Olimpia : Ossia l'orfana della Selleide

By Adolfo Mezzanotte

The Project Gutenberg eBook of Olimpia
    
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Title: Olimpia
        Ossia l'orfana della Selleide

Author: Adolfo Mezzanotte

Release date: June 27, 2025 [eBook #76402]

Language: Italian

Original publication: Milano: Truffi, 1834

Credits: Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at https://www.pgdp.net (This file was produced from images generously made available by Biblioteca Nazionale Braidense - Milano)


*** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK OLIMPIA ***


   [Illustrazione: _L’Orfana prostesa sul cadavere di suo zio
   chiamandolo a nome altamente, sembrava far forza alla stessa
   natura._ (_Olimpia, Pag. 65._)]


                                OLIMPIA

                                 OSSIA

                        L’ORFANA DELLA SELLEIDE


                                ROMANZO

                                   DI
                           ADOLFO MEZZANOTTE

                                PERUGINO



                                 Milano
                         PER G. TRUFFI E COMP.
                              M.DCCC.XXXIV.




                        AL SUO PADRE AMATISSIMO

                           ANTONIO MEZZANOTTE

                               =L’AUTORE=


_Se Tu già un tempo colla vita naturale altra in me potesti infonderne
di prezzo assai più estimatile; se io da Te con tanta cura al Bello
delle Lettere e delle Arti educato, crescendo negli anni conobbi
che un cuore non incapace di gentili affezioni palpitavami nel seno,
era d’uopo che prima a Dio, quindi a Te dessi prova delle acquistate
cognizioni, l’esempio fuggendo dell’uomo ingrato che tace sempre ed
occulta il ricevuto benefizio. A Te pertanto con ingenua compiacenza
ora intitolo questo mio tenue lavoro nato nelle ore all’ozio tolte,
mentre Tu co’ versi celebravi le memorande geste degli Elleni moderni.
Abbiti in ciò una pubblica ben dovuta testimonianza della stima,
dell’amore, e della filiale mia gratitudine. Qual mai cosa più dolce
per ambedue!_




CAPITOLO PRIMO


Non molto lungi di Margariti, a quasi dieci leghe da Giannina, sul
confine dell’Epiro sorgono le montagne della Selleide nella Grecia
occidentale. Quel sentimento che abborre la schiavitù, e che fu
sempre connaturale al classico terreno abitato dai figli degli
Elleni, represso a forza nelle pianure e nelle città dalle numerose
orde ottomane, rifugiato erasi più energico sulle altere cime delle
montagne dell’Ellade, dove una selvaggia natura univasi coi magnanimi
abitatori a sdegnare costantemente il tirannico giogo del Successore
dei Califfi. Questa dolce libertà col puro aere che li nudriva
respiravano i generosi montanari della Selleide, d’Agrafa, dell’Etolia,
dell’Olimpo, e del Pindo: altrove la Grecia esposta da ogni banda
alle incursioni de’ barbari, ed oppressa dal numero, curvata erasi,
benchè fremendo, sotto il ferreo scettro de’ suoi oppressori. Così
nella schiavitù dell’Epiro, gli intrepidi Suliotti mai non deposero
le armi in faccia ai desolatori della bella lor patria; ma con quella
energia che è propria del loro carattere, difesero sempre l’assoluta
loro indipendenza. Possessori di alcuni villaggi alle falde delle
loro montagne, li abbandonano in caso di attacco per ripararsi sugli
alti piani ad essi soltanto accessibili: quivi aspettano i Turchi che
vengono lor sopra per soggiogarli: e quivi è da più secoli che i Turchi
sono pienamente battuti e respinti con gravi perdite fino alle loro
città. Un Senato composto di vecchi padri della patria regge il governo
de’ bellicosi figli di Suli: sacri alla Croce fumano gl’incensi sui
loro altari; mentre alcuni eremiti che posero le loro celle su taluna
di quelle aeree rupi, pregano per la prosperità dei loro compatriotti,
e per la conservazione della loro indipendenza.

Alessio capitano di una compagnia di dugento Suliotti era stato spedito
dal Senato di Suli contro un corpo di Turchi, che occupar tentavano in
una delle loro escursioni la inespugnabile rocca di S. Veneranda, primo
baluardo della Selleide. I Maomettani erano in numero ragguardevole;
ed i pochi prodi guidati da Alessio sarebbero certamente periti sotto
il fuoco delle artiglierie, quando venuti fossero ad aperta campagna
col nemico: oltredichè avendo già trovato i Turchi trincerati al loro
arrivo, aveano pure lo svantaggio del terreno. Alessio pertanto, dopo
pochi colpi di fucile tratti ad intervalli e con poco effetto, temendo
di compromettere la patria quando ostinato si fosse a perire alla
spicciolata co’ suoi, comandò loro la ritirata, onde serbare il valore
e le braccia a momenti più opportuni.

Frattanto il Governo di Suli meglio informato delle forze nemiche,
spediva in ajuto di Alessio un corpo di quattrocento Suliotti: questi
seco loro ricondussero al nemico molti di quelli che già marciavano
in ritirata: coll’ajuto di alcuni pezzi di artiglieria fulminando
il centro de’ Turchi, portato aveano il terrore in mezzo alle loro
file, che aprendosi in disordine, e penetrar lasciandovi gl’intrepidi
montanari, si dispersero, o caddero sotto i lor colpi. La fortuna
delle battaglie si dichiarò per la Croce, ed i Suliotti si coprirono di
gloria: ma Alessio che disperando del felice esito del combattimento
non avea voluto prendervi parte, ritornando con alcuni dei suoi fra
le native montagne, sembrò vile agli occhi de’ Suliotti avvezzi da più
secoli a non mai ritirarsi in faccia al nemico. Vile adunque dichiarato
dai suoi compatriotti, ai quali antica costumanza prescriveva il
fuggire il commercio di coloro che tali pubblicamente si rendevano,
Alessio, perduta la comune estimazione, ed oscurata quella fama che è
l’anima del soldato, viveva una vita peggiore di morte.

Sua moglie Evantìa, la bella Evantìa ch’egli amava teneramente, e
dalla quale era con pari amore corrisposto, portava già nel seno da
alcuni mesi il dolce pegno dell’imeneo. Costretta per le leggi di
Suli ad esser l’ultima ad attinger l’acqua alle pubbliche fonti, e
ad occupar nelle chiese gli ultimi posti, struggevasi in lagrime.
Esposta alle amare derisioni delle spose de’ valorosi, le quali
pubblicamente cantavano le lodi de’ loro mariti, per colmo di sciagura
veder dovea l’infelice Alessio languire di giorno in giorno, e sorbir
lentamente l’acerbo calice del dolore e della disperazione; poichè,
morto lo sventurato alla vita civile, poteva affatto contarsi fra gli
estinti, in mezzo ad un popolo che nell’onore e nel coraggio trova la
propria esistenza. Attaccato da una lenta febre che condurlo doveva
al sepolcro, privo d’amici, abbandonato da tutti, la sola Evantìa
vegliava le notti al suo fianco, e tutte quelle cure prodigavagli di
che l’amor conjugale è capace in una tenera sposa: ma invano. Scritta
era nel libro dei destini la morte dello sventurato, ed il potere degli
uomini non è tale da cambiare i decreti del cielo: Alessio spirò fra
le braccia di sua moglie, ed essa sentì di non potergli lungamente
sopravvivere. La perdita di un uomo che adorava, e che forse più caro
le si rendè nella sventura, giacchè sempre questa avvicina maggiormente
fra loro le anime virtuose, talmente influì sulla vedova d’Alessio, che
dopo averla esausta affatto di forze, ne provocò il parto non per anco
maturo.

In una di quelle notti autunnali in cui rovesci di pioggia precipitano
sulle rupi di Suli, ed in cui minacciosi venti contro spingendosi
le addensate nubi annunziar sembrano la sovversione dell’universo,
aprì gli occhi alla vita la fanciulletta Olimpia, mentre sua madre li
chiudeva per sempre nel sonno della morte. — Sventurata creatura! tua
madre perisce, e tu rimani pressochè sola sulla terra!

Alcune pietose donne, che, compassionando la misera Evantìa, accorse
erano onde assisterne al parto, piansero sulla sorte della sventurata
Orfanella: una di esse cui la recente perdita di un figlio appena nato
più commovente rendea la situazione della fanciulla, stringendola al
seno, si offrì a nutrirla del proprio latte; ed ecco che la povera
Olimpia da una madre non sua riconoscer dovette la seconda sua vita.
Ah, guai a colui che perde bambino i suoi genitori!.... egli è l’essere
il più infelice della terra! — Sofia, che tale era il nome della
generosa donna, oggetto facea l’Orfanella di tutte quelle cure amorose
che la pietà più tenera suggerisce. Olimpia dunque accorgersi non dovea
d’aver perduta una madre: ma chi non sa che la sola pietà, per quanto
grande esser possa, non porta seco i vincoli di natura e di sangue, ed
è sempre più debole dell’affetto materno?

Non peranco a spuntar cominciava sulle labbra di Olimpia il primo
sorriso della infanzia, che i dolci suoi lineamenti, l’amabile sua
fisonomia attraevano gli sguardi d’ognuno. Mirar non poteasi senza
amarla: e tale per lei cresciuto era col tempo l’affetto dell’ottima
Sofia, che già stabilito avea di adottarla per figlia, quando un
vecchio di veneranda maestà, vantando dei diritti sull’orfana, venne
a reclamarli. Era questi Atanasio, fratello dell’estinto padre di
Olimpia, ed abitatore di un eremo già eretto dagli antenati di sua
famiglia in una delle rupi di Suli; il quale ritornando dopo lunga
assenza da devoto pellegrinaggio, e saputo il funesto avvenimento
che portato avea la desolazione nella infelice casa d’Alessio, unir
voleva al suo, qualunque fosse per essere, il destino della nipote.
Non era Atanasio uno di quegli uomini, che, disgustati di una società
che li disprezza, ritiransi sdegnosi nelle solitudini, declamando
poi altamente contro di essa: ma impiegata avendo nell’utile de’ suoi
simili la vigorosa gioventù, dedicava a Dio solo il resto di una vita
virtuosa.

Olimpia, benchè questo incidente separarla dovesse da Sofia che
amava teneramente, si volse pure con gioia alla conoscenza dello zio:
sentì i moti del sangue: udì imperioso il linguaggio della natura,
e si abbandonò piangendo fra le braccia del vecchio eremita. Folta e
candida barba scendeva a questi sul petto, lambendo l’azzurra clamide
che gli si avvolgeva sugli omeri: i suoi occhi, placidi come la calma
del cuore, s’inumidirono dolcemente; ed il soave sorriso del conforto
apparendo sulle sue labbra, sparse su tutto il volto di lui un’aria di
celeste bellezza.

— Creatura infelice! egli disse stringendo infra le sue le tenere mani
d’Olimpia; la tua sorte sarà d’ora innanzi la mia, ed in me troverai
l’amore di quel padre che non hai conosciuto. Quanto a voi, eccellente
Sofia, io non vi renderò grazie di quanto faceste per mia nipote: mi
sembrerebbe così togliervi la più bella di tutte le ricompense; ma la
gratitudine nostra non avrà fine che dopo la tomba.

Così disse: e la scena intanto faceasi sempre più commovente; poichè
la buona Sofia, che fino allora stata era in silenzio, non potè più
resistere alla piena degli affetti, e diè in un pianto dirotto. A sè
trasse l’amabile oggetto del suo dolore; e come se più non volesse
distaccarsi da lei, al seno avvinsela fortemente: quindi ad un tratto
respingendola, baciolla in fronte: poscia nuovamente fra le braccia del
vecchio, e con voce soffocata dai singulti rapidamente le disse:

— Addio, caro oggetto da me amato siccome mia figlia! il Cielo protegga
la tua innocenza, e ti renda felice quanto io lo desidero! Nel sacro
orrore de’ solitarii luoghi che t’attendono ricorda sovente il mio
nome, dicendo che da questo seno suggesti un giorno il nutrimento della
vita.

Ciò detto, baciolla nuovamente; e per non più prolungare così dolorosa
separazione, prontamente si ritirò. Il vecchio Eremita stendeva intanto
la mano all’Orfanella di Suli, invitandola a partire: ed Olimpia col
ciglio ancor molle di pianto, seguiva nella solitudine l’unico appoggio
della sua giovinezza, il fratello di suo padre.




CAPITOLO II


Ad una lega di distanza dal villaggio che vide nascere Olimpia, dopo
il Picco Kunghi, la cui cima è coperta di eterne nubi, sorge la più
sublime delle rupi della Selleide. Direbbesi dall’Onnipotente creata
per sollevare altamente lo spirito del mortale che la contempla,
e portarlo infino a Lui. Un enorme ammasso di pietre gittate alla
rinfusa dalle divine sue mani, pendendo minacciose sulla sottoposta
vallata, sfidano da più secoli la ingiuria delle stagioni: il solo
musco germoglia in copia sulla cima di quelle balze scoscese; e le sole
capre silvestri ardirono finora d’inerpicarvisi. Sotto quest’orribile
padiglione, alla metà della rupe, ove la natura si mostra in aspetto
più mite, ergesi sopra uno scoglio l’eremo di Atanasio: è questo il
loco della penitenza e della pace, dove il servo del Signore prega per
la prosperità della Selleide, e questo sarà d’ora innanzi l’asilo della
sventurata Orfanella.

Dessa intanto, non ancora bilustre, vi giungeva col vecchio suo
zio. Prima di porvi piede, egli la prese per mano; e con la destra
in lontano additando, le disse: «Vedi tu quella Croce che s’innalza
fitta sul terreno!.... Rallegrati, povera Olimpia! sotto l’ombra sua
protettrice si allevieranno i tuoi mali. Ad essa innanzi prostrati,
noi pregherem pace alle ossa de’ tuoi genitori: mentre il favore del
Cielo scendendo sull’innocente tuo capo, farà forse obliarti d’esser
nata infelice!» L’Orfana non rispose: fise le ciglia sull’augusto Segno
della Redenzione, un raggio di gioja penetrandole per la prima volta
nel fondo del cuore, ne sopiva gli affanni, e ne ravvivava la dolce
fisonomia.

L’interno dell’eremo perfettamente corrispondeva alla esteriore
sua forma. Angusto, ma fabbricato della bianca pietra della rupe,
offriva l’idea stessa della solidità: due piccole camerette servivano
comodamente ai domestici bisogni dei suoi abitatori, mentre la
vicina cappella destinata ne era alle fervide preci, posta sotto la
invocazione della _Vergine Coronata_. Sopra un’altare di marmo ne
sorgeva il Simulacro; e ad esso innanzi una lampada, alimentata dalla
pietà dei fedeli, diffondeva e costantemente il suo lume. Una selva
di abeti che fiancheggiava la cappella, levando al cielo le superbe
sue cime, avriasi creduto toccare le nubi, se le bianche pietre della
rupe che più elevate si mostravano scoperto non avessero l’inganno de’
sensi. Una sorgente di dolce acqua cadendo dall’alto della roccia in un
capriccioso bacino di sassi, formava una fonte necessaria ai bisogni
dell’eremo; e perdendosi quindi nella foresta, univa il grato suo
mormorio al monotono frascheggiare degli alberi.

— È verità incontrastabile che l’uomo sempre pago ritrovasi di quello
stato, qualunque esso sia, che più si conforma alle naturali sue
disposizioni. Visitando per la prima volta il loco che servirle doveva
d’asilo, il tenero animo della giovinetta temprato alle più nobili
affezioni, sentì in tutta la sua forza quel sacro misterioso orrore
che sempre nasce in uno spirito estremamente dilicato alla vista della
solitudine consacrata alla Divinità: la scosse da principio, ma non le
dispiacque; giacchè quella continua impressione, che dovea peraltro
rendersi più debole col tempo, era perfettamente all’unisono colla
dolce sua melanconia.

Presso l’umile cello, esposto ai piacevoli aliti di Favonio, giaceva
l’orticello dell’eremo; che oggetto addivenuto delle indefesse cure
dell’Orfana, ne formava la delizia più bella. La rosa silvestre,
il lauro sempre verde, ed il bianco fiore dello spino coltivati
dalle tenere sue mani, fornivano ne’ giorni festivi l’ornamento
della cappella; mentre il buon vecchio soltanto occupavasi della
cultura dell’erbe, e delle piante destinate a provvedere la mensa.
Disimpegnando con somma attività le donnesche incombenze, vi univa
talora la penetrante armonia della pieghevole sua voce, o ripetendo le
popolari canzoni udite al villaggio nella casa di Sofia, o cantando
la pietà di lei che la nudrì del suo latte, o narrando coll’accento
del dolore agli inanimati esseri che la circondavano la morte di sua
madre. — Ahimè! (esclamava) dessa non è più. La vedova infelice non
sopravvisse alla perdita del suo diletto: come raggio di Sole che
tramonta, dileguossi per sempre alla vista degli uomini... Salve, o
colomba della Selleide! sia leggera la terra che ti ricopre!! — Dotata
di raro ingegno, familiarizzata colla sventura, Olimpia formato erasi
un discernimento ben raro nella sua ancor tenera età. Aveva più volte
riflettuto che sua madre era morta nel darle la vita: ed in seguito di
queste dolorose considerazioni, che bene spesso reiterava, perchè anche
il dolore ha talvolta la sua voluttà, avea concepito un tale affetto
per la memoria d’Evantìa, che giammai non ricordavala senza lagrime.

Non appena il primo albòre che precede l’aurora ad imbiancar
cominciava le cime della rupe dell’eremo, che le aquile uscite dai
loro nidi udivansi stridere dall’alto sul capo della giovinetta,
allora essa levavasi dall’umile letticciuolo, onde dar principio alle
domestiche occupazioni. Una greggia di capre, dopo aver somministrato
in abbondante copia di latte il giornaliero tributo all’amabile sua
governatrice, usciva dell’ovile per ritornarvi poi spontaneamente
all’imbrunir della sera. A lei affidata era la cura dell’ordine
nell’interno del romitaggio; e l’attiva sua vigilanza provveder
sapeva al durevole mantenimento di una metodica vita. Quella elegante
semplicità che ammiravasi in tutto che usciva dalle sue mani, modellava
pure le sue vestimenta; ed una corona di silvestri rose da lei stessa
educate, intrecciata a’ suoi biondi capelli, era l’unico ornamento che
permetteasi. Allorquando il Sole, compiuto il diurno suo corso, era
vicino a nascondersi fra le rupi di Suli, la vide sempre col Solitario
nell’eremo prostrata innanzi al Simulacro della Vergine nel silenzio
della cappella: era quello il momento ch’essi, colla innocenza del
giusto, porgevano voti per la salute della dolce lor patria; mentre le
loro preghiere, siccome fumo di purissimo incenso, salivano sull’ale
degli Angeli al trono dell’Eterno. Frattanto Atanasio mai non levavasi
dal nudo terreno se non dopo versate molte lagrime sulla memoria
dell’amato fratello, laddove Olimpia non cessava di pregar pace alle
ossa di sua madre. Stretti per mano uscivano quindi ambedue dal sacro
asilo della Divinità, per restituirsi a quello della innocenza. Quivi
dopo gustato il necessario alimento, prima di coricarsi, il fratello
di Alessio trattenevasi a coltivare lo spirito di sua nipote, colla
pratica di quelle morali istruzioni che formano i giovinetti cuori alla
virtù, e nel possesso ne rafforzano gli adulti: abituata ad udirne ogni
giorno le lodi, la figliuola d’Evantìa tenevala costantemente a norma
delle proprie azioni: tanto può una educazione saggia e religiosa in un
docile animo disposto ad apprenderla!

Il puro acre che respirava, ed il metodico tenore di vita condotto
avendo la pace nel cuore di Olimpia, crescere ne faceva le giovani
membra in bellezza, ed in florida salute. Mirando sempre al bene de’
suoi simili, non appena sapeva che qualche montanaro nelle vicinanze
dell’eremo caduto era infermo, o di soccorso abbisognava nello
squallore della indigenza, che all’istante portavasi dall’infelice:
e premurose attenzioni usate senza affettazione, ed una elemosina
largita senza fare apparire il beneficio, restituivano la salute e
la tranquillità della vita a coloro che poco fa disperavano di più
riacquistarla. Il sollievo de’ miseri era per l’Orfana un vero bisogno:
poichè, chiamata da una interna forza a quegli atti generosi che
onorano la umanità, poteva naturalmente dirsi come fuori del suo centro
quando mancavale occasione di praticarli.

Adorata pertanto da tutti i poveri da lei beneficati, giammai non
offrivasi al loro sguardo ch’essi non la incontrassero colle più
energiche espressioni della riconoscenza e della gioia: chiamata il
Sorriso della provvidenza, il Genio tutelare dell’eremo, l’Angelo
della Selleide: superba di poter formare nella vigorosa sua giovinezza
l’appoggio del vecchio suo benefattore, nulla più ormai sembrava dovere
attristarla tranne la memoria di sua madre. Ma il tempo che cangia
d’aspetto a tutte le cose, scemato avea pure nel cuore di Olimpia la
energia di quegli affetti che la rimembranza di Evantìa vi destava
una volta. Ora, cresciuta in età, conosceva pur troppo che per forza
di lagrime non rivivono dal sepolcro gli estinti: pensava che la
sposa di Alessio guardavala forse dall’alto delle sfere; mentre lunge
dall’attristarsene consolavasi invece, ponendo piuttosto ogni cura nel
rendersi degna di lei.

Era dunque profeta il vecchio Eremita quando all’Orfana predisse
che all’ombra della Croce, nel sacro asilo della rupe, dimenticato
avrebbe d’esser nata infelice? Sì certamente: collocata in uno stato
che perfettamente le si addiceva, essa non sentiva il peso della
propria sventura, e respirar credette una vita novella... sventurata! I
giorni della pace e del contento sparir dovevano fra breve, e succeder
nuovamente quelli dell’affanno e del dolore.




CAPITOLO III


Mentre Olimpia col rispettabile vecchio pregavano nella cappella
della rupe per la prosperità de’ loro compatriotti, Alì Tebelèn,
Pascià di Giannina, si apparecchiava alla conquista di Suli. Questo
Satrapa a ragione appellato il Tiberio del secolo XVIII, che in
nome del Sultano Selim III opprimeva con iscettro di ferro i miseri
Greci dell’Epiro, trasportato da cieca ambizione aspirava a rendersi
indipendente, rinnuovar volendo così una di quelle tante ribellioni
che frequentissime furono in ogni tempo nel dispotico governo de’
Turchi. Eragli d’uopo per altro di prima aumentare la sua potenza,
tutto soggiogando l’Epiro; ma ben conosceva che impossibile ciò era
senza il possesso di Suli. Facendo leva pertanto di una ragguardevole
armata, risolse di condurla egli stesso alla conquista di questo
invitto propugnacolo della ellenica libertà, che veduto non avea
giammai sventolar sulle sue rupi l’abborrita bandiera della Mezzaluna.
Allorquando parvegli giunto il favorevole istante dell’aggressione,
riunite le sue truppe, e fatto giurar loro sul Korano di vincere o
morire, incamminossi con un esercito di quindicimila soldati contro
gl’intrepidi discendenti degli antichi Selleni.

Questi dal canto loro, dietro i militari apparecchi del Tiranno,
disponevansi con tutte le forze ad una vigorosa resistenza.
Abbandonando, come è antica loro costumanza, i villaggi all’avvicinarsi
del nemico; e radunati i loro guerrieri nel debole numero di mille e
trecento, si afforzarono nelle strette gole delle rupi, aspettando a
piè fermo di essere attaccati dai Turchi.

Primo fra gl’illustri capitani de’ montanari della Selleide
distinguevasi il giovine Demetrio. Fiorente di una maschia bellezza,
ricco delle più belle doti dell’animo, accoppiava a tanti pregi un
sorprendente valore: le più avvenenti donzelle di Suli sospirando per
lui, ne ambivano l’onore del talamo; ma geloso egli della sua libertà,
avea sempre sdegnato i lacci dell’imeneo. Pronto sempre a versare
tutto il sangue in difesa dell’altare, e della sacra patria de’ suoi
maggiori; dividendo tutti gli affetti suoi fra questa ed una madre che
sola restavagli; lusingavasi di viver sempre ribelle al dominio di una
passione, che è la delizia insieme ed il tormento della vita. — Vane
speranze! Fra poco dovea persuadersi che un anima tenera e generosa non
mai sfugge agli strali d’amore.

