamento dopo il
colloquio col re. Ma conoscendo la nobile natura di lui, avevo la
certezza che quella causa non doveva indagarsi nell'inurbanità del
principe, preludio d'una ingratitudine favolosa.

In più tarda ora, il re percorse le nostre linee sino al Volturno. Il
colonnello Dezza faceva gli onori del campo. Era una ressa affannosa
di generali garibaldini e di uffiziali superiori intorno al nuovo
astro sorgente; e intanto tramontava malinconicamente dietro le
pianure della Campania l'astro di Marsala.

Alle due dopo mezzanotte del 7 novembre tre carrozze da nolo si
arrestarono al portone dell'albergo della _Bretagna_ in Napoli. Alle
due e un quarto chiudevasi lo sportello della prima, e via con
Garibaldi, Menotti e Basso. Missori, Nullo, Canzio, Trecchi, Zasio ed
io, dietro nell'altre due.

All'approdo di Santa Lucia entrammo in una lancia che ci aspettava, e
in qualche minuto scorgevansi le vaporose forme della Sirena, immemore
e assopita nell'amplesso del nuovo amante. Eppure non corsero che due
mesi dalla notte del 7 settembre, notte di deliranti affetti pel
liberatore. Ora egli, glorioso e sereno s'involava al freddo aere
dell'obblìo, col modesto corteo di pochi amici, a lui devoti ancora
più nella infedeltà della fortuna.

Dal ponte del _Washington_ egli disse addio a Napoli e a noi, e
soggiunse:--A rivederci sulla via di Roma!




       INDICE


    I. Il ponte invisibile        Pag. 9
   II. I pionieri                  »  47
  III. Veni, vidi, vici            »  89
   IV. Dittatura di tre giorni     » 130
    V. I Sanniti moderni           » 166
   VI. L'addio                     » 223








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     money paid for a work or a replacement copy, if a defect in the
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     of receipt of the work.

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     distribution of Project Gutenberg-tm works.

1.E.9.  If you wish to charge a fee or distribute a Project Gutenberg-tm
electronic work or group of works on different terms than are set
forth in this agreement, you must obtain permission in writing from
both the Project Gutenberg Literary Archive Foundation and Michael
Hart, the owner of the Project Gutenberg-tm trademark.  Contact the
Foundation as set forth in Section 3 below.

1.F.

1.F.1.  Project Gutenberg volunteers and employees expend considerable
effort to identify, do copyright research on, transcribe and proofread
public domain works in creating the Project Gutenberg-tm
collection.  Despite these efforts, Project Gutenberg-tm electronic
works, and the medium on which they may be stored, may contain
"Defects," such as, but not limited to, incomplete, inaccurate or
corrupt data, transcription errors, a copyright or other intellectual
property infringement, a defective or damaged disk or other medium, a
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1.F.2.  LIMITED WARRANTY, DISCLAIMER OF DAMAGES - Except for the "Right
of Replacement or Refund" described in paragraph 1.F.3, the Project
Gutenberg Literary Archive Foundation, the owner of the Project
Gutenberg-tm trademark, and any other party distributing a Project
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fees.  YOU AGREE THAT YOU HAVE NO REMEDIES FOR NEGLIGENCE, STRICT
LIABILITY, BREACH OF WARRANTY OR BREACH OF CONTRACT EXCEPT THOSE
PROVIDED IN PARAGRAPH F3.  YOU AGREE THAT THE FOUNDATION, THE
TRADEMARK OWNER, AND ANY DISTRIBUTOR UNDER THIS AGREEMENT WILL NOT BE
LIABLE TO YOU FOR ACTUAL, DIRECT, INDIRECT, CONSEQUENTIAL, PUNITIVE OR
INCIDENTAL DAMAGES EVEN IF YOU GIVE NOTICE OF THE POSSIBILITY OF SUCH
DAMAGE.

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1.F.4.  Except for the limited right of replacement or refund set forth
in paragraph 1.F.3, this work is provided to you 'AS-IS' WITH NO OTHER
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1.F.5.  Some states do not allow disclaimers of certain implied
warranties or the exclusion or limitation of certain types of damages.
If any disclaimer or limitation set forth in this agreement violates the
law of the state applicable to this agreement, the agreement shall be
interpreted to make the maximum disclaimer or limitation permitted by
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provision of this agreement shall not void the remaining provisions.