Frattanto l’armata del Satrapa di Giannina avanzavasi rapidamente.
Ebbri i Turchi di furore tra le orribili continuate grida che metter
sogliono sempre prima di cominciare la zuffa: animati alla strage
del fanatismo de’ loro Dervis, che’, invocando Aliali, e Maometto,
spargevano pugni d’arena incontro ai Cristiani: fatti audaci per
qualche leggero vantaggio dalla sola maggioranza del numero ottenuto
ai primi posti, e ripromettendosi una piena vittoria, attaccano su
tutti i punti i Suliotti, ed incalzandoli vivamente colla sciabla alla
mano, li respingono in mezzo all’urto generale fin sotto la rocca
di S. Veneranda. Non eransi i Maomettani mai più cotanto inoltrati.
Desolati all’aspetto di tanta sciagura che minacciava per sempre i
destini della loro patria, i Greci misero un grido di raccapriccio e
di orrore; e l’eco della Selleide, prolungandolo nelle più remote parti
delle montagne, annunziava nella rupe agli ospiti dell’eremo il comune
periglio, mentre guidava le giovani spose al soccorso dei loro mariti.
Queste valorose donne, radunatesi in considerevole numero, prendevano
parte al combattimento, rotolar facendo enormi sassi giù per la
china del monte; i quali movendo col loro urto infinite altre pietre,
giunsero a schiacciare il centro de’ vili Osmanli aggressori.

Frattanto la vanguardia composta di Maomettani Albanesi, affatto
ignorando quanto accadevale alle spalle, e sicura di essere
energicamente sostenuta dal resto dell’armata, si batteva
ostinatamente, lusingandosi di presto inalberare sulle rupi di Suli lo
stendardo del despotismo. Ma i valorosi montanari, saputa la strage che
il coraggio delle loro mogli facea de’ nemici, eransi già rianimati:
e l’intrepido Demetrio alla testa de’ suoi prodi, traendo i barbari
d’inganno: «Infedeli! (gridò loro con una voce che li arrestò), la
vostra armata perisce in massa sotto l’urto di queste nude pietre
che c’invidiate: voi siete soli, e perirete per le nostre mani!» Ciò
detto, tolta in pugno la sacra insegna della Croce, piombò su loro come
l’Angelo dello sterminio.

I Maomettani vedendosi ridotti alle sole lor forze, opponevano quella
salda resistenza che è figlia della disperazione: ma indarno: Demetrio
trionfava di tutto; tutto cadeva all’impulso del divino fuoco che
agitavalo; e tale era il suo furore, che in brevi istanti il terreno
rimase ingombro di cadaveri. Cacciandosi innanzi i pochi nemici
sottrattisi ai colpi della sua spada, incontrava egli per via la
retroguardia dell’esercito in piena ritirata. Sempre circondato dai
più ardenti guerrieri, ed audace renduto dal successo, precipitossi
sui nemici che fuggivano; e dopo aver tolto loro tutti i foraggi,
le munizioni da guerra, e molti cannoni, pienamente li sconfisse,
ripigliando quindi co’ suoi la strada delle native montagne.

Frattanto il Tiranno furibondo per l’infelice esito di una impresa
ch’egli creduto aveva sicura, ritiravasi precipitoso alla volta
di Giannina, con un migliajo di soldati a stento raccolti. Giunto
nella capitale de’ suoi dominii, affrettossi a seppellire in fondo
al serraglio il proprio dolore, e la rabbia che lo divorava: ed ivi
giurando un’eterno odio ai Cristiani di Suli, meditava a lor danno una
più felice invasione.




CAPITOLO IV


Ma già ai terribili momenti dell’allarme e del pubblico pericolo
era succeduta l’ora della calma, e della comune sicurezza. La patria
esultava, ed i giovani guerrieri copertisi di gloria erano l’oggetto
della generale ammirazione: i vecchi animati da nuovo vigore,
rallegravansi di essere vissuti cotanto; e le rispettabili madri di
quel popolo d’eroi al seno stringevansi i figli carichi delle spoglie
dei debellati aggressori. Nulla però era comparabile all’entusiasmo che
destava la vista di Demetrio. Salutato da tutti aquila della Selleide,
scudo della pallia, Genio della vittoria, le mani stesse di sua madre
tremanti per la gioja gli cingevano al crine la meritata corona; mentre
i fanciulli e le donzelle spargendo di fronde di lauro la via che
percorrer doveva il vincitore, cantavano inni di lode al trionfante
Vessillo della Redenzione.

Olimpia col vecchio suo zio trovavasi presente a questa scena
commoventissima. Nel fatale istante, in cui si videro in forse i
destini di Suli, essi pregavano piangendo nella cappella dell’eremo:
l’ottenuta vittoria era appunto lo scopo delle loro preghiere; ed
Atanasio a sè ed all’Orfana negar non volle la innocente soddisfazione
di vedere co’ proprii occhi il trionfo della Croce. — La figlia
d’Evantìa toccava allora il terzo suo lustro. Il bianco giglio e
la rosa, simboli della verginale innocenza, fiorivano sulle sue
guancia: due negre pupille che tutta l’anima appalesavano giravansi
languidamente sotto le grandi sue palpebre; mentre le turgidette labbra
tinte di viva porpora, leggiadro contrasto formavano colla candidezza
del collo e del seno.

Demetrio intanto, segno allo sguardo di tutti, vedeva per la prima
volta l’amabile Orfana, allora che una lagrima di gioja chiamatale
sul ciglio dalla tenera sua sensitività, la rendea mille volte più
bella. Vederla, ed accendersi di lei fu l’opera d’un solo momento:
quel cuore fino allora straniero alla più dolce fra le passioni,
trovava alla fine chi doveva interamente soggiogarlo. Nulla omai
più scorgendo sulla terra tranne l’amabile oggetto che lo colpiva;
dimentico della trionfale scena di cui formava gran parte, a null’altro
aspirar sembrava se non che a trasfondere tutta la passione che
investivalo nella interessante verginella di Suli. Ma già il primo
raggio dell’amore, più rapido del baleno, penetrato aveva ad un tempo
i due giovani cuori: animati questi da un medesimo sentimento, di già
intendevansi fra loro perfettamente; ed un solo sguardo per parte di
Olimpia, ma che tutto disse in quell’istante, bastò ad assicurare il
fortunato Demetrio della sua felicità.

Intanto la pubblica festa avvicinavasi poco a poco al suo termine;
ed il pomposo corteggio giunto al maggior tempio di Suli, già ne
entrava le porte fra l’universale acclamazione. Semplice, ma vasto è
l’antico edifizio: colossali pilastri in giro a doppia fila collocati
ne sostengono l’ampia volta; ad essi in mezzo nella eterna sua maestà
ergesi l’ara della Croce; ed un’aura santa, leggermente fremendo
all’intorno, annunzia al mortale la presenza della Divinità.

— Salve o glorioso Vessillo vincitore dell’averno e della Morte!
«(intuonavano i ministri del Signore.) — Inni di lode al Dio degli
eserciti! (rispondevano i guerrieri); innanzi a Lui, sole di giustizia
raggiante sull’alto delle nostre montagne, dileguaronsi gl’infedeli
come la nebbia dal piano. — A Te sian grazie, o Maria! (cantava un
coro di vergini); brilli sempre a Suli propizia il tuo lume, o fulgida
stella del mattino! difendi la patria, e perano i nemici del tuo nome!
— Lode all’Eterno! vittoria alla Croce! esclamavano battendo le palme i
fanciulli ed i vecchi.»

Ma un istante di silenzio succeduto era alle espressioni della
gratitudine e del giubilo comune: Demetrio allora circondato
dai venerandi Senatori, ed ispirato dagli ardenti affetti che
agitavanlo «a Te (disse) o Dio de’ forti, che reggesti il braccio
del Pastorello nella valle di Terebinto a danno dell’orgoglioso: a Te
sovrano reggitore dei destini di Suli: a Te, nella cui ira tremenda
annientaronsi gl’impuri Islamiti, consacra Demetrio il brando della
vittoria! Egli in voto lo appende al tuo altare: ma innanzi a Te,
Onnipotente, ed in faccia a tutti i suoi concittadini qui giura
di ripigliarlo, tostochè i nemici della religione e della patria,
tenteranno nuovamente di opprimerla!»

Replicate grida di acclamazione, e lagrime di tenerezza uscivano
dal labbro e dagli occhi di tutti: le ampie volte del santuario
n’echeggiarono; ed il cannone tuonando ad intervalli dalla rocca di S.
Veneranda, annunziava alla Selleide il giorno della pubblica gioja.
In rendimento di grazie all’Eterno cantossi quindi dai sacerdoti
il Trisagio celeste: e, finita la ceremonia, la Croce per le mani
del ministro del Signore benedisse l’accolta moltitudine, che poi,
romoreggiando come le onde del mare dopo la burrasca, si sciolse, e
dileguossi.

Invano frattanto i cupidi occhi di Demetrio ricercavano nel villaggio
l’amabile figlia d’Evantìa: dessa più non v’era; unita al vecchio suo
zio, già la via ricalcava che all’eremo mena della rupe.




CAPITOLO V


Ritornava Olimpia trilustre al dolce asilo dell’innocenza... ma quanto
diversa da quando il fece, la prima volta, decenne! Non più quella
trista apatìa che accompagnava allora i lenti suoi passi; un solo
oggetto, ma con tutta la energia, ora le occupa l’anima, mentre una
forza soprannaturale sembra costantemente richiamarla al villaggio.
— Loco fatale! per te l’Orfana perdendo una pace a stento ornai
racquistata, sente pur troppo di non esser nata che a soffrire. —
Quella sacra solitudine che tanto un tempo contribuiva a raddolcirle
l’amara impressione del dolore, non ha più forza sul suo spirito: una
diversa cagione ne forma ora la inquietudine, ed anche il dolore è
insanabile, quando insanabile è la ferita che lo produce.

Sonovi sulla terra degli esseri di sì delicata natura pe’ quali lo
stesso amare è una pena. Questa passione infatti sconosciuta finora ad
Olimpia, agiva su lei per la prima volta con una veemenza, e con un
impeto che la straziavano. Lontana da colui che adorava; priva della
speranza di rivederlo nelle selvaggie balze dell’eremo, delle quali non
era supponibile ch’egli la credesse abitatrice; ignorando affatto di
essere corrisposta; la fredda ragione avria potuto svellerle certamente
questo affetto dal seno, se troppo profonde state non ne fossero le
radici. Benchè una vana rimembranza non potesse che vieppiù inasprire
il suo male, riandava sovente col pensiero gl’incantati istanti
trascorsi nel villaggio innanzi al valoroso. Allora fissavasi immobile:
lampeggiavano alla sua fantasia quegli sguardi di fuoco che Demetrio
le dirigeva: penetrandone tutto il sentimento, lasciavasi cadere delle
lagrime sulle guancie... nulla più udiva; anzi nulla più esisteva per
lei immersa nella contemplazione di un oggetto che occupava tutte le
sue facoltà, e ch’essa chiamava Demetrio... sventurata! non era questo
talora che un tronco, od un sasso.

Intanto il figliuolo di Eutimia non era meno infelice dal canto suo.
In braccio alla più violenta delle passioni, dopo mille infruttuose
ricerche onde rivederne l’oggetto, mal sopportando la vita senza colei
che sola potea fargliela amare, e perduto il fiorente vigore della
gioventù, giacevasi infermo nel letto del dolore, gravemente dubitar
facendo di sua vita. Un’ardente febre unitasi all’eccessivo calore
della stagione lo manteneva quasi sempre in uno stato di delirio, che
interrompendosi soltanto per dar luogo ad una quiete sovente foriera di
mortali svenimenti, era anche più pernicioso. Negli accessi più forti
le rotte parole ch’ei pronunziava, analoghe ad una folla d’idee vaghe e
disperate, null’altro a travedere lasciavano che l’impeto del male: ma
nei meno veementi, allorquando un più mite delirio traevalo a parlare,
l’amabile donzella era sempre l’oggetto delle sue querele.

«Adorabile fanciulla! (esclamava passionatamente). Bella come il primo
raggio del mattino.... piegossi nel tempo ch’io lo feci al sentimento
dell’amore... ah! quello sguardo... quel fatale sguardo me ne convinse,
e... non mai partirà dalla mia mente.» Un breve silenzio succedendo a
questi detti, con languida voce ripigliava: «Ma se tanto buona, perchè
abbandonarmi?... perchè fuggire per sempre da me?... Ah! lo conosco:
io non era degno di lei. La celeste creatura quaggiù discesa per beare
un istante i mortali, non poteva rimanervi lungamente: il cielo la
richiamava... ed essa, come il baleno, dileguossi da’ suoi... Ma fra
poco io spero raggiungerti... sgombro allora dai lacci terreni... sì...
potrò amarti senza arrossire!» Qui un sospiro tratto dal profondo del
cuore sembrava spingere leggermente all’alto il suo voto; mentre le
negre pupille umide di pianto, elevandosi languidamente, tentavano
accompagnarlo.

La lebbre intanto aumentando sempre più, era per giungere al colmo;
e l’infermo spossato per lunghe vigilie, annunziava co’ sintomi più
funesti la terribile crisi che si avvicinava. Ma le tenere indefesse
cure di sua madre, e più il vigore della gioventù, che sebbene
oppresso non era per anco spento del tutto, fecero sì che Demetrio,
dopo aver lungamente lottato colla morte, superasse il pericolo, e si
avviasse quindi a gran passi ad una totale guarigione. Restituito dopo
qualche tempo alla primiera salute, non respirava però la primiera
tranquillità: e siccome senza il prezioso dono di questa non può l’uomo
viver lieto fra i suoi simili, così il figliuolo d’Eutimia, di allegro
e sommamente vivace ch’egli era, cangiossi tosto in melanconico e
taciturno. Quella dolce mestizia che sparge su tutti gli oggetti la
lugubre tinta del dolore, signoreggiava il suo spirito; e nulla, in
mancanza di lei che adorava, facevagli amar più della solitudine e del
silenzio.

Spinto da queste inclinazioni dell’animo, considerandosi come
adatto solo sulla terra, invano sua madre e colle ragioni e colle
preghiere tentava ricondurlo al primiero tenore di vita: Demetrio a
tutto indifferente, non trovava interesse se non che in que’ luoghi
solitarii che soli addir si poteano al suo stato. Un folto bosco non
mai penetrato dai raggi del sole, una roccia impraticabile, un profondo
burrone, una folta quercia che scorrer vide più secoli, erano i soli
oggetti che fermar potessero la sua attenzione. Frattanto in queste
solinghe passeggiate, in mezzo ad una selvaggia natura, l’immagine
dell’amabile verginella offrivasi sempre al suo pensiero: figlie della
tenerezza, e di quel soave sentimento che può ben provarsi da alcune
anime gentili, ma non adequatamente descriversi, spargeva allora in
copia delle lagrime; queste peraltro non avevano l’amarezza del pianto:
procurando sovente uno sfogo ben necessario al suo cuore, cadevano
dolcemente senza ch’egli sapesse di versarle.




CAPITOLO VI


In un giorno in cui la sua tristezza era forse maggiore del solito,
egli prese soprappensiero una strada diversa dia quelle fino allora
praticate. Serpeggiava questa nel piano, in mezzo a verde campagne
coronato all’intorno dalle rupi di Suli, presentando all’occhio la
più gradevole scena. Demetrio l’andava percorrendo a lenti passi;
e tutto penetravalo una dolce commozione, allorchè avvidesi che il
terreno cominciava a salire sotto i suoi piedi. Un limpido ruscello
giù scendendo per la china di una rupe, lentamente avviavasi al piano:
l’edera ed il musco abbarbicandosi sulla cima degli scogli, grato
pascolo fornivano alle capre silvestri, che mostrandosi dall’alto
arditamente inerpicate sull’angolo di un sasso, la romita eco
svegliavano cogli spessi belati. Il sublime incanto di questa scena
piacque oltremodo al figliuolo di Eutimia, che, inoltrandosi sempre
più nella rupe, trovossi giunto finalmente nel più folto di una selva.
Quivi tutto cangiava d’aspetto: il solo ruscello che servito avevagli
di guida scorreva ancora mormorando a’ suoi piedi, attraverso un verde
terreno smaltato di fiori. Abeti di gigantesca statura elevavansi al
cielo maestosamente; ed il piacevole alito di un venticello, mitigando
i cocenti raggi del sole, coll’alterno incurvare de’ rami stormir
faceano leggermente le foglie.

A vista così bella il figliuolo di Eutimia si assise sul verde suolo
a piè d’un abete: poggiato il destro cubito sul ginocchio, e sulla
mano la fronte, compiacevasi di sviluppar colla immaginazione i
patetici sentimenti che provava, quando ad un tratto una languida voce
interrompendo il silenzio della foresta, dolcemente lo scosse.

    Sacro bosco, ermo, e segreto,
      Aura pia, chiaro ruscel,
      Mie querele a voi ripeto
      Che ne foste eco fedel.
    Ah! qual suol lampo fugace
      Che fa un guizzo e muor, così
      Dal mio sen la cara pace
      Rapidissima sparì.
    Per me pur ridente un giorno
      Una stella in ciel brillò:
      Ma fatal Amor d’intorno
      L’ali stese, e l’eclissò.
    Crudo Amore! or che mi resta
      Sull’aurora dell’età?...
      D’aspri guai dote funesta,
      E il piacer di far pietà.

Così cantava dolcemente una voce femminile; e Demetrio intanto
rapito quasi fuori di sè, levatosi sui piedi, percorreva col guardo
all’intorno quel luogo incantatore. Ma nulla scorgendo fra la
moltitudine delle piante, e sicuro tuttavia di non essersi ingannato,
fece alcuni passi e giunto dietro un folto cespuglio, senza esser
veduto, scoperse a caso in qualche distanza una giovane donna, che,
attingendo l’acqua ad un fonte, di copiose lagrime irrigava il volto
quasi celeste. — Sorpreso a quella vista da un tremito convulsivo,
i suoi occhi si copersero d’un negro velo: un sudor freddo corsegli
per la fronte; le sue ginocchia piegaronsi sotto di lui, e cadde
barcollando sul terreno. — Chi vedeva egli mai!!

Era colei, la bellissima Olimpia. In quei momenti che una veemente
passione rende più crudeli e terribili ad un giovane cuore, ella narrar
soleva le sue pene al silenzio della foresta dell’eremo: i venticelli
raccoltisi fra i rami degli alberi, immoti starano ad udirla; il
limpido ruscello leggermente increspando le sue onde, gorgogliava
appena fra le rive; mentre i mesti gorgheggi dell’usignuolo dir pareano
all’Orfanella di Suli ch’essa non era la sola a lagnarsi sulla terra.

Demetrio non anco perfettamente ristabilito dalla lunga sua malattia,
rivedendo un oggetto che già credeva perduto per sempre, sicuro
quasi di essere amato quanto amava egli stesso, cedendo a mille moti
violenti, caduto era privo di sensi. Tostochè egli si riebbe, diessi
subito a riguardar nuovamente fra gl’intricati virgulti del cespuglio,
ma invano: senza potersi accorgere che un ente umano languiva non
lungi da lei, erasi Olimpia partita mentre ei si giacque svenuto.
Questo infausto contrattempo costò forse qualche sospiro a Demetrio...
ma rinvenuto, avea finalmente l’amabile donna del cuor suo, ogni
altro pensiero dileguossi in faccia a questo; ed un raggio di gioja,
simile a quello del sole dopo la tempesta, rasserenar parve un istante
quell’abbattuta fisonomia.

Accompagnate pertanto dalle più lusinghevoli idee, rivolse il passo
al nativo villaggio, fermo di ricondursi nella stessa ora del giorno
seguente alla foresta della rupe.




CAPITOLO VII


Allorquando una profonda tristezza ha lungamente signoreggiato il
cuore dell’uomo, e l’animo di lui si è poco a poco abituato ad una
costante melanconia, può ben questa rendersi più mite per la improvvisa
sopravvenienza della gioja; ma non è già che dileguisi del tutto. Di
fatto, benchè il fausto avvenimento contribuir dovesse a far rivivere
in Demetrio la primiera vivacità (quel dolce invidiabile sentimento
che devesi quasi sempre alla perfetta inesperienza de’ grandi mali)
pure egli non anco aveala racquistata; e la lugubre tinta dell’antico
dolore, benchè più leggera al presente, ottenebrava pure il cuor suo,
— Non si dia in braccio ad una passione, chi brama conservarsi nella
gioconda serenità dello spirito; perduta che sia questa una volta, non
mai si ricupera interamente.

Era già il sole pervenuto alla metà del diurno suo corso, diretti
raggi vibrando sulle rupi di Suli, quando l’amabile figlia d’Evantìa
alle fresche ombre si ricondusse della foresta dell’eremo. L’ardente
luglio percuoteva con una sferza di fuoco la terra: l’erbe ed i fiori
languivano sui campi; cercavano gli augelli nella verdura dei boschi un
più gradevole asilo; mentre le importune cicale, sotto un cielo privo
di nubi, faticavano nel canto.

È ben vero che nella sventura è per l’uman cuore assai consolante
soddisfazione il narrare le proprie pene anche agli inanimati oggetti
che ne circondano; queste allora, se non meno amare, rendonsi pure più
facilmente sopportabili, ed a ragione: poichè l’anima sovente al vivo
dipingendo colle parole la terribile passione da cui trovasi agitata,
col sovente ricopiarla viene a rendersi meno odiosa la immagine
dell’originale. Assisa pertanto sulla fresca sponda del ruscello,
ripigliava Olimpia il flebile suo canto.

    Sacro bosco, ermo, e segreto,
      Aura pia, chiaro ruscel,
      Mie querele a voi ripeto
      Che ne foste eco fedel.
    Ah! qual suol lampo fugace...

— Ma donde questa dolce armonia che i sensi rapisce? essa accompagnasi
soavemente alla mia voce.

Così Olimpia esclamava, tendendo acutamente l’orecchio; e guardandosi
stupefatta all’intorno: ma di nulla accorgendosi, e punto non dubitando
di essersi ingannata, già a riprender faceasi la usata canzone,
allorquando una grata melodia interruppe nuovamente il silenzio della
selva.

Demetrio ritornato al loco dell’amoroso incanto, attendeva tacitamente
dietro il folto cespuglio l’arrivo della giovinetta: quando questa
comparve, e la flebile cantilena riprese, le dolci note di un flauto
univa egli alle pieghevoli modulazioni della sua voce. — Attonita
Olimpia, e come in dolce estasi rapita, pendeva intanto dagli amorosi
concenti che uscir sembravano dal folto degli alberi. Ma svanita
appena la prima illusione della sorpresa, ed accortasi che un ente
umano era non lunge da lei, in un loco ove dessa erasi sempre creduta
perfettamente sola, non curando di conoscerlo, fuggiva atterrita alla
volta dell’eremo.

Demetrio perder non volendo sì bella occasione per manifestarlesi,
confidando interamente sul proprio onore, e null’altro scorgendo in
quella fuga precipitosa se non che gli effetti di un mal concepito
terrore, o di troppo selvaggia educazione, sperando disingannarla,
seguìa velocemente i suoi passi. Sentendosi inseguita, la innocente
fanciulla ebbe appena il coraggio di rivolger lo sguardo sulle proprie
orme: ma quale non fu il suo sbigottimento, quando in lui che teneale
dietro riconobbe Demetrio! Proruppe in un grido che le morì sulle
fauci: coprì gli occhi con ambe le mani; ed ignorando ella stessa
quanto faceva, entrò barcollando la soglia della vicina cappella.

Colpito come dal fulmine a scena così inaspettata, tutte le circostanze
della quale sembravano dirgli ch’erasi egli ingannato, e che la
giovinetta non avealo amato giammai, Demetrio era rimasto immobile, e
quasi fuori di sè. Rispettando la santità del loco in cui trovavasi,
non ardì penetrare nella cappella: ricalcò rapidamente la strada
percorsa; e si allontanò dalla foresta, pensando ai più espedienti
mezzi onde meglio assicurarsi del vero.




CAPITOLO VIII


Allorquando Olimpia entrò sbigottita nel sacro loco dell’orazione,
vi rinvenne il vecchio Eremita prostrato a piè del simulacro della
Vergine. — Egli è desso... (furono queste le sole parole ch’ella
pronunciò tremante, additando la porta, e non accorgendosi che suo
zio era quegli a cui dirigevasi:)... egli è desso... — e cadde
semiviva sulla gradinata dell’altare. Spaventato Atanasio per
l’estremo turbamento che leggevasi nel volto della nipote, fra mille
incerti dubbj ondeggiando, e temendo lo scoprimento di una terribile
verità, uscì, esitante, la soglia della cappella. Guardò attentamente
all’intorno, ma nessuno scoperse. Ritornatovi finalmente onde assistere
al sventurata, sorreggendola sul suo braccio, giunse a ricondurla nelle
celle dell’eremo.

«Ah, mio zio! quanto sono colpevole agli occhi vostri!» — A queste
prime voci che Olimpia proferì languidamente, e che nascondevano al
certo un profondo mistero, il Vecchio rabbrividì: fissò gli occhi
immobili sul terreno, e senza rimuoversi da situazione così dolorosa...
«ebbene, che hai tu fatto?» le disse con voce soffocata. — «Costretta a
svelarvi un segreto che fino ad ora avrei voluto nascosto a me stessa,
veggo quanto mal feci a non palesarvele prima... ma voi fremete: giusto
Cielo! sarei forse cotanto infelice, che poteste voi credermi un solo
istante capace di colpa? — Scosso da questo rimprovero «no, mia figlia»
rispose il vecchio sorridendo placidamente, ed intanto l’ombra del
sospetto dileguavasi dalla fronte di lui, come dileguasi la nebbia al
primo raggio di Sole.

Giustificata Olimpia agli occhi dello zio, e vedendolo pienamente
disposto ad ascoltarla, tutta narragli la commovente storia delle
proprie pene. Non si valse di ricercate maniere per trasfondere l’anima
sua in quella del vecchio generoso. La nuda verità esposta coi modi
più ingenui splendè sola in quel patetico racconto; e tale eloquenza,
che sempre è quella di una grande passione, giunse perfino a strappar
delle lagrime dal ciglio di un uomo, il quale fino allora creduto
aveane già inaridita la vena. Consapevole Atanasio delle grandi virtù
che adornavano il giovine valoroso, e dell’alta stima che questi
godea presso i suoi compatrioti, assentì ad un amore così innocente,
e si dolse soltanto che Demetrio si fosse allontanato dall’eremo, —
«Semplice che fosti: (disse ad Olimpia) colla fuga tua precipitosa
non ti avvedesti che reo il supponevi di colpevoli intenzioni: l’onor
suo fu punto da questo dubbio insultante; ed egli, a pienamente
giustificarsi, rapido allontanossi da te... Se ti ama peraltro non
andrà a lungo che tu lo rivedrai: ed io, anzichè oppormi ad unione sì
bella, stringerò colle mie mani medesime l’indissolubile nodo.»

Queste soavi parole piovvero sul tenero cuore della figliuola
d’Evantìa, siccome fresca rugiada in grembo a vergine rosa.
Sopraggiunta la notte, coricossi ella nell’umile letticciuolo; ma brevi
ed interrotti essendo stati i suoi sonni, ne sorse coll’alba, e ad
aspettar si pose impaziente l’ora in cui portar solevasi ordinariamente
alla foresta. Arrivò questa alla fine, ed ambidue vi s’incamminarono.
Nel più leggero stormir di fronda, nel più piccolo moto all’intorno,
credeva dessa anuunziarlesi l’arrivo di Demetrio; ma egli non appariva
giammai. Indarno sforzavasi il vecchio di rassicurarla: l’ardente animo
di lei, tutta a sè attribuendo la infausta cagione di tale tardanza, e
forse di un totale allontanamento, abbandonavasi in preda al dolore.
Finalmente dopo più ore d’inutile attenzione, disperando omai di più
rivederlo, a lenti passi e pensosa riconducevasi collo zio alle celle
dell’eremo, allorchè questi, rivolgendo a caso lo sguardo sopra una
gran pietra che serviva di sedile presso la cascata della sorgente
«ecco qui un foglio: (esclamò,) «Demetrio ve l’ha posto senza dubbio.»
— Rapidissima Olimpia glie lo strappò dalle mani; e leggendolo con
tremante voce, trovollo concepito così — «Amabile creatura! — A voi che
nel villaggio foste testimone del mio turbamento, e della impressione
che in me fecero le amabili vostre attrattive, a voi in mia vece
manifesta questo foglio i teneri sensi ch’io nutro. Dopo avervi amato
finora con tutta la forza dell’anima, dopochè udii dal labbro vostro
medesimo le pietose querele dell’amore, io pensai che potessero a me
riferirsi, e mi credetti felice... ma voi fuggiste; inorridiste quasi
al vedermi, ed il disinganno succedette alla soave illusione. Pure
un raggio di speranza mi resta tuttora, nè io ho cuore di spegnerlo:
pronunciate voi stessa sulla mia sorte, ed un vostro foglio si trovi
qui domani all’ora medesima. Questa grazia io chieggo vivamente: e
questa spero ottenere da quell’adorabile oggetto, ch’io credei nato per
la mia felicità.

Atanasio frattanto vivamente commosso, «Giovine valoroso! (sclamò) se
tutto tu sapessi, ah, non diresti così!» — Olimpia nulla soggiunse:
dalle labbra al cuore portò rapidamente i caratteri dell’amante; e
fissandosi immobile alcun poco, misurar parve col pensiero la forza di
quella passione, e confrontarla quindi colla propria.




CAPITOLO IX


Demetrio lusingar non potendosi di un abboccamento colla giovinetta,
dopochè fuggir se la vide dinanzi, nel giorno appresso avea su quella
pietra lasciato il foglio per assicurarsi della propria sorte. Nascosto
dietro un folto cespuglio, avea veduto l’amabile Orfana ed il Vecchio,
che lessero la lettera, e si partirono, senza ch’ei per la lontananza
del loco in cui stavasi, avesse potuto udire una sola parola: ma viste
avea le lagrime dell’uno, ed il passionato atto dell’altra; e ciò
bastò, perchè la speranza tornasse dolcemente a vivere nel suo cuore.
Presago di un felice successo, erasi quindi ricondotto al villaggio ad
aspettar la comparsa del giorno novello.

Era una delle più placide mattine di luglio; e già l’aurora stendeva
il roseo velo per gl’immensi spazii del firmamento, quando il giovine
amante per cui soverchiamente lunga era stata la notte, balzò dalle
piume, e si pose in cammino. Temprato l’animo ad insolita gioja,
contemplava egli per via l’imponente spettacolo del nascere del Sole.
Gli parve che il sorriso dell’Eterno in quell’istante brillasse sulla
terra: la natura animossi; ed il festivo canto degli augelli sparsi
per la campagna e pe’ boschi salutò l’astro portatore del giorno.
Mai più questo sorto non era sì bello per Demetrio: le sue ciglia
s’inumidirono; il tenero suo cuore ne rimase commosso, e palpitò
dolcemente all’augurio felice. Giunto nella foresta dell’eremo,
prima di ricovrarsi dietro l’usato nascondiglio, portossi un istante
presso la cascata della sorgente. Non prima d’allora erasi accorto
il figliuolo d’Eutimia che, per la soverchia impazienza, di più ore
anticipato avea l’appuntamento: più ore dunque eragli forza lasciar
correre prima d’essere informato della propria sorte; e chi non sa
che il tempo, a seconda dalle occasioni, è talora troppo rapido,
troppo tardo talora per un amante? Godendo in quel lungo intervallo di
assidersi egli stesso nel beato suolo su cui già veduto avea riposarsi
le membra della sua bella, volse a caso lo sguardo alla gran pietra
della fontana: ma quale non fu la sua sorpresa, allorquando un foglio
vi discoperse! Un piccolo sasso ch’eravi sovrapposto, impediva al vento
di altrove trasportarlo.

«Se la risposta racchiuder dovesse la mia sventura (esclamò Demetrio
con trasporto) quell’anima pietosa non sariasi così affrettata di
parteciparmela.» Tremante come quei che sta per assicurarsi della
propria felicità, diè un’occhiata rapidissima al foglio: percorso in un
istante tutti i gradi che passano dal dubbio alla certezza; poi tornò a
leggerlo con mente più pacata, e mille baci vi impresse.

  «Demetrio! (gli si diceva). Se la vostra Olimpia è capace di
  rasciugarvi le amare lagrime versate finora; se un costante amore
  per sua parte può rimarginarvi le ferite del cuore, voi da qui
  innanzi contar potete liberamente sulla vostra guarigione. Se
  già credeste esser da me corrisposto con pari tenerezza, non
  v’ingannaste certamente; chè se poi la mia insensata fuga potè
  farvi dubitare del contrario, ed io potò affliggervi cotanto,
  rammentatevi che vi hanno alcuni momenti sulla terra ne’ quali
  noi non siam padroni di noi stessi, e perdonate generoso ad
  una eccessiva sensitività che mi fece travedere. — Mio zio, il
  rispettabile mio zio annuisce pietosamente alla innocenza dell’amor
  nostro, e promette egli stesso renderne felici. Venite dunque fra
  le sue braccia, o Demetrio! egli vi attende nell’eremo vicino:
  qui troverete pure colei che vi adora; quivi le sue labbra vi
  rinnoveranno le proteste di un affetto indelebile, e quivi a voi
  daccanto respirar potrà una vita novella la fino ad ora sventurata

                                                          OLIMPIA.»

Bisognerebbe aver sofferto tutte le amarezze di una passione, ed averne
poi ad uno istante gustate le più soavi delizie, per ben sentire la
situazione di Demetrio in quel punto. Egli, quasi fuori di sè per la
gioja, avviossi rapidamente alla volta dell’eremo: tutti gli oggetti
che allo sguardo se gli presentarono, furono come non esistenti per
lui; i suoi occhi non si fermarono che alla vista dell’amabile Orfana
del vecchio. Penetrato allora da quell’aria di celeste maestà che
splendeva nel volto di lui, il figliuolo d’Eutimia cadde in ginocchio
a’ suoi piedi.

«O voi (disse), uomo divino, che pietoso de’ mali da me finora
sofferti, vi degnaste generoso strapparmi alla sventura, colla promessa
di un felice avvenire, deh, non isdegnate queste calde lagrime che
a me chiama sul ciglio un amore riconoscente! Son desse l’unica cosa
ch’io posseggo di voi meritevole, la sola offerta ch’io farvi possa in
contraccambio di opera sì grande.»

«Ed io le accetto: (risposegli il vecchio sollevandolo dal terreno)
umida n’è tuttor la mia mano, e l’impressione ch’io ne sento, non mai
si cancellerà dalla mia memoria. Eccoti intanto, o giovine virtuoso,
colei che potrà farti felice: i vostri cuori nacquero per amarsi, e voi
sarete uniti fra breve.»

Si trattenne Demetrio nell’eremo tutto il rimanente del giorno,
narrandosi a vicenda con Olimpia le proprie pene: ognuno di essi
confrontolle colle proprie; un nuovo interesse si destò nel grado
più eminente; e fra le proteste di un eterno amore più e più volte
ripetute, sentirono alfine che la sola morte avrebbe avuto sulla terra
la forza di separarli. Allorquando gli ultimi raggi del Sole cadente
annunziarono vicina la notte, Demetrio allontanossi dall’eremo per
restituirsi alla casa di sua madre. Commovente fu oltremodo l’addio:
finchè la distanza il permise, Olimpia seguì coll’occhio l’amante che
partiva; mentre, avvezza al pianto da lungo tempo, avrebbe certamente
versato delle lagrime, se trattenuta non l’avesse il consolante
pensiero che a lei ritornato sarebbe nel giorno seguente.

La festa della _Erosantìa_ che si celebra fra i Greci al principio
della primavera, ossia la festa delle rose novelle, è fra i Suliotti
alle nozze consecrata. Le giovinette spose, coronate il crine
dell’amabile fiore della stagione, condotte vengono dai loro amanti
a piè dell’ara della Croce: quivi il ministro del Signore unisce le
loro destre, e chiama il lavoro del Cielo sulle coppie felici. Questa
era l’epoca fissata dallo zio alle nozze di Olimpia: questa sospirava
continuamente il figliuolo d’Eutimia; e questa attendevasi pure con
impazienza nell’eremo della rupe.

Demetrio frattanto non lasciava di portarvisi ogni giorno, dove più
ore passava in compagnia degli ospiti diletti: occupavasi talora con
Atanasio della cultura dell’orticello, e sovente con Olimpia divideva
il peso delle domestiche cure. Ogni loro azione, ogni moto, animato
era da quel soave sentimento che è la delizia di tutti gli esseri che
respirano: un dolce sorriso accompagnava sempre l’incontro de’ loro
sguardi: ed intanto il buon vecchio, riandando col pensiero ai primi
tempi della gioventù, godeva d’un affetto di cui egli stesso altra
volta creduto sarebbesi capace, e sorrideva dolcemente ad un amore che
apparecchiar sembrava la durevole felicità di sua nipote.

Giorni così avventurati, nella espettazione di altri più belli,
traeva intanto nella rupe l’Orfana di Suli; ma, appunto perchè dolci e
tranquilli, parevano non potersi lungamente convenire a colei, che fin
dalla cuna familiarizzata erasi colla sventura. Sparirono difatto nella
adulta sua giovinezza, colla rapidità stessa con cui altra volta il
fecero nella infanzia: poichè allorquando la nemica fortuna abituossi
a perseguire costantemente un infelice, ben di raro succede che si
arresti dal crudele esercizio: se tuttavia lo sospende, non è che per
brevi intervalli; e questi rendono più acerba la novella sopravvenienza
del dolore, siccome quei baleni che in mezzo al turbine rischiarando
per un istante la terra, riconducono quindi più terribile la oscurità.




CAPITOLO X


Cessavano frattanto gli ardori della state: l’equinozio autunnale
appressavasi rapidamente; e già le pioggie, che in quell’epoca
precipitar sogliono copiose sulle rupi di Suli, il ritorno annunziavano
de’ bei giorni d’ottobre. Il vecchio Eremita vedea con gioja sempre
più dileguarsi quegli intervalli di tempo che frapponevansi ancora
alla novella primavera: dipingevasi sovente al pensiero il fortunato
istante della nuziale ceremonia; ed ivasi prefigurando tutti i più
dettagliati godimenti che sarebbe questa per arrecargli. Ma l’uomo, che
nasce nella perfetta ignoranza di quanto potrà succedergli fra i suoi
simili, indarno fa dei proponimenti a sè stesso. Il libro dei divini
decreti non è aperto qui in terra agli sguardi del mortale: un velo
impenetrabile lo ravvolge nella più densa oscurità; ed egli, trascinato
da una forza superiore, a cui inutile sarebbe resistere, segue
ciecamente la propria carriera, senza saper ove sarà per fermarsi.

In mezzo al furore d’una terribile bufera, essendosi svelto dall’erta
di una rupe enorme macigno, fracassato avea nel cadere la capanna di
una povera famiglia di montanari, di cui le meschine possidenze perite
erano sotto l’impeto della grandine e dei torrenti che strariparono.
Era già qualche tempo che gli sventurati, ridotti nella estrema
mendicità, viveano di quel solo che loro somministrava la pietà de’
vicini. Commosso a sì trista situazione, un giorno alcune ore innanzi
il tramonto del Sole, il generoso Atanasio, dato di piglio al noderoso
bastone, fido compagno de’ suoi piccoli viaggi, e caricatosi di alcuni
pomi, di varie erbe, e di latte, avviavasi al sollievo degli infelici.
Dimoravano questi a non poca distanza dall’eremo: ed Olimpia che nel
soccorso de’ poveri trovava anch’essa le soddisfazioni più belle,
avrebbe senza dubbio seguito lo zio nella pia opera, e nel dirupato
cammino, se una leggera indisposizione di salute, ma che obbligavala al
ritiro, non l’avesse impedito: frattanto l’uomo veramente filantropo
allontanossi dalla nipote, promettendole un pronto ritorno innanzi
sera. Ma alcune ore dopo la partenza di lui, quel superbo Sole che
limpido e puro poco fa sfavillando nel cielo, lunga serie prometteva di
bellissime giornate, cominciò a velarsi d’oscura caligine: le eterne
nubi che coronano le inaccessibili cime del Picco di Kunghi, spinte
da un vento gagliardo, si stesero minacciose sulle minori rupi di
Suli: gli spessi lampi che le solcavano, più orribile ne rendeano la
oscurità; mentre un vento secco ed infiammato, sollevando in giro le
paglie leggere, annunziava imminente un terribile temporale.

Olimpia nata appunto in uno di quei momenti ne’ quali la natura in
convulsione, lottando con tutto ciò che tende a sovvertirne l’ordine,
soffre, e combatte per respingere la sua dissoluzione; assuefatta
a vederli costantemente rinnuovare in ogni anno, ben conoscevane
la tremenda imponenza e l’orrore. Palpitante sulla sorte dello zio,
che l’uragano poteva sorprendere per via, vide in tutta l’estensione
l’orribile scena di lutto che offrir potevate il funesto avvenimento.
Spinta da un interno presagio, simile a quello che d’ordinario preceder
suole una grave sciagura, la figliuola d’Evantìa recossi nel silenzio
della cappella: quivi prostrata a piè della Vergine, implorava con
tutta l’anima l’allontanamento di sì gran male; mentre le sue lagrime,
accompagnando le fervide preghiere, ivano in copia cadendo sulla
gradinata dell’altare.

In quell’istante giungeva Demetrio all’eremo della rupe. Erano già
parecchi giorni ch’egli, per urgenza di pubblici affari, dimoravane
assente: ora, condotta a fine con amorosa sollecitudine la propria
missione, ritornava all’amante, quando questa supponevalo ancora ben
lunge. All’annunzio del periglio di Atanasio, un gelo di morte corsegli
per le vene: ma, pietoso del dolore di Olimpia, fu ben cauto di
nasconder sulle prime il proprio turbamento; che anzi pose ogni cura in
rassicurarla, ponendole in vista tutti i mezzi di scampo dei quali il
vecchio potuto avrebbe valersi per via. Ma i frequenti lampi che sempre
più vivi si faceano, persuadevan tutt’altro: il tuono avvicinavasi
fortemente romoreggiando; e la terra avvolta nella più grande oscurità,
non era che ad intervalli rischiarata da una luce sanguigna e funesta.

Commosso dalle strazianti querele di Olimpia; atterrito ad una idea
ch’egli stesso cercava invano allontanare dalla mente; Demetrio,
senza sapere ove sarebbesi rivolto, usciva per correre sulle orme
di Atanasio... ma non era più tempo. Un terribile baleno che tutta
illuminò la cappella, fu seguito da uno strepito orrendo di tuono
che la scosse fin dalle sue fondamenta; l’aere ne gemette, e la terra
sembrò provare una violenta commozione. Nel tempo stesso un diluvio di
pioggia precipitava dal cielo: i minacciosi venti equinoziali curvando
a forza i grandi abeti della foresta, mugghiavano cupamente; ed i
replicati scoppi della folgore annunziavano la totale confusione degli
elementi fra loro. La povera Olimpia nulla ormai più vedeva di quanto
avvenivale intorno: il solo Atanasio occupava tutte le sue facoltà.
Demetrio istesso gemea fra i dubbj più crudeli: inorridiva al pensiero
di dover forse scoprire una terribile verità, e tuttavia attendeva
impaziente il termine della bufera per tosto assicurarsene.

La pioggia frattanto veniva poco a poco cedendo: men frequenti e
men vivi succedevansi i lampi; ed il tuono, sordamente mormorando,
pareva allontanarsi. Quanto tremendi e fatali, altrettanto rapidi e
di breve durata sono gli uragani nelle rupi di Suli. Colla facilità
stessa con cui vi si addensano, dileguarsi ad un tratto le nubi che
il Picco di Kunghi sembra richiamare alle inaccessibili sue cime: la
caligine sparisce, e torna nuovamente a respirarsi l’aria più pura.
Sdegnando forse la vista dell’orrida scena, il Sole frattanto era già
sceso al tramonto: e la crescente luna sorgendo allora sul rischiarato
orizzonte, rallegrava della blanda sua luce la oppressa natura.




CAPITOLO XI


Il figliuolo d’Eutimia escì finalmente dalla cappella, per incamminarsi
sulle tracce del vecchio. Co’ più caldi detti pregò Olimpia, perchè
desistesse dal pensiero di accompagnarlo; ma invano; con qual
coraggio poteva essa vivere incerta un solo istante di più sulla
sorte dello zio? Si avviarono dunque ambedue: ma a misura che i loro
passi allontanavansi dall’Eremo, nuove immagini si moltiplicavano
di desolazione e di lutto. Eran sovente enormi scogli, che caduti
dall’alto delle roccie ingombravan la via: alberi sradicati dalla furia
dei venti giacevano attraverso il terreno su cui poco fa vegetarono:
cadaveri di morti animali galleggiavano sulle acque radunate entro le
cavità dei burroni; ed il fragore dei torrenti che dalle rupi udivansi
precipitare in distanza, misto alle funebri grida degli augelli
notturni, era il solo suono che interrompesse quello spaventevole
silenzio. Invano la languida voce dell’orfana a nome chiamava talvolta
il vecchio eremita: Demetrio ed esse erano i soli esseri viventi
che animavano allora quel loco deserto. — Atterriti per le inutili
ricerche, raccapricciando d’orrore ad ogni volta che l’idea della morte
di Atanasio a loro rappresentavasi, proseguivano taciturni il dirupato
sentiero, allorchè giunsero alle ripe di un torrente, il quale,
attraversando spumoso la vallata, trascinava seco tronchi d’alberi e
sassi. Non ritrovandolo guadabile, già indietro ritornavano dolenti
di aver perduto senza frutto un tempo prezioso; allorquando Demetrio,
rivolgendo ad un sol punto lo sguardo, proruppe in un grido improvviso:
all’istante gli occhi d’Olimpia, postisi nella direzione medesima,
ricercarono naturalmente l’oggetto che avealo cagionato... ahimè!
di quale scena erano mai spettatori! Il corpo dell’estinto vecchio,
seguendo la rapida corrente, si ravvolgeva fra i vortici di un gorgo
profondo. — Sorpreso per via dall’orribile uragano, affrettato erasi
l’infelice d’attraversare il torrente tuttora guadabile, onde asilo
cercarsi sotto la roccia vicina: ma sopraggiunta la piena delle acque,
ed avendolo improvvisamente investito, seco il trasse ed il sommerse.

A vista così luttuosa, che gelar fece da capo a piedi la povera
Olimpia, richiamò Demetrio tutte le forze dell’animo: lanciossi
precipitoso nell’onda; riguadagnò nuotando la riva, e vi ricondusse
fra le robuste sue braccia la innocente vittima della carità. — La luna
che in quel puntò già in alto mostravasi, velossi pietosa di leggiere
nubi: ed i venticelli della notte, inorriditi al miserando spettacolo,
sembraron fremere attraverso gli scogli, ed il cardo selvaggio.

Interrompendo finalmente il cupo silenzio che fino allora conservato
avea, perchè mute sono sempre in sulle prime e grandi passioni,
l’Orfana diè libero sfogo alle lagrime, ed alle querele più commoventi.
Prostesa sul cadavere di suo zio, chiamandolo a nome altamente sembrava
far forza alla stessa natura: imprimeva le sue labbra su quelle
guancie fredde e scolorate; riscaldavale coll’infiammato alito de’
suoi sospiri; ed avriasi detto ch’essa tentava rianimarle, se possa
umana capace fosse di richamare a vita gli estinti. Invano frattanto
con dolci parole studiavasi Demetrio di consolarla, e di toglierla ad
una situazione che la straziava: essa nulla più udiva; e quella voce
sì cara, che in altro tempo richiamato avrebbe tutta la sua attenzione,
penetravale appena in quell’istante le orecchie.

Ma quanto più forte e violento è nell’uomo l’impeto del dolore;
altrettanto è più rapido e breve nella sua durata: la ragione vi
sottentra; ripigliano il loro vigore le oppresse facoltà, e non rimane
che un sentimento ingrato e deprimente sì, ma più mite d’assai. —
Le lagrime versate in copia dalla sventurata, recando un necessario
sollievo al suo cuore, calmata pure ne avevano la mortale angoscia:
Demetrio profittò del momento per isvellerla dalle fredde spoglie del
vecchio; e caricando gli omeri egli stesso del dolce e funesto peso,
ripigliarono finalmente la strada dell’eremo. Qual terribile viaggio!
Prolungati sospiri tratti dal profondo del cuore, ed accompagnati ad
intervalli da gemiti languidi ed indistinti, univansi tristamente al
monotono calpestio de’ loro passi.