1.F.6.  INDEMNITY - You agree to indemnify and hold the Foundation, the
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with this agreement, and any volunteers associated with the production,
promotion and distribution of Project Gutenberg-tm electronic works,
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that arise directly or indirectly from any of the following which you do
or cause to occur: (a) distribution of this or any Project Gutenberg-tm
work, (b) alteration, modification, or additions or deletions to any
Project Gutenberg-tm work, and (c) any Defect you cause.


Section  2.  Information about the Mission of Project Gutenberg-tm

Project Gutenberg-tm is synonymous with the free distribution of
electronic works in formats readable by the widest variety of computers
including obsolete, old, middle-aged and new computers.  It exists
because of the efforts of hundreds of volunteers and donations from
people in all walks of life.

Volunteers and financial support to provide volunteers with the
assistance they need, are critical to reaching Project Gutenberg-tm's
goals and ensuring that the Project Gutenberg-tm collection will
remain freely available for generations to come.  In 2001, the Project
Gutenberg Literary Archive Foundation was created to provide a secure
and permanent future for Project Gutenberg-tm and future generations.
To learn more about the Project Gutenberg Literary Archive Foundation
and how your efforts and donations can help, see Sections 3 and 4
and the Foundation web page at http://www.pglaf.org.


Section 3.  Information about the Project Gutenberg Literary Archive
Foundation

The Project Gutenberg Literary Archive Foundation is a non profit
501(c)(3) educational corporation organized under the laws of the
state of Mississippi and granted tax exempt status by the Internal
Revenue Service.  The Foundation's EIN or federal tax identification
number is 64-6221541.  Its 501(c)(3) letter is posted at
http://pglaf.org/fundraising.  Contributions to the Project Gutenberg
Literary Archive Foundation are tax deductible to the full extent
permitted by U.S. federal laws and your state's laws.

The Foundation's principal office is located at 4557 Melan Dr. S.
Fairbanks, AK, 99712., but its volunteers and employees are scattered
throughout numerous locations.  Its business office is located at
809 North 1500 West, Salt Lake City, UT 84116, (801) 596-1887, email
[email protected].  Email contact links and up to date contact
information can be found at the Foundation's web site and official
page at http://pglaf.org

For additional contact information:
     Dr. Gregory B. Newby
     Chief Executive and Director
     [email protected]


Section 4.  Information about Donations to the Project Gutenberg
Literary Archive Foundation

Project Gutenberg-tm depends upon and cannot survive without wide
spread public support and donations to carry out its mission of
increasing the number of public domain and licensed works that can be
freely distributed in machine readable form accessible by the widest
array of equipment including outdated equipment.  Many small donations
($1 to $5,000) are particularly important to maintaining tax exempt
status with the IRS.

The Foundation is committed to complying with the laws regulating
charities and charitable donations in all 50 states of the United
States.  Compliance requirements are not uniform and it takes a
considerable effort, much paperwork and many fees to meet and keep up
with these requirements.  We do not solicit donations in locations
where we have not received written confirmation of compliance.  To
SEND DONATIONS or determine the status of compliance for any
particular state visit http://pglaf.org

While we cannot and do not solicit contributions from states where we
have not met the solicitation requirements, we know of no prohibition
against accepting unsolicited donations from donors in such states who
approach us with offers to donate.

International donations are gratefully accepted, but we cannot make
any statements concerning tax treatment of donations received from
outside the United States.  U.S. laws alone swamp our small staff.

Please check the Project Gutenberg Web pages for current donation
methods and addresses.  Donations are accepted in a number of other
ways including checks, online payments and credit card donations.
To donate, please visit: http://pglaf.org/donate


Section 5.  General Information About Project Gutenberg-tm electronic
works.

Professor Michael S. Hart is the originator of the Project Gutenberg-tm
concept of a library of electronic works that could be freely shared
with anyone.  For thirty years, he produced and distributed Project
Gutenberg-tm eBooks with only a loose network of volunteer support.


Project Gutenberg-tm eBooks are often created from several printed
editions, all of which are confirmed as Public Domain in the U.S.
unless a copyright notice is included.  Thus, we do not necessarily
keep eBooks in compliance with any particular paper edition.


Most people start at our Web site which has the main PG search facility:

     http://www.gutenberg.org

This Web site includes information about Project Gutenberg-tm,
including how to make donations to the Project Gutenberg Literary
Archive Foundation, how to help produce our new eBooks, and how to
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