— Già l’aurora novella appariva sul balzo d’oriente, quando l’afflitta
coppia diè principio alla funebre ceremonia. Ravvolto entro candido
lino, il corpo di Atanasio fu deposto dietro le mura della cappella:
ivi l’Orfana e Demetrio, rinnovando in copia le lagrime, onorarono
pietosi la memoria di lui, e solennemente si promisero la loro
unione all’epoca stessa in cui egli aveala desiderata. In quel punto,
testimone de’ loro giuramenti, comparve il Sole sull’orizzonte: il
raggio di lui consolatore, rallegrando la natura, sembrò animare un
istante quella scena funesta.

«Addio, misera vittima della vera filantropia! (esclamò Olimpia
energicamente). Tu che fosti già un tempo l’unico appoggio della prima
mia giovinezza trascorsa nella sventura e nel pianto, sperasti pure
vedermi felice fra le braccia del virtuoso che amavi... ah, la morte
nemica de’ buoni troncò in sul nascere speranze per te così belle! Ma
ad onta del crudele destino io saprò farle rivivere: nel loco istesso
che tu abitasti vivente, qui sulla spenta tua salma giuro non esser
d’altri che di Demetrio: egli solo sarà il dolce compagno della mia
vita, e tu dal Cielo esulterai alla vista di un nodo da te stesso
formato!

«Salve, o generoso figlio della Selleide! (riprese Demetrio
intenerito). Riposa tranquillo nel sonno de’ giusti: ed accogli
propizio i puri voti di due cuori, i quali non avranno d’ora innanzi
che un palpito solo! — Addio per sempre, venerando vecchio! Addio!!
Addio!!!»

Queste parole che, pronunciate con tutto il calore del sentimento,
procurarono un grande sfogo alla loro passione, fecero pure che
straziati meno ed oppressi compir potessero quindi gli estremi uffizii
dell’amicizia e dei dovere. Umile monumento della eremitica povertà,
sopra l’angusto loco in cui giaceva l’estinto cressero un monticello di
terra: sparsi sovr’esso gli ultimi fioretti della state, vi collocarono
sulla cima una Croce, ad annunziare che ivi un uomo, pagando alla
natura il necessario tributo, restituito aveva alla madre comune la
mortale sua spoglia.




CAPITOLO XII


L’adorabile provvidenza dell’Onnipotente mancar non fa mai di compenso
l’infelice che provò i colpi della disgrazia: se ad esso in questo
pelago di affanni chiuder sembrò una volta la via dello scampo, non
è però che ridurre il voglia alla totale disperazione: una strada
novella sottentrando alla prima, additagli di nuovo quel porto che
disperava omai di più rivedere. — Priva dell’unico suo sostegno, del
solo congiunto a cui fosse debito lo interessarsi di lei; isolata
affatto sulla terra; quale sciagurata esistenza tratto non avrebbe la
misera figliuola d’Evantìa? Ma la pietosa consolatrice de’ mortali non
abbandonolla in sì crudele momento: togliendole lo zio, lasciavala
nel tempo stesso fra le braccia di uno sposo adorato, che cangiar
prometteva per lei il tenore di nemica fortuna.

Incamminandosi col suo Demetrio al villaggio nella casa d’Eutimia,
allontanavasi Olimpia dai solitari luoghi testimoni de’ primi anni
della sua giovinezza. Ogni pianta, ogni tronco, ogni sasso rammentava
all’Orfana alcuna delle passate vicende: queste intanto, dolorose
per loro stesse, grate riuscivano tuttavia al tenero animo di lei;
giacchè tale è la natura del cuore umano che vicino a respirare una
novella vita di gioja, non può indifferentemente rimembrar senza amarli
que’ mali medesimi che sì l’afflissero una volta. Attraversando in
silenzio la foresta dell’eremo, i suoi occhi si gittarono furtivamente
sulla tomba d’Atanasio, che sorger vedevasi in distanza: il cuore
palpitavale nel seno, e la più glande commozione leggevasi nel suo
volto. Ravvisandovi allora Demetrio qualche cosa di straordinario, su
lei rivolse uno sguardo che dolcemente chiesene la cagione; l’Orfana
nulla disse; accennò col dito il loco funesto; poi spirando, chiese
all’amante l’affrettamento de’ suoi passi.

Ma già agli ultimi raggi del Sole nascosto dietro l’ardue cime del Pico
di Kunghi succedute erano le vespertine ombre a ricoprire la terra,
allorchè si presentarono i giovani amanti alla casa d’Eutimia. Ad
onta dell’avanzata età sua conservava tuttora quell’amabile dolcezza,
e quelle ingenue maniere, che ne formavano il morale carattere nella
prima gioventù. Vedova già da più anni, il conjugale amore soffocato,
per così dire, nel suo seno dopo l’epoca fatale che le tolse un amato
consorte, riunito erasi più energico e più bello all’affetto materno,
per un figlio che ricco di fama, e delle più rare virtù; la delizia
formava di sua vita. Dopo la viva e vantaggiosa pittura che della sua
Olimpia sovente fatto aveale Demetrio, sentivasi la vedova di amarla
siccome propria figliuola: aspettava anch’essa impaziente la novella
erosantia, e spaziava colla immaginazione in un felice avvenire. —
Sorpresa ora per l’improvviso ritorno del figlio, dolente pel funesto
avvenimento che portato avea la desolazione nell’eremo della rupe, non
lasciossi sopraffar così dallo stupore e dalla pena da farsi inabile a
confortare di dolci affettuose parole la giovane sventurata; la tolse
per mano, e stringendola al seno, le disse: «Rasserenati virtuosa
donzella! se tu perdesti i cari parenti e lo zio, Eutimia ti rimane
ancor sulla terra. La madre del promesso tuo sposo sarà pur la tua
madre: quivi alle mie le tue cure si uniranno nel governo della piccola
famiglia, mentre io stessa e Demetrio veglieremo costantemente alla
tua felicità.» Ad espressioni così amorevoli, e tutta addimostranti la
dolce natura del cuore che le dettava, l’Orfana penetrata vivamente non
trattenne le lagrime, ed abbandonossi fra le braccia di lei: Demetrio
intanto spettatore di sì tenera scena provava quella soave emozione
che sempre ci nasce nel cuore allorquando un oggetto da noi amato
vivamente, attirandosi l’altrui benevolo interesse, sembra giustificare
la scelta e gli affetti nostri.

È tale sovente il carattere della sventura, che a forza riscuote dagli
uomini quella dolce pietà, che poi cangiasi quasi sempre in amore:
Olimpia d’altronde assuefatta a dividere con Eutimia le domestiche
occupazioni, e gl’innocenti sollievi, e fino il letto medesimo;
ravvisando comuni seco lei i pensieri e le naturali inclinazioni
dell’animo; consideravala perfettamente come la madre più amorosa:
tante erano le premure d’ogni genere, e le dimostrazioni di affetto di
cui era ogni giorno ricolma!

La casa d’Eutimia annessa non era al villaggio: sorgeva però non lungi
da quello, a’ piedi d’un poggio dove la natura si mostra nell’aspetto
il più florido e seducente. Lo Zàgura da una parte, scorrendo
placidamente, attraversa con mille tortuosi giri la feconda pianura,
e gettasi quindi nelle rapide acque dell’Acheronte: dall’altra ad
occidente una catena di amenissime colline accerchia l’orizzonte:
antiche selve di quercie e di frassini cupamente verdeggiano in
distanza dalla parte di mezzodì; mentre le ardue rupi di Suli levando
alle nubi le superbe lor cime, difendono l’amabile loco dal gelato
soffio dell’aquilone. Ogni gleba all’intorno è qui diligentemente
coltivata: numerose viti in lungo ordine disposte fan bella mostra
de’ lor dolci tesori: carichi del prezioso frutto stendonsi i freschi
uliveti sul declivio de’ colli: pingui greggie di pecore e di buoi
vagano pascolando pel piano. Tutto appalesa la ridente ubertà del
terreno; tutto la dolce indole operosa di un popolo, che ne’ soli
prodotti della campagna fa consistere le proprie ricchezze.

L’orticello, ed i fertili campi che circondano la villereccia
abitazione, furono un giorno i dotali pegni nelle nozze d’Eutimia:
ritornatane or questa nell’assoluto dominio, non doveva abbandonarli
se non quando formato avrebbero il retaggio della coppia felice.
Un così dolce soggiorno che perfettamente addicevasi alla giovane
Olimpia, era pur l’unico, presso il clamore del popolato villaggio,
che in parte compensar la potesse della perduta sua solitudine. Quivi
quella pace rinveniva ormai addivenutale indispensabile: quivi in
occupazioni esercitavasi pressochè simili a quelle dell’eremo: quivi
finalmente la coltivazione de’ fiori, la libertà del passeggio, la
domestica economia, insensibilmente la richiamavano alle antiche
abitudini. Adorata sempre più dal fedele Demetrio, che di null’altro
occuparsi sembrava fuori del pensiero di piacerle: amata da Eutimia
con quella indefessa sollecitudine che tende costantemente a raddolcire
le amarezze della vita, la bella figliuola d’Evantìa chiamar potevasi
assolutamente felice; e lo era diffatto in tutti quei momenti ne’ quali
la memoria della morte di suo zio a velar non veniva di fosche nubi la
serenità de’ suoi piaceri.




CAPITOLO XIII


Cessate già le operose fatiche della vendemmia, il tempo avvicinavasi
di affidare agli arati terreni le più belle speranze dei futuri
ricolti. Tutto cangiato aveva di aspetto; chè più non udivansi
gli operosi agricoltori ripetere le usate canzoni mentre le viti
spogliavano dei grappoli maturi: nè più stridevano all’intorno i
rustici carri, che carichi del dolce vino tratti eran da’ buoi
ai villerecci abituri; e soltanto il silenzio delle campagne
interrompevano le grida del pastorello che le mandre allontanava dai
seminati, e gli spessi colpi del cacciatore che la vita insidia degli
innocenti abitatori dell’aria. L’inverno frattanto, più di ogni altro
rigido e prematuro, avvicinavasi rapidamente.

È egli vero che le diverse vicende alle quali nel periodico suo corso
soggiace immutabilmente la natura, rendono pure diverse le impressioni
nell’animo nostro? Il creato che si ravviva, e si veste di leggiadre
forme sulla superficie della terra, svegliando in noi la idea di
un vigoroso risorgimento, ne tempra ai più dolci moti di gioja e di
gioconda ilarità: ma allorquando non ci presenta che la immagine di una
spossata decadenza; allorchè contempliamo rendersi sempre più deboli i
suoi sforzi per evitarla, è allora che noi, per quella analogia che ci
avvicina in origine a tutte le creature, soffriamo egualmente, perchè
egualmente illanguidiscono in noi le fisiche nostre facoltà.

Un giorno, dopo esser caduta grande quantità di neve, l’aquilone
levandosi improvviso dissipate aveva le nubi, e ricondotto il sereno
nel cielo; ma il freddo era eccessivo; e la terra coperta di un bianco
uniforme lasciava appena distinguere la traccia delle vie attraverso
i campi. Olimpia intanto dal pacifico tetto di Eutimia spettatrice
era di questa scelta: il sole erasi già involato al nostro emisfero,
quand’essa, in mezzo all’universale silenzio, vide un ente umano, che
in distanza affaticavasi onde aprirsi una strada fra la neve che veniva
agghiacciando. Compassionandone la trista situazione, la virtuosa
figliuola d’Evantìa auguravasi il modo di potere adoperarsi al soccorso
dell’infelice, allorquando questa sconosciuta persona che avviarsi
pareva al villaggio, come intorpidita dal freddo, si ristette un
momento; poi mettendo un debole gemito, cadde barcollando sul terreno.
Atterrita insieme e commossa, l’Orfana chiamando gente in soccorso,
precipitossi fuori di casa: Demetrio ed Eutimia non tardarono a
raggiungerla, e così uniti al loco si portarono ove giacea l’infelice.
Era questa una donna di non molto avanzata età: le sue guancie smunte
erano e scolorite: la fronte solcata dagli affanni; lacere e rozze le
vestimenta; ma la dolce e nobile sua fisonomia sembrava annunziare
ch’essa non era sempre vissuta nello squallore della indigenza.
Sepolta sotto la neve che d’ogni parte circondavala, e caduta in
mortale svenimento, i suoi occhi più non sarebbersi aperti alla luce,
se la generosa famiglia accorsa non fosse a salvarla; la tolsero essi
diffatto sulle loro braccia; e semiviva in casa la condussero. Quivi,
un fascio di aridi rami di quercia svegliando una fiamma necessaria ai
bisogni della sventurata, ne rasciugarono all’istante le umide vesti,
ed al loro uso ne richiamarono i sensi smarriti.

Allorchè essa si riebbe, le prime parole che pronunciò si volsero in
segno del più vivo ringraziamento ai pietosi suoi liberatori; ed i
primi suoi sguardi si fissarono sul volto dell’Orfana, che accanto
le stava ad apprestarle soccorso. Quasi che i dolci lineamenti della
giovinetta destassero nella incognita delle antiche rimembranze, non
cessava mai di contemplarli nell’atteggiamento di quei che si affatica
richiamare alla mente le idee più lontane: mentre Olimpia dal canto
suo, scorgendo in quel volto un non so che di attraente che dolcemente
turbavala, nel prodigarle le premure più tenere secondar non faceva
che i moti del cuore. Alla fine dopo alcuni istanti di scambievole
attenzione, quasi che un lampo improvviso rischiarata le avesse la
memoria del passato, l’incognita levossi in piedi: i suoi occhi e
tutta la sua fisonomia si animarono rapidamente: le sue braccia si
levarono sul capo dell’Orfana; ed aspettando una sola parola di questa
per precipitarvisi sopra, esclamò «Olimpia!... m’inganno io... o siete
voi la figliuola d’Evantìa?» — Queste tronche voci con tutta la forza
proferite bastarono alla giovinetta per renderle ragione dei moti
fino allora provati; e di quelle non ignote sembianze: colle mani
giunte, e colle pupille immote sul volto della sconosciuta, in essa
riconobbe Sofia... «Ah, mia madre! (rapidamente proruppe) vi riveggo io
finalmente!!! — Ciò detto, le loro braccia si avvinghiarono fortemente,
ed il silenzio successe per un istante al primo impeto della gioja.




CAPITOLO XIV


Giunta nella casa di Eutimia dopo la morte dello zio, le prime
cure dell’Orfana si volsero al ricercamento della generosa donna
che nudrita aveala del suo latte: ma quale non fu il suo stupore
allorchè le fu detto che ivi più non era, e che da qualche tempo
non avevasi più novella alcuna di lei! — Per uno di quei rovesci
di fortuna indipendenti affatto dall’opera d’uomo, e dei quali è
quaggiù assolutamente inesplicabile la causa, la povera Sofia da
un comodo stato, che nulla faceva desiderarle, trovossi ridotta in
breve tempo all’estrema mendicità. Venduti i pochi effetti che le
restavano, deliberato avea con suo marito di altrove migliorare, se
stato fosse possibile, la propria condizione; e di allontanarsi così
da quel villaggio che veduti aveali nascendo, e che nella presente
miseria destava loro troppo amara rimembranza. Partiti di fatto per la
campagna, nascosti sotto finto nome allo sguardo di tutti, si fermarono
nel mezzo di una vallata che formano le rupi di Suli dalla parte di
mezzodì. Orrido era il loco, e perfettamente addicevole alla solitaria
vita che si erano proposta. L’Acheronte volgendo le mugghianti
sue acque attraverso un letto pieno di enormi scogli, diffondeva
all’intorno un fragore che, ripetuto dall’eco dei burroni, somigliar
potevasi alla romba di un tuono che di continuo romoreggi: l’angusto
orizzonte circoscritto dalle nevose cime delle rupi della Selleide
nascondeva il loro ricovero al rimanente della terra; ed avriasi detto
che l’occhio solo dell’Eterno penetrar poteva dall’alto delle nubi in
quell’oscuro recesso della natura. Quivi renduto fecondo per forza di
assidua cultura lo sterile terreno, ritrovavano gl’infelici quanto loro
bastava per la sussistenza: ma i versati sudori, il novello tenore di
vita affatto diverso dalle primiere abitudini troncarono ad un tratto
anche queste ultime speranze. Cedendo agli urti di tanta sventura,
la delicata fisica costituzione del marito di Sofia andava ogni dì
più deteriorando; e tale fu lo stato di languore a che finalmente
si ridusse, che assalito da lenta febbre, spirò nelle braccia della
misera consorte. L’idea di un pronto allontanamento da que’ luoghi
ove egli avea cessato di esistere ebbe più forza nell’animo di lei che
il pensiero, per quanto spiacevole fosse, di far prova nel villaggio
nativo della pietà dei conoscenti: oltredichè sfinita anch’essa per le
fatiche e pel dolore, come mai sola seguìto avrebbe nella solitudine
la incominciata carriera? Immersa pertanto nella più cupa melanconia,
sostenendosi appena sulle ginocchia, ritornava la povera Sofia fra i
testimonii della felice sua giovinezza, allorquando sorpresa per via
dalla neve e dal freddo che imperversava, caduta era priva di sensi
presso la casa di Eutimia.

Olimpia frattanto udita la dolente istoria dal labbro stesso di Sofia,
e fino alle lagrime commossa, implorava vivamente da Demetrio e da
Eutimia che presso loro si ritenesse la donna sventurata, alla quale
era essa debitrice della seconda sua vita; ma non v’era d’uopo: i
generosi ospiti inteneriti a vicende così luttuose, stabilito già
avevano di accrescere di sì degno individuo la piccola loro famiglia.
Lieta oltremodo l’ottima figliuola d’Evantìa di restituire così alla
sua madre d’adozione le tenere premure che a sè già un tempo fanciulla
aveva ella prodigate, saziarsi non potea d’abbracciarla. Narrolle
mille volte le proprie avventure nell’eremo della rupe: rivestì de’
più vivi colori il racconto della morte di suo zio; e brillò di gioja
in partecipandole i suoi amori, e le vicine sue nozze col valoroso
Demetrio. Pianse intanto, e rallegrossi con lei la buona Sofia,
ringraziando il cielo d’averla riunita a sua figlia.

Giunta a quel grado di felicità che permettesi all’uomo di godere sulla
terra, l’amabile Olimpia aspettava impaziente la novella primavera.
Vedeva con gioja farsi l’atmosfera ogni giorno più mite e più pura:
udiva con quel dilatamento di cuore che è figlio del piacere il lontano
fragore de’ torrenti prodotti dalle nevi che già incominciavano a
disciogliersi, sotto il peso delle quali preparato aveva la natura
il suo risorgimento. Giunse finalmente questa amabile stagione di
cui tale è il magico incanto, che richiama un istante anche l’uomo
più invecchiato nella sventura al vigore ed alla gioja della prima
gioventù: tornò invocata da mille anime amanti fra le rupi della
Selleide, e seco ricondusse l’animatore sorriso dell’universo. Il
tiepido fiato degli zeffiri succedendo al gelato soffio dell’aquilone,
fecondava le piante ed i fiori: erravano le greggie lungo le smaltate
rive dei ruscelli; e l’eco de’ boschi il suono lietamente ripeteva
delle pastorali sampogne. Il bisogno dell’amore riuniva la innocente
turba de’ musici volatori: leggiadri e vivaci come la gentile passione
che gli animava, spargevansi questi nuovamente per le valli e pel
piano; mentre il tenero cantore delle selve narrando coll’accento
della natura le proprie pene alla dolce compagna, interrompeva per la
prima volta i lunghi silenzii dell’inverno. Tutto all’intorno temprava
l’animo alle più soavi affezioni, e tutto spirava la più pura voluttà.

Con tale incantato apparecchio annunziavasi alla Selleide la festa
della Erosantia. Balzava intanto il cuore nel seno alle più avvenenti
donzelle, ed ai più ardenti amatori: una nuova gioja brillava in tutto
il villaggio, ove di festiva verdura e di vaghe ghirlande ornavasi il
maggior Tempio per la celebrazione dei vicini imenei. Non frapponevasi
ormai che il breve intervallo di un giorno ad un’epoca desiderata
cotanto; ed Olimpia, all’appressarsi di questo grande momento, non
era men tenera, nè meno amante di prima; Demetrio adoravala; egli solo
interessarla potea vivamente; nel possesso di lui era dunque riposto
per essa l’apice d’ogni felicità.

Le ombre che preceder doveano il giorno avventurato scese già erano
chetamente a ricoprire la terra. Nell’atto che ciascuno si ritirava
per coricarsi, gli sguardi dell’Orfana, nei quali tutto appariva
il sentimento ed il candore dell’anima, s’incontrarono con quelli
di Demetrio... un dolce sorriso che ne seguì, annunziò loro che
quell’incontro non erasi perduto: tornarono a guardarsi, e quindi
si separarono. Sonovi, è vero, dei momenti nei quali il tempo troppo
rapido scorre per un amante: ma ve ne sono pure di quelli in cui sembra
ch’esso rallenti a bella posta il suo volo. Quanto lunghe di fatto non
furono le ore per Olimpia! Preoccupata da tanti e sì dolci pensieri,
non chiuse mai palpebra in sulle prime: e fu soltanto a notte avanzata
che la stanca natura, ad onta di quella inquietezza che impedivalo, la
immerse quasi a forza nel sonno.

Non appena l’alba comparve, che Demetrio balzando dalle piume, fecesi
a battere alla camera di sua madre. Ivi ancora tranquillamente dormiva
la tenera giovinetta; ed egli non potè sottrarsi ad un certo moto di
leggiero rammarico, in pensando che una stessa impazienza destata
non l’avesse insieme con lui!... ma quale stata non sarebbe la sua
gioia s’egli avesse saputo ch’ella vegliava tuttora nel tempo in che
altri abbandonavasi al riposo? — L’ora frattanto si avvicinava della
ceremonia e della pubblica festa, e già Olimpia disponevasi ad esser
condotta al maggior Tempio di Suli. Un’azzurra veste le scendeva fino
al ginocchio, ed a questa sovrapponevasi in vaga foggia un manto di
porpora: leggiadri calzari le abbracciavano il piede, e la nuziale
corona di rose novelle intrecciata dalle mani stesse di Demetrio
le circondava la chioma: modesto e proprio d’una vergine era il
suo sguardo, composto e grave il portamento; ma la interna gioja e
l’amore trasparivano da tutti i moti di lei. Sorgeva appunto il Sole
sull’orizzonte, allorquando accompagnata da Eutimia, e dalla buona
Sofia, incamminossi col suo Demetrio al compimento delle proprie brame:
non mai più così limpido e bello apparso erale il mattino; tutto le
sorrideva all’intorno, tutto sembrava seco lei rallegrarsi della sua
felicità.... ma questa non era peranco assicurata, e l’avverso destino
stanco non era di perseguitarla!

Vicini ad entrare nel villaggio, un improvviso romore s’udì levarsi in
mezzo al popolo, che, radunato dapprima, sbandavasi allora nel massimo
disordine. Colpita come da fulmine, l’Orfana sventurata sentì che
qualche nuovo colpo preparavasi per lei, e che indarno spera felicità
sulla terra chi nacque sotto l’influsso di maligna fortuna. Il tumulto
intanto cresceva: le vie erano ingombre di vagante moltitudine, e
terribile intorno risuonava il grido dell’allarme. — «Non v’ha riparo:
abbandoniamo il villaggio, e ritiriamoci sulle rupi; (esclamava una
voce): i Turchi sono alle porte!»




CAPITOLO XV


Sdegnato il feroce Satrapa di Giannina contro i valorosi difensori
della Selleide per l’infelice esito della prima sua spedizione,
meditava già da lungo tempo la caduta di questo rispettabile baluardo
della ellenica libertà. Fatto girare nei varii cantoni del suo
pascialaggio un proclama che imperiosamente chiamava tutti i sudditi
alle armi, gli agà ed i bey, scossi dall’autorevole tuono di quelle
parole, obbligaronsi di proprio pugno a conquistar la Selleide a
qualunque prezzo, oppure a seppellirsi combattendo sotto quelle rupi
scoscese che la rendono sì formidabile. In questa guisa il tiranno vide
in breve tempo sotto le sue insegne un esercito di oltre dodicimila
Maomettani: e siccome queste reclute dicevansi fatte per la spedizione
di Parga, (oggetto dell’odio d’Alì) e tutt’altro a divedere lasciavano
fuorichè servir dovessero a combattere i Suliotti, così questi,
sebbene naturalmente sospettosi e vigilanti, non previdero l’attacco.
Conoscevano i Turchi pur troppo che l’unico mezzo di riportar vantaggio
sugli intrepidi montanari era quello di sorprenderli, prima ch’essi
avesser tempo di ritirarsi nelle gole: perciò, guidati da’ più esperti
capitani, tragittavano l’Acheronte col favore delle tenebre; ed
osservato nella marcia il più rigoroso silenzio, comparivano la mattina
in faccia al villaggio; mentre alcuni pastori, vedutili in distanza,
portato avevano a Suli il terrore, ma non lo scoraggiamento.

La libertà, che ingrandisce l’uomo nella sventura, raddoppiò la
energia de’ valorosi, che, svanito il primo tumulto dell’allarme, si
prepararono a respingere la forza colla forza: tutti gli uomini atti
a portare le armi si riunirono ad un istante; ed il generoso Demetrio
che altra volta trionfato avea de’ nemici, fu proclamato ad unanime
voce Capo de’ suoi compatriotti. Costretto a recarsi alla difesa della
patria nel punto che coll’amata donzella incamminavasi all’altare, il
figliuolo d’Eutimia tutte richiamò le forze dell’animo ed in guardia al
cuore le mise. Nella urgenza del pericolo le prime sue cure volgevansi
a porre in salvo sulle rupi le atterrite donne.... ma non era più
in tempo. I Barbari non trovando resistenza bastevole alle porte del
villaggio, le avevano già fra mille grida oltrepassate, tutto ponendo
a soqquadro. Indarno i magnanimi Suliotti ridotti alla disperazione,
tentavano far argine de’ lor petti alla piena de’ nemici: nella vastità
del loco, erano questi in numero troppo imponente a fronte delle poche
lor file: vecchi, donne, fanciulli, tutti infine coloro che armi non
ebbero alla mano, o che fuggir non poterono a salvamento, cadeano sotto
gli spietati lor colpi.

Animata frattanto dal successo, e ripromettendosi piena vittoria,
una turba di Maomettani osa precipitarsi nel più folto de’ prodi
difensori di Suli, e gli sbaraglia. Forzato ad opporsi al torrente
che straripava, Demetrio non vede altra via di salvezza se non in
quella che mena alle gole: ordina pertanto la ritirata; combatte
corpo a corpo cogli infedeli; e loro cedendo regolarmente un terreno
comprato a forza di sangue, giunge alla fine ad afforzarsi in quelle
formidabili strette, d’onde tutte le forze nemiche bastato non
avrebbero a cacciarnelo. Ma pervenuto in sicuro, dopo aver riserbato le
proprie braccia e quelle de’ suoi concittadini a tempi più opportuni,
si avvide, ahi lasso! che Olimpia più non era al suo fianco. — Nel
calore della prima zuffa, dopo averle fatto cadere daccanto Eutimia e
Sofia, i Barbari che rispettato avevano in lei le amabili grazie della
giovinezza, la rapirono, e seco loro la trascinarono.

La mischia intanto impegnata erasi più terribile ed ostinata
all’ingresso dei posti fortificati, e Demetrio, prevista irreparabile
la propria disgrazia, sfogava sui Turchi la rabbia e la disperazione
che l’opprimeano. I suoi occhi torbidi erano ed infuocati: feriva,
uccideva, e conto chiedeva ai cadenti nemici dell’amante e della madre.
Non così furibonda rugge nelle foreste della Ircania la lionessa cui
rapiti furono i figli. Ruotando in giro velocissimamente la spada,
avventavasi Demetrio sulle serrate file dei Barbari, che atterriti
mirandone il lampo simile a sanguigna cometa foriera di morte, al
suolo cadevano come cadono le spiche sotto la falce che le recide. Un
lago di nero sangue attraversava orribilmente l’angusto terreno; e gli
ammonticchiati cadaveri degli infedeli formata avendo una barricata
vantaggiosa pei Greci, sgominati alfine retrocedettero i Turchi,
cercando in precipitosa fuga lo scampo.

Liberi pertanto dalla odiata presenza dei nemici, i montanari della
Selleide, ai mezzi di difesa che loro prestava la natura, aggiunsero
quelli dell’arte: si fortificarono stabilmente nelle gole delle rupi,
finchè le orde de’ Barbari sgombrato avessero affatto dal piano ove
ritiravansi: vi eressero dei bivacchi; e vi formarono un piccolo campo
trincerato, d’onde osservar potevano in sicuro tutte le mosse nemiche.
— Demetrio intanto abbattuto e dolente, ritirato erasi nella rustica
sua tenda: quivi nascosto allo sguardo di tutti, colla fronte china
sulle palme, spargeva amare lagrime sulla sorte della perduta donzella.
«Gli scellerati! (esclamava:) nel punto in che io credeva a me unirla
per sempre... la strapparono alle mie braccia. Assetati tutt’ora di
sangue, e delusi nel loro progetto, essi la conducono in ischiavitù,
ed ora, forse in questo istante medesimo... vittima la fanno di loro
brutalità... Oh rabbia! ed io resto qui inerte, e tutto non abbandono
per salvarla, o perire con lei?»

Ciò detto, giugnendo con forza le mani, scorreva la tenda a gran passi:
alterali erano i suoi lineamenti; tremante il corpo e lo spirito vicino
al delirio. Poi, calmatosi alquanto l’impeto della passione, un muto
dolore vi sottentrava: il suo cuore erane lacerato; ed unite a qualche
stilla di pianto proferiva allora delle interrotte parole.

«Ah, madre mia! (ripeteva sovente quasi presago del vero).» Tu forse
or più non sei sulla terra, ed i vili assassini rispettar non seppero
in te quella virtù che sola animavati. — Mia cara madre!! Era forse
questo il felice avvenire che il figliuol tuo ti prometteva?... questo
l’avventurato giorno dell’imeneo?... — Ah! se dall’alto delle sfere,
di quaggiù odono i beati le voci dei mortali; se la povera Olimpia fra
i lacci della servitù respira ancora l’aure della vita, tu la difendi
dalle ingiurie degli empii; tu la salva dall’obbrobrio: e se io non
giunsi a divider seco lei la mia sorte, scenda, ah, scenda almeno
inviolata alla pace della tomba!!!»

Amareggiato dalla sventura, rivolto ognor col pensiero all’amante
perduta, il capo de’ Suliotti non destavasi dal suo letargo, se
non per dure quegli ordini che il grand’uopo esigeva: quel tempo
che rimanevagli, impiegato era da lui, solo nella sua tenda, nella
rimembranza e nel pianto.

Il giovane Eugenio, il di cui grado militare, quello seguendo di
primo Capitano, più d’ogni altra persona avvicinavalo a Demetrio,
ben commosso pareva a sì trista situazione. Discendente d’una delle
più illustri famiglie del villaggio, di coraggioso e tenero animo
ad un tempo, la bella Irene oggetto era dell’amor suo: ma dal fatale
momento in che egli correndo alle armi separato erasi da lei, udito
più non aveane novella. Dolente per sì grave perdita, e più terribile
forse perchè non bene ancor certa, osservato aveva non senza interesse
la cupa mestizia che esprimeva il figliuolo d’Eutimia, e che questi
tuttavia in faccia a’ suoi fratelli d’arme cercava sempre nascondere.
La pietà, quel nobile sentimento che gli uomini onora, insinuossi con
profonde radici nel generoso petto di Eugenio: i mali che straziavano
l’infelice addivennero, per così dire, suoi proprii: e tale affetto per
lui concepì, che fin d’allora giurò rattemprarli con quel balsamo soave
che l’amicizia sempre versa sulle ferite del cuore.

I Turchi frattanto i quali credendo sorprendere i Suliotti, eransi pure
lusingati di salire una volta su quelle rupi formidabili, ritiratisi
in disordine, lasciato aveano più centinaja di morti, molti feriti, e
grande quantità di fucili, che tutti caddero in potere dei valorosi; i
quali colla perdita di pochi fratelli sostenuto aveano la gloria degli
antichi figli della Selleide. Questo infelice esperimento chiamando il
Pascià a più moderati consigli, ei risolvette di chiedere una breve
tregua per dar sepoltura agli estinti, e riscatto ai prigionieri. Il
Sole, testimone di quella orribile giornata, già cadeva all’occaso:
e la colma luna sorgeva dell’opposto orizzonte, allorquando il
parlamentario Turco presentossi ai posti avanzati. Introdotto nella
tenda di Demetrio, l’oggetto espose della propria missione: e fu
concluso che al giorno novello redimer potrebbero gl’infedeli i loro
compagni prigionieri, e seppellire gli estinti; intantochè nel corso
della notte compiuto avrebbero i Suliotti il doloroso uffizio verso i
loro fratelli. — Il Maomettano scortato da alcune guardie ritornossene
al campo: ed il silenzio delle tenebre successe finalmente allo
strepito ed al tumulto del giorno.




CAPITOLO XVI


Alta scorreva la notte per gli spazii del firmamento: seguivala, fedel
compagna, placidamente la quiete; ed i venticelli usciti dai boschi
qua e là spargevansi a rallegrare dolcemente la terra: allorquando
Demetrio accompagnato da Eugenio, e seguito da un corpo di Suliotti,
incamminossi alla funebre ceremonia, dirigendosi al villaggio ove
già succeduti erano tremendi il conflitto e la strage. Deserte quivi
erano le case: una moltitudine di cristiani cadaveri misti a quelli
degl’infedeli ingombrava la via: splendea tacitamente la luna nell’alto
del cielo: i lenti passi dei pietosi guerrieri, e lo stridere di
alcuni carri che li seguivano, risuonavano soltanto in mezzo a quella
solitudine. Inorridì il figliuolo d’Eutimia a scena così luttuosa:
e quasi cercar volesse i perduti oggetti della sua tenerezza, stese
furtivo lo sguardo da un punto all’altro di quel vasto sepolcro. —
Tra la folla degli estinti sformati dalle ferite, e dal sangue che
gli lordava, una donna di dolce e maestosa fisonomia, anzichè spenta,
dormir sembrava placidamente: i candidi raggi dell’astro notturno la
rischiaravano, ed un leggiero venticello agitava di tratto in tratto
la scomposta sua chioma. Un solo istante bastò per convertire il dubbio
in certezza: Demetrio rapidamente le si avvicinò, ed in essa riconobbe
sua madre! Una larga e profonda ferita nel seno, intorno a cui ancor
rappreso era il sangue, spinta aveala nel sepolcro; e le ultime sue
voci chiamato avevano il figlio.

Raccapricciò d’orrore Demetrio; e, prostratosi sul terreno, portò
tremando alle labbra la gelata mano materna, bagnandola di amare
lagrime. — «Madre mia! come io ti riveggo, Madre mia!! — e null’altro
disse; perchè il dolore gli chiuse le fauci, e lo tolse ai sensi.
Riebbesi finalmente; e rivolgendo da una parte lo sguardo, additò
dall’altra il cadavere a quei che il seguivano, e trasportar lo fece
nei carri. — A pochi passi di distanza, svisata per le moltiplici
ferite riconobbe pure Sofia... la madre di colei ch’egli adorava,
giacca distesa attraverso un’ammasso di estinti: Demetrio volse
sovr’essa uno sguardo di compassione, e l’affanno non permisegli che di
proseguire il cammino.

Lusingavasi l’infelice di ritrovare anche Olimpia fra le vittime della
morte. Tale era il colmo della sciagura, tale l’atrocità del pensiero
ch’ella viva caduta fosse nelle mani dei Barbari, che astretto vedeasi
a desiderare almeno quest’ultimo conforto; ma invano. Più e più volte
trascorse egli quel funesto recinto: vecchi, fanciulle, donzelle
confusi fra loro ingombravano il terreno; ma giammai fra queste ultime
la figliuola d’Evantìa se gli offerse allo sguardo. Alfine dopo mille
inutili ricerche, gli fu forza assicurarsi che dessa era schiava; a sì
orribile idea, un tremito convulsivo s’impadronì poco a poco di tutte
le sue membra; il suo respiro divenuto era frequente, e gli agitati
palpiti del cuore trasparivan fin sopra le sue vesti. Forse un pianto
copioso versato in quel punto ammollito avrebbe un’angoscia sì fiera...
ma il nemico destino toglievagli pur anco la dolce voluttà delle
lagrime.

Un flebile grido lo riscosse improvvisamente da sì penosa agonìa; si
volse egli al loco d’onde partiva, e vi scorse Eugenio prostrato sul
corpo d’una vergine estinta. — Era quella l’amabile Irene: i Barbari
spenta l’aveano d’un colpo, tutte così troncando le dolci speranze del
suo giovine amante: testimone lo sventurato della propria disgrazia,
non trattenne le lagrime, e l’aere echeggiar fece de’ suoi lamenti.

«Irene mia! (esclamò coll’accento del dolore): a che mai teneramente mi
amasti? a che il Cielo ci lusingò di renderne uniti e felici, se in un
punto doveva io perderti per sempre?... Oh, quanto sangue sta rappreso
sulla tua ferita!... quanto ne ha bevuto il terreno!!... Innocente
vergine, dovea dunque su te sfogarsi la rabbia degl’infedeli?... Oh
come contraffatte sono le belle tue forme! quelle labbra che mille
volte per me s’apersero al più dolce sorriso dell’amore, chiudonsi
ora livide e scolorate: quelle vivaci pupille che tutta l’anima
appalesavano, coperte sono dal denso velo di morte... ah! se scritto
è nel Cielo che io sopravviver debba alla tua perdita, obbedirò ai
decreti di quel supremo destino che ne governa: ma qui, su questa mano
istessa che sperai stringere un giorno in più felice momento, Irene!
io ti prometto non esser d’altre che tuo: la tua memoria mi sarà guida
dovunque; ed io passerò i giorni che mi restano nella sventura e nel
pianto... Vi sarà altri sulla terra più infelice di me?»

— «Sì, che vi sarà: ed eccolo a te dinanzi: (risposegli Demetrio con
voce soffocata, ed afferrandolo vivamente per mano). La sventura non ha
altri colpi per l’uomo cui tolse in un punto la madre, e l’amante! Tu
la perdesti: la piangi qui, estinta.... ma io non posso teco piangerla
così! Ah, felici coloro che più non sono!! l’obbrobrio ed i mali non ne
accompagnano almeno la malaugurata esistenza: nella pace della tomba
essi non sentono l’orrore della schiavitù: non lasciano dei viventi
sulla terra in angoscie mortali e continue!!... io sono uno di questi.
In me l’orfano tu vedi, cui il ferro de’ nemici privato ha di una
madre: pure essa è qui spenta fra noi, ed io sparger posso di lagrime
la sua spoglia. Ma... la mia Olimpia che invano fra questi cadaveri
ricercai, geme ora fra le catene dei Barbari: un crudele diritto la
pone irrevocabilmente fra loro, ed io privo ne resto per sempre. — A
che dunque ti vanti il più infelice sulla terra? A me (ed in così dire,
invaso dalla passione, batteasi il petto a riprese), a me solo si dee
questo nome. Qui sta: è qui nel mio cuore profondamente radicata; qui
versa il suo veleno una crudele disperazione: qui essa giganteggia....
intantochè questo.... si restringe... s’annienta...»

Ciò detto, cadde tremando fra le braccia di Eugenio. Commosso il
pietoso giovane a storia così funesta, mescolò le sue alle lagrime
di Demetrio: e da questo interessante momento ebbe principio fra
loro, quella tenera amicizia, che poi la sola morte doveva un giorno
disciogliere.




CAPITOLO XVII


Colpiti dalle avvenenti forme e dalla fiorente giovinezza di Olimpia,
i Barbari rispettata aveanla in mezzo alla strage generale, fissando
avidamente su lei scelerate mire di lucro. Immerse frattanto in un
lago di sangue spiravanle dappresso Eutimia e Sofia: l’Orfana gemeva;
e prostrata a piè degli assassini, con languente voce implorava almeno
di seguirle nel sepolcro... ma invano. La vile cupidigia dell’oro
ceder non poteva alle lagrime della innocenza fra persone macchiate di
delitti, ed in mezzo a cui, per uso detestabile, s’apre tuttora infame
mercato dell’uomo, a scorno dell’umanità.

Vedendo allora a quale sciagurata vita riserbavasi; esausta affatto
di forze, dopo avere inutilmente tentato di strappare un pugnale dal
fianco de’ suoi rapitori, e trafiggersene, la figliuola d’Evantìa
caduta era priva di sensi. Questo favorevole istante fu colto per
involarla suo malgrado al villaggio, ed a quel Demetrio ch’essa avea
continuamente reclamato: toltala sulle loro spalle, gl’infami Turchi
la trasportarono alle tende del vile Mouctar che comandava alle forze
Ottomane contro i Suliotti, e che la novella aspettava della totale
sconfitta de’ Cristiani, per inoltrarsi più sicuramente sulle loro
montagne.

Deposta la giovane schiava a’ suoi piedi, il figliuolo d’Alì incantato
rimase a vista così bella; chè un dolce pallore cagionato dal lungo suo
svenimento, spargendosi su quella amabile fisonomia, la rendea mille
volte più interessante. Mouctar, che già amavala ardentemente, andava
all’acquisto di lei; e contro ogni divino ed umano diritto fu a prezzo
d’oro venduta la sacra libertà della sventurata. Era dessa presente a
quest’atto che degrada la nobile natura dell’uomo, riducendolo alla vil
condizione de’ bruti: ma non isparse una lagrima, ed intrepida rimase
all’aspetto della novella sciagura; mentre gli sguardi suoi sdegnosi e
tranquilli ad un tempo, dir sembravano ch’essa non annuiva all’infame
contratto, e che tuttora rimanevale una libera volontà.

Temendo peraltro che il ritenersi sì bella schiava nel campo risvegliar
potesse la indignazione di suo padre, che più volte tacciato avevalo
di vile e di effemminato, Mouctar, a cui severi ordini intimavano di
non pensare ad altro che alla conquista della Selleide a qualunque
costo, risolvette d’inviare la greca donzella al castello del lago
di Giannina, per poi raggiungervela tosto al fine della campagna.
Prima però di farla partire, con quell’orgoglio proprio de’ Turchi, e
che nemmeno l’amore può in essi abbassare, pomposamente le disse. «O
tu, che sola ottieni il vanto di aver soggiogato il mio cuore, e che
tuttavia corrisponder non sembri all’onore cui t’innalzo, non creder
già che se ora da me ti allontano rinunziar voglia all’amor mio, ed
a quei diritti che su te la ragione del più forte mi dona: le gravi
cure, ed i pericoli della guerra lo esigono per mia e tua tranquillità.
— Va: ritroverai nella magnificenza del loco che ti attende un degno
albergo di te: ne sarai la signora, ed il mio cuore non cesserà mai di
adorarti... ma non abusare di tanti favori ch’io mi degno concederti.
Preparati d’ora innanzi a corrispondere, come io lo merito, alla mia
tenerezza: fra non molto, carico di gloria e di trofei, io tornerò a
riposarmi fra le tue braccia.»

Ciò detto, fisò in lei le ardenti pupille, aspettando quasi una
risposta: ma il nobile animo della greca donzella ne inorridiva al solo
pensiero; ed uno sguardo minaccioso e sprezzante fu tutto quello che
al più senti di potergli concedere. — Allorchè gli spietati carnefici
le uccisero a lato i cari oggetti dell’amor suo, Olimpia pregò,
pianse, perchè non fosse risparmiata nella strage comune: ma poichè
li vide sordi alle sue lagrime seguir barbaramente il vile impulso di
lucro infame; quando come in un quadro delineata scôrse la dolorosa
prospettiva di un inevitabile avvenire, trattenne il corso dell’inutile
pianto; e la irrevocabilità stessa del proprio destino sembrò ridonarle
la perduta forza dell’animo. — Sperando tuttavia di vincere col tempo
questa risoluta fermezza, Mouctar si ritirò; e l’Orfana allontanossi
dalle native montagne.

Le grandi fabbriche, e le alte cupole delle moschee di Giannina
che indorate dal Sole cadente ad apparir cominciavano in distanza,
creder le fecero un istante che forse a questa città conducevasi: ma
improvvisamente i condottieri di Olimpia cangiarono direzione, ed alle
sponde fermaronsi del lago vicino: ad un cenno di essi, una barca che
intenta alla pesca solcava placidamente quell’onde, avvicinossi alla
riva; vi entrarono tutti ed a forza di remi si diressero al castello.
— Il Satrapa di Giannina, la cui macchiata coscienza pingevalo a sè
stesso oggetto di esecrazione e di orrore, seguendo il costume dei
grandi colpevoli che non tengonsi sicuri ne’ luoghi popolati, eretta
erasi nella isoletta del lago una rôcca formidabile; la quale, oltre
il provvedere alla personale sua sicurezza, tenea pure in freno, per
la vantaggiosa posizione, la vicina città. Fabbricata è al settentrione
dell’isola; una numerosa fila di cannoni ne guarnisce i baluardi; ed un
angusto ponte levatojo, sostenuto da pesanti catene di ferro, è il solo
a permettervi l’ingresso. Nell’interno di questo loco inespugnabile
vive senza tema di tradimento la famiglia di Tebelen: quivi Alì ed i
colpevoli figli suoi hanno i loro serragli; e quivi racchiusa esser dee
la sventurata figliuola d’Evantìa.




CAPITOLO XVIII


Ma già le vespertine ombre cadendo poco a poco dal cielo annunziavano
il ritorno della notte, allorchè l’Orfana giunse al Castello del lago,
trascinatavi dai ministri della tirannide. Condotta negli appartamenti
del superbo Mouctar, fu data in particolar cura a Selim, capo degli
Eunuchi del Serraglio, e molte schiave ebbero ordine di riguardarla
siccome loro padrona. Già queste, spinte da quella invidia che alligna
nel petto delle vili femmine vendute al piacere dei molli despoti
d’Oriente, col pretesto di servirla, le si affollavano intorno, quando
Olimpia chiese d’esser lasciata nella quiete; il suo desiderio fu
legge; tutti si ritirarono, ed essa rimase perfettamente sola.

Libera alfine dagli odiosi testimonj del suo dolore, nuove sue
lagrime corsero sulla traccia delle tante sparse per lo passato, ed
abbandonossi su di un sofà nel più profondo abbattimento: la memoria
della estinta Eutimia e di Sofia, tornò assai dolorosa al suo pensiero;
ma quanto non fu crudele la rimembranza di Demetrio! «Oh, voi felici,
(esclamava) che nel sonno della morte rinveniste il dolce oblio degli
affanni! Ah! così pur dato mi fosse un eguale destino! io vi seguirei
là dove il potere dell’uomo perdè ogni forza; ed a voi unita, pregherei
perchè presto anche Demetrio ne raggiungesse. Colà almeno, spiriti
indivisi, gustata avremmo quella piena felicità, di cui quaggiù la
sola ombra si vide: ed io fra le catene della schiavitù non sarei
qui vittima di un Maomettano orgoglioso... Ah! ma prima scagli su
me l’avverso destino tutti i fulmini suoi! mettasi ad ogni prova, a
qualunque tormento, la mia povera esistenza, anzichè io, dimentica
dell’onore, e della sacra religione de’ padri miei, ceda un solo
istante al tiranno! — Perduta (è vero) ho la mia libertà sulla terra;
ma se più non ho quella d’involarmi a questi luoghi d’orrore, mi resta
pure la mia volontà. Questa mi sarà scudo contro lo scelerato carnefice
dei Suliotti; ed egli conoscerà suo malgrado che una greca donzella
atterrir non lasciasi dalle minaccie, e che preferire sa sempre al
disonore la morte.»

Queste generose parole, pronunciate da Olimpia in tuono solenne e
religioso, ricondur parvero in lei le smarrite forze dell’animo.
Meno affannoso le addivenne d’allora in poi la propria prigionia:
confortolla il consolante pensiero che in breve liberata ne l’avrebbe
la morte, e che inviolata tuttora scender potea nel sepolcro. Piena
pertanto di quella grata soddisfazione, che in un cuore bennato ispira
sempre la bella determinazione di sottrarsi ad ogni costo al disonore
ed all’obbrobrio; sicura che il dolore e gli affanni che la disgrazia
le procurava, riunita ben presto l’avrebbero ai perduti oggetti della
sua tenerezza, l’Orfana apparentemente tranquilla, si pose da quel
magnifico appartamento a riguardar sul lago soggetto. — Sereno e puro
era l’aere all’intorno: le onde leggermente increspate dal venticello
della notte in tuon sommesso flottavano lungo le mura del castello;
e la luna che colma splendeva nell’alto del cielo, rischiarando in
silenzio le rive lontane, specchiavasi tranquillamente sulla cerulea
superficie delle acque. — Infelice! era pur quello il momento in cui,
guidato da quel lume istesso, indarno fra gli estinti del villaggio
ricercava Demetrio la diletta donzella.

Dessa intanto all’aspetto di scena così imponente scender sentiva una
dolce commozione nel cuore: questa per altro figlia non era della
gioja; partir sembrava piuttosto dalla rimembranza delle sofferte
vicende. Assorta ne’ suoi pensieri, Olimpia non avvedevasi che le ore
fuggivano rapidamente, e che malgrado la generale inazione delle cose,
ed il sonno della natura, non arrestava il tempo neppur d’un istante il
veloce suo corso. L’orologio del castello accennò la metà della notte:
alcune voci, ed un leggero tumulto nella rôcca, accompagnarono la muta
della guardia ai baluardi: tutto quindi si ricompose, e tutto rientrò
tosto nel primiero silenzio. Fu allora che la prigioniera infelice
cedette al bisogno della natura: coricata sulle morbido coltri,
ricercar tentò nel soave abbandono dei sensi la dimenticanza de’ mali:
ma Demetrio le fu sempre presente: Demetrio solo vide essa ne’ sonni
brevi ed interrotti, e nelle lunghe dolorose vigilie.

Al mattino novello le schiave tutte del serraglio si portarono a lei,
ed offrironsi a servirla: Olimpia le ringraziò; e pregolle d’allora in
poi a non toglierle il solo unico bene che rimanevale, la solitudine.
Era questa di fatto un vero conforto per l’Orfana; se non che talmente
accresceva la cupa sua melanconia, che sovente facendo l’infelice a
tutto insensibile, stranieri anche rendeale gli oggetti stessi che la
circondavano. Era in questi crudeli momenti che i suoi occhi in alto
fissati, coprivansi di quell’umido velo che precede il pianto: tremanti
erano le sue membra; alterati i suoi lineamenti: alcune grosse lagrime
giù correndole per le pallide guancie, bagnavano il pavimento... ma
dessa non iscorgevale; non sentiva più nulla: l’anima sua sorpassava
allora quella immensa linea che divide la terra dal soggiorno della
Divinità. Ivi nelle braccia dell’Eterno rivedea più belli i perduti
oggetti dell’amor suo: a piè di Lui che è lo scrutinatore de’ cuori,
deponeva i tormenti che laceravanla: la grazia celeste scendeva intanto
sull’innocente suo capo; ed essa, riavendosi da quel dolce letargo,
piena sentivasi di soave conforto, e di forza novella.

Al mezzogiorno dell’isola, non lungi dalla rôcca, circondato di mura,
giace il giardino del serraglio; che destinato al passaggio delle donne
racchiusevi, e dalla più raffinata eleganza fatto adorno per ogni dove.
Spaziosi viali fiancheggiati da ombrose piante distendonsi in lungo:
brillano le ajuole nel mezzo di mille fiori diversi che una leggiadra
simmetria vi ha collocati: un piccolo boschetto, perpetuo albergo degli
zeffiri, cupamente verdeggia nel fondo, mentre alcune grandi aperture
nelle mura, difese da doppie inferriate, libera lasciano in distanza la
prospettiva del lago.

La prima volta che Olimpia vi discese fu in un momento in cui deserto
era il loco, e che le vili schiave dimentiche della perduta libertà,
celebravano tranquillamente una festa nell’interno del serraglio. Si
assise in un sedile di bianca pietra a piè d’una inferriata: quindi,
poggiato il cubito sui gradini di essa, e sulla mano la guancia,
a riguardar si pose la riva all’intorno. Il Sole circondato da
leggere nuvolette era al tramonto; i raggi di lui tremolanti sulle
acque indoravano per l’ultima volta l’orizzonte: ed una languida
luce, dileguandosi poco a poco dalla terra, spargeva di melanconica
tinta gli oggetti tutti del creato. Le sole cime di un alto monte da
lungi mostravano tuttora la presenza dell’astro: e su quelle rupi
inaccessibili, inseguito dalle tenebre nemiche, rifugiarsi pareva
il giorno morente. Per naturale movimento rivolse Olimpia a quel
punto lo sguardo: quelle canute roccie, quelle balze scoscese non
le furono ignote: richiamò ad esse un’istante l’alienata attenzione,
ed alle eterne nubi che le coronano riconobbe il Picco di Kunghi. —
La più sublime delle native montagne, la sacra terra degli avi suoi
ricomparivale dunque finalmente dinanzi! Spinta da una soprannaturale
commozione, ella cadde sulle sue ginocchia: sparse lagrime di tenera
gioia; e benedisse l’Onnipotente, che sì dolce conforto arrecavale in
mezzo a tante amarezze.

Lieta per sì bella scoperta, non mancava Olimpia di portarsi ogni
sera al giardino. Era questo il loco che solo addir le si poteva nella
trista sua situazione: trovava in esso un sollievo altrove sconosciuto;
e vi si tratteneva delle ore intere senza pure avvedersene: giacchè
sempre di brevissima durata ne appaiono que’ felici momenti, che talora
il corso interrompono delle nostre afflizioni.




CAPITOLO XIX


Se a quella dolce inclinazione di natura che talor lega soavemente
l’un uomo ad un altro, la reciproca confidenza essi vi aggiungano
delle proprie disgrazie, è allora che nasce, e sovra solida base si
conferma, la più tenera la più sincera amicizia. Dopo la commovente
scena del villaggio, dopochè una quasi uguale sventura avvicinati gli
ebbe fra loro, Demetrio ed Eugenio non eransi più separati: una stessa
tenda, un tetto stesso li accoglieva nel campo: i più grandi pericoli
li vedevano insieme; ed insieme essi eran sempre ovunque l’esigeva il
bisogno. Di vero cuore amava Eugenio l’amico suo: ravvisava in esso
le più belle doti dell’animo, le affezioni più gentili, e tutto quel
vivo interesse che desta sempre la virtù sfortunata: oltredichè Irene
più non era; giurato egli aveva sul freddo cadavere di lei non esser
mai d’altre sulla terra, ed il figliuolo d’Eutimia non compreso in
questo giuramento, era il solo che amar da lui si poteva senza tema di
violarla. Demetrio d’altronde corrispondea vivamente a tanta tenerezza:
ad essa donava tutti quei momenti che liberi gli restavano dalle cure
di guerra; ed in questi amichevoli trattenimenti la perduta Olimpia era
costantemente l’oggetto de’ loro discorsi.

Un giorno in cui Demetrio, più forse abbattuto del solito, solo sedeva
nella sua tenda; lieto in sembianza, e come quei che apportatore ne
viene di felice novella, a lui comparve il giovine Eugenio: fattosegli
accanto, e stretto per mano lo sventurato Capo de’ Suliotti, esclamò.
«Amico! non abbandonarti più a lungo a questa angoscia crudele:
giunto è forse il momento in che io restituirti posso la pace, e la
tranquilla serenità dello spirito.» — Demetrio si scosse: balzò in
piedi rapidamente, e fissò i suoi sugli occhi di Eugenio, come per
assicurarsi ch’ei non mentiva. — «Sì: (soggiunse egli) io voglio
ridonarti la pace: ho promesso alla sacra amicizia di adoperarmi
costantemente per te, e tu sai che io non manco ai miei giuramenti. —
Demetrio! Io non sono mai stato freddo spettatore delle tue pene: non
mi sfuggirono, mel credi, le tue lagrime; e la tua confidenza per me,
l’abbandono tuo nelle mie braccia là fra gli estinti del villaggio,
son tuttora scolpiti nel mio cuore. Io ho sempre bramato raddolcire i
tuoi mali: sperai che il tempo, e più i soavi conforti dell’amicizia,
rimarginata avrebbero la tua ferita... ma mi sono ingannato: essa è
troppo profonda; e senza un rimedio un solo rimedio che io conosco; e
voglio a costo della vita procurarti, fra poco condurti potrebbe al
sepolcro. Tu, rivestito del supremo comando de’ tuoi concittadini,
non puoi di qui allontanarti: io peraltro non sono così necessario
alla mia patria, e lo posso. — Demetrio! amami, e fa cuore. Io parto
all’imbrunir della notte pel lago di Giannina. Colà, (io lo seppi da
un Turco da me guadagnato coll’oro) colà nel serraglio del castello
trovasi ora la povera Olimpia: Mouctar sdegnato alle sue prime ripulse,
ivi l’ha confinata, riservandosi ad occuparsi di lei al fine della
campagna. — Scelerato! Tu più non la rivedrai: non sarà l’infelice
contaminata fra le impure tue braccia: tu fremerai di rabbia, ed essa
intanto volerà sicura fra quelle del fedel suo!!»

— «Eugenio! Posso io crederti veramente, (soggiunse allora Demetrio)
od è questa una pietosa lusinga per istrapparmi un istante al dolore?
M’inganneresti tu forse?»

«No: (rispose) io non mentisco: tu ben devi conoscermi per viver sicuro
sulla mia parola. Parto; ed a te dinanzi lo giuro, in faccia al Cielo
che testimone è di tutto, io qui vivo non tornerò che con lei: o potrò
strapparla alle catene dei Barbari, o perirò io stesso vittima della
bell’opera che l’amor tuo ha saputo ispirarmi... ma tolga il Cielo
l’augurio funesto! Già tutto è disposto per un esito felice. Non manca
se non che tu mi consegni una lettera, la quale informando Olimpia del
nostro progetto, e di me che non conosce, mi assicuri altresì della sua
confidenza, e de’ suoi sforzi per secondarmi.»

Non così dolci cadono le estive pioggie sulle arse campagne, come
soave discese nell’oppresso cuore di Demetrio la inaspettata novella.
Lanciossi egli fra le braccia dell’amico, bagnandolo di quelle lagrime
che la più viva riconoscenza chiamogli in copia sul ciglio: rinvigorir
parvero allora le abbattute sue facoltà, e tornò il riso finalmente a
brillare sulle sue labbra. Pure sembrava non potersi persuadere della
promessagli felicità: vedeva che troppi ostacoli dovevano in prima
superarsi; e che quando per Eugenio altra difficoltà non vi fosse che
quella di oltrepassar sicuro la linea del blocco, grande era questa
sola per rendere inutile la impresa. Il giovine generoso dileguar
cercò questi dubbii: esposegli minutamente tutti i dettagli dell’ardito
progetto, ed esortollo a confidare nella giustizia della causa, e nel
favore del Cielo. — Comparve frattanto la notte: Demetrio accompagnar
volle per qualche tratto di strada il raro amico suo: salirono a
cavallo, ed in silenzio si allontanarono dalle tende.

— Battuti i Turchi e sconfitti nella grande giornata del villaggio,
deposto avevano ogni pensiero di attacco novello: che anzi, conoscendo
che l’unico mezzo d’impossessarsi di quelle rupi formidabili era
nel ridurre i Suliotti ad arrendersi per fame, risoluto avevano
di circondarli all’intorno, d’impedir loro ogni comunicazione
coll’esterno, e di tenerli così rigorosamente bloccati. Mouctar
destinato era da suo padre a comandar sulla linea le forze ottomane:
queste ingrossavano ogni giorno per la sopravvenienza di nuove reclute,
ed ivasi così preparando la perdita dei generosi figli della Selleide.

Giunti al fine delle gole, Demetrio ed Eugenio a scuoprir cominciarono
in distanza i fuochi del campo nemico: udirono pure confusamente
da lungi le voci di alcune sentinelle; ed il figliuolo d’Eutimia
raccapricciò d’orrore in pensando che fra quelle avventurarsi doveva
l’amico. Qui fu dove Eugenio non permise che altri il seguisse; la
difficoltà dell’impresa era somma, ed evitarsi doveva il più leggero
romore. Più lagrime di tenerezza accompagnarono il loro addio che fu
commovente oltre modo: si abbracciarono scambievolmente: e reciproca fu
chiesta e data la promessa di un pronto ritorno: il giovine generoso si
allontanò dalle rupi native; e Demetrio ritornò lentamente alle tende.

Eugenio vestito di abiti turchi, montava un cavallo tolto ai Barbari
nella giornata del villaggio: conosceva perfettamente bene il
linguaggio nemico, ed ognuno creduto l’avrebbe Maomettano. Con questi
vantaggi il magnanimo Suliotto non paventò di esporsi al pericolo: che
anzi seco stesso gratulandosi della nobile opera che intraprendeva,
seguì lieto a percorrere la strada. Placida era la notte: ma non ancor
sorta la luna, e regnava dovunque la più grande oscurità. Per trarsi
più facilmente d’impaccio, scelto egli aveva un sentiero scabroso e
dirupato, l’unico forse che meno rigidamente guardato era dai Turchi:
ma vicino al confine del blocco, allorquando in mezzo al generale
silenzio delle cose lusingavasi del più felice successo, fu sorpreso
da un primo moto di terrore in udendo da sè non lungi alcune voci
indistinte. — Era quella un’orda nemica, che destinata ad invigilare
sui posti di guardia, fermata erasi dentro un piccolo casolare. Al
romore di un cavallo che attraversar sembrava francamente la strada,
il capo de’ Barbari chiamò alle armi, ed addimandò all’istante chi
fosse quei che passava: e già preparavasi a far fuoco sull’incognito,
allorchè questi, senza sgomentarsi, risposegli in Turco con voce
bassa, ma risoluta. «Taci, disgraziato! parto dal quartier generale di
Mouctar per una segreta spedizione.». — Il Maomettano uso a tremare
al solo nome de’ suoi padroni, appagato di questa risposta tornò
tranquillamente al casolare; ed Eugenio a spron battuto giunse senza
altro ostacolo ad oltrepassare la linea.




CAPITOLO XX


L’Orfana frattanto iva lentamente cedendo alla piena dei mali che
l’opprimevano. Il soggiorno del castello, la vista di quegli odiati
luoghi mille volte testimoni delle sue lagrime, eranle di un peso
insoffribile: le mura istesse, e le dorate pareti, destavanle le idee
più funeste, e tutto in tutta la sua forza ravvisava all’intorno
il luttuoso aspetto della schiavitù. Riguardando sovente dall’alto
degli appartamenti sul lago soggetto, misuravane ad un colpo tutta la
estensione; e percorreva quindi la grande distanza che frapponevasi
da quel carcere alla cara terra degli avi suoi. Ritraevasi allora
l’infelice da una vista che troppo deprimevala; ma non da quella
ritraevasi, che seguìta da lunga schiera di dolorosi pensieri: essi non
l’abbandonavano un istante; e, quasi goder potessero nel tormentarla,
in mille guise diverse le si moltiplicavano in mente.

Conforto unico era ad essa il dolce trattamento che riceveva da Selim,
capo degli Eunuchi del serraglio. Costui si diportava in maniera
tutta diversa da quella che a’ suoi pari si conveniva: studiavasi
di alleggerire alla sventurata il peso della schiavitù; e con parole
di consolazione, e con atti di officiosa urbanità, lasciava in ogni
incontro travedere il più grande interesse a vantaggio di lei.

Una volta che Olimpia, ringraziandolo di tanta pietà, parve
meravigliarsi come in un uomo, a sì vile impiego destinato, generosi
modi apparissero. «Signora! voi non mi conoscete: (le rispose Selim).
Una fatale sventura che mi pose fanciullo fra gli schiavi d’Alì, mi
ha ora in questo grado collocato: del resto io non nacqui figlio dei
Turchi, nè straniero nome è la compassione per me. Anch’io ho cuore
ed affetti: anch’io... sappiatelo alfine; ho nelle vene il sangue dei
Greci.»

Olimpia rabbrividì: si fece indietro d’un passo, e fissandolo
in volto, «che? (disse) voi? voi Greco... e vestite l’abito degli
infedeli?»

— «Ah, signora! (riprese egli) non aggiungete l’amarezza de’ vostri
rimproveri a quella del rimorso che mi lacera. Fanciullo di due lustri,
fui tolto per sempre alla mia famiglia: si volle indebolirmi lo spirito
per forza di continue minaccie: fui consegnato al carnefice... misero!
che far doveva in faccia a mille tormenti?»

— «Morire» (rispose Olimpia severamente).

— «È vero: pur troppo è questa la mia colpa; la conosco, l’abborro. Oh,
dato mi fosse degnamente espiarla! involato a queste mura contaminate
di delitti, oh, potess’io purificarmi con tutto il mio sangue,
all’ombra santa del perdono di Dio!!»

Tremante era la voce di Selim, ed i suoi occhi bagnati di lagrime;
quelli di Olimpia rivolti erano al suolo.

— «Ma intanto (riprese egli) io qui schiavo, come voi siete, di vano
desiderio mi pasco; non mi è dato liberarvi; offrirvi non posso che
una sterile compassione... vorrete sdegnarla questa unica cosa che io
m’abbia degna di voi?... potete odiarmi?

— «No, vi compiango: (rispose Olimpia con un sospiro). Veggo che siete
anche più infelice di me.»

Dopo ciò si separarono: ma da quel giorno in poi Selim addivenne
per l’Orfana il solo nel serraglio che meritasse la sua confidenza:
narrogli la commovente storia delle sue pene: ed egli in ricompensa,
poichè non altro poteva, cercando sempre prevenire i suoi desiderj ed
appagarli, si volse costantemente a raddolcirle la trista amarezza
della schiavitù. — Ma intanto le labbra di lei languide e scolorate
più non aprivansi che al sospiro: umide sempre erano le sue ciglia di
pianto: delirante talora lo spirito. Sventurata! Nelle più tarde ore
della notte, allorquando in mezzo al generale silenzio delle cose anche
la pallida luna tramonta, e le cadenti stelle invitano al sonno, sola
aggiravasi per le vuote sale, Demetrio invocando coll’acuto accento del
dolore... — ma il solo nome ripetevane l’eco sommessamente, ed egli non
appariva a confortarla giammai.

In questa guisa dileguavansi poco a poco nel castello del lago la
fiorente giovinezza e la salute di Olimpia: vedeva essa non lungi la
fine della vita, ed invece di rifuggirne l’idea, anelarla sembrava
piuttosto: la sola spoglia mortale così lasciato avrebbe allo scelerato
carnefice dei Suliotti; mentre lo spirito, leggero come fiamma che in
alto tende a sollevarsi, riunito sarebbesi ai perduti oggetti della sua
tenerezza. Piena di questa dolce speranza, la sola omai che alimentar
poteva nel cuore, non trascurava l’infelice di portarsi ogni sera al
giardino del serraglio: ivi collo sguardo immobile sulle lontane cime
del Picco di Kunghi, passava gl’istanti meno amari di sua vita...
Orfana infelicissima!!! Anch’essi fra poco sparir doveano come il
lampo.

Un giorno, oppressa forse più che mai dalle sue dolorose rimembranze,
affrettossi a ricorrere all’usato mezzo di conforto, e discese al
giardino. — Vergeva il Sole al tramonto: limpidissimo era il cielo,
e l’aure appena spiravano. — Il primo pensiero di Olimpia fu quello
di assidersi sul sedile di marmo a piè della grande inferriata:
nell’atteggiamento del dolore, i suoi occhi pregni di lagrime
riguardavano languidamente quel lontano punto sì noto e sì caro;
mentre gli ultimi raggi dell’astro cadente placidi rifletteano sulla
tranquilla faccia del lago. Tutto era silenzio in quella remota parte
dell’isola: ed i sospiri dell’infelice i soli erano ad interromperlo;
allorquando ad udir cominciossi in lontano un confuso romore simile al
gemito d’onda percossa da’ remi. Immersa Olimpia nel suo dolore, non vi
abbadò sulle prime: ma allorchè quello fecesi poco a poco più distinto,
rivolse naturalmente lo sguardo al loco donde partiva. Era di fatto
un giovine Turco che, montato su piccola barca da pescatore, sembrava
avvicinarsele: nobile era il suo portamento; ed una folta e negra barba
nascondea parte de’ suoi lineamenti oltremodo espressivi. L’Orfana
che fino allora veduto non avea legno alcuno su quelle acque, attonita
rimase all’inconsiderato ardire del giovine pescatore, che forse caro
pagato avrebbe il fio della colpa, qualora le guardie del castello
avessero potuto scoprirlo. Egli frattanto inoltrato erasi fin sotto
la inferriata del giardino: e già Olimpia avvertiva l’imprudente del
pericolo che soprastavagli, allorchè lo sconosciuto, guardatosi prima
cautamente d’intorno, sommessamente in greco le disse: — «Signora!
se lecito mi fosse interrogarvi, potrei chiedere se vive tuttora nel
serraglio Olimpia, la giovine schiava Suliotta?»

L’Orfana si turbò. — «A che mi fate una tale domanda?

— «Nulla, ve l’assicuro, null’altro mi muove che una generosa
compassione. — Vive forse tuttora?

— «Sì: vive, ed io son l’infelice. Ma che vi cale di me?...»

— «Oh divina Providenza!!! (sclamò l’incognito). Se dunque voi siete
la figliuola d’Evantìa, rapita alle braccia di Demetrio nella grande
giornata del villaggio, confortatevi, o sventurata! v’ha chi veglia
sulla vostra salvezza.»

— «Che parlate voi?» (replicò l’Orfana sbigottita).

— «La verità. — Ditemi: havvi fra i custodi del serraglio chi per voi
s’interessi? Potreste fidarvi d’alcuno?

— «Selim, il capo degli Eunuchi; egli greco è d’origine, è qui il solo
che mi compianga. Ma voi chi siete? che pensate tentare?... — Tutto:
non conoscete forse il cuore de’ Suliotti? Olimpia, addio! Se propizio
n’è il Cielo; se domani aver potrete un foglio dell’amante vostro,
ove tutto vi sarà svelato, trovatevi qui sull’imbrunir della notte: io
venni a liberarvi.»

Ciò detto, cautamente allontanandosi, poco a poco disparve. — Olimpia
sopraffatta dalla meraviglia rimase per qualche istante fuori di sè:
ondeggiava fra mille incerti dubbii sull’incognito misterioso che
promesso aveale libertà; e siccome avviene sovente in cose desiderate
sì, ma non isperate giammai, prestar non sapea fede a’ suoi occhi
medesimi. Riprese animo finalmente: lanciò furtivo uno sguardo
all’intorno, per accertarsi se alcuno avesse potuto osservarla; poi,
lasciando il giardino, si ritirò nel silenzio de’ suoi appartamenti.




CAPITOLO XXI


Prima di esporsi al difficile rapimento di Olimpia, Eugenio stabilito
avea di bene accertarsi se essa viveva, onde inutile non riuscisse
il generoso tentativo. A tal uopo, per forza d’oro, anima e vita di
un paese in cui tutto è venale, noleggiato avendo barca e vesti da
pescatore, inoltrato erasi fin sotto il giardino del serraglio, onde,
con istudiato pretesto, chieder notizie di Olimpia a colei ch’egli
spesso da lungi veduto aveva sedente a piè della grande inferriata:
volle la Providenza che nella stessa Orfana ei s’incontrasse: ed
informato da questa, e della condizione e del nome del pietoso Selim,
ritirato erasi cautamente, maturando nel pensiero l’ardito progetto, ed
i mezzi più opportuni ad eseguirlo.

All’apparire pertanto del mattino novello, Eugenio rivestì gli stessi
mentiti abiti co’ quali allontanato giù erasi dalle native montagne,
e si presentò francamente al castello, annunziandosi siccome spedito
dal quartiere generale di Mouctar. Calato il ponte, ed introdottovi,
addimandò tosto del capo degli Eunuchi Selim, cui disse di dover
parlare segretamente. Racchiusi ambedue in camera appartata, il custode
del serraglio che già disponevasi ad udire dal messaggero gli ordini
del suo padrone, rimase assai meravigliato, quando offrir si vide una
borsa accompagnata da queste parole sommessamente profferite.

— «Se io parlar dovessi ad un Turco, temerei, ed a ragione, che poco
fosse l’oro che qui si chiude; ma poichè mi sono ad uomo rivolto che
nacque figlio dei Greci, veggo che è forse anche troppo, e che tutto mi
lice sperare dal nobile carattere della sua nazione. Generoso Selim! la
mia vita, la pace di due sventurati, sono nelle vostre mani. (L’Eunuco
guardò l’incognito da capo a piedi). Tutto peraltro mi è noto: so
quanto vi commuova la infelice sorte di Olimpia: so ch’essa ed io
qui di voi solo possiamo fidarci. (Turbossi Selim, e tentò replicare;
Eugenio l’interruppe). Udite. — Un sentimento di tenera amicizia mi
persuase a venire dalla Selleide nel castello del lago, e, sprezzando
ogni pericolo, a ricondurre Olimpia al suo amante, o morire... avete
così conosciuto che io son Greco, e che finte sono le vesti che mi
coprono. Ora siccome senza l’opera vostra è inutile ogni mio tentativo,
è per questo ch’io vi prego d’ajuto. Non vi spaventi l’avvenire: io
vi prometto mezzi tali da porvi in salvo, e garantirvi dalla pena
barbaramente dovuta alla pietosa vostra condiscendenza.»

Qui tacque: e Selim, fissatolo in volto nuovamente, appressollo più
davvicino.

— «Signore! (gli disse): il vostro coraggio, la interessante vostra
fisonomia, e più le generose parole che m’indirizzaste dileguano ogni
mio dubbio: voi esser non potete un vile emissario che a tentar venga
la mia fedeltà coll’oggetto di perdermi.»

— «No: (risposegli Eugenio dignitosamente) ve lo giuro per il Dio de’
miei padri; e voi sapete quanto prezzano i Greci i loro giuramenti.»
(Qui gli porse la mano: Selim la strinse nella sua):

— «Ebbene: prometto favorir questa fuga, ma ad un patto: anch’io verrò
in salvo con voi. Poichè noti vi sono i miei natali, e la involontaria
mia colpa, sappiatene pure i rimorsi. — Oh! quante volte ho desiderato
espiarla versando il mio sangue per la patria!! Infelice!!!... nacqui
anch’io Suliotto.»

— «Lo veggo: la nobile vostra risoluzione chiaramente il palesa. Noi
partiremo insieme: ed or che la guerra arde nella Selleide, racquistar
potrete coll’armi la fama perduta.»

— «Lo voglia il Cielo! — Ma Olimpia intanto?...

— «Jeri la vidi sotto la inferriata del giardino, ove su piccola barca
mi era condotto: poche ed oscure parole mi permise indirizzarle il
breve istante che mi trattenni: ma questo foglio che le darete potrà
tutto svelarle. Intanto voi con essa sull’imbrunir della notte vi
troverete nel giardino: in quella parte ove più basse sono le mura
condurrò io la mia barca; e questa breve scala di corda servirà per
discendervi. — Basta, per ora io m’allontano dal castello: e voi,
per giustificare il nostro abboccamento, fingerete aver ricevuto per
mio mezzo un qualche ordine di Mouctar. Prudenza vi raccomando, e
sollecitudine.»

— «Fidatevi di me. Addio!»

— «Sì: oggi sull’imbrunir della notte.»

Ciò detto, Eugenio, abbandonò il castello, entrò nella barca che lo
attendeva per tragittarlo alla riva del lago: quivi giunto riprese la
strada di terra, fingendo ricondursi al quartier generale dei Turchi.

Selim intanto rientrato nel serraglio, portossi agli appartamenti
dell’Orfana, che sbigottita ancora per l’accaduto del giorno innanzi,
sedea mesta e pensosa. — «Finalmente (le disse) mi è pur dato giovarvi:
posso io stesso recarvi una lieta novella! Leggete!» — Olimpia prese
quel foglio palpitando: l’aperse, e trovollo concepito in questi
termini.

      «OLIMPIA!

  «La celeste Providenza che sempre protegge gli sventurati non
  si è scordata di noi: essa mi ha fatto sperare di racquistarti;
  e superando tutti gli ostacoli, ha rinvenuto il mezzo di farti
  giungere questo mio foglio fin dentro il carcere tuo. Un amico, un
  raro amico, che io amerò teco fino all’ultimo mio respiro, è quegli
  che tutto sprezzando viene a liberarti. Celato sotto l’abito degli
  infedeli onde meglio diminuire la difficoltà dell’impresa, tutto ti
  farà noto appena sarai fuori del castello: nascosta allora anche
  tu sotto vesti mentite, ritornerai finalmente alle mie braccia.
  Olimpia mia! Io non istarò quivi a narrarti tutte le pene da me
  sofferte; desse sono innumerabili, infinite, ed io darne non posso
  la più debole immagine: il mio cuore per altro di cui tu conosci i
  palpiti più segreti, agitandosi un giorno più fortemente incontro
  al tuo, sarà l’interprete verace de’ miei lunghi travagli. Oh!
  quanto è mai lusinghiera la felicità che ne attende! Ah, possa
  almeno essere stabile una volta!... ma sì: lo spero. Quella forza
  superiore che mi ha sempre preservato fra i nemici da una morte
  mille volte cercata, quella stessa che sembra avermi lasciato la
  vita per dividerla teco, coprirà pure di pietoso velo la tua fuga.
  Olimpia mia!... abbandonati a sì bella speranza: il mio n’è il più
  fausto presentimento.

  «Mouctar, l’infame assassino de’ nostri confratelli, cinge
  tuttora di stretto blocco le nostre montagne: ma il contagio che
  a serpeggiar comincia tra le file nemiche, privando il superbo
  Maomettano della necessaria energia, sarà forse il nostro
  più tremendo alleato. Ad ogni modo le rupi di Suli sono ben
  formidabili: e gl’Infedeli conoscono d’assai quanto possano i Greci
  adunati sotto la insegna della Croce.

  «Olimpia vieni! il fedel tuo ti attende con tutta la impazienza
  dell’amore. Non ti spaventi il pericolo: fa cuore! affidati al
  prudente coraggio dell’amico, e sii certa della tua liberazione!
  Ah, una volta che tu mi sarai restituita, forza umana non potrà più
  svellerti da me!!

                                                         DEMETRIO.»

— «Ebbene (le disse allora Selim); voi questa sera partirete; ed
abbandonando questo carcere infame, anch’io vi seguirò nella fuga.»

L’Orfana non poteva rispondergli; tanta era la forza dell’inaspettato
piacere, tanta l’agitazione dell’animo suo. Onde lasciarle libero campo
a ricomporsi, Selim da lei si licenziò. — «Addio, dunque; mi troverete
al giardino sull’imbrunir della notte.»




CAPITOLO XXII


Rimasta sola, l’Orfana non ancor persuasa di tanta felicità, tornò
a rileggere il foglio dell’amante: lo baciò quindi con entusiasmo, e
vivamente esclamò: — «Oh Dio! Non è dunque un sogno: Demetrio stesso
è quegli che mi scrive: queste cifre sì conosciute e sì care vengono
a rendermi alfine la speranza e la vita!» Ciò detto le lagrime della
gioja larga strada si aprirono sulle sue guance, scorrendo così dolci
per lei, come il fine della sventura al principio della felicità.
— Ogni volta che l’orologio del castello coi misurati colpi le ore
accennava che fuggivano «ed anche una di meno: (esclamava Olimpia):
poco ancora, e Demetrio mi rivedrà. Dio immortale che presiedi ai
destini degli uomini, volgiti dall’alto delle sfere a questa infelice
che è pur figlia tua! Deluse non restino le mie speranze! proteggi
la mia fuga! ed involami per sempre a questo carcere odiato, ove ogni
giorno profanasi dagli Infedeli il Nome tuo!»

Finalmente la estiva vampa diurna lasciato avea poco a poco di sferzare
la terra: il Sole era già sceso al tramonto. Con gioja vide Olimpia il
ritorno della notte: uscendo da’ suoi appartamenti, gittò un ultimo
sguardo su quelle superbe pareti testimonj di tante sue lagrime, e
tacita e sola scese palpitando al giardino. Quivi attendevala Selim:
appena vi giunse, egli incontrolla sorridendo, ed ambedue ad aspettar
si posero a piè della grande inferriata. Oh, quanto lunghi sono
gl’istanti per chi attende con impazienza un qualche bene! Ad ogni
momento la figliuola d’Evantìa rivolgeva gli sguardi sul lago: ed il
più debile fiotto dell’onda, il più lieve venticello, pareva dovesse
annunziarle la barca liberatrice.

S’udì finalmente l’agitarsi del remo che appressavasi; ed al chiarore
della luna riconobbe l’Orfana il generoso amico di Demetrio. Ad
un segno di questi, cui rispose Selim, fermossi la barca sotto il
giardino. La scala di corda raccomandata prima nell’interno alle grosse
spranghe della inferriata, e gittata quindi all’infuori, additò il
mezzo di scendere: ajutata da Selim, Olimpia vi si appese, salendo
fin sopra al muro, ove aspettò ch’egli la raggiungesse: discendendolo
quindi all’esterno, giunsero l’un dopo l’altra a toccare la barca. Il
primo moto della gratitudine di lei fu quello di stringere vivamente
la salvatrice mano di Eugenio: le sue ginocchia poi si piegarono: i
suoi occhi si volsero al Cielo, e «grazie o Numi di pietà! (esclamò
sommessamente). Libera alfine son io dai vili lacci della schiavitù;
ritorno pure a’ tuoi altari, alla sacra patria degli avi miei!»

Eugenio frattanto a forza di remo allontanato erasi da quella remota
parte dell’isola: tutto pareva assicurato; se non che rimaneva peranco
buon tratto di via, ed un vento sciroccale levatosi all’improvviso,
perigliosa rendeva la navigazione dell’alto lago. La barca pertanto dei
fuggitivi radeva leggermente la costa dell’isola, ove l’onda era più
cheta d’assai: e già il fragile legno oltrepassava non visto sotto il
cannone del forte, allorquando una guardia, che fumando stavasi seduta
sui baluardi, lo scoperse. — «Olà: chi siete?» (gridò minacciosa).
— «Pescatori» (risposegli Eugenio in lingua turca, con voce franca
e risoluta: Olimpia agghiacciava di spavento). — «Allontanati dunque
di qui: a che radi le mura? — «Mi vi spinge il vento; ma ormai l’ho
guadagnato, e m’allontano.»

Parve il Maomettano appagato di questa risposta perchè nulla più
soggiunse: ritornò tranquillamente alla sua pipa, e la barca senza
altro ostacolo giunse felicemente alla riva. Sbarcati che furono,
Olimpia vestita degli abiti turchi che Eugenio aveale procurati onde
patria e sesso mentisse, salì insieme con esso e con Selim, sui cavalli
che rinvennero presso alcuni salci, ai quali Eugenio annodati li aveva
nella sera medesima, poco prima di portarsi per la concertata fuga
sotto il giardino del serraglio. A spron battuto si allontanarono dalle
vicinanze del lago: e ad evitare ogni altro pericolo, percorsero strade
scoscese e deserte durante tutto il resto della notte. Fu in mezzo al
silenzio di questo viaggio che Eugenio narrò all’Orfana tutta la storia
dell’accaduto, incominciando dall’istante in cui egli, piangente sul
freddo cadavere d’Irene, unito erasi a Demetrio con i più saldi vincoli
di amichevole affetto. Pianse Olimpia di tenerezza e di gratitudine,
al racconto del suo liberatore: e l’anima sua, assuefatta a calcolare
tutti i gradi della sventura, conobbe anche allora che non può essere
vero amico di un infelice se non colui che egualmente soggiacque ad
avversa fortuna.

La notte frattanto era al suo termine; e già l’aurora spargeva di rosea
luce le immense vie del firmamento, allorchè la figliuola d’Evantìa
coi primi raggi del Sole nascente scoperse in lontano le indorate cime
delle rupi native. Quale straordinaria commozione fu in quell’istante
la sua! Lagrime di gioja cadevano in copia sulle pallide sue guance: ed
il sorriso brillando sulle sue labbra, con dolce contrasto opponevasi
a quell’aria di melanconia che segnava da lungo tempo ogni traccia del
suo volto. I generosi destrieri secondavano l’ardente desiderio de’
giovani Suliotti, divorando col veloce corso la via: scoprivansi omai
vicinissime le minori rupi della Selleide: e di già apparecchiavasi
Eugenio ad internarsi in una scoscesa gola incognita forse ai nemici,
allorchè udir sembrogli in distanza il romore del cannone. Affrettarono
il passo anche più, e videro finalmente attraverso una densa nube
di fumo che un fiero combattimento impegnato erasi fra i Greci ed i
Turchi. Non giunse nuova ad Olimpia questa disgrazia: nella giovane
sua età passato avea forse un intero giorno tranquillo? Non doveva
dunque meravigliarsi; l’animo suo era da lungo tempo assuefatto a
soffrire: ma in un momento in cui lusingata erasi di respirar nuova
vita; allorquando, rapita alla schiavitù, ritornar credeva alle braccia
del fedel suo... sentì certamente ben grave il peso della propria
disgrazia.

Vedendo Eugenio che impossibile saria stato tradurre l’infelice alle
gole nel calore del combattimento, risolvette collocarla in luogo
sicuro, finchè, cessato il tumulto delle armi, Demetrio medesimo avesse
potuto più opportunamente ricondurla alle rupi. Divergendo pertanto
dal già preso cammino, giunsero sotto la rocca di S. Veneranda, primo
baluardo della Selleide, fortissima posizione difesa da imponente
presidio. Ad un noto segno ch’egli fece, le scôlte calarono il ponte,
e tutti vi entrarono. Eugenio manifestò col proprio il nome di Selim,
e quello della travestita donzella: raccomandolla ai capi del presidio
siccome sposa di Demetrio; e dopo averle promesso un pronto ritorno
appena finita, la pugna, Selim ed egli indossarono greche vestimenta,
ed a spron battuto corsero a prender parte alla mischia.




CAPITOLO XXIII


Fin dalla giornata memorabile del villaggio, quando con eterna vergogna
sulle proprie file ripiegarono in faccia alla bandiera della Croce,
i Turchi giurato aveano nuovamente l’esterminio totale de’ Cristiani
della Selleide. A fine pertanto di guadagnare una volta quelle rupi
formidabili di cui non v’era pietra che macchiata non fosse di sangue
infedele, Mouctar le stringeva di blocco rigoroso, ingrossandone la
linea coi ragguardevoli contingenti di truppe che suo padre ogni giorno
spedivagli dalla capitale dell’Epiro. La viltà di quei Maomettani
incapaci di aperta forza, ed avvezzi ad operare soltanto con mezzi
indiretti, aspettava così tranquillamente in sicuro la necessaria
caduta di Suli: numeravansi con tripudio i giorni che passavano; ed
avrebbesi pur voluto che il tempo accelerato avesse il proprio corso,
onde più presto pascere i feroci sguardi sulle vittime infelici,
che consunte dalla fame attendevansi al campo a deporre le armi, e
ad implorare indarno dai vincitori pietà. Quale immensa carneficina
sarebbesi allor fatta degli inermi! Quante piramidi di umane teste
offerte all’onore del culto di Maometto!! Quali smodate grida di
barbara gioja innalzato avrebbero, lordi di sangue, gl’impuri settatori
del fanatismo!!!

Ma il contagio che, nato dalle mefitiche esalazioni delle paludi e dai
fetidi miasmi delle stivate orde dei Barbari sotto la sferza di un sole
cocente, iva poco a poco mietendo l’esercito Infedele, parve diminuire
sì nobili speranze. La mano dell’Onnipotente aggravavasi sui Turchi
ogni dì più minacciosa. Una ardente febbre, ed una sete inestinguibile,
spingevano i soldati ad eccessi di furore. Alcuni di essi ammorzar
tentando il fuoco che loro serpeggiava nelle vene, gittavansi disperati
entro le tiepide paludi, e vi si annegavano. Altri cui violento
spasmo lacerava le viscere, giaceano bocconi sull’arida sabbia: quivi
in mille guise dibattendosi, e franti i negri buboni della peste,
perivano miseramente in mezzo ad orribili grida, ed al sangue che denso
sgorgava in copia dalle piaghe. Altri, traendo a forza un affannoso
respiro, morivano soffogati: ed altri più coraggiosi, cui il contagio
allora assaliva, prevenivano tanti mali col darsi la morte!... O
divina Giustizia! come tremenda punisci chi fra la strage ed il sangue
rovesciar tenta gli altari dell’Onnipotente!!

Avvilito per sì grave sciagura che minacciava la totale ruina
dell’esercito, Mouctar risolvevasi a togliere il blocco, e ad
allontanarsi dal teatro della morte, riserbando a tempi più opportuni
la vendetta ed il giurato sterminio dei Suliotti: e già d’ira pieno e
di dispetto preparavasi a partire, allorquando l’aria che fino allora
stata era irrespirabile, temperassi ad un tratto, e fresca addivenne.
Il Picco di Kunghi allontanato avea dalle sue cime un gruppo di dense
nubi, che stendendosi minacciose sulle minori rupi, e sul campo degli
Infedeli, tutto coprirono il cielo: s’udì tremendo il fragore del
tuono; scoppiò sanguigna la folgore, e rovesci di pioggia precipitarono
sulla terra, durando un intero giorno sempre dirotti ed eguali.
Strariparono i torrenti: e seco trascinando i cadaveri degli estinti,
tutto dilavarono quell’infetto terreno. Cedettero finalmente le acque:
spinte da un vento impetuoso sgombrarono le nubi dall’aria purificata,
ed il contagio disparve.

In questo frattempo giunto era da Giannina al campo de’ Turchi un
ragguardevole rinforzo condottovi da Velì secondo figlio del Satrapa:
surrogato al fratello nel comando dell’esercito, aveva ordine dal
padre di conquistare ad ogni modo la Selleide, ed esterminare coloro
pe’ quali sofferta erasi tanta sciagura. Comandò pertanto ai Dervis di
preparare colla preghiera il generale attacco dei nemici nel giorno
seguente; ed a tal uopo si offrì il _courban_, ossia sacrifizio di
cinquanta pecore nere, ad _Azraele_, Genio dei sepolcri, succeduto
nella orientale mitologia al Mercurio condottiero delle anime.

«L’onore delle vostre armi (esclamava Velì animando i soldati) vi
chiama a quelle formidabili rupi tenute finora dagli schiavi, e
che create furono per voi. Su, dunque: si vada a conquistarle, e si
uccidano coloro che ardirono opporvisi, e cagionarvi tanti mali: non
si rispetti nè sesso, nè età. La vittoria è sicura: Allàh ve l’addita
dall’alto di quelle montagne: correte ad ottenerla!»

Il fanatismo de’ Maomettani si scosse, ed i superstiziosi Dervis non
cessarono di mantenerlo. Ognuno preparò le proprie armi, e si dispose
al Sole novello pel generale attacco su tutti i punti nemici.




CAPITOLO XXIV


Non appena pertanto la prima alba del mattino usciva in cielo ad
impallidire le stelle, che le orde de’ Barbari, marciando in silenzio,
si appressarono alle gole. I posti avanzati de’ Greci furono i primi
ad essere attaccati; alle replicate scariche dei fucili si sparse
il grido dell’allarme; ed accorsa tutta la truppa de’ Suliotti: il
combattimento si fece generale. Tre volte i nemici sforzar tentarono
le strette, e tre volte respinti furono dai valorosi discendenti degli
antichi Selleni. Finalmente un grosso corpo di assoldati maomettani
Albanesi, i meno vili fra i Barbari, decidere volendo ad onore della
Mezzaluna la incerta vittoria, serrarono le loro file; e così ordinati
marciarono in avanti, risoluti di conquistar Suli, o perire. Un parco
di volante artiglieria da campagna che li precedeva apriva loro la
strada; mentre una selva di bajonette qualunque ostacolo allontanava
dai lati. Gl’intrepidi montanari diretti dal generoso Demetrio,
prodigii faceano di valore: ma i nemici moltiplicavansi ovunque; e se
cento di essi cadeano, altri cento giungean subito a rimpiazzare gli
estinti. Cedettero i Greci finalmente al numero dieci volte maggiore:
e lo stendardo di Maometto lordò per la prima volta l’inviolato terreno
sacro alla Croce.

Fu in questo momento tremendo che Selim ed Eugenio giunsero di
tutto corso alle gole, dalla fortezza di S. Veneranda. Gli occhi di
quest’ultimo cercarono più volte l’amico in mezzo al bollore della
mischia, ma non mai vennegli fatto di rivederlo: avrebbe voluto
narrargli la fuga di Olimpia, ed il sicuro loco ove trovavasi...
infelice! anche questo unico conforto mancargli doveva in tanta
sciagura.

Frattanto il prolungato urlare de’ Barbari, che da un eco all’altro
delle rupi diffondevasi minaccioso, ed il cannone che udivasi
tuonare ognor più, annunziavano alla Selleide il giorno estremo delle
battaglie. Il corpo degli Albanesi maomettani erasi già impadronito
degli interni posti fortificati; il resto dell’armata nemica chiudeva
l’uscita delle gole, e gli sventurati Greci si stavano in mezzo a
due fuochi. Inevitabile ormai erane la perdita. Combattevano essi con
quel valore di cui sempre sono capaci uomini risoluti per la difesa
dell’altare e della patria: ma a che pro? Una ostinata mitraglia
consumavali poco a poco, piovendo su loro in un fondo basso e scosceso,
dove i piccoli parchi non potevano agire. Tuonavano è vero da lungi i
cannoni di S. Veneranda; ma i Turchi sicuri omai della vittoria gli
disprezzavano, e trincerati fra i burroni, tutte le forze volgevano
alla conquista delle rupi. Miseri Greci! desolata Selleide!! Le
insegne nemiche, inalberate sulle tue montagne, sventolano superbe, e
t’insultano: la morte spargesi ovunque: ed il grido della disperazione
sollevandosi prolungato dal centro de’ figli tuoi, soave scende al
cuore dei Barbari, siccome pegno sicuro della sanguinosa vittoria!

— Un bianco lino levato in alto sulla punta di una greca bajonetta
annunziò che gl’infelici capitolavano. Tosto il cannone si tacque: le
orde nemiche si adunarono in folla intorno ai vinti, e, per ordine di
Velì, le trattative incominciarono.

Condiscendevano i pochi superstiti Greci a cedere una patria che più
figli non avea per di difenderla: volevano peraltro bastanti viveri
fino a Parga, ove avrebbero avuto un asilo presso i loro fratelli di
religione. Acconsentirono i Turchi alla dimanda, e la capitolazione fu
conclusa col reciproco giuramento. — Incauti! non avevano essi mille
volte conosciuta la fede dei Barbari?

Ben fatto avea Demetrio a non fidarsi di loro. Sdegnando egli di
vilmente sottoporsi ad una ingannevole trattativa, insieme coi più
valorosi, avanti che questa cominciasse, aperta erasi a viva forza una
via, ove un minor numero di Barbari se gli opponea. Allontanavasi dalla
patria cadente: ma armato tuttora ritiravasi a Parga, colla speranza
almeno di riserbarsele co’ suoi in tempi meno infelici.

Frattanto gli sventurati figli della Selleide, religiosi osservatori
del giuramento, emigravano piangendo dalla cara terra natìa: e
già oltrepassavano avviliti le strette gole delle loro montagne,
allorquando i Barbari, che vi si erano appiattati, contro ogni divino
ed umano diritto, d’ogni parte piombarono sopra gl’inermi come tigri
affamate. Quale orrendo spettacolo! quale indicibile strazio fecesi
allora dell’umanità! I voti del pietoso Selim, che mille volte
desiderato aveva espiar col sangue la propria colpa, coronati furono
da una morte gloriosa. Egli cadde fra i primi: tutti quindi (tranne
que’ pochi, ed Eugenio con essi, che scampando dal generale sterminio
raggiunsero poi Demetrio entro Parga) tutti perirono fino all’ultimo;
ed un fiume di sangue innocente corse spumante attraverso le rupi della
Selleide. — Fu questa la luttuosa fine d’un popolo d’eroi sacrificato
sotto la scure de’ Barbari! questa la tremenda libazione, che i figli
de’ Greci sul sepolcro fecero della spenta lor patria!!




CAPITOLO XXV


Racchiusa Olimpia entro la fortezza di S. Veneranda, atterrita dallo
strepito delle artiglierie che, tuonando sui baluardi ad intervalli,
portar tentavano la morte ai nemici combattenti in mezzo alle gole,
giacevasi in preda al dolore, e struggevasi in pianto. Infelice!
Immaginavasi Demetrio, ed il suo liberatore, allora allora spiranti nel
conflitto: udiva le estreme loro voci: chiamavali a nome altamente;
e gelava quindi d’orrore, allorchè sola consideravasi rimasta sulla
terra.

Un vecchio Eremita amico dell’estinto Atanasio, e che l’Orfana
conosciuto avea nell’eremo della rupe, trovavasi allora ministro del
culto nella rôcca. Questo venerando vecchio penetrato dalle sciagure
della sventurata, delle quali ella stessa narrata aveagli la storia,
addivenuto era l’unico confidente delle pene di lei. Versava egli in
quel cuore lacerato il balsamo salutare della Religione: e dolcemente
istillandovi la speranza di un più felice avvenire, molcere ne tentava
le profonde ferite. La figliuola d’Evantìa, portata per naturale
inclinazione ad amare coloro che buoni e virtuosi compatir sembravano
i suoi mali, non allontanavasi da lui: in quella barba canuta, ed in
quelle ruvide lane, raffigurar pareale la immagine dell’estinto suo
zio; e ringraziava la Previdenza, che in lui pure le lasciasse fra
tanti affanni un conforto.

Giunse finalmente alla rôcca la funesta notizia della presa di Suli,
e della violata capitolazione. — Ah, che taciuta almeno si fosse ad
Olimpia!... Ma come era ciò possibile in mezzo alle grida del presidio,
che desolato piangea la cara patria perduta? — Il soffio dell’aquilone
sublime quercia così non isvelle fin dalle profonde radici, come la
novella del generale eccidio dei Suliotti anche le più lievi speranze
strappò dal cuore della infelice. Dessa cadde tramortita: ed a ragione
dubitato sariasi che cedendo alla violenza de’ mali perduto avesse la
vita, se un sospiro che alfine sollevò fortemente il suo seno, mostrato
non avesse che tuttora abitava un’anima in quel corpo abbattuta.

«Demetrio mio! (esclamò allora col soffocato accento della
desolazione). Demetrio! Demetrio mio!! A che il cielo ne lusingava
riunirci? A che un generoso liberatore strapparmi alle catene de’
Barbari, quando io non dovea più rivederti? — Che mai, che farò, sola
sulla terra?... dove mi volgerò, sventurata? A tutti sconosciuta, il
pane della elemosina alimentar dovrà i pochi giorni della vita che mi
restano!... O madre mia! in quale stato crudele geme ora tua figlia!
quale orrendo quadro di novelli mali se le appresenta!! dessa è
infelice... mille volte infelice: e la disperazione, ultimo colpo della
sventura, già già le piomba nel cuore!...

— «Ah! non è questo, (risposele allora il venerando Solitario) non
è questo il linguaggio di un’anima religiosa. — Olimpia! un cuore
virtuoso come il vostro perder non deve giammai la speranza animatrice
della vita. La cieca disperazione è contraria alle massime del culto in
cui nasceste: e la Divinità, quella stessa che il più grande sacrificio
fece per la umana salvezza, si offende vivamente quando voi discacciar
tentate ogni confidenza su lei. Siete afflitta; siete infelice: ma
appunto perchè tale, ottener potete un diritto maggiore alla pietà
sulla terra, ed alla protezione del Cielo... Confidate, Olimpia, nella
Providenza: se questa è un mare da cui ogni giorno attinge conforto la
umanità sventurata, è pure inesauribile, e ne avanza anche per voi.
Che se Demetrio, vittima del tradimento, è morto sotto le rupi della
cara sua patria: se spenti sono coloro a cui vincoli di amicizia e di
sangue vi legavano dapprima, dessi tutti vi riguardano ora dall’alto
delle stelle. Il fedel vostro, spirito disciolto dalla salma corporea,
ed ardente per voi di più nobile amore, non vi abbandona un istante
su questo basso esilio in cui, miseri, ci aggiriamo. Nella vostra
solitudine, egli, aura leggera ed invisibile vi asciugherà le lagrime
del dolore; e implorerà per voi l’assistenza dell’Onnipotente, finchè
a Lui piaccia (il che sarà forse fra poco) di porre un termine con la
morte ai vostri mali!»

Queste parole che in sè racchiudeano quanto di più soave conforto ha
la Religione sul cuore degli uomini, scesero dolcemente in quello di
Olimpia, come il candido raggio della luna tra il folto orrore delle
foreste. Dessa determinossi a sopportare in pace la propria sciagura, e
ad aspettare tranquilla il momento in cui, sciolta dai lacci terreni,
riunita sarebbesi a Demetrio per sempre. Quest’ultima idea della
morte, che le profetiche parole del Solitario aveano predetto vicina,
confortavala oltre modo: e se il suo fisico oppresso dai mali cedeva ad
ogni giorno, l’anima invece iva sempre acquistando la calma più pura.




CAPITOLO XXVI


Frattanto i Maomettani, compiuta nel corso della notte vegnente la
orrenda carnificina, della quale il Sole tramontando sdegnò forse
vedere la fine, impadronivansi di tutta la Selleide. Un ragguardevole
corpo di truppe restava al presidio delle conquistate rupi; mentre
l’altra parte dell’esercito ritornava all’indietro per cingere di
stretto assedio la fortezza di S. Veneranda, entro cui ancor rimanevano
liberi Greci, e nuove vittime da immolarsi.

Sull’ampia riva del romoroso Acheronte (fiume cotanto noto all’antica
mitologia) s’erge la inespugnabile rôcca, fabbricata di rozza ma
durissima selce: larghe e profonde fosse, al suo piede, difficile
oltremodo ne rendono l’assalto; ed una numerosa fila di cannoni
sopra i suoi baluardi destinata è a spargere la morte su chi tentasse
avvicinarsele. Quattro grandi lati presenta, ognuno dei quali rivolto
ad uno de’ venti principali: ed in mezzo ad essi sorge maestoso
l’acropolo, torre di grande altezza, in cima a cui ancor temuto
sventolava allora il sacro Vessillo della Redenzione.

Era intorno a questo formidabile asilo che i Barbari, fatti più
arditi dalla sanguinosa vittoria, si accampavano minacciosi. Sapevano
dessi che molto scarseggiavano di vittovaglie i generosi difensori
racchiusivi: e così, risparmiandosi il sangue, risoluto aveano di
aspettarne sicuri entro un campo trincerato la vicina resa inevitabile.

In tale miseranda situazione era già lungo tempo che gli sventurati
Greci soffrivano le privazioni più dure. Vuotate già erano le arche
del pubblico frumento: troncato dai nemici il corso delle sorgenti
che dal seno delle rupi entravano nella rôcca; e tutto il presidio
immerso negli orrori della fame e della sete. Ad estenuare sempre più
gl’infelici Cristiani, i Barbari ogni giorno chiamavangli sui baluardi
con nuove scaramuccie: sempre varii attacchi fingeano su punti diversi
per instancarli; ed allorquando la notte avvicinavasi, ritornavano al
loro campo dove l’abbondanza gli attendea. I Greci al contrario assai
più bisognosi di ristoro, nulla ritrovavano che li confortasse. Privi
di tutto, la dura necessità avea loro insegnato a profittare degli
estremi rimedii. La buccia degli arboscelli che cresceano sulle arenose
sommità delle mura venìa macinata, e formavasene una specie di negro
pane; mentre a rinfrescare le arse fauci calavansi delle spugne sulle
torbide acque dell’Acheronte, e succhiavansi quindi avidamente.

Era a tale stato ridotto il presidio di S. Veneranda, allorchè i capi
di esso si adunarono a consiglio, onde deliberare sulle risoluzioni da
prendersi in tanta pubblica calamità. Scendeva appunto la notte; ed
i Turchi ritirati eransi nel campo, quando tutti si raccolsero in un
grande atrio terreno. Era questo il deposito delle polveri: parecchie
centinaja di cassoni disposti erano da una banda; buon numero di palle
di grasso calibro ammucchiavansi dall’altra; ed un fanale nel fondo,
illuminando il sotterraneo, degradata diffondea la sua luce fra i
colossali pilastri. In mezzo ai principali capitani sedeva Samuele,
Greco di straordinario coraggio, che giurato avea di salvar la rôcca,
o perire. Tutti pendevano dal tuo labbro: ed ognuno disposto era a
farsi legge d’ogni suo parere, allorchè egli, prendendo la parola, così
disse:

«La caduta estrema della Selleide che, privandoci di patria, ne avvolse
fra mali inenarrabili; e la precaria esistenza di questa fortezza,
ultima sede della nostra indipendenza, or qui a consesso vi appellano,
o valorosi fratelli! Privi di vittovaglie, senza speranza che mano
amica ne provveda, (poichè tutti i Suliotti perirono traditi nella
orrenda giornata alle gole di Suli, tranne i pochi che tuttora vivono
separati e dispersi entro amiche città), ad uscire una volta da tanta
sciagura due soli e tremendi partiti ne restano: o qui soccombere
d’inedia, o renderci a discrezione del nemico. Il vostro senno e
coraggio vi guidino nella scelta: parlate, ed abbia esecuzione il
partito dei più.»

Così disse: ed un istante di silenzio succeduto essendo a’ suoi
detti, un giovine Suliotto propose una sortita dei più valorosi; i
quali, aprendosi a forza una via nel campo nemico, e caricandosi di
viveri, ricondurrebbero abbondanza nella rôcca. Appunto per la grande
arditezza piacque a molti il progetto: e già un sommesso mormorio,
ed un inchinare di teste, accennava ch’erasi pronti ad abbracciarlo,
allorchè un guerriero venerando, incanutito sotto il peso della armi,
lo disapprovò.

«Lode al Cielo, (egli disse) non manca ancora il coraggio nel petto dei
pochi figli sopravvissuti alla patria! dessi hanno il cuore de’ Greci,
entro cui vivente io veggo tuttora la sventurata Selleide. Ma qual vero
utile omai sperar si può dal valore? Qui noi non siam che dugento:
è questo numero un punto inosservabile in faccia al poderoso campo
dei nemici che ne circondano, superbi, ed incoraggiati dagli ottenuti
vantaggi. Quando poi da questo pugno d’uomini detratta si fosse una
parte per la necessaria custodia della rôcca, che mai avverrebbe
dell’altra avventuratasi ad una imprudente sortita, composta di uomini
valorosi sì, ma esausti quasi di forze, ed appena reggenti le armi,
a petto di vigorosi nemici abbondanti di tutto? E non saria questo un
esporsi a sicuro macello, senza che dal sangue risultar potesse il più
lieve vantaggio?»

Tutti rimasero convinti, e si tacquero. Videro che inutile saria stata
l’impresa, e che altro partito omai non restava se non quello di perire
con gloria, difendendosi fino all’ultimo dai Barbari. — Ma questi non
tentavano mai un vero attacco: aspettavano al sicuro, finchè tutto
il presidio soccombesse d’inedia. Questa idea era terribile invero:
rifuggivano gli animi alla vista degli orrori che la fame iva già,
preparando con lugubre prospettiva; il freddo terrore spargevasi poco a
poco nel consesso, ed alcune voci osarono pronunziare... capitolazione.
— Samuele allora levatosi in piedi sdegnosamente, e seco lui tutti, ad
alla voce esclamò:

«E dopo la sanguinosa carnificina de’ nostri fratelli, i cadaveri de’
quali orribilmente mutilati giacciono tuttora insepolti attraverso
le gole della Selleide, non si conosce ancora la fede dei Barbari?
Chi è qui di voi tanto amico di una morte ignominiosa, che trattative
propone co’ nemici? Dessi già stanchi di aspettare, ed anelanti alla
perdita nostra, accetterebbero ogni patto: ma, esciti appena da questo
sacro loco che ne difende, mille pugnali penderebbero sulle nostre
gole. Conoscono essi forse i Barbari religione, umanità, diritto
inviolabile delle genti? Padroni essi di tutta la Selleide, l’abborrito
loro stendardo sventolerebbe allora trionfante sull’acropolo di
S. Veneranda, mentre gli squallidi avanzi delle vostre membra,
ammonticchiati alla rinfusa sul terreno, d’esecrando pasto servirebbero
ai cani ed agli avvoltoj delle rupi. — Sdegnate voi gli orrori della
fame? perir volete gloriosi?... eccolo il mezzo: io ve l’addito.
Son questi tremila barili di polvere che ne circondano: una sola
scintilla... e siam liberati dall’obbrobrio — Sì; uditemi, fratelli,
e sovvengavi pur che siam Greci! Allorquando questi Barbari nei finti
loro attacchi s’innoltreranno fin sotto le mura, noi tutti ci uniremo
in un punto; e ad un prolungato grido, che sarà l’ultimo nostro addio
alla patria infelice, salterà in aria questa rôcca, avvolgendo con noi
sotto le sue ruine gran parte degli implacabili nemici nostri. — Ecco
la fine gloriose dei dugento; l’ultimo, il solo partito che ne resta:
la morte!»

A questa formidabile parola all’intorno cupamente ripetuta dall’eco
moltiplice di quel sotterraneo, i Greci sollevarono un grido di unanime
consenso: si abbracciarono tutti fra loro; e, disciolto il congresso,
ad aspettar si posero intrepidi la memoranda lor fine.




CAPITOLO XXVII


Mentre tale magnanima risoluzione prendevasi dai generosi difensori
di S. Veneranda, la salute di Olimpia, cedendo sempre più, avvicinata
erasi ad una totale decadenza. L’infelice avea notabilmente dimagrito:
un tremito convulsivo impadronito erasi delle sue membra; ed alla
fresca rosa della giovinezza, dileguatasi per sempre dalle sue
gote, succeduto era il tetro pallore della morte. Il buon Solitario
non perdeva mai di vista questa amabile creatura, che rapidamente
avvicinavasi al termine della sua dolorosa carriera: spesso parlavale
della instabilità delle umane vicende: e facendole un luttuoso quadro
dei mali della terra, dipingevale coi più vivi colori la felicità
immensa del Cielo.

«Quanto mai stolto (le diceva) è colui che un’ombra di vero bene
quaggiù ravvisa fra noi! ma non è tutto caduco, tutto apparente?
Voi lo sapete, Olimpia: in questa bassa valle di pianto non mai le
labbra schiudeste al sorriso della gioja, se non che per gustar quindi
più amaro il nappo delle avversità. Dal momento stesso in che gli
occhi apriste alla luce incominciaste a soffrire: vi mancò la madre
nel darvi la vita: uno zio che solo rimasto vi era fra quelli a cui
vincoli di natura e di sangue vi legavano, lasciovvi nella prima vostra
giovinezza; e gl’implacabili nemici de’ nostri altari vi tolsero
prima una benefattrice, ed una saggia amica, quindi uno sposo... Ma
non vi rattristate, no: rallegratevi, Olimpia! non siete ancor sola
sulla terra, a Dio piace riguardarvi dall’alto. Voi gli siete cara:
la vostra virtù vi rende ben meritevole dinanzi a Lui: il premio vi è
preparato immenso, immutabile, eterno, e pochi giorni vi mancano per
conseguirlo... ah! sì. Egli disse nella sua giustizia. — Ritorni alla
sua stella quest’anima a me diletta! abbandoni finalmente una terra,
ove io non la trattenni che per farla quassù rivivere più meritevole e
pura. — Oh, voi felice! Sciolta finalmente dalla grave salma mortale,
volerete bellissima in seno all’eternità: nel dipartirvi da noi
piangerete anche una volta sulla nostra miseria; mentre il globo della
terra disparirà poco a poco dai vostri occhi, come dispare il lido alla
nave che lo abbandona!»

A queste soavi parole confortatrici Olimpia sorrideva dolcemente: e
le sue pupille rivolgendosi verso il Cielo, anelar parevano a sì beato
momento.

Per lenta febbre che serpeggiando nelle sue vene tolto aveale ogni
resto di forze, giaceva ella entro piccola cameretta nel più appartato
luogo della rôcca: quivi omai rapidissima toccava il termine la sua
vita, ed il buon Solitario non mancava di portarvisi più volte nel
giorno. Vedeva egli con un certo moto di nobile invidia quell’amabile
tranquillità che leggevasi in tutti i lineamenti del volto di lei: e
tanta era la sua ammirazione per essa, che più volte veder parvegli un
raggio del Cielo brillar tremolante sulla pallida sua fronte.

Avvolta finalmente fra la nebbia de’ sepolcri, picchiò l’ora fatale
all’albergo della innocenza. L’udì l’Orfana, ma non turbossi: le labbra
schiudendo al più dolce sorriso. «Padre mio! (disse al venerando
Solitario) la voce dell’Onnipotente giunge alle mie orecchie: Egli
mi chiama colassù. — O madre mia!... oggetti i più cari della mia
tenerezza!... come siete voi belli!... quanta luce vi circonda!!...

«Ah, che Dio le apre i Cieli! (esclamò allora piangendo il buon
Solitario). Ella è vicina a trapassare da noi: i suoi occhi si sono in
alto fissati, e la sua anima è fuori de’ sensi. — Olimpia!... Olimpia!
non udite voi la mia voce?

— «Sì: (rispose l’Orfana languidamente) sì: l’odo ancora, ma per poco:
essi mi chiamano... ed io... vado... a loro...»

— «Ah! se dunque (riprese il vecchio) il momento è venuto in cui lo
spirito vostro separare si debbe dalla inerte materia, io ministro
degli altari, lo raccomando a Colui che lo creò. Nel tuo bacio lo
lascio, o Regina Coronata: ad esso incontro venga per gli spazii
immensi del firmamento lo stuolo delle vergini, che esultando lo
accolga qual novello concittadino della patria Celeste! — Che mai
sono i nostri giorni, o Signore? nebbia, polvere, fumo, che rapidi
si disperdono col solo tuo soffio. Ma la vita dello spirito non
è la terrena: questa è fragile e caduca, ed esso è creato per la
immortalità. — Riunisciti dunque, Olimpia, al tuo Principio: parti da
questa valle di pianto, e la mia voce ti benedica nel Nome di Dio!»

Pronunziava appena queste parole il venerando Solitario, allorchè,
preceduta da un prolungato grido, videsi ad un tratto una tetra luce,
che tutto all’intorno rischiarò il loco come un vivido lampo: ad essa
rapidissimo seguì un orribile scoppio... tremò la terra fin dai cardini
suoi, e tutto crollò quindi con istrepito orrendo.

Più non esisteva la rôcca di S. Veneranda. Un solo istante ridotta
aveala un mucchio di rovine: dei famosi dugento, ma insieme di più
migliaja di Barbari, memorando sepolcro!




CAPITOLO XXVIII


Colla caduta della fortezza di S. Veneranda, ultima sede della Ellenica
indipendenza nell’Epiro, Alì Pascià di Giannina videsi finalmente
padrone di tutta la Selleide. Ad oggetto di compiere quanto la sua
cieca ambizione si era da gran tempo proposto, egli popolò di soldati
quelle rupi formidabili, e ne formò tanti posti fortificati: dopo
di che, reclutando nuove truppe cogl’immensi tesori che possedeva,
e completando un ragguardevole esercito, non appena l’opportunità
lo permise, che inalberò sulle mura di Giannina lo stendardo della
ribellione. Irritato il Sultano contro questo suo schiavo che aspirava
a rendersi indipendente, spedì delle truppe per mare e per terra, onde
ridurlo alla obbedienza: il ribelle stretto d’ogni parte si afforzò
nella capitale dell’Epiro, procurandosi intanto all’intorno delle
favorevoli diversioni. Fu allora che il Barbaro videsi costretto
a valersi de’ Greci, onde far fronte all’armata nemica. Di fatto
propose loro di liberarsi per sempre dal giogo del Sultano: li fornì
di armi, munizioni e danaro; e così, spingendoli alla insurrezione,
egli stesso si fece la prima causa della emancipazione di quel popolo
generoso. In seguito di tempo, le vicende della guerra portarono la
morte del crudele Pascià, e la dispersione delle sue truppe: ma i Greci
che trovavansi di già avanzati con luminosi progressi nella nobile
carriera del politico loro risorgimento, non si perdettero d’animo:
che anzi, aumentandosi sempre più fra di loro l’amor della patria e
della indipendenza, e le isole ed il continente si unirono per mare e
per terra a rivendicar colla forza la giustizia dei proprj diritti.
Nel corso de’ molti anni ne’ quali durò questa guerra memorabile
fecero gli Elleni prodigii di valore. Versarono fiumi di sangue, ma
sempre vincitori: la gloria delle loro armi, impugnate a difendere
l’altare e la patria, si diffuse per tutta la terra: le grandi potenze
della civile Europa interposero l’alta loro mediazione; e, cessando
finalmente le stragi, fu la Grecia proclamata indipendente, ed aggiunta
al novero delle Nazioni.

Demetrio rifugiatosi entro Parga con Eugenio, e cogli altri pochi
Suliotti sfuggiti al pugnale de’ Barbari nella funesta giornata della
capitolazione, ed informato della tragica fine dei difensori di S.
Veneranda, caduto era nel più profondo abbattimento. La sola speranza
che in qualche modo confortavalo, era quella di presto seguir nella
tomba la cara amante perduta: ma allorquando vide la Grecia tutta
insorgere per la propria emancipazione, le forze di lui si rianimarono,
ed impugnò nuovamente le armi, dedicandole alla vendetta della patria
e di Olimpia. Coronata finalmente dal felice successo la generosa
intrapresa, e ridonata la pace alla propria Nazione, egli, a tutti
ignoto, consacrar volle al ritiro il resto de’ suoi giorni: lasciate
quindi per sempre le armi, ed abbandonate le fiorenti città che si
andavano ripopolando, il passo rivolse alle native rupi della tanto
amata Selleide. La ferocia dei Barbari rispettato avea l’eremo che un
giorno trascorrer vide la prima giovinezza di Olimpia: quivi tutto
era intatto, e le domestiche celle, e la sacra cappella; il limpido
ruscello cadeva tuttora nel suo bacino di sassi, e perdevasi mormorando
nella grande foresta degli abeti. In questo sacro asilo della pace
fermossi il figliuolo di Eutimia; ed indossatevi le lane di Atanasio,
l’Eremita addivenne della rupe.

L’amico Eugenio sovente portavasi a visitarlo in questo nuovo
soggiorno: confortarlo cercava delle più soavi parole: spesso
parlavagli di Olimpia; ed allora gli occhi di Demetrio, bagnandosi di
lagrime, ripigliar sembravano un istante la perduta vivacità. L’amore
di lui per l’Orfana non erasi punto diminuito: quei luoghi dell’eremo
che una più viva rimembranza gli ridestavano di lei, erano ad esso i
più cari. Così trovava egli ogni suo bene nelle umili celle, entro
cui tante volte trattenuto si era con Atanasio ed Olimpia; mentre
sacro eragli quel cipresso, posto su di una eminenza della rupe, a piè
del quale seduta essa mille volte aspettato avealo sorridendo dalla
sottoposta vallata. Ma nulla era così caro per lui quanto la cascata
della sorgente nella foresta, presso cui, sopra la bianca pietra che
serviva di sedile, ritrovato aveva una volta la prima dichiarazione
dell’amore di Olimpia. Ora di questa stessa pietra formato egli avea un
rustico monumento sacro alla memoria di lei che tanto amò sulla terra.
Il nome di «_Olimpia_» vi era inciso a grandi lettere, e due teneri
salici vi erano guidati a pianger sopra dolcemente. Quivi egli stesso
ogni giorno portavasi a versarvi anche una volta le lagrime dell’amore,
ed a pregarvi la pace dei secoli.

In questa guisa aspettava Demetrio il termine della vita, che un
interno presentimento del cuore non additavagli lontano.

Un giorno ritornando Eugenio dall’Arta ove privati interessi l’aveano
chiamato, e non lungi passando dalle rupi della Selleide, visitar volle
Demetrio che da lungo tempo più non avea riveduto. Legato il cavallo ad
un albero, picchiò alle celle dell’eremo, ma inutilmente: chiamò a nome
più volte l’amico della sua giovinezza... niuno risposegli: entrò nella
cappella... ed era questa deserta. Sperando tuttavia di ritrovarlo
presso la cascata della sorgente, s’incamminò alla foresta degli abeti.
— Scendeva il Sole al tramonto, ed il venticello della sera stormir
facea leggermente le foglie, allorchè Eugenio vide a qualche distanza
il Solitario prostrato sul terreno: avvicinossi a lui palpitando. —
Le sue braccia stringeano con forza il monumento di Olimpia, e la sua
fronte riposava sul sasso. — Chiamollo a nome anche una volta... tentò
sollevarlo... — Vane cure! Quegli occhi erano chiusi per sempre. —


  FINE





Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo
senza annotazione minimi errori tipografici.





*** END OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK OLIMPIA ***


    

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